I Dazi di Trump colpiscono tutti, dalla Cina all’UE ma è salva la Russia

Alla fine i Dazi di Trump sono arrivati come promesso e senza sconti per nessuno, o quasi, tra gli oltre 60 paesi colpiti dai nuovi dazi che vanno da un minimo del 10% ad un massimo del 49% per la Colombia, ci sono ovviamente la Cina, l’India, il Bangladesh, l’UE, Taiwan, c’è persino Israele, ma, con grande sorpresa non ci sono Russia, Corea del Nord e Bieloorussia

Molti si sono chiesti perché mancassero questi paesi, in particolare la Russia e la risposta ufficiale non ha tardato ad arrivare. Ufficialmente, secondo la Casa Bianca, gli USA non hanno innalzato i dazi alla Russia perché le sanzioni imposte alla Russia dagli USA per via della guerra in Ucraina, pregiudicano già gli scambi commerciali in modo significativo. Ma è davvero così?

Scambi tra USA, Russia, Iran e Corea del Nord e Bielorussia

Per quanto riguarda la Corea del Nord, così come per l’Iran, la risposta è si, gli scambi commerciali tra USA e Corea del Nord o Iran, sono praticamente nulli, il discorso si fa invece più complicato per quanto riguarda Russia e Bielorussia.

Non ci sono sanzioni USA contro la Bielorussia, ma neanche grandi scambi commerciali, questo perché sostanzialmente la Bielorussia commerciava solo con i paesi adiacenti e alcuni paesi BRICS, e il suo principale partner commerciale era ed è ancora oggi la Russia le cui esportazioni e importazioni coprono da sole più del 75% del volume degli scambi bielorussi.

Per quanto riguarda gli scambi commerciali tra Russia e USA invece, la situazione è molto più complessa, perché negli ultimi 30 anni tra i due paesi gli scambi sono cresciuti esponenzialmente, in parte perché in epoca sovietica erano prossimi allo zero, e in parte perché la Federazione Russa, la cui economia interna era fortemente indebolita dagli enormi costi dell’URSS, in particolare dall’industria bellica sovietica, aveva necessità di aprire le proprie frontiere commerciali.

Tra le principali esportazioni dalla Russia agli USA abbiamo soprattutto risorse naturali, materie prime e prodotti chimici e, secondo i dati del 2021 gli USA erano il principale mercato di sbocco per i prodotti chimici russi e allo stesso tempo la Russia era il principale mercato estero per l’industria farmaceutica USA.

Nel 2021 gli scambi commerciali tra USA e Russia valgono circa 34,4 miliardi di dollari, rendendo gli USA il quarto partner commerciale non CSI (comunità stati indipendenti), secondo solo a Paesi Bassi (46 miliardi), Germania (57 miliardi) e Cina (140 miliardi). Sappiamo inoltre che nel corso del 2020 (ultimo anno del primo mandato Trump), in piena pandemia, gli scambi tra USA e Russia sono cresciuti più degli scambi tra Russia e Cina, rispettivamente il 143% rispetto al 135%.

Durante il mandato presidenziale Biden, e soprattutto a seguito dell’inizio della guerra in Ucraina, gli scambi commerciali tra Russia e USA sono effettivamente crollati, passando da 35 miliardi nel 2021 a 3,5 miliardi circa nel 2024, di cui, 3 miliardi in esportazioni dagli USA alla Russia e 0,5 miliardi di importazioni dalla Russia.

Sanzioni USA alla Russia

Va detto che il crollo degli scambi commerciali tra USA e Russia non è propriamente legato alle sanzioni imposte dagli USA alla Russia, quanto più alle sanzioni imposte dall’UE alla Russia.

L’UE ha infatti imposto numerose sanzioni, dirette e indirette, alla Russia, sanzioni che hanno compromesso anche gli scambi tra USA e Russia. Dal canto suo, gli USA di Biden non sono rimasti con le mani in mano, e anche loro hanno applicato diverse sanzioni alla Russia, in particolare dazi al 500% sul Gas Naturale e Petrolio, de facto l’unica sanzione.

Ad oggi gli USA continuano ad acquistare materie prime e minerali, in particolare terre rare e uranio, dalla Russia, i cui volumi tuttavia sono sempre stati molto limitati. Non si hanno invece indicazioni chiare sulle importazioni di prodotti chimici, ma sembrano che non ci sia stato un rallentamento significativo.

In sostanza, i rapporti commerciali tra USA e Russia, ad oggi, sono abbastanza unidirezionali, gli USA importano poche risorse minerarie di grande valore ed esportano prodotti lavorati, dall’inizio della guerra in Ucraina tuttavia, le esportazioni dagli USA alla Russia sono crollate per via delle sanzioni USA, mentre le importazioni dalla Russia agli USA non hanno subito molti rallentamenti. E le sole sanzioni USA applicate alla Russia riguardano petrolio e gas naturale.

Di conseguenza, quando Trump dice che le sanzioni compromettono già gli scambi commerciali tra Russia ed USA in parte dice il vero, le sanzioni hanno ridotto ad un decimo gli scambi commerciali tra USA e Russia, tuttavia, quel decimo riguarda una parte di scambi che non ha subito alcuna variazione e anzi, le nuove sanzioni sulle materie prime imposte all’UE potrebbero avere come effetto un incremento delle esportazioni di quelle stesse risorse dalla Russia.

I Dazi sull’UE avvantaggiano la Russia?

In effetti, i nuovi dazi generalizzati degli USA imposti a gran parte del mondo, ma non alla Russia, hanno l’effetto indiretto di limitare l’efficacia delle sanzioni UE contro la Russia e rappresentano un vantaggio strategico soprattutto per la Russia.

Se le increspature commerciali tra USA e UE e la “guerra dei dazi” rischia di danneggiare tanto l’economia UE quanto quella USA, per assurdo, l’economia Russa ne ottiene un vantaggio. Non essendoci infatti sanzioni USA o dazi sulle esportazioni di minerali, ferro, uranio, prodotti chimici, prodotti tessili ecc, dalla Russia agli USA, ed essendo queste risorse che la Russia, fino a qualche anno fa esportava in grande quantità verso l’UE (nel 2021 gli scambi tra Russia ed UE valevano complessivamente circa 200 miliardi, contro i 140 miliardi degli scambi tra Russia e Cina, ed ora sono fermi per effetto delle sanzioni UE, possono ora essere reindirizzate verso il mercato USA per sopperire la carenza di risorse causate dall’incremento dei dazi all’UE.

In definitiva, i dazi USA all’UE potrebbero rilanciare parte delle esportazioni russe verso gli USA.

Fonti

Cosa esporta la Russia e in quali Paesi? – OBICONS
Russia, come sono i rapporti commerciali con Unione europea e Stati Uniti? | Sky TG24
Russia – Esportazioni | 1994-2025 Dati | 2026-2027 Previsione

Nasce l’ufficio della Fede alla Casa Bianca

trump mette in scena l’ultima cena nello studio ovale. Si autoproclama santo e inaugura l’ufficio della Fede, per reprimere i propri oppositori, in una moderna a suo dire, in difesa dei valori del cristianesimo. Tra i suoi obbiettivi, anche il pontefice e la santa sede.

Nel pieno di uno scontro politico senza precedenti tra la Casa Bianca e la Santa Sede, ma soprattutto, mentre si tagliano dipartimenti federali, vitali per la democrazia USA, il presidente Donald Trump sembra abbia attivato l’Ufficio della Fede alla Casa Bianca, al fine di rafforzare il ruolo della religione nella sfera pubblica e politica degli Stati Uniti. In altri termini un tentativo di rendere gli USA una “teocrazia laica“. Trump aveva infatti già espresso in passato la propria volontà di rimettere la religione, non la fede sia chiaro, al centro del Paese, e l’istituzione di questa nuova struttura rappresenta un passo importante e soprattutto concreto verso tale obiettivo.

Ma cosa implica e cosa significa tutto ciò? cerchiamo di capirlo in maniera analitica, e per farlo ci serve qualche informazioni sul ruolo della religione (non la fede) nella politica. Passeremo rapidamente al setaccio i vari utilizzi politici della religione nel corso dei secoli, dall’antichità pre-cristiana, fino alle dittature novecentesche, cercando di individuare gli elementi chiave. Prima però, cosa sta succedendo negli USA?

Contesto e simbolismo

Secondo quanto riportato dai media internazionali, Trump ha di recente organizzato una cerimonia nello Studio Ovale, che i più hanno descritto come una sorta di “ultima cena”, in cui il presidente si mostra al popolo statunitense come una sorta di messia, circondato leader religiosi e dalla telepredicatrice evangelica Paula White, da tempo consigliera spirituale di Trump.

L’evento è stato immortalato una foto è stato poi condiviso su X, dall’account ufficiale della Casa Bianca, accompagnato da una citazione della Bibbia e un messaggio dello stesso presidente Trump, che si augura di lasciare al mondo la sua opera “pacificatrice e unificatrice” come eredità.

Messaggio che per molti è in aperto contrasto con le politiche anti immigratorie, fortemente divisive, xenofobe, e di forte intolleranza etnica e religiosa, promosse da Trump e i suoi sostenitori.

Durante l’evento, la predicatrice e consigliera spirituale di Trump è intervenuta sostenendo che “opporsi a Trump equivale a opporsi a Dio” per poi sostenere di avere “l’autorità per dichiarare la Casa Bianca luogo santo” grazie alla sua presenza dello stesso Trump, qualcosa che forse neanche Napoleone, che si è autoincoronò imperatore dicendo che la corona l’aveva ricevuta da Dio, avrebbe avuto l’ardire di sostenere per se stesso.

Di cosa si occuperà l’ufficio della fede di Trump?

Al momento i dettagli operativi dell’Ufficio della Fede non sono ancora stati ancora resi noti, ma basandosi sui discorsi elettorali e il programma di Trump, l’intenzione del presidente sembrerebbe essere quella di contrastare ciò che Trump definisce “discriminazioni anticristiane” e “attacchi contro la religione”, e in questi attacchi, potrebbero rientrare anche le “aperture” del Vaticano e le critiche mosse da papa Francesco nei confronti di Trump e delle politiche discriminatorie e della sua amministrazione, soprattutto per quanto riguarda la striscia di Gaza, la gestione e deportazione dei Migranti e il trattamento di omosessuali.

In passato Trump aveva anche annunciato la creazione di una task force speciale, il cui obbiettivo sarebbe stato quello di fermare tutte le forme di discriminazione e attacco anticristiano all’interno del governo federale, e l’ufficio della Fede alla casa bianca potrebbe essere direttamente collegato a tale progetto che, sempre secondo le accuse di Trump, potrebbe mobilitarsi contro DOJ (Dipartimento di Giustizia), l’Internal Revenue Service (IRS) e l’FBI, a più riprese accusate da Trump, di qualsiasi cosa, e in questo caso specifico, di aver adottato politiche ostili nei confronti dei valori cristiani.

L’iniziativa ha sollevato dibattiti e critiche, soprattutto tra coloro che vedono in questa mossa un tentativo di favorire una visione religiosa specifica (il cristianesimo) e pretestuosa, a discapito della neutralità dello Stato, al fine unico di perpetuare la vendetta di Trump su coloro che non ha potuto colpire perché in posizioni blindate dalla costituzione. Diversi osservatori hanno inoltre sottolineato come Trump abbia spesso utilizzato il tema della religione come strumento politico, accusando i democratici di essere “contro la religione e contro Dio”. Questo approccio polarizzante rischia di alimentare ulteriori tensioni sociali, specialmente in un contesto caratterizzato da crescenti divisioni culturali e ideologiche, spesso alimentate proprio dallo stesso Trump.

Uso della religione come strumento politico

L’uso della religione come strumento politico è un fenomeno che attraversa tutta la storia umana, e alcuni sociologi particolarmente critici nei confronti della religione, ritengono che essa, si sia diramata dal mito, strumento di comprensione del mondo, proprio per essere uno strumento di controllo politico.

Dal mondo pagano pre-cristiano alle moderne “religioni laiche” dei regimi dittatoriali, la religione ha quasi sempre avuto due funzioni politiche, legittimare il potere dei governanti, generalmente intermediari tra divinità spirituali o laiche, e il popolo.

Nell’antico Egitto, i faraoni erano considerati divinità viventi e qualcosa di analogo avveniva nel mondo romano, l’imperatore era oggetto di culto religioso, il “culto dell’imperatore”, che serviva a consolidare l’unità dell’impero e rafforzare la sua autorità. tale culto è stato ripreso in epoca cristiana, per legittimare e rafforzare l’autorità del Papa, e più di recente, nel XX secolo, da dittature moderne come il Fascismo che elevarono Mussolini a nume vivente, e come lui e dopo di lui anche Hitler e Stalin.

Il cristianesimo rese la religione un elemento cardine delle strutture politiche della tarda antichità e dell’Europa medievale, in particolare il sacro romano impero, provò e in parte riuscì a fondere il potere temporale e quello spirituale, tale fusione, che portò per secoli l’imperatore a ricercare la legittimazione dalla Chiesa cattolica, fu anche ragione e motore di importanti conflitti epocali tra papato ed impero.

In età moderna, Machiavelli teorizzò l’uso politico della religione come strumento strategico per mantenere il controllo e garantire ordine ed obbedienza da parte dei sudditi. Teorie che avrebbero profondamente influenzato il pensiero politico da lì in avanti.

Nel XIX e XX secolo, l’uso della religione come strumento politico si manifestò in forme nuove e più radicali, soprattutto nelle dittature moderne. Mussolini fu il primo nume vivente della storia, e riuscì a costruire attorno a se una vera e propria fede laica che permane tutt’oggi. Un tentativo analogo venne fatto, con altrettanto successo e declinazioni diverse, da Adolf Hitler e Iosif Stalin. I tre dittatori, pur non essendo particolarmente religiosi, utilizzarono elementi del cristianesimo e del paganesimo per costruire una narrazione ideologica che legittimasse il proprio potere, nel caso di Stalin il cristianesimo venne sostituito dal “vangelo secondo Marx” che si tradusse in una repressione sistematica delle religioni in nome di un ateismo di Stato, che altro non era che una religione laica.

Usare la religione per reprimere

Nel mondo in cui viviamo, la religione e la fede hanno preso strade sempre più lontane, da un lato vi è la fede intima e personale di ogni individuo, che trascende le diverse ritualità ed ha una valenza universale, in cui l’uomo che tende al divino ha il dovere di “comportarsi bene” e prendersi cura degli altri, e dall’altro, vi è la religione che si è fusa con la “politica” e le politiche di stato, creando regimi per lo più chiusi e oppressivi.

La maggior parte degli stati in cui la religione è oggi fortemente fusa con il potere politico, fanno un uso sistemico della religione e l’appartenenza religiosa, come strumenti di repressione, guardiamo ad esempio all’Afghanistan, all’Iran, ma anche ad Israele e nella declinazione laica del concetto religioso, alla Cina. Da questo punto di vista gli Stati Uniti non sono nuovi all’uso della religione come strumento di repressione.

Un esempio concreto lo possiamo riscontrare negli anni della caccia alle streghe, che raggiunse il proprio apice durante i processi di Salem (1692-1693). Tale fenomeno fu emblematico di come la religione, in combinazione con paure sociali e politiche, possa essere facilmente strumentalizzata per reprimere il diverso e consolidare il controllo sociale.

Il XVII secolo può sembrare lontanissimo da noi, eppure, il ricorso alla religione, alla fede, per contrastare la paura del diverso, è qualcosa che ci accompagna ancora oggi. Pensiamo alla diffidenza da parte di una fetta enorme dell’opinione pubblica nei confronti di Islamici, o Ebrei, o Comunisti, e in altre parti del mondo, come il mondo islamico, nei confronti di Ebrei, Comunisti e Cristiani.

Il mondo occidentale, soprattutto le destre più radicali, dagli USA all’Europa, criticano aspramente e duramente la repressione basata su canoni religiosi operata dai Talebani in Afghanistan o dalla Guardia rivoluzionaria in Iran, alcuni guardano con diffidenza alla repressione compiuta dalla destra del governo Israeliano, eppure, quella stessa “destra” radicale e conservatrice che trova iniqua la discriminazione religiosa, propone a sua volta, una narrazione politica di esaltazione di una religione da porre al di sopra delle altre e, in nome della tradizione, chiede e in alcuni casi prova a mettere in atto una forte repressione nei confronti di altre religioni.

La censura dei libri negli Stati Uniti

La censura di libri è un abominio culturale, non c’è molto altro da aggiungere a riguardo se non qualche breve cenno storico che lo vede come strumento di controllo per reprimere masse, più o meno in ogni epoca storica. Nell’Europa medievale i copisti “censuravano” attraverso l’abrasione, distruggendo testi antichi, considerati blasfemi e pagani, per poi riutilizzare quelle pergamene per copiare scritti teologici o copie dei vangeli canonici. In età moderna, dal XVI secolo in poi, con l’avvento della stampa si diffuse il famigerato e temuto indice dei libri proibiti, un elenco di testi vietati che non solo era proibito stampare e distribuire, ma anche possedere e leggere, indice la cui ultima edizione, prima dell’abolizione, risale al 1959 ad opera del sant’uffizio, mentre la sua abolizione è datata ufficialmente 1966 per volontà di Papa Paolo V.

La fine dell’indice non significa fine della censura o dei roghi di libri, anzi, la storia ci insegna che anche in regimi non “cristiani” la censura fu ed è tutt’ora largamente usata, è il caso di citare i roghi di libri dei regimi Nazi-Fascista in Italia e Germania, il divieto fascista di pubblicare letteratura scientifica straniera, anche se tradotta, il Samizdat sovietico, una sorta di analogo laico comunista all’indice cristiano, con cui si vietava in URSS la distribuzione e il possesso di innumerevoli libri considerati pericolosi o l’indice islamico, con cui il governo di Tehran vieta innumerevoli libri in Iran, e così via.

Storicamente va detto che la censura non si è abbattuta sui libri solo attraverso il loro divieto integrale, in numerosi casi infatti, essa ha colpito in modo più subdolo, imponendo modifiche trasformazioni o eliminazione di sezioni più o meno ampie del testo. Un caso esemplare arriva sempre dagli USA con la Bibbia, più precisamente una versione della bibbia che era riservata agli schiavi nelle piantagioni da cui erano omesse intere sezioni dell’antico testamento, in particolare tutta la parte del libro della genesi che riguardava la schiavitù in Egitto e la liberazione da parte di Mosè.

In tempi più recenti il divieto di distribuzione e possesso dei libri è parzialmente sfumato, ed oggi interessa per lo più paesi fortemente radicali, esempi lampanti sono la Cina, Iran, Russia e Israele, ma non sono gli unici esempi, anzi, in forme più moderate e circoscritte, la censura dei libri interessa anche l’Unione Europea e gli USA. In USA ad esempio, se bene non ci siano leggi che vietino di possedere o distribuire libri, o leggi che obbligano la distruzione di libri, ci sono numerose leggi, per lo più statali e non federali, che vietano l’uso pubblico di alcuni libri.

Per quanto vorrei parlare di tutti gli “indici” moderni, farlo in un unico articolo richiederebbe un lavoro smisurato, quindi mi concentrerò caso per caso, ed oggi analizzeremo gli ultimi 20 anni circa di censura negli USA, anche perché sono quelli di maggiore intensità.

Il ritorno della censura negli USA

La censura dei libri negli USA non è un fenomeno moderno, già nei secoli scorso è stata ampiamente promossa e praticata, tuttavia, dal secondo dopoguerra in poi, e soprattutto negli anni post guerra fredda, si è respirata un’aria di maggior tolleranza. Tra Regan e Obama gli USA hanno visto la maggior libertà letteraria della propria storia e a darci testimonianza di come negli ultimi anni la libertà di stampa si sia fortemente deteriorata, abbiamo le analisi e i rapporti periodici di American Library Assosation (ALA) e PEN America, due associazioni/organizzazioni che promuovono la libertà di stampa e di espressione e che, almeno dagli anni 60, monitorano l’attività legislativa e i tentativi di censura a livello federale e statale in tutti gli USA.

Come anticipato, fino alla presidenza Obama, gli USA hanno vissuto un periodo fiorente, con grandi libertà editoriali e anche nei programmi scolastici c’era molta “libertà”. Per fare un esempio pratico, durante la presidenza di G.W. Bush, in alcuni libri scolastici si arrivava a parlare, in maniera anche abbastanza critica, della disastrosa fuga dalla Somalia del 94 durante la presidenza Bush senior e durante la presidenza Obama la situazione sostanzialmente non cambia, la censura di libri è ancora relativamente contenuta rispetto a quanto sarebbe successo negli anni successivi. Ciò non significa che sia del tutto assente, anche perché non lo è mai stata. L’ALA documenta, negli 8 anni di presidenza Obama, sporadici casi di divieto di libri, per lo più legati a temi sensibili come la religione, la sessualità e la violenza. Questo divieto non è però assoluto, e in realtà anche negli anni successivi non lo sarà mai.

Il bando è circoscritto alle scuole pubbliche, e all’epoca, soprattutto durante la campagna elettorale del 2012, scaturì in un forte dibattito legato alle politiche di inclusione promosse da Obama e l’apparente contraddizione tra queste e il divieto di usare nelle scuole e nelle biblioteche scolastiche, alcuni libri che affrontavano tematiche LGBTQ+ e riscrivevano la tradizione americana, testi che per inciso, erano fortemente antiscientifici e antistorici.

L’accesa discussione attorno a questi bandi tuttavia, fu significativa, perché spianò la strada a ciò che sarebbe successo nella successiva presidenza Trump.

Polarizzazione culturale e attacchi alla scienza durante la presidenza Trump

Se come abbiamo visto, durante la presidenza Obama, il divieto di utilizzo nelle scuole è “federale” e riguarda soprattutto libri antiscientifici, durante la prima amministrazione Trump si è registrato il vero punto di svolta, ovvero la nomina di Betsy DeVos come Segretaria dell’Istruzione. DeVos è stato una forte promotrice di politiche in favore delle scuole private e di riduzione del controllo federale sui materiali didattici. In altri termini DeVos da una maggiore autonomia alle scuole, soprattutto quelle private, di decidere la forma dei propri programmi scolastici, i libri da utilizzare ecc e allo stesso tempo aumentava indirettamente il potere dei governatori locali che, senza un controllo federale, erano chiamati a regolamentare a livello locale i limiti dell’insegnamento, programmi scolastici e di conseguenza, autorità quasi totale in materia di censura o liberalizzazione di libri antiscientifici nelle scuole.

Nel 2020, sempre l’amministrazione Trump, fa un ulteriore passo in direzione della censura, vietando l’uso scolastico, sempre nella scuola pubblica, di pubblicazioni che includessero termini come “inclusione”, “diversità di genere” e “disabilità”. Questo divieto ha avuto un doppio effetto, sia editoriale che politico scolastico. A livello editoriale sono aumentati, in maniera quasi esponenziale, i tentativi di rimuovere dai testi, le sezioni che trattavano temi sensibili, come la storia razziale americana e l’identità di genere, inoltre, per evitare di incorrere nella censura federale, molti editori hanno ritirato dal mercato numerosi libri e rifiutato innumerevoli nuove proposte. Sul piano politico scolastico invece, i governi locali, già fortemente autonomi, hanno avviato una crescente corsa alla censura vietando sempre di più l’uso di libri che trattavano temi vietati.

ALA e Pen America a tale proposito documentano una delle fasi più cupe della storia editoriale statunitense, e della censura libraria, dai tempi del proibizionismo.

Un’inattesa escalation dei divieti durante la presidenza Biden

Finito il mandato di Trump molti si aspettavano importanti passi indietro da parte del nuovo presidente, e così è stato, i primi mesi di presidenza Biden come sappiamo furono investiti dal presidente democratico, per smantellare gran parte delle politiche trumpiane inaugurate a fine mandato, tuttavia, sulla questione scuola e censura, non troviamo il passo indietro che molti si aspettavano, ma anzi, troviamo un apparente escalation. Secondo quanto riportato dall’ALA, nel primo semestre del 2022 sono stati registrati 681 tentativi di messa al bando che hanno interessato circa 1.651 libri, con un’enfasi particolare su temi razziali, di genere e sessuali. Una tendenza preoccupante che secondo ALA è ulteriormente cresciuta nel 2023, quando il numero di libri banditi nelle scuole pubbliche è triplicato, passando dai 3.362 del 2023 a oltre 10.000 nel 2024.

Diversamente dall’era Obama però, i libri al bando non sono testi anti-scientifici, letteratura scientifica, saggistica e narrativa, e protagonisti di questa escalation sono stati come la Florida, guidati nella maggior parte dei casi da governatori conservatori repubblicani molto vicini a Trump. In florida ad esempio incontriamo diverse leggi statali il cui fine è limitare l’insegnamento di concetti come la “teoria critica della razza” e “l’identità di genere”. L’adozione di queste politiche locali ha portato alla rimozione di oltre 10.000 libri dalle biblioteche scolastiche statunitensi, e come ci si potrebbe aspettare, ha innescato un forte dibattito nazionale sulla libertà di espressione e il ruolo dell’istruzione pubblica.

Colpa di Biden o di Trump?

L’ondata di censura durante la presidenza Biden, come anticipato, ha innescato un forte dibattito pubblico, tutt’ora attivo, sulla responsabilità di tale escalation, da una parte c’è chi incolpa Trump e dall’altra chi incolpa Biden.

I dati di ALA e Pen America mostrano un chiaro aumento della censura di libri negli Stati Uniti, soprattutto durante la presidenza Biden e Trump, con picco esponenziale durante la presidenza Biden, tuttavia, tale incremento è circoscritto a stati repubblicani e guidati da governatori vicini all’ex presidente Trump, mentre, secondo i dati riportati da ALA e Pen America negli stati democratici il ricorso ai divieti è rimasto molto limitato, e in linea con quanto accadeva in passato, ovvero con il bando dalle scuole di testi anti-scientifici e anti-storici. Alla base di questo incremento dei bandi abbiamo le leggi promosse da DeVos e Trump durante la prima amministrazione Trump, leggi che come abbiamo visto in precedenza, hanno creato un clima culturale favorevole alla censura, attraverso l’adozione di politiche anti-scienza e pro-censura e che, durante la successiva amministrazione Biden, non sono state superate, e più precisamente neanche ci ha provato.

Censura fuori dalla scuola?

Finora abbiamo parlato di censura scolastica, di divieto di insegnamento, di bando dalle biblioteche pubbliche, ma fuori dalla sfera pubblica ci sono libri vietati negli USA?

La risposta più semplice è, tecnicamente no, ma è una risposta incompleta, perché se da un lato la costituzione garantisce la totale libertà di stampa e quindi è teoricamente consentita la possibilità di pubblicare qualsiasi libro, anche il più controverso, in realtà molte cose, per ragioni politiche e di sicurezza non sono e non possono essere pubblicate. Un editore non può ad esempio pubblicare un libro che divulga documenti classificati, o che insegna a costruire bombe, e più in generale, e se in alcuni casi gli editori non possono, in altri non vogliono. Di conseguenza molti editori, soprattutto quelli più grandi ed esposti, come anche in altre parti del mondo, preferiscono evitare la pubblicazione di libri che affrontino tematiche considerate controverse e problematiche. Religione, sessualità, identità di genere, questioni razziali, sia narrativa che saggistica, difficilmente arrivano al grande pubblico, da grandi editori ed autori alle prime armi. Dall’altro lato però, il fenomeno del self publishing negli USA è ampiamente diffuso, e la possibilità di pubblicare in totale autonomia, consente a molti autori di pubblicare, passatemi il termine, alcune delle peggiori porcherie letterarie di tutti i tempi, con una conseguente abbondanza di letteratura, come mai prima.

Il paradosso è che da un lato la letteratura anti-scientifica e controfattuale sta attraversando una fase fiorente, mentre la letteratura scientifica e narrativa , che affronta alcune tematiche politicamente calde, sessualità religione, orientamento sessuale, identità di genere, ecc è sempre più oscurata.

Conclusioni

La censura di libri negli Stati Uniti è un fenomeno complesso che riflette enormi tensioni culturali e politiche. Abbiamo visto come durante la presidenza Obama, nonostante il dibattito, lo scenario non era dissimile rispetto agli anni precedenti e il resto del mondo occidentale. Successivamente, con l’inizio della prima amministrazione Trump, ha avuto inizio anche quella che molti definiscono epoca oscura per la letteratura, un epoca che è continuata senza particolari tentativi di ammortizzazione sotto la presidenza Biden e che ora, durante il secondo mandato di Trump rischia di vedere la sua massima espressione, alimentata da numerosi membri del congresso che, durante la propria campagna elettorale, hanno portato avanti vere e proprie crociate, con tanto di lanciafiamme e roghi di libri, contro alcune forme di letteratura e temi letterari.

Le guerre civili somale, dagli anni 90 ad oggi

La Somalia è uno di quegli angoli di mondo a cui la storia ha deciso di non dare tregua e nel corso dell’ultimo secolo almeno, ha visto pochi e brevi momenti di serenità, come momenti di separazione tra grandi conflitti decennali. Il paese, un tempo importante colonia italiana nel Corno d’Africa, è stata, soprattutto negli ultimi decenni, teatro di una prolungata guerra civile, iniziata agli albori degli anni ’90 e caratterizzata da una complessa interazione di conflitti locali (di cui il colonialismo ottocentesco e dei primi del novecento è in larga parte responsabile), insurrezioni islamiche, interventi internazionali e transnazionali. In questo articolo il mio obbiettivo è quello di offrire una panoramica delle principali vicende degli anni ’90 con focus sulle rivolte islamiche dei primi anni 2000 e il coinvolgimento internazionale nel conflitto locale, in particolare il ruolo dell’ONU e degli Stati Uniti, ovvero i tre elementi che nel 2025 giocano ancora un ruolo centrale nella guerra civile somala.

Le Vicende degli Anni ’90

Gli anni ’90 rappresentano un momento cruciale nella storia della somala, l’inizio del decennio, la fine del secolo e della guerra fredda su scala globale, coincidono in Somalia con la caduta del regime di Siad Barre, il generale somalo e segretario del Partito Socialista Rivoluzionario Somalo, che governò il paese ininterrottamente tra il 1969 ed il gennaio del 1991, da qui una sanguinosa “guerra di successione” meglio nota come guerra civile somala, che dura salvo brevi interruzioni, va avanti da oltre 30 anni.

Alla base del conflitto vi era la frammentazione del potere, la proliferazione dei signori della guerra già negli anni ottanta, sostenuti in maniera più o meno diretta dai diversi attorti internazionali. Sul piano politico la Somalia a cavallo tra anni 80 e 90 era una polveriera pronta ad esplodere, serviva solo qualcuno che accendesse la miccia e la miccia si accese con la fine della guerra fredda e la caduta di Siad Barre.

Il Crollo del Regime di Siad Barre (1991)

Siamo nel 1990, la Somalia è governata da oltre 30 anni dal generale Mohamed Siad Barre, ma il suo governo è attraversato da una profonda crisi politica, il popolo somalo vive un profondo malcontento, alimentato da tensioni etniche e rivolte armate contro il regime, così, il 26 gennaio 1991, il governo cade, ma, come anticipato, l’enorme frammentazione del potere porta ad una lotta per la successione che impedisce una transizione politica e porta il paese a sprofondare nel caos.

Nel gennaio del 1991 le truppe ribelli, guidate dal generale Mohamed Farrah Aidid entrano a Mogadiscio, ormai il dado è tratto, le forze governative vengono sconfitte, il presidente destituito e per Siad Barre non resta altra possibilità che la fuga, il generale lascia la città e cerca rifugio nell’area sudoccidentale del paese, regione governata da Mohamed Said Hers, genero di Siad Barre che lo aiutò, nel corso del 1991 e 92 nel tentativo di riprendere la capitale, ma senza successo e alla fine, nel 1992, Mohamed Farrah Aidid decretò l’esilio di Siad Barre.

L’Anarchia e il Ruolo dei Signori della Guerra

Mohamed Farrah Aidid controlla la capitale, ma non il paese, la frammentazione del potere che aveva messo in crisi il precedente regime sembra impedire la creazione di un nuovo stato unitario, e in assenza di un governo centrale, riconosciuto da tutte le fazioni, il paese si frammentò ulteriormente, dando vita ad in una miriade di territori controllati da signori innumerevoli signori della guerra e le loro milizia. Semplificando moltissimo, nessuno di loro riconosce l’autorità del governo centrale e tutti vogliono assumere il controllo del paese, ne consegue una veloce e sanguinosa escalation di violenze, con attacchi indiscriminati alla popolazione civile e saccheggi diffusi, alimentati da scarsità di cibo e acqua per via di una profonda carestia che colpì il paese tra 1991 e 1992.

La carestia colpì l’intero corno d’africa, e per quanto riguarda la Somalia, interessò soprattutto le regioni meridionali del paese, causando solo in Somalia, secondo le stime dell’ONU, la morte di circa 300.000 persone tra il 1991 e il 1992.

L’Intervento delle Nazioni Unite: UNOSOM e Operazione Restore Hope

La Somalia è devastata da una catastrofe umanitaria, aggravata dalla guerra civile che rende impossibile, alle organizzazioni umanitarie, la distribuzione di aiuti, si rese così necessaria la mobilitazione delle Nazioni Unite con la missione UNOSOM (United Nations Operation in Somalia). I caschi Blu dell’ONU, impegnati nella missione UNOSOM tuttavia, non furono in grado di contenere la violenza tra le fazioni in lotta.

La richiesta di aiuto della Somalia e dell’ONU viene accolta, se così si può dire, dagli Stati Uniti. L’amministrazione Bush aveva infatti necessità di un importante successo politico internazionale, così nel dicembre del 1992, a quasi 2 anni dall’inizio della guerra civile somala, venne lanciata l’Operazione Restore Hope. L’obiettivo era quello di garantire la sicurezza necessaria per la distribuzione degli aiuti umanitari, e a tale scopo venne inviato in Somalia un contingente militare di circa 25.000 soldati statunitensi.

I signori della guerra locali, che ambivano al potere nella regione, non videro di buon occhio la presenza militare straniera e anzi, la interpretarono in larga parte come un atto di ostilità e un nuovo tentativo coloniale. Mohamed Farrah Aidid, che controllava ancora Mogadiscio, fu uno dei principali detrattori della presenza straniera in Somalia e le crescenti tensioni tra le forze dell’ORH, e le milizie del generare Aidid, culminarono con la disastrosa Battaglia di Mogadiscio, avvenuta tra il 3 e il 4 ottobre 1993, durante la quale le forze speciali statunitensi, nel tentarono di catturare i luogotenenti di Aidid, vennero accerchiate e attaccate dalle milizie locali. Il bilancio della battaglia fu disastroso, centinaia di somali morti e 18 soldati USA.

Bush era entrato in Somalia in cerca di un successo politico e militare, ma ciò che aveva ottenuto era un disastro politico, l’opinione pubblica statunitense e internazionale spinsero per un ritiro immediato delle truppe, così, ad un passo dalle elezioni di metà mandato, del secondo mandato Bush, gli Stati Uniti lasciarono la Somalia. Era il 1994, e l’anno seguente, nel 1995 fu la volta dell’ONU.

La Somalia era un teatro bellico estremamente importante per l’ONU, perché si trattava del primo vero conflitto post guerra fredda, e il ritiro delle forze internazionali dal paese segnò quello che è forse il più grande fallimento della comunità internazionale nel tentativo di pacificare un paese devastato dalla guerra civile. La fuga della comunità internazionale lasciò la Somalia in uno stato di totale anarchia, immersa in un conflitto permanente che attraversò tutto il decennio.

Nella restante metà degli anni 90, la guerra civile continuò senza sosta, a spese soprattutto della popolazione civile. Soldati bambino, armi illegali, crimini di guerra, stupri di massa, segnarono una ferita indelebile nella memoria di un paese abbandonato a se stesso. In questo clima di disperazione, la fede divenne una risorsa essenziale per la sopravvivenza, e col tempo, un arma e strumento politico. Sul finire del decennio la Somalia vide un crescente aumento dell’influenza dei movimenti islamici favorita dall’assenza di un governo centrale funzionante. Se l’eredità etnica e culturale, il passato coloniale, e le lotte di potere avevano diviso la popolazione somala, l’Islam per molti, apparve come l’anello di congiunzione che poteva sanare la ferita del paese e portare alla nascita di una Somalia Islamica.

Le Rivolte Islamiche dei Primi Anni 2000

Arriviamo così agli inizi degli anni 2000, momento in cui la Somalia assume i tratti che avrebbe avuto nel successivo quarto di secolo. Il decennio di guerra civile appena trascorso aveva portato ad una crescente sfiducia nei confronti dei leader militari e di conseguenza ad un sostanziale declino dell’influenza dei signori della guerra, il cui potere fu presto ereditato dai movimenti islamici. All’inizio degli anni 2000 emersero in Somalia le prime Corti Islamiche, si trattava di gruppi che applicavano la Sharia e offrivano servizi di giustizia e sicurezza nelle aree sotto il loro controllo.

Queste corti grazie al sostegno della popolazione civile, stanca dell’anarchia e della violenza e desiderosa di una fase di serenità fisica e spirituale, riuscirono in breve tempo a pacificare diverse regioni del paese, e nel 2006, molte di queste Corti si unirono nell’Unione delle Corti Islamiche (UCI) che riuscì a prendere il controllo di Mogadiscio e di gran parte della Somalia meridionale.

Sotto la guida dell’UCI, la Somalia meridionale conobbe un periodo di relativa stabilità. Tuttavia, la loro ascesa di uno stato Islamico nel corno d’africa, fu visto come fonte di preoccupazione dai paesi vicini e dalla comunità internazionale, quella stessa comunità che aveva abbandonato la Somalia a se stessa. Siamo nel 2006, la comunità internazionale, in particolare gli Stati Uniti, hanno già conosciuto il lato violento e feroce dell’estremismo islamico, e soprattutto, si è ormai affermato il principio di guerra preventiva, coniato da G.W. Bush e Tony Blair. Così, su richiesta dell’Etiopia, altra ex colonia Italiana nel corno d’Africa, e il sostegno degli USA, sul finire del 2006 fu avviata un operazione militare finalizzata a rovesciare l’UCI e sostenere l’instaurazione di un Governo Federale di Transizione.

Ci troviamo in una delle fasi più controverse della storia moderna, la Somalia, che da oltre un decennio è abbandonata a se stessa e vive una profonda guerra civile, è stata, in parte, finalmente pacificata da un movimento Nazionalista Islamico, e la comunità internazionale, temendo possibili evoluzioni di questo movimento che è riuscito là dove gli USA e l’ONU, 10 anni prima hanno fallito fuggendo con la coda tra le gambe, decide di portare nuovamente la guerra e morte in quell’angolo di mondo già martoriato e stanco.

Il Ruolo degli Stati Uniti nel Conflitto

come abbiamo visto, l’UCI si espanse rapidamente in Somalia, sfruttando la fede islamica come elemento comune e di appartenenza in grado di superare le diversità ideologiche, etniche e culturali che invece avevano alimentato i conflitti tra clan degli anni 90. Il suo crescente potere e la sua crescente influenza nel paese però, preoccupava la vicina Etiopia, che mal vedeva la formazione di uno stato islamista radicale ai propri confini, e dall’altra parte del mondo, gli Stati Uniti, impegnati in una guerra su larga scala contro il terrorismo e l’estremismo islamico, e soprattutto, sotto la guida di George W. Bush che era il dell’uomo che 10 anni prima aveva sostanzialmente ordinato “la fuga” degli USA dalla Somalia, e forse cercava una qualche rivalsa storica per il proprio nome, decise di sostenere e spingere l’Etiopia nel conflitto contro la Somalia, così, nel dicembre 2006, l’Etiopia, sostenuta dagli Stati Uniti, lanciarono una prima offensiva su larga scala alla Somalia.

L’invasione della Somalia da parete dell’esercito etiope, meglio equipaggiato e addestrato, grazie al sostegno degli USA, riuscì in poco tempo a sconfiggere le forze dell’UCI che furono costrette a ritirarsi. Diversamente dalla precedente battaglia di Mogadiscio, questa volta per gli USA fu un successo e nel dicembre del 2006 la città era passata sotto il controllo etiope e del governo federale di transizione somalo (TFG), sostenuto dalla comunità internazionale.

La Resistenza Islamista e la Nascita di Al-Shabaab

La sconfitta a Mogadiscio dell’UCI e la fuga dei propri leader segnò la fine del movimento, ma non della guerra civile che anzi, riprese con maggior vigore. Dalle ceneri dello sconfitto UCI, come successo nel 91 con la fine del regime di Siad Barre, nacque una nuova formazione, ancora oggi attiva in Somalia, ovvero Al-Shabaab, un gruppo nazionalista islamico, più radicale delle precedenti corti islamiche, considerate troppo moderate. Fin dal 2007 Al-Shabaab è impegnata in uno scontro diretto contro le le forze etiopi e il governo federale somalo, utilizzando prevalentemente tattiche di guerriglia che hanno portato all’organizzazione il sostegno di numerosi gruppi jihadisti internazionali, tra cui al-Qaeda. Il movimento panislamico somalo si è radicalizzato soprattutto nelle aree rurali del paese dove, per via dei dissesti causati da oltre 20 anni di guerra, il governo federale aveva (ed ha tutt’ora) difficoltà ad imporsi.

Per quanto riguarda l’Etiopia invece, la loro permanenza in Somalia è durata circa 2 anni, tra il 2006 ed il 2008. Nel 2008 le forti pressioni internazionali e il timore che Al-Shabaab potesse portare lo scontro anche in Etiopia, spinsero l’Etiopia a dare inizio al proprio ritiro dalla Somalia, lasciando così il paese nelle mani del governo federale somalo, sostenuto dalla comunità internazionale.

Nel 2007, l’Unione Africana entrò in Somalia a sostegno del Governo Federale, e nell’ottica della pacificazione del paese e la lotta ad Al-Shabaab, dispiegò nel paese le forze della missione African Union Mission in Somalia (AMISOM). La missione AMISON ottenne quasi immediatamente il sostegno della comunità internazionale, soprattutto deli Stati Uniti e riuscì ad ottenere, alcuni importanti successi, senza però mai riuscire ad eliminare completamente la minaccia islamista.

Da Al-Shabaab all’ISIS

La parabola islamista della Somalia è stata in un certo senso discendente, i primi movimenti erano fortemente nazionalisti, e, per quanto radicali erano abbastanza moderati, se infatti l’UCI da un lato applicava la Sharia, dall’altro tollerava e permetteva la convivenza con altre religioni, e fondava la propria politica sulla pacificazione attraverso l’Islam, dall’UCI si passa però al più radicale Al-Shabaab, che a differenza dell’UCI è un gruppo jihadista nazionalista somalo, affiliato ad al-Qaeda, ma il cui interesse è circoscritto alla sola Somalia, tale movimento nel corso degli anni ha subito numerose trasformazioni e, come molti dei gruppi affiliati ad al-Qaeda, ha visto, soprattutto a partire dal 2015, una progressiva radicalizzazione e trasformazione che ha avvicinato sempre di più, alcune frange del movimento, al califfato di Abu Bakr al-Baghdadi.

Il 2015 in effetti, per la Somalia è un altro momento di rottura. L’ascesa e avanzata in Iraq e Siria dell’ISIS, e la sua rapida diffusione in gran parte del mondo Islamico, attrae alcuni esponenti di Al-Shabaab, il movimento fino a quel momento era stato legato ad al-Qaeda, con cui condivideva ideologia, strategie e supporto logistico. Strategie che però non avevano mai avuto l’impatto e soprattutto portato i risultati che invece stava ottenendo l’ISIS, così, diversi comandanti di al-Shabaab videro nell’ISIS il futuro della propria jihad e considerando il califfato più dinamico e influente rispetto a quanto non fosse in quel momento al-Qaeda, decisero di staccarsi al-Shabaab e giurare fedeltà ad Abu Bakr al-Baghdadi.

Nasce così, nella regione settentrionale della Somalia, Abnaa ul-Calipha, il gruppo che in sintesi rappresenta la costola somala dell’ISIS. Il leader di questo nuovo schieramento, che entra a gamba tesa nella guerra civile somala, è Abdul Qadir Mumin. Si tratta di un un ex predicatore e ideologo del gruppo che in pochissimo tempo farà della regione del Puntland la propria roccaforte. Si tratta di un area geograficamente e politicamente lontana dalle regioni controllate da Al-Shabaab, ben radicato nel sud del paese, ma anche lontano dal governo federale.

Dal 2015 in poi la Somalia è sostanzialmente divisa tra tre fazioni. Abbiamo un governo federale, sostenuto dalla comunità internazionale, che controlla la capitale Mogadiscio, nelle aree rurali del sud del paese si è radicato Al-Shabaab, erede dell’UCI, e fortemente nazionalista, mentre nelle aree rurali del nord del paese c’è Abnaa ul-Calipha, la costola somala dell’ISIS, staccatasi da Al-Shabaab, con ambizioni transnazionali.

Questa nuova configurazione della Somalia non lascia molto spazio al dialogo, soprattutto tra le due fazioni islamiste la cui rivalità si intensificò rapidamente. Al-Shabaab avviò immediatamente una campagna di epurazione, eliminando tutti i possibili sostenitori dell’ISIS e giustiziando numerosi militanti sospettati di un possibile tradimento. Lanciò inoltre numerosi attacchi contro le basi e i villaggi controllati dalla fazione rivale e lo stesso fece l’ISIS. La lotta intestina tra i due movimenti islamici portò in Somalia una nuova e forse più devastante ondata di morte e violenza, ma riuscì, in parte, a limitare l’efficacia operativa dei due gruppi jihadisti, permettendo, se pur in maniera limitata, un avanzata delle forze governative nelle aree rurali.

Nel contesto generale della guerra civile somala, la scissione di Al-Shabaab e la nascita di una fazione affiliata all’ISIS non ha fatto altro che complicare ulteriormente un quadro già disastroso, a tutto danno della popolazione civile. Il governo somalo e le forze internazionali, già impegnate nella lotta contro Al-Shabaab, hanno dovuto affrontare una nuova minaccia rappresentata dal più aggressivo gruppo affiliato all’ISIS. Mentre L’AMISOM e le forze speciali statunitensi hanno intensificato le operazioni contro entrambe le fazioni, cercando di prevenire un’ulteriore diffusione del jihadismo nella regione.

Gli Interventi degli USA in Somalia (2012-2025)

Dopo il disastro di Mogadiscio nel dicembre del 1994, gli Stati Uniti sono sempre stati molto cauti nell’intervenire in Somalia, e, per oltre un decennio, si sono tenuti a distanza dalla regione. L’ascesa dell’UCI nel 2006 ha portato ad un rinnovato interesse statunitense per la Somalia, e sebbene abbiano fornito un ampio sostegno, tra il 2006 ed il 2008 alle forze Etiopi e successivamente al governo federale somalo e dell’AMISOM, ma solo nel 2012, con l’inizio del secondo mandato di Barack Obama e l’elezione di Hassan Sheikh Mohamud, gli USA sono rientrati direttamente nel conflitto.

Con l’elezione id Hassan Sheikh Mohamud nel settembre 2012, gli Stati Uniti hanno intensificato la propria presenza militare in Somalia nel paese, iniziando una collaborazione diretta con l’AMISOM e le forze governative. Fino a quel momento gli USA si erano limitati ad addestrare e fornire armi alla Somalia e AMISOM, ma dal 2012 in poi, le forze amate USA, iniziarono ad intervenire direttamente contro Al-Shabaab. Il secondo mandato presidenziale di Obama fu caratterizzato da un massiccio utilizzo dei droni in operazioni belliche, sia in medio oriente e Afghanistan, ma anche in Somalia.

La partecipazione attiva degli USA alla guerra contro i movimenti islamici somali, portò nel 2014 all’uccisione di Ahmed Abdi Godane, leader di Al-Shabaab, causando una temporanea disorganizzazione all’interno del gruppo. Il suo successore, Ahmad Umar è tuttavia riuscito a riorganizzare e rafforzare Al-Shabaab portando a una ripresa delle offensive jihadiste.

Nel 2016 inizia l’era Trump, promuovendo un approccio più aggressivo nei confronti del terrorismo islamico. L’effetto della nuova politica è che dal 2017, il Pentagono ha ampliato l’autorizzazione all’uso della forza letale, aumentando in modo esponenziale il numero di raid aerei e operazioni speciali colpendo decine di obiettivi strategici, che però, spesso, come successo anche in epoca Obama, coinvolsero obbiettivi civili.

Sul finire del primo mandato presidenziale, nell’autunno del 2020, l’amministrazione Trump ha ordinato il ritiro della maggior parte delle truppe statunitensi dalla Somalia, pur mantenendo la capacità di eseguire attacchi aerei e operazioni di intelligence dalla vicina Kenya e da basi nel Golfo.

Il cambio della guardia tra Trump e Biden portò gli USA a riconsiderare la propria strategia militare in Somalia e nel 2022, il presidente ha approvato la reintroduzione di truppe speciali nel paese per rafforzare le forze locali e continuare le operazioni contro Al-Shabaab.

Tra il 2022 e il 2023 gli USA i raid aerei ed attacchi mirati da parte degli USA contro obiettivi strategici legati ad Al-Shabaab sono continuati senza alcun tipo di rallentamento, e anzi, con una certa intensificazione rispetto al 2021 quando il ritiro delle forze speciali dal paese voluto da Trump, aveva ridotto notevolmente la capacità operativa degli USA.

Nel gioco delle parti tra ISIS e al-Shabaab, la diminuzione della capacità operativa e logistica di al-Shabaab porta ad una nuova fase di crescita dell’ISIS che, nel 2024 è tornato ad essere oggetto d’interesse prioritario per le forze militari somale e statunitensi, richiedendo un coordinamento più stretto tra Washington e Mogadiscio e nel 2025, la nuova amministrazione Trump, a inaugurato la propria stagione militare, con un raid aereo che tra gennaio e febbraio, secondo quanto comunicato dallo stesso Trump, ha portato alla capitolazione di alcuni leader dell’ISIS somalo.

Bibliografia e Fonti

Operazione Somalia. La dittatura, l’opposizione, la guerra civile, Mario Sica
La mia Somalia: Operazione ‘IBIS'” di Gen. Francesco Bruni
Lo sguardo avanti” di Abdullahi Ahme
Dossier Somalia” di Carla Rocca

Storia personale della guerra in Somalia – Igiaba Scego – Internazionale
Italia e Somalia – Ambasciata d’Italia Mogadiscio
Guerre civili, crisi climatica, terrorismo: dalla Somalia al Sud Sudan milioni di persone devastate dalla carestia – Valigia Blu
Conflitti dimenticati: Somalia, il collasso di una nazione – Progetto Melting Pot Europa
La guerra civile in Somalia timeline | Timetoast Timelines

Le guerre civili somale, USAx Somalia (parte 3)

La Somalia è uno di quegli angoli di mondo a cui la storia ha deciso di non dare tregua e nel corso dell’ultimo secolo almeno, ha visto pochi e brevi momenti di serenità, come momenti di separazione tra grandi conflitti decennali. Il paese, un tempo importante colonia italiana nel Corno d’Africa, è stata, soprattutto negli ultimi decenni, teatro di una prolungata guerra civile, iniziata agli albori degli anni ’90 e caratterizzata da una complessa interazione di conflitti locali (di cui il colonialismo ottocentesco e dei primi del novecento è in larga parte responsabile), insurrezioni islamiche, interventi internazionali e transnazionali. In questa serie di 3 articoli il mio obbiettivo è quello di offrire una panoramica delle principali vicende della guerra civile somala, dagli anni 90 ad oggi, con focus sulle rivolte islamiche dei primi anni 2000 e il coinvolgimento internazionale nel conflitto locale, in particolare il ruolo della comunità internazionale e degli Stati Uniti, ovvero i tre elementi che nel 2025 giocano ancora un ruolo centrale nella guerra civile somala.

Gli Interventi degli USA in Somalia (2012-2025)

Dopo il disastro di Mogadiscio nel dicembre del 1994, gli Stati Uniti sono sempre stati molto cauti nell’intervenire in Somalia, e, per oltre un decennio, si sono tenuti a distanza dalla regione. L’ascesa dell’UCI nel 2006 ha portato ad un rinnovato interesse statunitense per la Somalia, e sebbene abbiano fornito un ampio sostegno, tra il 2006 ed il 2008 alle forze Etiopi e successivamente al governo federale somalo e dell’AMISOM, ma solo nel 2012, con l’inizio del secondo mandato di Barack Obama e l’elezione di Hassan Sheikh Mohamud, gli USA sono rientrati direttamente nel conflitto.

Con l’elezione id Hassan Sheikh Mohamud nel settembre 2012, gli Stati Uniti hanno intensificato la propria presenza militare in Somalia nel paese, iniziando una collaborazione diretta con l’AMISOM e le forze governative. Fino a quel momento gli USA si erano limitati ad addestrare e fornire armi alla Somalia e AMISOM, ma dal 2012 in poi, le forze amate USA, iniziarono ad intervenire direttamente contro Al-Shabaab. Il secondo mandato presidenziale di Obama fu caratterizzato da un massiccio utilizzo dei droni in operazioni belliche, sia in medio oriente e Afghanistan, ma anche in Somalia.

La partecipazione attiva degli USA alla guerra contro i movimenti islamici somali, portò nel 2014 all’uccisione di Ahmed Abdi Godane, leader di Al-Shabaab, causando una temporanea disorganizzazione all’interno del gruppo. Il suo successore, Ahmad Umar è tuttavia riuscito a riorganizzare e rafforzare Al-Shabaab portando a una ripresa delle offensive jihadiste.

Nel 2016 inizia l’era Trump, promuovendo un approccio più aggressivo nei confronti del terrorismo islamico. L’effetto della nuova politica è che dal 2017, il Pentagono ha ampliato l’autorizzazione all’uso della forza letale, aumentando in modo esponenziale il numero di raid aerei e operazioni speciali colpendo decine di obiettivi strategici, che però, spesso, come successo anche in epoca Obama, coinvolsero obbiettivi civili.

Sul finire del primo mandato presidenziale, nell’autunno del 2020, l’amministrazione Trump ha ordinato il ritiro della maggior parte delle truppe statunitensi dalla Somalia, pur mantenendo la capacità di eseguire attacchi aerei e operazioni di intelligence dalla vicina Kenya e da basi nel Golfo.

Il cambio della guardia tra Trump e Biden portò gli USA a riconsiderare la propria strategia militare in Somalia e nel 2022, il presidente ha approvato la reintroduzione di truppe speciali nel paese per rafforzare le forze locali e continuare le operazioni contro Al-Shabaab.

Tra il 2022 e il 2023 gli USA i raid aerei ed attacchi mirati da parte degli USA contro obiettivi strategici legati ad Al-Shabaab sono continuati senza alcun tipo di rallentamento, e anzi, con una certa intensificazione rispetto al 2021 quando il ritiro delle forze speciali dal paese voluto da Trump, aveva ridotto notevolmente la capacità operativa degli USA.

Nel gioco delle parti tra ISIS e al-Shabaab, la diminuzione della capacità operativa e logistica di al-Shabaab porta ad una nuova fase di crescita dell’ISIS che, nel 2024 è tornato ad essere oggetto d’interesse prioritario per le forze militari somale e statunitensi, richiedendo un coordinamento più stretto tra Washington e Mogadiscio e nel 2025, la nuova amministrazione Trump, a inaugurato la propria stagione militare, con un raid aereo che tra gennaio e febbraio, secondo quanto comunicato dallo stesso Trump, ha portato alla capitolazione di alcuni leader dell’ISIS somalo.

Bibliografia e Fonti

Operazione Somalia. La dittatura, l’opposizione, la guerra civile, Mario Sica
La mia Somalia: Operazione ‘IBIS'” di Gen. Francesco Bruni
Lo sguardo avanti” di Abdullahi Ahme
Dossier Somalia” di Carla Rocca

Storia personale della guerra in Somalia – Igiaba Scego – Internazionale
Italia e Somalia – Ambasciata d’Italia Mogadiscio
Guerre civili, crisi climatica, terrorismo: dalla Somalia al Sud Sudan milioni di persone devastate dalla carestia – Valigia Blu
Conflitti dimenticati: Somalia, il collasso di una nazione – Progetto Melting Pot Europa
La guerra civile in Somalia timeline | Timetoast Timelines

X è in crisi, di nuovo.

X (ex Twitter), il controverso social network di Elon Musk, l’uomo di fiducia del presidente Trump, chiamato a riequilibrare la spesa federale USA, è in crisi, di nuovo. Come è noto Elon Musk ha acquistato Twitter nel 2022, per circa 44 miliardi di dollari, denaro ricavato dalla liquidazione di una significativa fetta di azioni Tesla, in un momento in cui il social era in crisi. Musk è intervenuto, acquistando Twitter, con non poche irregolarità, ha ribrandizzato il social, e si è adoperato, tra tagli al bilancio e al personale, per salvare la piattaforma, ma, a due anni di distanza, una mail inviata ai dipendenti, il cui contenuto è stato comunicato a The Verge, ci dice che quell’operazione di salvataggio sembra aver funzionato e X, così si chiama oggi Twitter, non solo è ancora in crisi, ma anzi, sembrerebbe immerso in una crisi ancora più profonda rispetto al 2022.

La crisi di Twitter che contagia anche X

Nel 2022 la crisi finanziaria di Twitter era segnata da tre elementi, una crescita stagnante della piattaforma rispetto ai competitor, un eccessiva dipendenza del social dagli annunci pubblicitari, come fonte di entrate, non sufficiente però a ripagare le spese a causa della tensione tra utenti e inserzionisti. Detto più semplicemente, a Twitter servivano inserzionisti, ma a differenza di Mate, gli inserzionisti erano pochi. Vi era poi un significativo problema legato alla presenza di Bot e account Fake, che alteravano i dati sull’utenza e le interazioni.

In quella crisi Elon Musk è entrato a gamba tesa, ha investito 44 miliardi di dollari per acquisire Twitter promettendo agli investitori e inserzionisti di rivoluzionare la piattaforma facendo pulizia di bot e account fake, rilanciando il brand, e soprattutto snellendo twitter, eliminando interi dipartimenti che pesavano sul bilancio dell’azienda, senza però portare nulla di concreto al social. E così è stato, almeno in parte. Musk ha in effetti ribrandizzato immediatamente Twitter, in maniera non proprio regolare, ha provato a rilanciare il brand, ha rivoluzionato l’esperienza d’uso, ha fatto enormi tagli al bilancio, licenziando oltre il 75% dei dipendenti, ma non ha mai risolto il problema dei Bot e account Fake, che in realtà, negli ultimi 2 anni, secondo gli analisti, sono aumentati.

Arriviamo così al 2024, anno in cui Elon Musk smette di essere un semplice provocatore, oltre che imprenditore, e diventa il main sponsor del candidato alle presidenziali USA Donald Trump, investendo su Trump e la sua campagna elettorale, oltre 200 milioni di dollari e Trump dal canto suo annuncia la creazione del DOGE, un dipartimento per l’efficienza governativa, esterno al governo, che sarebbe stato affidato ad Elon Musk, il quale avrebbe fatto con la macchina amministrativa USA quello che aveva fatto nelle sue aziende, in particolare con Twitter, emblema dell’efficientamento che da azienda in crisi ora brillava nuovamente nel firmamento dei social media con il nome di X.

Nel mentre Musk continua a rivoluzionare X, lanciando prima Twitter Blue poi diventato X Premium, ovvero la versione a pagamento di X, con alcune funzionalità esclusive, tra cui l’integrazione con Grok, uno dei modelli più controversi, poiché a differenza di altri modelli linguistici, non sembra avere particolari limitazioni “etiche” , soprattutto per quanto riguarda la creazione di Immagini e deep fake.

La strategia di Musk sembra quindi funzionare, una minore spesa per l’azienda ed entrate diversificate, almeno su carta, perché in realtà, le cose non vanno proprio benissimo. Se da un lato infatti la nuova policy sulla libertà di parola che prevede zero censura, sembra rilanciare la crescita, amplificando un linguaggio politicamente scorretto, sdoganando xenofobia intolleranza e razzismo, e soprattutto, riempiendo il social di porno, dall’altro, gli inserzionisti ed investitori, già pochi, fuggono definitivamente, e gli abbonamenti X Premium, si ritrovano ad essere la principale, se non unica, fonte di entrate di X, apparentemente sufficiente a tenere a galla il social.

X sta sprofondando

Secondo quanto riportato da The Verge, le entrate di X nell’ultimo anno sono state appena sufficienti a coprire le spese, permettendo al social, a fatica, di rimanere a galla. Con l’elezione di Trump e l’incentivarsi di episodi controversi sulla piattaforma, ormai quasi del tutto priva di moderazione, molti utenti privati e istituzionali, hanno deciso di lasciare il social, tra questi anche il comune di Parigi che dal 20 gennaio, e diversi giornali tra cui Le Monde, hanno chiuso i propri account ufficiali su X.

Ma questo poco importa, X alla fine anche se in perdita, non è un peso così grande per l’uomo più ricco del mondo. Falso. In realtà X si sta trasformando sempre di più in una pesante zavorra che potrebbe far affondare Musk e tutto il suo impero.

Il problema del debito di X

Sintetizzando al massimo, prima Twitter e poi X, per finanziarsi hanno contratto enormi debiti finanziari, che normalmente non sarebbero un problema, tuttavia, alcune segnala Verge, che alcune fonti vicine a banche finanziarie e di investimento, sembrerebbero aver confermato che, diverse istituzioni stanno svalutando il valore del debito di X nei propri bilanci, e questo è un problema.

Il debito di X, così come il debito di una qualunque azienda, non necessariamente è un problema, anzi, se l’azienda è in crescita, il suo debito in realtà è una fonte di reddito con un alto valore, nel caso di X invece, il valore del debito è sembrerebbe essere sempre più basso, e questo si traduce in un campanello d’allarme per futuri finanziamenti e investimenti, poiché, con l’avvicinarsi delle scadenze dei prestiti, X potrebbe non essere in grado di ripagare il proprio debito, costringendo Musk a cercare nuovi capitali o cedere asset di valore, in particolare azioni Tesla.

Non è quindi un caso se per molti analisti finanziari, X sia considerata una “trappola di liquidità” e il debito contratto per salvare Twitter ora sembra stia soffocando X e le sue possibili evoluzioni.

Musk è davvero l’uomo giusto alla guida del DOGE?

Mentre l’azienda che doveva “salvare” ed è stata presentata come un esempio di efficientamento, va a fondo, molti si chiedono se Elon Musk sia davvero l’uomo giusto per riorganizzare e rendere più efficiente il governo USA. Se si guarda ad X e i risultati ottenuti in due anni, otteniamo un quadro disastroso, il famoso “sacrificio di pochi per il bene di molti” rievocato dallo stesso Musk quando parlava dei licenziamenti nella pubblica amministrazione USA, sembra essere stato completamente inutile, e anzi, forse anche più deleterio del non far nulla, e questo perché il solo fallimento di Twitter, avrebbe coinvolto sì migliaia di persone dipendenti dell’azienda, ma non i dipendenti di altre aziende. Ora però le cose sono diverse e sul piatto della bilancia ci sono anche Tesla e Space X, e quel buco da qualche milione di dollari, rischia di diventare una voragine da miliardi di dollari. E parliamo solo del Msukverse.

Se il fallimento di X dovesse riflettersi anche sul governo federale, allora si che sarebbe un disastro, parliamo non di poche migliaia, ma di centinaia di migliaia, se non addirittura milioni di cittadini statunitensi, forse non solo statunitensi, senza lavoro. Parliamo di una crisi finanziaria senza precedenti, che potrebbe far impallidire la crisi del 2008 e peggio ancora, potrebbe far più danni della crisi del 29. Crisi che come sappiamo è stata contrastata dal New Deal e da una serie di interventi che, per Trump e Musk sono inattuabili e controproducenti.

Può sembrare un esagerazione catastrofistica, in realtà è estremamente plausibile. Gli USA in questo momento sono interessati da una profonda crisi inflazionistica, molto più grave di quella che ha colpito l’Europa, e la Federal Reserve in primis, insieme al governo federale, negli ultimi quattro anni, ha adottato una serie di contromisure per ridurre progressivamente l’inflazione, attraverso una politica monetaria molto restrittiva. Esattamente come stanno facendo l’UE e la BCE.

Trump e Musk tuttavia sembrano voler abbandonare questa strada che porta ad un lento e stabile miglioramento dell’economia, per puntare tutto su una strategia estremamente rischiosa, che, in caso di successo, porterebbe enormi benefici nel breve periodo agli USA, e farebbe enormi danni, nel medio e lungo termine, se invece non dovesse avere successo, quegli effetti indesiderati sarebbero immediati e accentuati, non solo per gli USA, ma per l’intero pianeta.

Per semplificare tantissimo, la strategia è la stessa che Musk ha adottato per salvare Twitter, ossia, tagli alla spesa, diversificazione delle entrate, totale disinteresse per le leggi vigenti e abbandono delle regole di convivenza internazionale attraverso una politica aggressiva e provocatoria. Con Twitter, anzi, con X, questa ricetta non sembra aver funzionato.

Trump è un idiota secondo sua madre – FALSO

Negli ultimi giorni mi è capitato sott’occhio, più di post in cui si mostrava una foto di famiglia di Donald Trump, più precisamente lui da giovane insieme a sua madre, accompagnato da questa frase.

Yes, he’s an idiot with zero common sense and no social skills, but he is my son. I just hope he never goes into politics, He’d be a disaster”

-Mary Anne Trump.

Ecco un esempio del post condiviso su X (ex Twitter)

Secondo questi post dunque, la madre di Donald Trump lo avrebbe definito un idiota senza senso sociale, e con una straordinaria lungimiranza, si augurava che non il figlio non intraprendesse la via della politica perché sarebbe stato un disastro, ma era pur sempre suo figlio.

Ma, quanto c’è di vero?

Cominciamo col dire che, la madre di Donald Trump è scomparsa nel 2000, circa 16 anni prima del debutto politico di Donald Trump durante il suo primo mandato e 24 anni prima dell’inizio del suo secondo mandato. Per quanto riguarda questa attribuzione invece, secondo quanto riportato da Snopes, le prime apparizioni risalirebbero al 2019, sul finire del primo mandato di Trump con la campagna elettorale alle porte, ed diventata particolarmente virale nel 2020, durante la pandemia, usata spesso per attaccare e colpire l’allora presidente uscente, e le sue bizzarre dichiarazioni in materia di Covid, Vaccini e Candeggina.

Da dove arriva la foto di Trump e sua madre

La foto che spesso accompagna il post, più precisamente la foto mostrata Donald Trump e sua Madre nel ritaglio di giornale in cui è riportata la frase attribuita a Mary Ann Trump, è apparsa in rete, per la prima volta, in un articolo del New Yorker, storico giornale newyorkese per il quale ha scritto anche Hannah Arendt, datato 24 giugno 2016.

Si tratta di un articolo uscito nel periodo in cui Trump iniziò ad attaccare ferocemente l’immigrazione, e accusò l’allora presidente uscente Barack Obama di non essere americano, perché suo padre era un immigrato, salvo poi scoprire che la nonna materna di Obama era di sangue Cheyenne. In quell’articolo si parlava di Mary Ann Trump, e delle sue origini non statunitensi, di fatto la donna era un immigrata, e il primo “Trump” nato con la cittadinanza statunitense, grazie al primo emendamento della costituzione che riconosce la cittadinanza americana a tutti i nati su suolo americano, è stato proprio Donald. Ma il fatto che Trump voglia abolire lo Ius Soli, che gli ha permesso di essere cittadino e poi presidente USA, è un altra storia.

Da dove arriva la foto?

Tornando alla foto e all’attribuzione. In quell’articolo, non c’è menzione delle scarse capacità sociali di Donald, per quanto riguarda la foto invece, questa è attribuita a Marina Garnier /Holdings, Inc. Via Getty, e purtroppo non si hanno altre informazioni, ma, a giudicare dall’aspetto di Donald Trump in quella foto, è presumibile che sia stata scattata all’incirca tra anni 80 e 90, periodo in cui Donald Trump, con le sue apparizioni televisive, ha iniziato a costruire e consolidare il Brand Donald Trump e la sua immagine pubblica. In quegli anni si è parlato molto di Trump sui vari media, in particolare sulla stampa, e, per quanto una parte considerevole di quel materiale non sia stato digitalizzato e non è attualmente reperibile in rete, è improbabile che sia completamente sparito, e anzi, se fosse esistito, sarebbe sicuramente saltato fuori nel 2016, durante la prima corsa di Trump alla Bianca.

Nei propri articoli Snopes riconosce che non è stata trovata alcune fonte che potesse confermare l’attribuzione, di conseguenza, è quasi certo sia un falso , tuttavia, non esclude al 100% la possibilità che da qualche parte, in qualche archivio giornalistico dimenticato, possa esserci un appunto in cui la madre di Trump riconosce che il figlio non sia propriamente il più grande pensatore del secolo.

Fonti

Claims Trump’s Mom Called Him an ‘Idiot With Zero Social Sense’ Aren’t Grounded in Evidence | Snopes.com

Cina valuta cessione di TikTok USA ad Elon Musk

Secondo voci non ufficializzate, la Cina, più precisamente ByteDance, la holding partecipata dal governo cinese e proprietaria di Tik Tok starebbe valutando un accordo per la cessione dei servizi di Tik Tok in USA ad Elon Musk, già proprietario del social X (ex Twitter). A tale proposito, sembrerebbe che dalla Cina siano arrivate delle smentite, su tale accordo, ma anche questa smentita non è propriamente ufficiale in quanto non parte da ByteDance. In altri termini al momento si sta parlando di una vendita che non è stata ne confermata ne smentita dai diretti interessati.

Secondo voci non ufficializzate, la Cina, più precisamente ByteDance, la holding partecipata dal governo cinese e proprietaria di Tik Tok starebbe valutando un accordo per la cessione dei servizi di Tik Tok in USA ad Elon Musk, già proprietario del social X (ex Twitter). A tale proposito, sembrerebbe che dalla Cina siano arrivate delle smentite, su tale accordo, ma anche questa smentita non è propriamente ufficiale in quanto non parte da ByteDance. In altri termini al momento si sta parlando di una vendita che non è stata ne confermata ne smentita dai diretti interessati.

Cerchiamo allora di capire cosa c’è dietro e se potrebbe avere un senso un accordo di tale natura, ossia il trasferimento dei servizi in USA di Tik Tok ad una società USA di proprietà di un uomo estremamente vicino al presidente Trump, al punto da essere definito da molto un “presidente ombra” o se si tratta di una bufala volta ad alimentare le preoccupazioni di chi vede in Musk un monopolista e spietato capitalista, con tratti sempre più vicini a quelli delle grandi corporazioni dei romanzi distopici.

Tik Tok e il possibile bando dagli USA

Il popolare social cinese, che ha rivoluzionato il modo di fare video e di comunicare, già da qualche anno si trova in una posizione controversa, e molti governi hanno bandito la piattaforma dai rispettivi paesi poiché fortemente compromessa con il governo cinese, sollevando dubbi sulla sicurezza e l’utilizzo dei dati che vengono raccolti dalla piattaforma, perché si sa, se i dati vengono raccolti e analizzati dai cinesi è un pericolo, se a farlo è una società statunitense, in quel caso non c’è nessun pericolo.

Il bando di Tik Tok dal mercato cinese, è sul tavolo dal2’agosto 2020, quando, l’allora presidente uscente Donald Trump, emise un ordine esecutivo con cui richiedeva la vendita delle operazioni statunitensi di Tik Tok e WeChat, rispettivamente popolare piattaforma di video sharing e di messaggistica, di proprietà di colossi cinesi. Se TikTok è di proprietà di ByteDance, WeChat è invece di proprietà di Tencent, holding cinese quotata in borsa ad Hong Kong, con un valore di circa 449 Milioni di dollari USA.

Secondo l’allora presidente uscente, c’era il timore che tali piattaforme potessero condividere dati degli utenti USA con il governo Cinese, rappresentando pertanto una pericolosa minaccia alla sicurezza nazionale. L’ordine esecutivo di Trump è stato possibile sulla base dell’International Emergency Economic Powers Act, tuttavia, la successiva elezione di Joe Biden alla presidenza, ha portato ad un rallentamento della vicenda, di fatto nel giugno 2021, l’allora presidente eletto Biden, ha revocato l’ordine esecutivo del suo predecessore, affidando allo stesso tempo, la verifica dei rischi legati a suddette applicazioni al Dipartimento per il commercio.

Dal 2021 al 2024 il bando di Tik Tok è stato sospeso e nel frattempo la posizione di Trump sulla piattaforma cinese è fortemente cambiata, dopo il Ban da Facebook e il Ban da Twitter, salvo poi reintegrazione dopo l’acquisizione di Twitter da parte di Musk, l’allora ex presidente Donald Trump, è diventato un assiduo e regolare utilizzatore della piattaforma cinese, emulato in questa linea dalle destre di tutto il mondo che ci hanno deliziato con la magia degli italici Berlusconi e Salvini in live su Tik Tok.

Tik Tok si è rivelata, soprattutto negli anni della pandemia, una straordinaria piattaforma di comunicazione, nonché terreno fertile per la proliferazione di fake news e deep fake.

RESTRICT Act

Se il bando politico di Tik Tok dagli USA, nel 2021 sembra essere sfumato, o comunque ridimensionato, nel 2023 la piattaforma di Video Sharing ha iniziato una nuova trafila, questa volta giudiziaria, legata al RESTRICT Act (Restricting the Emergence of Security Threats that Risk Information and Communications Technology), una legge che conferiva al governo federale degli USA ampi poteri in termini di limitazione e bando di tecnologie straniere dagli USA, se queste rappresentano una minaccia alla sicurezza nazionale.

Tale legge si applica anche a piattaforme social, come X, Meta e ovviamente TikTok, e se le prime due sono statunitensi, la terza era ed ancora oggi di proprietà di una multinazionale Cinese, e per molti è stata costruita ad hoc per permettere al governo di intervenire e limitare la crescente popolarità di TikTok in USA.

Per quanto riguarda la sicurezza nazionale, molti governatori USA hanno vietato, nei propri stati, l’utilizzo di TikTok, e altre applicazioni social e di messaggistica, come ad esempio Telegram, dai dispositivi governativi, ovvero tablet, pc e smartphone di funzionari pubblici. Quindi si, in quanto ex presidente, ed ora presidente eletto, in alcuni stati, Trump non potrebbe usare Tik Tok, poiché il suo utilizzo rappresenterebbe una possibile minaccia alla sicurezza nazionale. Tik Tok infatti si teme possa registrare e condividere una serie di informazioni aggiuntive, dette metadata, come ad esempio le informazioni sulla posizione, che potrebbero rendere nota la posizione del presidente. Non proprio il massimo della sicurezza se il presidente è per qualsiasi ragione, per ragioni di sicurezza, in una località segreta.

La reazione di Tik Tok

Fin dal 2022 ByteDance, ha cercato di dissipare le preoccupazioni del governo statunitense, e non solo, sulla sicurezza di Tik Tok, annunciando prima il Project Texas, un progetto che trasferiva i dati degli utenti statunitensi negli stati uniti, in server gestiti da Oracle, società statunitense fondata nel 1977 e quotata in borsa al NYSE con sede a Santa Clara. Ha avviato un centro di trasparenza che permette ai funzionari USA di esaminare ogni operazione di TikTok in USA.

Insomma, ByteDance affidava, con il progetto Texas ed il centro trasparenza, i dati sensibili ad una società USA, dava al governo USA libero accesso a quei dati e le operazioni di TikTok, precludendosi l’accesso a quegli stessi dati. Ma questo agli USA non sembra bastare e al congresso si è continuato a discutere di un possibile bando di TikTok dal mercato USA.

Interesse nazionale o sicurezza?

Sulla base dei dati e le informazioni note, viene quindi da chiedersi se tale dibattito abbia una rilevanza in termini di sicurezza nazionale o di interesse nazionale, possono sembrare concetti analoghi, ma sono profondamente diversi, se infatti, come è “dimostrato” dall’analisi dei dati e delle operazioni di Tik Tok, non sembra esserci un rischio reale di trasferimento dei dati sensibili al governo cinese, vi è invece un serio rischio di manipolazione, inquinamento e alterazione dell’informazione, che può indirizzare l’opinione pubblica su strade estremamente pericolose.

A tale proposito, TikTok è uno dei social mediaticamente più potenti in circolazione, con poche limitazioni in merito a tematiche delicate, ed è già ampiamente avviato su una strada che, da qualche anno è stata percorsa da X e si appresta ad essere percorrere anche Meta, che di recente ha annunciato lo stop al fact-checking e alle policy di inclusività, garantendo maggiore “libertà” anche a contenuti controversi, di natura politica e sociale.

Tornando ai dati, essi hanno un valore immenso e se risultano estremamente pericolosi se gestiti da una società cinese, una società di uno stato con cui gli usa sono in pino conflitto commerciale, diventano estremamente preziosi se gestiti dagli stessi USA, soprattutto se vicina al governo.

Vi è quindi una forte attenzione per la piattaforma estremamente rilevante in termini di interesse nazionale, e allo stesso tempo si può osservare come, a parità di attività, la piattaforma cinese sia maggiormente controllata e tenuta di analoghe statunitensi. Differenza di trattamento che potrebbe essere alla base dell’ipotesi di trasferire ad una società statunitense i servizi USA, e, tra le tante, quale società migliore della media company dell’uomo più potente e influente d’America?

Il paradosso di Trump

Va riconosciuto a Trump il merito, se così lo si può definire, di aver compreso per primo, il potenziale politico dei dati in possesso delle media company, e di essere stato tra i primi, nel 2020 a causa anche della trasformazione dei contenuti avvenuti durante la prima fase della pandemia, a vedere in TikTok una possibile minaccia, e, terminato il mandato presidenziale, una straordinaria risorsa.

Oggi Trump gode di un enorme seguito su TikTok, e molti analisti ritengono che è stato proprio tale seguito a permettere all’ex presidente di tornare alla casa bianca con le elezioni di novembre 2024, grazie a Tik Tok, Trump mantiene un contatto continuo e costante con il proprio elettorato, in particolare le frange più radicali che nel tempo sono state o si sono allontanate da altri social.

Per Trump quindi è di vitale importanza mantenere TikTok negli USA, ma il processo avviato nell’agosto del 2020 con il suo stesso ordine esecutivo, anche se rallentato, non si è fermato, ed ora il presidente si ritrova, ad inizio mandato, nella condizione di dover trovare una soluzione ad un problema creato da lui stesso alla fine del suo precedente mandato.

L’ipotesi Musk

L’insieme di questi fattori ed elementi, potrebbe essere alla base dell’ipotesi di una cessione dei servizi USA di TikTok ad Elon Musk, come anticipato, il patron di X e Tesla è estremamente vicino al presidente, qualcuno direbbe troppo vicino al presidente, inoltre avrà un ruolo chiave nel prossimo governo Trump, ed è proprio quella vicinanza una possibile scappatoia per TikTok di evitare il bando dagli USA.

Tale soluzione tornerebbe sicuramente vantaggiosa per Bytedance, che comunque dalle operazioni negli USA ha un notevole guadagno, su scala globale, secondo i dati annuali pubblicati da Bytredance, Tik Tok nel 2023 ha registrato ricavi superiori ai 120 miliardi di dollari, in crescita dispetto agli 80 miliardi del 2022 e secondo le proiezioni, nel 2024 potrebbero essere superiori ai 200 miliardi. Gli analisti concordano nell’osservare che tale crescita è legata soprattutto alla sempre maggiore presenza della piattaforma in occidente, in USA ed Europa.

L’accordo sarebbe vantaggioso anche per Musk, il cui social X nonostante la forte riduzione dei costi, continua ad avere profonde difficoltà economiche, principalmente per la fuga di numerosi investitori a seguito dell’acquisizione di twitter da parte proprio di Musk e una partnership tra X e Tik Tok, potrebbe riportare ad X parte degli investitori e colmare il divario tra X e il gruppo Meta.

Inoltre sarebbe vantaggiosa per Trump, che non perderebbe il suo principale strumento di comunicazione con gli elettori, e no, il suo social “truthsocial” non fa testo, l’utenza di Truth, oltre ad essere “poca” è anche poco attiva, inoltre è formata per lo più da sostenitori di Trump, è quindi sicuramente utile per mantenere i contatti con la propria base, ma totalmente inutile se si parla di espandere il consenso. Cosa che invece con TikTok è molto più semplice.

I vantaggi però non finiscono qui, oltre alla possibilità di evitare il bando dal mercato USA per TikTok, Bytedance potrebbe sfruttare la partnership con Musk per un ulteriore slancio in caso di quotazione in borsa. La holding cinese al momento non è quotata anche se nel 2022 prima sembrava essere pronta al debutto sul mercato.

I problemi di Musk pigliatutto

La possibile cessione dei servizi USA di TikTok ad Elon Musk se da un lato presenta numerosi vantaggi per tutti gli attori coinvolti, in realtà presenta anche diverse problematiche. E nessuna di queste riguarda il ruolo da monopolista di Musk, a tale riguardo l’acquisizione di Instagram e l’avvio di Threads da parte di Meta, rappresentano un significativo precedente. Musk potrebbe acquisire “TikTok USA” senza aver alcun problema con l’antitrust, tuttavia, come osservano i critici e detrattori del miliardario, sempre più simile ad un “Charles Foster Kane” dei nostri tempi, si ritroverebbe nella posizione di poter influenzare ancora di più l’opinione pubblica, almeno negli USA.

Ed è questo il problema forse più grande di un possibile accordo tra Musk e Bytedance, ma non solo. Se l’accordo dovesse rivelarsi reale e Bytedance riuscisse con questo accordo ad evitare il bando di TikTok dagli USA, ci verrebbe rivelata una grande e terribile verità, ossia il presidente Trump è irrilevante, se si vogliono fare affari negli e con gli USA bisogna negoziare con Musk, e negoziare per Musk ha un significato particolare, poiché in un negoziato ognuna delle due parti cede qualcosa finché non si giunge ad un punto d’accordo, un compromesso, ma Musk non è tipo da compromesso, la sua carriera e la sua storia sono segnati da soluzioni radicali, tutto o niente. C’è allora da chiedersi quanto è esteso questo tutto.

Tutta fuffa o …

Per quanto riguarda la possibile cessione o acquisizione, che dir si voglia, dei servizi USA di TikTok, ad Elon Musk, al momento c’è un fitto velo di incertezza, con dichiarazioni vaghe, informazioni non ufficiali e smentite più o meno ufficiali.

In un intervento rilasciato da TikTok a Bbc News, la società ha dichiarato di “non poter commentare pura fantasia”. Una smentita quindi, che però, purtroppo, vale poco o nulla, visto che eventuali negoziati relativi al futuro di TikTok in USA, in realtà, non riguardano TikTok, ma ByteDance.

Come è stato anche per il Project Texas infatti, la decisione di delocalizzare i dati degli utenti USA nei server Oracle, non è stata presa da Tik Tok, ma dalla holding che la controlla al 100%, ovvero ByteDance, che sulla vicenda dei servizi USA di TikTok, non si è ancora espressa, e probabilmente non lo farà.

Sorprende anche il grande silenzio di Musk, che solitamente non lascia trascorrere troppo tempo prima di dire la sua, soprattutto su un qualcosa che lo riguarda in prima persona. Guardiamo ad esempio all’ipotesi di accordo tra Starlink e il governo italiano, a poche ore dalla circolazione delle prime indiscrezioni sono intervenuti tutti gli attori coinvolti, in questo caso invece, Musk tace. Che questo silenzio sia indicativo di un accordo effettivamente in lavorazione? O forse il miliardario sta finalmente recuperando qualche ora di sonno? Per il momento è difficile a dirlo.

Trump dichiara ANTIFA un organizzazione terroristica, da non confondere con l’Antifascismo.

Washington DC erano le 18:23, (ora italiana) quando il presidente della prima democrazia al mondo, ha dichiarato che “Gli Stati Uniti d’America designeranno ANTIFA come organizzazione terroristica”, un tweet di Donald Trump che non lascia molto spazio all’immaginazione, ma che può può facilmente essere frainteso.

The United States of America will be designating ANTIFA as a Terrorist Organization.
-Donald Trump, 31 Maggio 2020…

Washington DC erano le 18:23, (ora italiana) quando il presidente della prima democrazia al mondo, ha dichiarato che “Gli Stati Uniti d’America designeranno ANTIFA come organizzazione terroristica”, un tweet di Donald Trump che non lascia molto spazio all’immaginazione, ma che può può facilmente essere frainteso.

Chiariamo una cosa quindi, Trump, non ha detto che gli USA tratteranno l’antifascismo come un organizzazione terroristica, ma ha ha scritto che gli USA tratteranno ANTIFA come un organizzazione terroristica.

Può sembrare la stessa cosa, ma non è assolutamente così, ANTIFA sta all’antifascismo come Al Qaeda sta all’Islam o come il KKK stava alla chiesa cattolica, sono cose diverse, sono cose diverse, la prima, ANTIFA, è una rete spontanea, la seconda, l’antifascismo, un Ideologia, e in quella rete spontanea, ci sono dei terroristi che, già in passato hanno compiuto attentati, così come ci sono persone con un ideale.

In ogni caso, Trump, non ha reso e non intende rendere l’antifascismo illegale, o considerare gli antifascisti dei terroristi, i soli che verranno considerati terroristi saranno coloro che, in nome dell’antifascismo, piazzeranno progetteranno o compiranno attentati.

Cerchiamo allora di mettere un po’ di ordine e capire cosa volesse dire Trump con quelle parole e perché le ha dette.

Che cos’è ANTIFA?

Qualcuno potrebbe giustamente chiedersi, cos’è ANTIFA? e la risposta più semplice è che ANTIFA, abbreviazione di anti fascist action o meglio si tratta di un movimento politico, apartitico, che quindi non si identifica in nessun partito politico, generalmente associata a valori di sinistra o anarchici, anche se tra padri del movimento vi erano numerosi uomini appartenenti anche e soprattutto ad altri ambienti politici, come la destra liberale.

L’intento di ANTIFA questo movimento di ispirazione antifascista è fondamentalmente uno, impedire, denunciare e opporsi alla nascita di movimenti di estrema destra di ispirazione fascista, che, al di la del nome del partito politico italiano degli anni venti, identifica una ben precisa ideologia politica di estrema destra sovranista e conservatrice che presenta al proprio interno alcuni elementi di socialismo nazionalista.

ANTIFA e Antifascismo

ANTIFA è un organizzazione di matrice antifascista, che quindi si ispira al manifesto politico dell’antifascismo scritto in italia nel 1925, redatto da Benedetto Croce e firmato, tra gli altri, da uomini del calibro di Giovanni Gentile.

Tuttavia, tra l’ispirazione antifascista e ciò che ANTIFA è effettivamente, c’è un intero mondo. Insomma, ANTIFA non è l’antifascismo, così come il partito comunista dell’unione sovietica non è il comunismo. All’atto pratico ANTIFA è un organizzazione spontanea, un collettivo, riconosciuto ufficialmente in alcuni paesi, come gli USA, ma che non ha un proprio organico o una propria sede ufficiale e in particolare, negli USA, già dal 2017, ANTIFA è sotto l’attenzione di diverse agenzie federali.

ANTIFA negli USA

Negli USA il movimento ANTIFA ha tratti molto radicali, e vede tra i propri militanti numerosi simpatizzanti dell’estrema sinistra ed anarchici, uomini e donne mossi da precise idee politiche antifasciste, anticapitaliste e anticlassiste che, non trovano spazio nella politica ufficiale fortemente centrista incarnata dai due grandi partiti Democratico e Repubblicano.

Negli ultimi anni, in particolare dall’elezione di Donald Trump, il movimento ANTIFA negli USA ha denunciato uno slittamento della politica nazionale, soprattutto negli ambienti repubblicani, verso l’estrema destra, slittamento incarnato dal trionfo del sovranismo di Trump e una politica federale ed estera sempre più protezionista e aggressiva. Questo spostamento ha fatto si che il movimento di ispirazione antifascista aumentasse la propria attività e il proprio attivismo, organizzando numerose manifestazioni, e in alcuni casi ricorrendo ad azioni violente, che hanno attirato l’attenzione delle agenzie federali per la sicurezza interna, in particolare l’FBI.

All’apice dei disordini partiti da Minneapolis dopo la morte dell’afroamericano George Floyd, causata da un agente di polizia, il movimento ANTIFA di Minneapolis, già noto ai federali per il proprio temperamento, si è reso protagonista delle manifestazioni, e degli scontri con le forze dell’ordine, provocando, tra le altre cose, atti vandalici e criminali, il tutto elevando una dialettica per cui la violenza della polizia contro le rappresaglie succedute all’omicidio di George Floyd, venivano associate al fascismo.

My 2 Cent

Ho voluto riassumere eventi e concetti così da gettare le basi per quelle che saranno le mie personali conclusioni.

Appena ho letto la notizia ho subito pensato “ok, Trump ha reso illegale l’antifascismo negli USA” in realtà non è proprio così, ANTIFA e Antifascismo, come specificato, sono cose diverse, anche se, spesso associate impropriamente, per intenderci, ANTIFA sta all’Antifascismo come Al Qaeda sta all’Islam e in teoria, condannare ANTIFA non significa condannare l’Antifascismo.

In teoria, all’atto pratico ANTIFA è percepito come l’incarnazione stessa dell’antifascismo e dunque, dichiarare ANTIFA un organizzazione terroristica, significa puntare il dito contro l’antifascismo in generale. Questo non significherà che chiunque si dichiarerà antifascista negli USA verrà arrestato e portato in prigioni come Guantanamo, o che si ricorrerà al Patrioct ACT per arrestare antifascisti e organizzazioni antifasciste nel paese, del resto, negli USA non si viene arrestati perché islamici, ma, e c’è un enorme ma, se a livello giuridico ANTIFA e Antifascismo sono cose separate, per l’opinione pubblica non è così, per l’opinione pubblica ANTIFA è l’Antifascismo, e questo è un grosso problema.

Apro una parentesi sul patrioct act, per chi non sapesse di cosa si tratta, è una legge speciale varata dopo l'11 settembre 2001 che attribuisce alle forze dell'ordine poteri speciali in caso di terrorismo o minacce alla sicurezza nazionale, e per poteri speciali si intende che i sospettati possono essere interrogati senza un avvocato, possono essere arrestati senza mandato, possono essere trattenuti in cella per più di 24 ore, inoltre, le forze dell'ordine non hanno limiti nell'uso della forza. 

Parlando di problemi, forse per i Democratici statunitensi è una fortuna che Bernie Sanders abbia scelto di ritirarsi dalla corsa alle presidenziali, poiché da giovane e ha lo ha ribadito di recente, Sanders si è dichiarato Antifascista, e vista l’impropria associazione tra ANTIFA e antifascismo… ma questa è un altra storia.

Parlando dell’impatto di queste dichiarazioni sull’opinione pubblica, in un momento di grande tensione come questo, in cui ANTIFA si è reso protagonista degli scontri con la polizia a Minneapolis, e numerosi movimenti antifascisti stanno guidando manifestazioni, pacifiche e non, il rischio che queste manifestazioni d’ora in avanti assumano tratti più violenti, non è da escludersi.

Cito i fatti di Minneapolis perché c’è una connessione diretta tra le cose, qualcuno potrebbe pensare che è curioso che, questa dichiarazione di Trump, cada proprio in questo momento, ma la verità è che non è un caso, guardiamo allora al quadro generale.

Mentre il popolo USA protesta contro gli abusi delle forze dell’ordine e della polizia e i manifestanti definiscono Fascisti i poliziotti USA e la polizia reprime le manifestazioni in USA quasi peggio di quanto la non stia facendo la polizia Cinese ad Hong Kong, il presidente Trump, amico dei Sovranisti dichiari di voler trattare ANTIFA come un organizzazione terroristica.

La realtà è che questa dichiarazione, all’atto pratico, non significa nulla, ci sono collettivi ANTIFA negli USA che già ora sono monitorati dall’FBI sospettati di essere terroristi e sovversivi, così come ci sono associazioni di supremachisti bianchi sotto la lente dell’FBI, ma ci sono anche collettivi ANTIFA in cui militano poliziotti, figli di poliziotti, nipoti di militari veterani della seconda guerra mondiale che il fascismo, quello vero, lo hanno combattuto.

Ciò che credo accadrà in seguito a queste dichiarazioni, ha un carattere soprattutto politico, non necessariamente negativo, ma certamente non positivo. Molto probabilmente seguiranno distorte dichiarazioni da parte di politici statunitensi e stranieri, che fingendo di non capire la differenza tra ANTIFA e Antifascismo, punteranno il dito contro l’antifascismo, e questo lo vedo molto probabile soprattutto in paesi come l’Italia. Credo ci sarà maggiore disordine sociale e credo che le manifestazioni negli USA si inaspriranno, soprattutto da parte della polizia.

Per quanto riguarda ANITFA in generale, se i suoi militanti piazzano bombe carta, distruggono e saccheggiano negozi e assaltano centrali della polizia, non serve che il presidente li dichiari pubblicamente terroristici, perché neanche negli USA il presidente è il giudice supremo dello stato, chi commette dei crimini deve essere arrestato e giudicato di fronte alla legge, e nel rispetto della legge. Non dovrebbero esistere eccezioni, o distinzioni, come le eccezioni per i terroristi o presunti tali, ne dovrebbero essere fatti dei distinguo tra le varie organizzazioni criminali di estremisti religiosi o politici.

Con questo cosa voglio dire?

Voglio dire che se un uomo, bianco, entra in una moschea e urla “make america great again” prima di aprire il fuoco e fare una strage, non può essere trattato diversamente da un uomo, di colore, che entra in una chiesa e urla “allah akbar” prima di aprire il fuoco e fare una strage, purtroppo però, queste differenze, soprattutto negli USA ci sono, il colore della pelle o l’orientamento politico, fanno la differenza tra un attentato terroristico e il gesto di un folle.

Conclusioni

In conclusione Trump non ha reso illegale l’antifascismo, ne ha dichiarato di voler rendere illegale l’antifascismo, il dito di Trump è puntato contro un organizzazione, che già ora, e da diversi anni, è sotto l’occhio delle agenzie federali, e che ha compiuto diversi attentati terroristici. ANTIFA non è un organizzazione terroristica, e Trump non ha il potere di trasformare arbitrariamente un movimento politico in un organizzazione terroristica.

Tra l’altro, la propaganda statunitense durante la seconda guerra mondiale, era di matrice antifascista, la missione degli USA era quella di liberare l’europa dal fascismo e dal nazismo, dichiarare illegale l’Antifascismo, significherebbe screditare gli eroi americani che hanno combattuto e sono caduti durante la seconda guerra mondiale e legittimare il nome di Hitler e Mussolini.

Persino Trump, nella sua follia, sa perfettamente che una cosa del genere, probabilmente gli costerebbe una condanna per tradimento.

WE THE PEOPLE || Il ruolo delle masse popolari nella storia

Il consenso delle masse popolari fu fondamentale per l’ascesa al potere di Ottaviano, che grazie al ad esse e all’appoggio del senato, poté governare e fino a trasformare in maniera profonda e radicale la struttura amministrativa e istituzionale di Roma. Esse furono determinanti nella trasformazione del culto di Iside, da culto proibito a culto prima tollerato e poi addirittura ufficialmente praticato dall’imperatore Vespasiano, e in tempi più recenti, le masse popolari si sarebbero dimostrate estremamente significative per l’affermazione di movimenti come il Nazional Socialismo, che avrebbe portato alla presa di potere di Adolf Hitler in Germania.

Determinare e capire qual è il ruolo storico delle masse popolari rappresenta una delle grandi problematiche della storiografia contemporanea, di forte ispirazione marxista, ed è al contempo, una tematica di estrema attualità.
Secondo il marxismo ortodosso, le masse popolari hanno un ruolo centrale nel determinare le grandi correnti ed i grandi eventi della storia, esse sono presentate come uno dei motori più potenti della storia, se non addirittura, il solo, vero cuore pulsante della storia, esse sono anonime, senza volto ne nome, ma costituiscono la base da cui i grandi protagonisti della storia hanno potuto elevarsi e ricoprire il posto di rilievo per cui sono divenuti noti. In quest’ottica la storia non è determinata dalle azioni di pochi grandi uomini, ma dall’operato e dal lavoro di milioni di uomini che nell’ombra hanno permesso a quei pochi uomini di essere ricordati.
Napoleone non sarebbe Napoleone senza gli eserciti al suo seguito, senza i soldati pronti a morire per quegli ideali, Colombo non avrebbe scoperto le Americhe senza il suo equipaggio, e così per Hitler, Lienin, Washington, Cromwell, Garibaldi, Ottaviano, Carlo V, il Saladino ecc ecc ecc.
Questa visione storiografica come dicevamo è di forte ispirazione marxista, e sarà centrale nel dibattito pubblico e accademico soprattutto negli anni successivi alla seconda guerra mondiale e per tutti gli anni cinquanta e sessanta, e in larga misura almeno fino ai primi anni novanta.
Ma prima di Marx, le masse popolari, cosa come erano viste dagli storici e che ruolo avevano nella storia?
Per lungo tempo, almeno fino alla seconda metà del diciottesimo secolo, le masse popolari erano considerate in maniera estremamente marginale e quasi insignificante sul piano storico e storiografico. Tutto questo però, inizia a cambiare con l’illuminismo e con l’affermazione della classe borghese, qui Marx potrebbe storcere il naso di fronte a queste mie parole, e pure, se le masse popolari, operaie e contadine, da un certo momento in poi, hanno potuto assumere una propria identità di fronte alla storia, questo è proprio grazie all’affermazione della classe operaia, la cui pretesa di attenzioni dalla società tradizionale, ed il desiderio di penetrare in quel mondo elitario, fino ad allora territorio esclusivo della nobiltà, ha portato ad uno stravolgimento degli equilibri tale da permettere anche alle masse popolari di entrare in quella storia di cui erano sempre state parte, come attori silenziosi, celati nell’ombra dei grandi avvenimenti, e in questa analogia con il teatro, le masse popolari possono essere percepite come l’esercito invisibile di tecnici, truccatori, costumisti ecc ecc ecc che anonimi si muovono dietro le quinte, permettendo allo spettacolo di andare avanti.
Gli ideali illuministici avrebbero portato all’affermazione dell’individuo e all’indipendenza delle colonie americane dal dominio britannico, creando così uno stato libero dal’antico dominio nobiliare, costruito e guidato per la prima volta nella storia da una leadership totalmente borghese; uno stato, dove la ricchezza ed il potere non erano predeterminati dalla nascita, ma frutto di lavoro, di volontà, e capacità (e anche un po dalla fortuna) dei singoli individui. Insomma, una nazione in cui un taglia-gole e un contrabbandiere potevano sedere al tavolo con gli uomini più potenti della nazione, senza che questi li guardassero con disprezzo. Qualcosa di analogo era già avvenuto a Roma, dove la grande mobilità sociale avrebbe permesso al nipote di un esattore, di accedere alle più alte vette politiche, fino a diventare Re, Console e Imperatore.
All’indipendenza americana avrebbe fatto seguito in europa, con qualche decennio di distanza, la rivoluzione francese e con essa l’avvento di Napoleone Bonaparte, che potremmo definire come l’uomo in grado di incarnare gli ideali rivoluzionari, e soprattutto l’uomo in grado di esportare, su larga scala, quegli stessi ideali. Napoleone avrà fama e fortuna in tutta europa e a suon di battaglie combattute dal Popolo per i Popoli, potrà mettere in ginocchio l’aristocrazia tradizionale, almeno fino al momento della sua sconfitta. Ma la sconfitta di Napoleone non significa e non può significare un ritorno al passato, i suoi contemporanei sono consapevoli che il mondo era cambiato, troppi anni erano passati tra il 1789 ed il 1814 affinché si potesse tornare al passato senza conseguenze, in quegli anni del sangue era stato versato per la libertà e per l’uguaglianza, figli non divennero mai padri, e madri videro cadere i propri figli per quel sogno di libertà; i nobili non potevano più governare mossi dai propri capricci, devono ascoltare o almeno provare ad ascoltare il popolo, un popolo che non avrebbe esitato un solo istante a scendere nuovamente in piazza e impugnare le armi contro i propri sovrani, e così sarebbe stato 1820, 1830 e in fine nel 1848.
Il 1848 è il momento decisivo, è lì che si sarebbe compiuta la magia, la rivoluzione del 48 rappresenta l’affermazione definitiva della volontà popolare sulla nobiltà, e non è un caso se il 12 Febbraio del 48 a Londra sarebbe stato pubblicato il manifesto del partito comunista. I moti del 48 esplodono più o meno nello stesso periodo e si espandono rapidamente in tutta europa, ma al di la della nazione e dei popoli in piazza, la richiesta, anzi, la pretesa è sempre la stessa, i popoli d’europa chiedono un parlamento eletto a suffragio universale ed una carta costituzionale scritta dal parlamento e non concessa dal sovrano. Queste richieste rappresenteranno l’ultimo chiodo sulla bara dell’antico regime, che da oltre 50 anni, tenta in vano di sopravvivere.
Da qui in avanti le masse popolari avranno la capacità, conquistata nelle piazze e con le armi, di nominare e deporre sovrani, di stabilire l’entrata o l’uscita da una guerra, si pensi in questo senso alla Russia, le cui rivoluzioni del 1917 sono forse il punto più alto del potere politico determinato dalla volontà popolare, e ancora, si pensi all’ascesa al potere di Hitler o la deposizione del Re d’Italia e la conseguente nascita della Repubblica italiana.
Il 1945 e con esso la fine della seconda guerra mondiale segnano una temporanea interruzione, almeno nel mondo occidentale, di questa sorta di età dell’oro delle masse popolari. I crimini commessi in Europa dal Nazismo (e non solo), producono un drastico cambiamento di rotta. Si afferma a livello politico l’idea che la volontà popolare da sola non è in grado di governare un popolo, poiché da sola, ha permesso ad Hitler di governare in Germania, con tutte le conseguenze che ciò avrebbe comportato, gli storici di stampo liberale vedono nei fascismi europei e nell’unione sovietica il fallimento del potere popolare, sottolineando i limiti delle sue capacità di giudizio. Ci si rende conto che le masse popolari, soprattutto le plebi rurali, contadini e operai, possono essere facilmente plagiate e manipolate, fino al punto in cui queste arriveranno a credere ad ogni sorta di bufala propagandistica raccontata loro dal manipolatore di turno. Contemporaneamente i pilastri della terra iniziano a radicarsi nelle roccaforti economiche e finanziarie del pianeta, così, il lungo diciannovesimo secolo, iniziato con l’indipendenza americana e l’affermazione della borghesia sull’aristocrazia, si conclude con la seconda guerra mondiale, donando alla civiltà occidentale, una nuova aristocrazia dal “sangue verde”, figlia dell’indipendenza americana e il cui potere è legittimato da un nuovo dio denaro.
Lo spostamento del potere dalle masse popolari alla nuova borghesia capitalistica, è un processo in corso fin dalla rivoluzione americana, ma dopo la seconda guerra mondiale, e soprattutto con il fallimento dell’esperienza del socialismo reale nell’Unione Sovietica, subirà un accelerazione tale da trascinare in poco più di un decennio, il mondo intero (o meglio, gran parte parte del mondo) in un ottica capitalistica.
Il potere, soprattutto in europa è andato progressivamente rifugiandosi in meccanismi e istituzioni sovranazionali, delegando sempre di più e sempre più spesso, le scelte per il proprio futuro. Così, all’alba del terzo millennio, tra guerre, calamità naturali e crisi economiche, come forze reazionarie spinte da un’apparente perdita di potere decisionale, ritornano degli echi del Volksgeist, lo spirito del popolo, e lentamente le masse, aiutate dal web, tornano in piazza, ma a differenza del passato, le piazze del terzo millennio sono virtuali, in cui tutto è più rapido, tutto è più immediato, e la manipolazione più efficace. Qui, i nuovi Hitler più semplicemente che in passato, possono creare i propri squadroni, militanti, pronti a rivendicare, per se stessi e in nome del popolo, un posto centrale nel determinare l’evoluzione storica del mondo, nascono così sempre nuovi e più numerosi movimenti popolari di fede ipernazionalista e individualista, camuffati da movimenti collettivi e sociali. Questi movimenti rivendicano il benessere e la dignità dell’uomo, e si ripropongono di creare equità sociale, ottenendo facili consensi, ma paradossalmente, per raggiungere i propri fini, sistematicamente negano, nelle loro stesse intenzioni, benessere, dignità ed equità sociale, a minoranze etniche e religiose.
E così, in quei movimenti, le cui parole offuscata ed ubriacano le menti dei popoli, risorgono gli ideali che negli anni più oscuri del novecento, avevano portato alla sistematica distruzione di vite umane, dimenticando troppo facilmente i crimini del Nazismo furono anche i crimini del popolo tedesco, oltre che di tutti i popoli europei del mondo, ma soprattutto, per citare la Hannah Arendt, furono i crimini della stupidità umana, una stupidità che oggi come allora è molto diffusa, una stupidità che deriva dall’incapacità di vedersi realmente nei panni dell’altro.
I nostri antenati hanno peccato di superficialità, permettendo e la loro più grande colpa è quella di essersi opposti al nazismo, ma anzi, di averlo sostenuto e appoggiato, nonostante i suoi programmi ed i suoi piani, furono ampiamente esposti e largamente condivisi per molto tempo, prima che la guerra iniziasse per ragioni unicamente politiche.
Il consenso popolare ha permesso ad Hitler, Napoleone, Ottaviano e molti altri, di governare indisturbati (o quasi) mentre privavano di significato le istituzioni repubblicane. Il popolo li sosteneva perché in grado di proteggere il proprio popolo, la propria nazione, da ogni interferenza esterna, e mentre si presentavano al popolo come baluardi della nazione, se ne impossessavano, creando degli imperi e instaurando monarchie o dittature.
Il nostro mondo e il nostro tempo sono avvolti da quelle stesse tenebre che settant’anni fa distruggevano l’europa, non con le bombe, non con gli aerei, ma con le idee, e se allora l’europa perdeva la propri umanità trasformando gli uomini in numeri, oggi come allora, si costruiscono muri ideologici, culturali e fisici, nati per dividere gli uomini dagli altri, quelli che noi non siamo, quei muri portano il mondo occidentale a voltarsi dall’altra parte quando un uomo, uno degli altri, non è più un uomo ma un clandestino, e può morire in mare, in un tunnel o in un furgone, muore di fame perché ha perso il suo lavoro o una bomba ha distrutto la sua casa.
Quei muri privano gli uomini della propria dignità di essere umano, e distruggono ancora una volta il potere del popolo, concentrandolo nelle mani di opportunisti e manipolatori, pronti a costruire sulle macerie della nostra civiltà in crisi.
La storia ci ha insegnato l’estremizzazione di movimenti popolari e nazionalistici può portare ad una sola inevitabile conclusione, la fine di ogni ordinamento repubblicano e democratico, e la concentrazione di poteri straordinari nelle mani di un singolo uomo, sia esso Ottaviano, Cromwell, Napoleone, Hitler, Stalin, Putin o Trump.

Trump non ha vinto le elezioni, è la Clinton ad aver perso.

Questa infografica è molto interessante, mostra i risultati delle elezioni presidenziali nei USA, dal 2008 ad oggi.

Il primo dato interessante a mio avviso è quello legato al numero di elettori Repubblicani, numero che nel 2008 sfiorava i 60 milioni, nel 2012 li superava appena è nel 2016 torna a sfiorarli.
Insomma un dato espressivo di continuità e coerenza potremmo dire da parte dell’elettorato che resta fedele al partito e agli ideali di partito , indipendentemente dal candidato.
Guardiamo ora il dato degli elettori Democratici, nel 2008 si sfiorano i 70 milioni, nel 2008 superano di poco i 65 milioni e nel 2016 sfiorano i 60 milioni.

Questo dato è molto significativo perché mostra una iniziale fiducia, potremmo dire, in Obama, che è andata diminuendo nel tempo, per via della crisi economica/finanziaria , per la politica estera e tanti altri fattori che non staremo qui ad elencare.
Obama, nel 2008 era un volto abbastanza nuovo, certo, aveva una lunga e brillante carriera politica alle spalle, ma di fatto era in uomo nuovo, che con lavoro, impegno e dedizione era giunto ai vertici del potere USA. Una storia personale completamente diversa invece è quella di Hilary Clinton, nome più che noto all’elettorato statunitense. Questa notorietà comporta una problematica inevitabile. Gli americani, e soprattutto gli elettori democratici, conoscevano o comunque credevano di conoscere, molto bene, quella che sarebbe stata, nell’atto pratico e al di là delle promesse elettorali, la linea d’azione di un eventuale presidenza della Clinton.

Queto elemento è estremamente importante ed è il principale fattore di distinzione tra lei e Obama nel 2008.
Come già detto, n 2008 otto Obama era un “volto nuovo“, nel 2012 era un volto noto, e questa notorietà, unita al precedente mandato ha comportato una perdita sostanziosa dei propri elettori, che molto probabilmente hanno preferito esimersi dal voto, notiamo infatti che, nel 2012, se da una parte gli elettori Democratici sono in calo rispetto al 2008, i Repubblicani restano pressoché invariati, non vi è quindi un anomalo cambio di fede politica. Questo calo dell’elettorato democratico continua ulteriormente nel 2016 scendendo a 60milioni circa, un numero sicuramente importante ed elevato, che di fatto regala alla Clinton un centinaio di migliaia di voti in più rispetto al suo avversario Trump ma che nella realtà politica statunitense, non hanno il peso necessario per la conquista di uno stato e dunque ininfluenti al fine delle nomina presidenziale.


Cosme possiamo dedurre da questi dati ?

Questi risultati lasciano alla politica statunitense e soprattutto al partito Democratico un importante lezione. Innovazione, rinnovazione e cambiamento sono elementi fondamentali per la sopravvivenza degli USA e del partito Democratico, senza questi elementi, inseguendo una politica statica di tipo tradizionale, proponendo le solide idee che poi non verranno messe in pratica, proponendo i soliti volti e nomi, la sfiducia continuerà a crescere portando ad una sempre maggiore astensione dei propri elettori.

Tra il Barack Obama del 2008 e Hilary Clinton nel 2016 ci sono 10 milioni di voti. 10 milioni di Americani che non hanno votato perché , molto probabilmente non si sentivano abbastanza rappresentati na l’uno o l’altro candidato (metto in mezzo anche Trump).

Lo stesso discorso può essere applicato anche al partito Repubblicano, dove però, la fede di partito e non nell’uomo (o la donna) sembra essere notevolmente più radicata.
In conclusione, Donald Trump ha vinto queste elezioni quasi a tavolino, conquistando la base elettorale del partito Repubblicano, circa 60 milioni di elettori, ma no uno di più. Dall’altra parte, Hilary Clinton ha faticato nel conquistare anche la sola base “storica” del partito Democratico, e non so fino a che punto ci sia effettivamente riuscita.
Un ultimo dato da tenere in considerazione, il popolo americano conta circa 317 milioni di persone, di cui circa 2/3 in età per votare. L’elettorato complessivo degli stati uniti si aggira appena al di sotto dei 200 milioni.
N 2008 , la più sentita e partecipata delle elezioni degli ultimi 10 anni, hanno votato circa 130 milioni di Americani, nel 2016, dieci milioni (di democratici?) in meno, ovvero, 120 milioni, e questo ovviamente è molto significativo.

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Spero di non avervi annoiato troppo con queste osservazioni, se il post è stato interessante vi invito a condividere e lasciare un pollice in su, se avete domande invece, usate pure i commenti