LINEA GOTICA. L’offensiva finale. Aprile 1945 – Intervista all’Autore Massimo Turchi

Qualche tempo fa, grazie a Diarkos Editore, ho avuto modo di intervistare Massimo Turchi, autore di una trilogia di libri sulla Linea Gotica, la cui ultima fatica si intitola Linea Gotica – L’offensiva Finale, aprile 1945.

Grazie all’editore ho avuto anche la possibilità di sfogliare il libro in anteprima, ma per questioni di tempo, organizzazione e festività, non sono riuscito a realizzare una guida alla lettura in tempo, ma ho avuto il piacere di scambiare comunque qualche email con l’autore e di seguito riporto la nostra intervista integrale.

Introduzione all’intervista a Massimo Turchi

Buongiorno, come anticipato, ecco alcune domande per l’intervista.
Come potrà notare, ho preferito dare più spazio a lei, alla sua attività di ricerca e di divulgazione che non al libro in sé, da storico e divulgatore, ciò che mi interessava capire e raccontare ai miei lettori è cosa l’ha portata a scrivere questo libro, cosa l’ha spinta a scegliere determinate fonti, e cosa l’ha portata a raccontare determinate storie.

Sono tre domande che avrei potuto porre in modo diretto, secco, ma in quel modo, temo si sarebbe persa una parte importantissima che è la sua storia personale in relazione alla linea gotica, che invece è ciò che mi interessa offrire ai miei lettori.

L’Intervista

Di libri che parlano e raccontano le vicende della linea gotica ce ne sono diversi, alcuni, come credo sia anche il suo, portano con sé un’eredità storica, e non ho potuto resistere alla tentazione di cercare di capire quale eredità desidera lasciare ai suoi lettori.

Partiamo dalla domanda più semplice, che quasi certamente le avranno già posto.

Da quel che ho potuto osservare lei ha dedicato una parte significativa della sua vita allo studio della linea gotica, e quindi, banalmente le chiedo, cosa ha acceso in lei questo interesse così profondo?

Nel farle questa domanda ho in mente la prefazione del testo Peccati di Memoria, la mancata Norimberga italiana, di Michele Battini, che fu mio docente di storia politica all’Università di Pisa.

La trilogia della Linea Gotica nasce dai racconti delle persone che hanno vissuto la guerra. Se devo indicare una data, questa è sicuramente il giugno del 2002, quando con l’associazione “Vecchia Filanda” abbiamo organizzato un convegno sulla battaglia della Riva Ridge, combattuta nel febbraio 1945. Per l’occasione abbiamo invitato soldati americani, tedeschi e i partigiani per parlare delle loro esperienze vissute durante la battaglia. Ascoltare i loro ricordi, vedere negli occhi le emozioni che avevano vissuto sulla Riva Ridge mi ha spinto ad approfondire storicamente le vicende belliche. Da quel momento – per me – il luogo dove questa battaglia è stata combattuta, non più stato lo stesso: è diventato catartico. Quindi con l’associazione abbiamo dato vita all’esperienza della metodologia didattica del “diorama vivente” con lo scopo di far “toccare con mano” agli alunni e agli adulti le storie delle persone che su quei monti hanno intrecciato parte delle loro vite e i traumi vissuti.

La seconda domanda è quasi consequenziale alla prima, da quanto ho potuto leggere, il suo interesse e la sua passione per la storia e le vicende che hanno caratterizzato la linea gotica durante la seconda guerra mondiale, l’hanno nel tempo a raccontarla in vari modi e attraverso vari strumenti, uno tra tutti l’associazione “Linea Gotica – Officina della Memoria” di cui ad oggi è presidente.

L’associazione Linea Gotica – Officina della Memoria, nasce proprio da quell’esperienza, con l’obiettivo di proporre una nuova narrazione dei luoghi della memoria: una narrazione a 360 gradi, ovvero dove sono presenti tutti i diversi punti di vista, tenendo però sempre ben presente cosa significava combattere per una parte o per l’altra. È quindi una narrazione che vuole suscitare domande, rompere la dicotomia buono vs. cattivo.

Con la vostra associazione raccontate la linea gotica mantenendo un contatto diretto con i  luoghi della memoria e questo mi porta alla domanda vera e propria.

Quanto è importante, secondo lei, il legame fisico con il territorio per comprendere appieno gli eventi della Linea Gotica e l’esperienza di chi li ha vissuti?

Sì, per noi il luogo è la componente fondamentale della narrazione, è il mezzo dove si riesce a ri-creare il collegamento con l’evento storico. Uno dei nostri obiettivi, se non il principale, è proprio quello di riportare le esperienze vissute dalle persone nei luoghi dove sono accadute.

Da quel che leggevo nel testo, il suo è un approccio narrativo “bottom up“, che per chi non lo sapesse, parte dalle storie locali e dalle esperienze personali per arrivare a temi più generali. In altri termini la sua narrazione è un ibrido tra la metodologia di rilevazione etnografica e la narrazione micro storica. Non mi ha quindi sorpreso trovare nella bibliografia di riferimento un testo di Mario Alberto Banti, anche lui è stato mio docente, di Storia Culturale, all’Università di Pisa.

Leggi la mia “Recensione” di wonderland di Mario Alberto Banti

Volevo quindi chiederle, quali sono le influenze che l’hanno ispirata, se ci sono autori, storici, saggisti, ricercatori, ecc, che hanno ispirato il suo lavoro sia nella metodologia che nella narrazione?

In breve, l’idea di una narrazione di questo tipo è nata spontaneamente, dopodiché ho letto tantissimi libri di molti autori storici, ma anche di psicologi sociali. Il punto è che la guerra, per chi l’ha vissuta, è un trauma che ha avuto delle conseguenze a livello di relazioni familiari più o meno importanti, ovviamente a seconda del tipo di trauma che la persona ha vissuto. Il focus di questa narrazione è però rivolto al pubblico, soprattutto ai ragazzi, in modo da suscitare in essi un interesse e soprattutto un invito a porsi delle domande. Se devo citare un autore cito James Hillman e il suo testo “Un terribile amore per la guerra”, ma ce ne sono moltissimi altri altrettanto importanti.

La maggior parte dei testi legati alla seconda guerra mondiale, o almeno, quelli che generalmente sono più apprezzati da un pubblico generalista, riguardano soprattutto aspetti militari e politici, lei invece, ha preferito le esperienze umane, e in un contesto complesso e delicato come quella parte di mondo tra il 1943 e il 1945, non è facile da gestire, soprattutto a livello personale. Parliamo di traumi, stragi e sofferenze, raccontata sulla base anche di testimonianze dirette. Personalmente quando per alcuni esami e relazioni all’università, mi sono ritrovato a leggere testimonianze di ciò che accadeva quotidianamente lungo la linea gotica, confesso di aver riscontrato non poche difficoltà, soprattutto sul piano emotivo.

Mi viene quindi quasi naturale chiederle, come ha gestito, a livello personale, il carico emotivo derivante dall’immergersi in queste storie così drammatiche per così tanti anni? 

Guardi, ho iniziato a fare le prime interviste nel 1995, poi, in maniera più sistematica a partire dal 2002. Tutte le persone che ho conosciuto o di cui ho letto le testimonianze le porto con me e quando mi reco sui luoghi di memoria, quelle persone, i loro occhi, le loro storie sono lì.

Comunque non è semplice, anche se, a mio avviso, andava fatto.

Il tempo, mi rendo conto, essere un elemento ricorrente in questa intervista, lei ha iniziato a lavorare, in maniera diretta o indiretta, a questo libro, nel lontano 2002, sono passati 23 anni da allora, e in così tanto tempo, immagino che di storie ne abbia sentite tante, di domande ne abbia fatte e ricevute tante, e, prometto che è l’ultima domanda legata al tempo.

Volevo chiederle se e come è cambiato il suo approccio narrativo e storiografico in questo lungo percorso. 

Sì, col tempo l’approccio è cambiato, si è sempre più affinato, per cercare di rendere più efficace la narrazione, dando un risalto maggiore al testimone, senza mai trasfigurare l’umiltà delle persone.

Non so se ha avuto modo di notare, ma i testimoni che ho riportato nella trilogia sono sempre persone semplici: soldati, partigiani, civili, parroci e altro, difficilmente troverà gli alti comandanti, perché quello che mi interessava, e mi interessa tuttora, è la storia delle persone semplici, umili.

Ogni tanto una domanda sul libro forse dovrei farla. Nella prefazione a cura di Mirco Carrattieri, viene evidenzia la presenza di ben trentotto nazionalità sugli Appennini durante quel periodo.

Nel suo lavoro di ricerca e scrittura, come ha cercato di dare voce o rappresentare questa incredibile diversità di esperienze e provenienze che hanno composto il fronte della Linea Gotica?

L’aspetto della multiculturalità della linea Gotica è un aspetto che non viene quasi mai colto e che invece, a mio avviso, rappresenta un enorme interesse. Nella trilogia ho cercato di puntare molto sulla multiculturalità, cercando testimonianze di soldati delle trentotto nazioni (all’epoca, oggi cinquantadue) e delle minoranze all’interno delle stesse nazioni: penso ai maori della Nuova Zelanda, agli irlandesi del Regno Unito e del Canada, ai nativi americani, così come agli afroamericani o ai Nisei, o alle stesse minoranze presenti nell’esercito indiano, ai brasiliani, alle varie confessioni religiose: cattolici, ebrei e molto altro. Persone quindi che provenivano da società molto diverse da quella italiana con la quale hanno interagito e, comunque, lasciato un segno del loro passaggio. Mi permetto di rimandare all’Introduzione al primo volume dove analizzo proprio la complessità e la “ricchezza” della linea Gotica in questo senso. 

Più in generale, un concetto che traspare è che per lei ogni testimonianza e documento rappresentano solo una parte di una storia enormemente più ampia e complessa. Di storie da raccontare lungo la linea gotica ce ne sono infinite, e di fronte a scenari così grandi, densi di elementi, scegliere un punto di partenza, un punto d’arrivo, e una strada da percorrere, può non essere facile.

Come ha affrontato lei la difficile sfida di ricostruire eventi complessi basandosi su fonti spesso parziali, frammentarie o in alcuni casi contraddittorie?

Sì, ha ragione, sicuramente non è stato un lavoro semplice, ho dovuto privilegiare i territori coinvolti nelle direttrici di sfondamento principale delle armate alleate, da quando è iniziata l’operazione di sfondamento della linea Gotica (fine agosto 1944), fino al raggiungimento del fiume Po (fine aprile 1945). Dichiarato così i confini cronologici e geografici, il resto del lavoro è stato quello di ricercare quegli eventi – non solo bellici – funzionali alle azioni di sfondamento della linea Gotica. Con questo lavoro meticoloso di ricerca alcune volte mi è capitato di evidenziare episodi quasi sconosciuti, a scapito di altri sopravvalutati.

Il confronto tra le tante fonti è stato fondamentale, e questo mi ha permesso di arricchire di particolari la narrazione dell’evento, componendo così la complessità che stavo cercando. A volte è capitato – per fortuna in pochissimi casi – di trovare contraddizioni tra le fonti; comunque leggendo a fondo, leggendo anche tra le righe, quelle contraddizioni si sono via via sfumate.

Non ho potuto fare a meno di notare che negli “Aggiornamenti” lei presenta nuove scoperte e, cosa più importante, corregge errori precedenti. Questo ammetto che mi ha colpito, perché dimostra un impegno notevole e costante che ha come fine quello di raccontare gli eventi della linea gotica per ciò che furono, con distacco e professionalità storiografica. Ma mostra anche un evidente desiderio di trasparenza nei confronti del lettore.

La ringrazio per averlo notato. Sì, ho voluto una sezione “Aggiornamenti” per il secondo e per il terzo volume perché dalla pubblicazione dei primi due la ricerca storica è proseguita e mi sembrava doveroso tenerne conto. L’editore poi mi ha concesso di creare una pagina internet gratuita, dove i lettori possono scaricare strumenti utili alla consultazione dei tre volumi e gli ulteriori Aggiornamenti dei libri che verranno pubblicati in futuro.

La domanda che segue a queste osservazioni quindi, non può che essere una. Al di là della ricostruzione storica, qual è il messaggio o l’eredità principale che spera di lasciare ai lettori con questa monumentale opera sulla Linea Gotica? Che per inciso, non mi riferisco al libro, ma all’interezza della sua attività di ricerca e divulgazione della linea gotica.

Cosa vorrebbe che rimanesse, in particolare alle nuove generazioni, di queste “Storie”?

I messaggi sono due. L’invito a visitare i luoghi di memoria e i piccoli musei sparsi che custodiscono le memorie locali degli eventi. Il secondo è di provare a mettersi nei panni delle persone che hanno vissuto – forse sarebbe più appropriato dire subìto – la guerra, per evitare che accada di nuovo.

Considerazioni finali 

L’intervista con Massimo Turchi è stata molto interessante, almeno per me, e spero anche per voi. Parlando e confrontandomi con lui ho potuto notare una reale e autentica passione nel raccontare un angolo di mondo, vicende storiche e storie di persone che di quel mondo e quelle vicende ne sono stati testimoni più o meno diretti.

Si tratta di un sentimento comune che ho riscontrato spesso lungo le vie della linea gotica, il più acceso e caldo fronte della seconda guerra mondiale, un luogo di memoria che fu testimone di massacri indicibili e crimini atroci, dettati dalla più feroce crudeltà umana, camuffata da ideologia politica.

Come saprete ho vissuto per molti anni a La Spezia e i luoghi e memoriali della linea gotica e della guerra civile italiana, ho avuto modo di esplorarli e vederli con i miei occhi, ho avuto modo di conoscere tante persone per le quali quella guerra ufficialmente conclusa 80 anni fa, non è mai finita del tutto. E ancora oggi portano con se le ferite legate alla perdita dei propri cari.

Mussolini tagliò il Debito Pubblico: Verità o Propaganda?

La teoria che Mussolini ridusse il debito pubblico italiano è infondata; in realtà, il debito crebbe e l’Italia pagò un prezzo alto per presunti “tagli”.

Periodicamente torna a circolare su diversi quotidiani e social la storia per cui Benito Mussolini sarebbe stato l’unico uomo ad aver tagliato il debito pubblico italiano. Questa stravagante teoria non è nuova, ed emerge spesso negli ambienti di un certo orientamento politico, vicino agli ideali di Mussolini e del Fascismo, ma corrisponde alla verità o si tratta solo di Propaganda?

Come ogni questione storica, la risposta purtroppo non è semplice, e liquidare il tutto ad una frase non è semplice, ma, al di la della complessità della vicenda, una cosa è certa, dire che Mussolini tagliò il debito italiano è falso, ma andiamo con ordine.

Il contesto economico pre-fascista: L’eredità della Grande Guerra.

Prima dell’ascesa al potere di Mussolini e l’avvento del fascismo, l’italia si trovò ad affrontare diversi e gravi problemi di natura economica, elemento che accompagnò tutti i paesi europei impegnati nella grande guerra.

Per riavviare il paese, riconvertire il sistema produttivo e rilanciare l’economia, l’italia fece ricorso all’emissione di moneta e a molteplici interventi da parte di Banca d’Italia per “salvare” le aziende in difficoltà. La nuova moneta immessa sul mercato era solo in parte coperta dall’emissione di titoli di stato e di conseguenza la moneta italiana andò in contro ad una forte svalutazione.

L’alta inflazione che ne derivò andò a colpire soprattutto le fasce più povere della popolazione, principalmente lavoratori dipendenti che, allo svalutarsi della moneta ed il conseguente incremento dei prezzi, non videro corrispondere un aumento dei salari.

In questo clima economico, fortemente sfavorevole e di grande tensione si verificarono gli avvenimenti del famoso biennio rosso (1919-1920) che causarono gravi disordini in tutto il paese e spinsero molti lavoratori impoveriti a sostenere il Fascismo poiché, neanche Giovanni Giolitti, che in passato era stato protagonista di una stagione splendente per l’economia italiana, riuscì a risolvere la crisi e sanare il debito crescente.

Questa fu la situazione che spianò la strada alla prese di potere da Quando nell’ottobre del 1922 Vittorio Emanuele III affidò il governo a Mussolini, l’italia si trovava in una situazione stagnante, con un enorme debito crescente alimentato da una moneta molto debole ed un enorme spesa statale.

Questa lunga premessa può sembrare noiosa, ma è fondamentale per capire esattamente se Mussolini riuscì a tagliare realmente il debito, se non lo ridusse ma riuscì comunque a contenerlo o se invece provocò un incremento del debito pubblico italiano.

La politica economica fascista: Ruolo di Mussolini e gestione De’ Stefani (1922-1925).

A questo punto bisogna aprire una breve parentesi sull’orientamento economico del regime, la politica economica fascista, detta della terza via, si colloca in un limbo, una zona grigia intermedia che derivavano dall’orientamento dei vari ministri delle finanze, dall’ideologia fascista e da varie contingenze nazionali e internazionali. E a tal proposito è importante ricordare che, se bene Accentrò nelle proprie mani numerosi ministeri ed esercitò grande influenza e pressioni sui ministeri che non erano di sua competenza, Mussolini non fu mai ministro delle Finanze, del Commercio e del Tesoro.

Mussolini fu ministro dell’Areonautica, degli Esteri dell’Africa italiana, delle Colonie, delle Corporazioni, della Guerra, dei Lavori Publici e della Marina, ma nessuno di questi ministeri era in grado di intervenire direttamente sul debito, e anzi, i suoi ministeri erano quelli che assorbirono maggiori risorse economiche, giocando de facto un ruolo attivo nell’incremento e non nella riduzione della spesa, ma andiamo con ordine.

Sul piano puramente linguistico possiamo dire con assoluta certezza che Mussolini, attraverso i suoi ministeri, non fece nulla per ridurre il debito, resta però da capire se invece il governo fascista, nel suo complesso, riuscì in qualche modo a ridurre il debito o comunque a contenere la spesa limitando l’aumento del debito.

Tra il 1922 ed il 1925, il ministero delle finanze e del tesoro fu affidato ad Alberto De’ Stefani che attuò una politica di grandi tagli alla spesa pubblica, e cercò di incrementare le entrate, con l’intento di rimettere in ordine il bilancio dello stato. Una politica comune in situazioni di questo tipo, da Agostino Magliani (ministro delle finanze agli albori della prima crisi economica del regno d’italia nell’ultimo quarto dell’ottocento) a Mario Monti.

Per quanto riguarda la riconfigurazione delle entrate, De’ Stefani non intervenne aumentando le tasse come spesso avviene, ma al contrario, osservando che una fetta enorme della popolazione era esclusa dalla partecipazione contributiva, fece in modo di allargare la base, tassando quelle fasce sociali fino a quel momento escluse, e allo stesso tempo, ridusse le aliquote per categorie sociali ritenute più inclini all’investimento.

Detto più semplicemente, tassò le fasce più povere della popolazione, fino a quel momento esonerati e ridusse le tasse all’alta e media borghesia, producendo così un incremento delle entrate dovuto al maggior numero di contribuenti.

L’intento di De’ Stefani era quello di rilanciare l’iniziativa privata e ridurre le spese dello stato, spese che, in quel momento, erano rappresentate soprattutto dai salari di dipendenti pubblici, e di conseguenza il taglio della spesa si configurò come un taglio netto nel personale dei settori “improduttivi” dello stato, licenziamento di circa 65.000 impiegati pubblici e circa 27.000 ferrovieri e favorendo l’ingresso dei privati in alcuni settori, fino a quel momento sotto il controllo dello stato, come il settore assicurativo, ferroviario e telefonico.

In termini numerici gli interventi di De’ Stefani furono positivi e il bilancio, almeno quello statale, fu riportato in pari, mentre quello degli enti locali non fu mai parificato durante tutto il ventennio. In ogni caso, questi interventi favorirono una leggera ripresa e innescarono un lieve processo di crescita per il paese che però non risolse il problema monetario, la lira valeva sempre meno e anche se, in termini numerici il debito cresceva più lentamente, il minor valore della lira, rendeva più difficile un suo risanamento.

Fin dai tempi dalla grande guerra la Banca d’Italia si era impegnata nel sostegno delle imprese e banche immobilizzate dalla riconversione e questo impegno continuò durante i primi anni del fascismo, producendo tra il 1922 e il 1925 un incremento di liquidità che portò ad un ulteriore ondata inflazionistica, alimentata da un peggioramento della bilancia dei pagamenti.
Nel 1925 De’ Stefani promosse alcuni provvedimenti che però si rivelarono insufficienti e portarono ad un tracollo della borsa italiana e al fallimento di numerose aziende italiane.

La gestione Volpi (1925-1928) e la ristrutturazione del debito estero.

Gli industriali rappresentavano lo zoccolo duro del fascismo ed avevano molta influenza sulle azioni del governo, così, per non perdere il loro consenso, Mussolini sostituì il ministro delle finanze, assegnando l’incarico a Giuseppe Volpi.

Volpi rimase in carica dal 1925 al 1928 e durante il suo mandato giocò un ruolo decisivo per le sorti economiche e di bilancio dell’Italia.

Sul piano internazionale il 1924, con il piano Dawes aveva visto la fine alla questione delle riparazioni tedesche e si stava valutando un ritorno delle nazioni al gold standard per stabilizzare le monete, idea nata in seno al trattato di Versailles.

Nonostante questo però, la forte svalutazione della lira, il peggioramento della bilancia commerciale e numerosi altri fattori speculativi, non resero semplice il lavoro di Volpi e come se non fosse abbastanza, il fallimento del rinnovo dei BOT venticinquennali nel 1924, dovuto alla grande richiesta di liquidità di banche e privati, impedì all’Italia di emettere nuovi titoli di stato.

Nel 1925 il bilancio interno ufficialmente era in pari, ma nei fatti non lo era, nel bilancio infatti non erano stati conteggiati i titoli di stato da ripagare e l’italia, fortemente indebitata, non era in grado di ripagare i propri debiti.

Volpi decise quindi di agire in sintonia con la Banca d’Italia che sostenne il cambio, riuscendo a raggiungere un accordo con gli in investitori americani più favorevole in termini assoluti, ma va precisato gli investitori americani raggiunsero accordi simili in tutta europa e tra i tanti, l’accordo italiano fu quello “meno morbido“, il merito di Volpi non fu quindi quello di aver trovato un accordo favorevole, come spesso si dice, ma fu quello di aver trovato un accordo.

Sul finire del 1925 gli il governo statunitense accordò all’Italia un prestito, noto come Prestito Morgan, il cui intento era quello di risollevare la lira, di fatto acquistando parte del debito pubblico italiano. Sulla stessa linea nel gennaio del 1926 l’italia trovò un accordo simile con il regno unito. Secondo questo accordo l’italia cedette al regno unito la propria quota di riparazioni tedesche, gestite della Cassa autonoma di ammortamento dei debiti di guerra, costituita il 3 marzo 1926.

Analisi critica del “taglio”: Un pareggio di bilancio pagato a caro prezzo.

Grazie a questo accordo l’italia riuscì a ripagare parte dei propri debiti esteri, rinunciando al flusso costante di ripartizioni di guerra tedesche.

A questo punto, in termini numerici l’italia era ufficialmente in pari con il bilancio, ma questo pareggio come detto, va contestualizzato e il contesto è quello di un paese che ha dovuto ricorrere letteralmente al baratto.

L’italia ha “cancellato” il proprio debito consegnando ai propri creditori tutto quello che aveva, l’italia ripaga i propri creditori cedendo titoli esteri acquistati dal tesoro in precedenza e rinunciando alle proprie riparazioni di guerra, dal valore di diversi milioni di marchi pagati in oro ogni anno, pagamenti che la Germania avrebbe interrotto qualche anno più tardi con una decisione unilaterale in seguito all’avvento del Nazismo e di Hitler, e che avrebbe ricominciato a pagare nel secondo dopoguerra.

Il Trattato di Versailes aveva imposto alla Germania il pagamento di 132 miliardi di marchi oro, e parte di quell’oro sarebbe andato all’Italia, e anche se rateizzato, la quota italiana delle riparazioni di guerra aveva un ammontare complessivo enormemente superiore al proprio debito.

Conclusione: La smentita storica dell’affermazione sul risanamento del debito.

In conclusione, se è vero che sul piano linguistico è falso dire che Mussolini tagliò il debito, ma nei fatti questo taglio è riconducibile a Mussolini, allo stesso tempo, è vero dire che il fascismo tagliò il debito, ma nei fatti, questo taglio è costato all’Italia miliardi in oro, avrebbe contribuito ad alimentare una progressiva e crescente svalutazione monetaria e produsse, parallelamente alla cancellazione del debito, l’impossibilità per l’italia di ottenere nuovi prestiti e finanziamenti, trascinando il paese verso un progressivo impoverimento generale che non sarebbe stato possibile disinnescare se non fosse stato per gli aiuti postbellici, ricevuti dopo la seconda guerra mondiale.

Dire quindi che Mussolini e il fascismo hanno “sanato il debito pubblico italiano” è la cosa più falsa che si possa dire.

Fonti e letture consigliate

V.Zamagni, Il debito pubblico italiano 1861-1946: ricostruzione della serie storica, in “Rivista di storia economica”, Il Mulino, 3/1988, dicembre.
P.Frascani, Finanza, economia ed intervento pubblico dall’unificazione agli anni trenta.
R. de Felice, Mussolini il fascista, la conquista del potere, 1921-1925.
S. Romano, Giuseppe Volpi. Industria e finanza fra Giolitti e Mussolini.
G.Mele, Storia del debito pubblico italiano dall’unità ai giorni nostri, Tesi di laurea presso università Luiss, Dipartimento di Economia e Management Cattedra di Storia dell’economia e dell’impresa, A.A. 2014/2015.

La Fiamma Tricolore, storia e origini del simbolo del MSI

Dal Movimento Sociale Italiano a Fratelli d’Italia, una parte della destra italiana ha sempre esibito con fierezza e orgoglio un simbolo di partito, la fiamma tricolore, un simbolo che porta con se un eredità storica oltre che politica, si tratta infatti di uno dei simboli politici più longevi nella storia della Repubblica Italiana, secondo solo allo scudo crociato della Democrazia Cristiana, usato anche nel regno d’Italia e la falce e martello comunista, anche questo usato già prima della repubblica.

Fin da quando esiste la repubblica italiana, la fiamma tricolore, emblema della destra e in alcuni momenti estrema destra italiana, ha mantenuto una presenza costante nel panorama politico evolvendo nel tempo insieme alla stessa politica italiana, con risvolti complessi e controversi e soprattutto con diverse interpretazioni legate alle sue origine e al suo significato.

Il simbolo, creato agli albori della Repubblica, da un partito formato da ex fascisti ed esponenti della Repubblica sociale italiana, quasi sempre è stato ricondotto al fascismo italiano, tuttavia, la storia di questo simbolo è molto più ampia e si radica in un Italia che precede il fascismo stesso.

In questo articolo andremo alla scoperta della storia, le origini e le leggende legate alla fiamma tricolore, simbolo storico della destra italiana, e forse sfateremo qualche mito e falsa credenza legati a questo simbolo.

La Fiamma Tricolore

Partiamo dalla sua creazione ufficiale, siamo sul finire degli anni quaranta, più precisamente tra 1946 e 1947, il 26 dicembre 1946 alcuni reduci della Repubblica Sociale Italiana ed ex esponenti del regime fascista, tra cui Giorgio Almirante e Pino Romualdi, si riuniscono per fondare un nuovo partito da inserire nel panorama nazionale, nasce così il Movimento Sociale Italiano, MSI, e nel gennaio del 1947, appare per la prima volta La fiamma tricolore come simbolo di questo nuovo partito, erede e allo stesso tempo distaccato dall’esperienza fascista.

Non sappiamo con precisione chi progettò il simbolo, secondo alcuni fu opera dello stesso Almirante che nel 1946, scrisse “Siamo nati nel nome d’Italia/stretti attorno alla nostra Bandiera/è rinata con noi primavera/si è riaccesa una Fiamma nel cuor/Italia, sorgi a nuova vita, così vuole/Chi per te morì”. Secondo altre versioni invece, la fiamma sarebbe un simbolo preesistente.

Ad oggi non sappiamo con certezza chi abbia concepito la fiamma e la sua simbologia, e sebbene alcuni studi ipotizzino che, questo simbolo sarebbe una derivazione del distintivo del reggimento degli Arditi, corpo speciale del Regio Esercito italiano durante la Prima Guerra Mondiale. Tuttavia, l’unica fiamma che troviamo tra i simboli del regimento degli arditi è quella del IX reparto d’assalto, ed è una fiamma molto diversa da quella usata dal MSI e molto più simile alla fiamma dei Carabinieri, in uso fin dal 1882, mentre il simbolo ufficiale degli arditi era un teschio con una corona d’alloro e un pugnale tra i denti.

Cercando tra simboli militari e politici in uso negli anni precedenti la nascita del MSI possiamo tuttavia trovare un simbolo, molto simile, alla fiamma tricolore adottata dal MSI, ed è il simbolo del Rassemblement national populaire, RNP, fondato nella Francia di Vichy nel 1941 dall’ex ministro dell’aviazione francese Marcel Déat. Il RNP fu uno dei tre partiti “collaborazionisti” (che collaborarono con i nazisti) della Repubblica di Vichy, e fu sostanzialmente un partito nazionalsocialista e di ideologia fascista, francese.

La fiamma nel simbolo del RNP ci apre una nuova strada alle origini della fiamma tricolore del MSI, e soprattutto smentisce le parole di Fabio Rampelli, secondo il quale “la fiamma è un simbolo del secondo dopoguerra che nulla ha a che vedere con i totalitarismi del Novecento. Il simbolo simmetrico alla falce e martello è la croce uncinata nazista e il fascio littorio e tutti e tre sono stati stigmatizzati dal Parlamento europeo da una risoluzione” poiché è vero che la fiamma tricolore non era il simbolo del fascismo, ma è anche vero che, almeno dal 1941, vari movimenti fascisti e collaborazionisti, adottarono la fiamma.

Va detto che un altra fiamma, prima di quella del MSI e successiva alla fiamma del RNP appare nella simbologia politica italiana nel 1942, e contrariamente a quello che ci potremmo aspettare a questo punto della storia, appare in un partito antifascista, ovvero il Partito d’Azione di Perruccio Parri, Emilio Lussu, Ugo La Malfa e Riccardo Lombardi.

Si tratta, come possiamo vedere, di una fiamma molto diversa da quella del MSI e del RNP francese, che invece sono tra loro molto affini, soprattutto se si considera che il simbolo del Front National del 1972, erede in un certo senso del RNP, è una fiamma tricolore identica alla fiamma del MSI, con la sola differenza che i colori sono Blu, Bianco e Rosso e non Verde, Bianco e Rosso

Anche in Belgio, nel 1985, il Front National di Daniel Féret, ha adottato come simbolo una fiamma tricolore, che sembra incrocio tra la fiamma del MSI e la fiamma del RNP.

Come possiamo osservare molti partiti, con ideologie simile, generalmente partiti di destra, fortemente Nazionalisti, in molte parti d’Europa, hanno adottato, nel corso del tempo il simbolo della fiamma, molto spesso derivato dal simbolo del MSI, che a sua volta sembra essere derivato da simboli precedenti.

Cosa significa la fiamma?

Il simbolo della Fiamma Tricolore viene inizialmente concepito come un trapezio, al cui interno è presente la sigla del MSI. Secondo il Michelangelo Borri dell’Università di Trieste, la Fiamma ha un forte legame con il MSI, e qualunque sia la sua origine, diventa a tutti gli effetti un simbolo politico, nel 1946 grazie al MSI. Secondo Borri infatti, nel 1946 il MSI prende il simbolo della fiamma e lo carica di significato, attraverso il suo utilizzo come logo, come stemma e attraverso il suo racconto trasversale. La fiamma non è solo il logo, è presenta anche nell’inno del partito, il “canto degli Italiani” scritto da Almirante.

Siamo nati un cupo tramonto
Di rinuncia, vergogna, dolore:
siamo nati in un atto d’amore
riscattando l’altrui disonor.
Siamo nati nel nome d’Italia,
stretti attorno alla nostra Bandiera:
è rinata con noi primavera,
si è riaccesa una Fiamma nel cuor.
Italia, sorgi a nuova vita, così vuole Chi per te morì,
chi il suo sangue donò
chi il nemico affrontò
Giustizia alla Patria darà.
Italia, rasserena il volto,
abbi fede: nostro è l’avvenir.
Rispondi, rispondi, o Italia!
Si ridesta la tua gioventù.
Noi saremo la vostra avanguardia,
Italiani, coraggio: in cammino.
Solo ai forti sorride il destino;
liberate la Patria, il Lavor.
Noi saremo la Fiamma d’Italia,
il germoglio di un’alba trionfale,
la valanga impetuosa che sale:
Italiani, coraggio: con noi!
Italia, sorgi a nuova vita.

Canto degli Italiani, Giorgio Almirante.

Secondo quanto riportato da Borri in un articolo del 2022 sul Fatto Quotidiano, la fiamma rappresenterebbe “la speranza che rinasce dopo la sconfitta della guerra che ha subito il fascismo“.

C’è poi un interpretazione più diretta e audace, fornita da Anna Foa, secondo cui il simbolo della fiamma “sta probabilmente a significare lo spirito fascista che risorge”. Questa interpretazione che collega esplicitamente il simbolo a una continuità ideologica con il fascismo, potrebbe avere un senso, se non fosse che, come abbiamo visto, nel 1941 il simbolo della Fiamma era già in uso a movimenti filofascisti d’oltre alpe, e dunque l’idea di una “rinascita” dello spirito fascista, ha poco senso.

C’è allora da caire cosa vuol dire effettivamente la Fiamma prima della seconda guerra mondiale. Ma prima della guerra non sembrano esserci utilizzi effettivi della fiamma, o meglio, non ci sono utilizzi chiari, forti e carichi di significato. Come già osservato, l’unico utilizzo riconosciuto di una simbologia analoga lo abbiamo con la fiamma del RNP francese del 1941, ed è un caso interessante poiché il contesto storico, politico, culturale, in cui esistette il RNP è analogo all’esperienza vissuta in Italia dal della RSI, tra 1943 e 1945, ovvero una dittatura militare con un governo fantoccio per un regime collaborazionista della Germania nazista. E proprio in quel contesto incontriamo molti dei futuri fondatori del MSI, tra cui lo stesso Giorgio Almirante che nella RSI fu capo di gabinetto del Ministero della Cultura Popolare.

Da un certo punto di vista quindi, più che una continuità diretta tra il “fascismo” e il MSI, potremmo dire che, almeno nel MSI delle origini, ci fu una continuità tra il MSI e la RSI, visto che innumerevoli funzionari della RSI, scampati alla galera per via dell’amnistia, confluirono nel MSI, e questo forse è anche più grave, poiché prendendo per buona l’idea che il Mussolini dittatore d’Italia “ha fatto anche cose buone”, è decisamente più “difficile” individuare qualcosa di positivo nell’esperienza della RSI, de facto una provincia del Reich, complice di rastrellamenti, deportazioni, linciaggi e innumerevoli crimini di guerra. Ma non siamo qui a dare giudizi, siamo qui per individuare le origini del simbolo della fiamma tricolore.

La fiamma tricolore, così come è stata concepita nel 1946, e per come è stata utilizzata dal 47 ad oggi, porta con se una serie di idee, ideologie, e valori, che possono piacere o meno, essere condivisi o meno, alcuni dei quali sono appartenuti anche al fascismo e l’antifascismo italiano degli anni 30 e 40. Principalmente un ideologia nazionalista radicale, generalmente militarista, con elementi di socialismo rivoluzionario e irredentista, e tali principi sono ancora fortemente radicati nella fiamma.

Il simbolo, generalmente rappresentata come una fiamma più o meno stilizzata, colorata con i simboli della bandiera nazionale, ad oggi è utilizzato, non più solo in Italia e Francia, per lo più da partiti, movimenti e forze politiche di forte ispirazione nazionalista e ultranazionalista, antiglobalista, generalmente di destra ed estrema destra, e in alcuni rari casi dichiaratamente di ispirazione “nostalgica”. Tale simbolo è presente nell’iconografia politica Italiana e Francese, ma anche Belga, Portoghese, Spagnola, Greca, Ceca, Romena, Argentina, Cilena, Norvegese e Polacca, e se in Francia e Italia ha avuto origine in epoca fascista, o comunque da uomini che hanno avuto un ruolo attivo nell’esperienza fascista, come Giorgio Almirante e Marcel Déat, nel resto del mondo in realtà stato adottato molto più recentemente. Fatta eccezione per il Belgio che l’ha ereditata dalla Francia negli anni ottanta, il resto del mondo l’ha adottata a partire dalla fine degli anni novanta e inizio anni 2000, e nel complesso, si tratta per lo più di movimenti politici che in momenti differenti hanno manifestato e dichiarato, in maniera più o meno aperta, un desiderio di continuità con l’ideologia fascista e nazional-socialista.

Molti di questi movimenti hanno avuto un evoluzione simile, sono nati con un impronta fortemente radicale e in continuità con un passato, più o meno recente, di ispirazione fascista, e crescendo si sono aperti a correnti più moderate, in sostanza, man mano che i loro consensi crescevano, le posizioni più radicali venivano abbandonate in favore di posizioni più moderate, questo è particolarmente evidente nei casi di maggior rilievo, come il MSI italiano e il Front National francese, la cui continuità con il passato fascista e nazionalsocialista è stata progressivamente abbandonata e in alcuni casi apertamente rinnegato.

Dal MSI ad oggi

Come abbiamo visto, la fiamma tricolore è cambiata negli anni e con essa è cambiato il MSI e i suoi eredi, assumendo col tempo posizioni sempre più moderate. Negli anni sessanta assistiamo ad un vero e proprio rinnovamento del partito che porterà all’allontanamento di individui pericolosi come Juno Valerio Borghese (ex comandante della X-MAS e futuro golpista italiano), evoluzione e ammorbidimento che negli anni 90 porterà allo scioglimento del MSI e la nascita di Alleanza Nazionale sotto la guida di Gianfranco Fini, tra i primi in quell’ambiente politico a prendere ufficialmente le distanze dall’ideologia fascista, fino a quel momento riconosciuta come una parte importante del proprio passato. Fin dal 1948 il MSI aveva adottato come proprio slogan l’idea di “non rinnegare, ne restaurare” il Fascismo, e questa visione, già allontanata da Augusto De Marsanich negli anni 60, venne definitivamente abbandonata con Fini.

L’effetto di questo rinnovamento come sappiamo portò nel 2009 alla fusione di Alleanza Nazionale con Forza Italia nel Popolo della Libertà segnando per la prima volta la sparizione della fiamma tricolore dalla simbologia politica italiana, una sparizione che sarebbe durata solo 5 anni, ovvero fino alla sua riapparizione nel 2014 come parte del simbolo di partito di Fratelli d’Italia in quanto erede di Alleanza Nazionale.

Il Piano Solo

Il Piano Solo rappresenta uno dei capitoli più controversi dell’Italia Repubblicana, che ancora oggi è oggetto di dibattito e discussione sulla sua natura. Contestato e considerato da molti come un tentativo di golpe e giustificato da altri come un piano “anti-golpe”, la sua natura è stata valutata e scrutinata nel dettaglio da una commissione d’inchiesta parlamentare.

Elaborato durante la prima crisi di governo della IV legislatura, a pochi mesi dalla nascita del primo governo di centrosinistra dell’Italia repubblicana, il piano, mai messo in atto, prevedeva il monitoraggio e l’arresto di politici e sindacalisti, soprattutto in area di sinistra, in caso di grave crisi politica e sociale, ad opera dell’Arma dei Carabinieri.

Protagonista di primo piano dell’intera vicenda il generale, medaglia d’argento della resistenza e comandante dell’arma dei carabinieri, Giovanni De Lorenzo.

A distanza di oltre 60 anni dalla progettazione di quel piano segreto, oggi disponiamo di un gran numero di informazioni e documenti, preclusi a chi se ne occupò e ne parlò tra anni 60 e 70, in particolare noi oggi disponiamo dell’intera documentazione analizzata e prodotta dalla commissione commissione d’inchiesta parlamentare sugli eventi del giugno-luglio 1964 (“SIFAR”), documenti che per molto tempo sono stati classificati e solo di recente sono stati declassificati.

La mole di documenti prodotta dalla commissione d’inchiesta è qualcosa di immensa, solo per il Generale De Lorenzo, comandante nel 1964 dell’arma dei carabinieri, disponiamo di migliaia di pagine, tra cui i verbali integrali delle quattro audizioni tenne di fronte alla commissione, rispettivamente il 23, 27, e 30 maggio 1969. Nel complesso, la documentazione integrale, disponibile e consultabile on-line presso l’archivio della camera, comprende oltre 116 audizioni a funzionari dell’arma dei carabinieri, 131 resoconti sommari, e 201 documenti, per un totale di oltre 45.000 pagine, che ho avuto la malsana idea di recuperare. Inoltre sul portale della camera è disponibile la relazione, in due volumi (circa 2000 pagine compelssive).

Tra i documenti sono presenti anche le liste dei “sorvegliati” del SID, ovvero i soggetti sensibili, potenzialmente sovversivi, che l’intelligence aveva attenzionato ed era pronta a sorvegliare o arrestare in caso di crisi politica o sociale.

Col tempo avrò modo di leggere tutta la documentazione e produrre sempre più materiale a riguardo, per il momento voglio limitarmi ad un articolo che abbia le seguenti finalità, definire il Piano Solo, contestualizzarlo storicamente ed esporre le valutazioni finali della commissione d’inchiesta, poiché questa fu attiva fino al 15 dicembre 1970, un momento storico molto particolare, poiché successivo, di 7 giorni al “Golpe Borghese“.

Il contesto storico in cui venne sviluppato il Piano Solo

Il piano Solo venne pianificato presumibilmente nell’estate del 1964, indicativamente tra Giugno e Luglio, nel pieno di una crisi di governo. Da quel che sappiamo, a sollecitare la pianificazione del generale Giovanni de Lorenzo, fu l’allora capo dello stato Antonio Segni, o almeno questa è la narrazione comune, come vedremo, le cose sono più complesse di così.

Ci troviamo in un momento storico di grande fermento politico e soprattutto grande preoccupazione politica, poiché l’Italia in quegli stessi mesi stava sperimentando il primo governo di centro-sinistra dell’età repubblicana, nonché il primo governo di centro-sinistra dai tempi di Bonomi, risalente agli anni venti, appena prima dell’avvento del Fascismo e l’ascesa di Mussolini.

Fatta eccezione per l’assemblea costituente, erano passati più di 40 anni dall’ultima volta la sinistra in Italia era stata in area di governo e da allora il mondo, e soprattutto l’Italia, erano profondamente cambiati, non solo perché c’era stato il regime fascista e la seconda guerra mondiale di mezzo, ma anche e soprattutto perché ci trovavamo in piena guerra fredda e uno sbilanciamento dell’Italia, troppo a sinistra poteva risultare come un qualche avvicinamento all’Unione Sovietica e questo era considerato una possibile minaccia non solo in Italia e per l’Italia, ma anche per l’Europa e la NATO.

Nel dicembre del 1963 nasce il primo governo Moro, un governo di centro sinistra, sostenuto dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Socialista Italiano, personalità chiave di questo governo furono Aldo Moro (DC) in quanto presidente del consiglio e Pietro Nenni (PSI) in quanto vicepresidente. Oltre questi due partiti principali, la coalizione di governo contava anche rappresentanti del Partito Socialista Democratico Italiano e del Partito Repubblicano Italiano. Questa coalizione sarebbe rimasta al governo per tutta la legislazione, fino al 1968, con i tre governi Moro.

Tra il governo Moro I e Moro II cambiano pochissimi funzionari, o meglio, diversi funzionari del PSI cambiarono posizione, segno di una tensione interna al PSI e di riflesso nella Coalizione. Più nel dettaglio, Umberto delle Fave (DC) ai rapporti con il parlamento del governo Moro I lasciò il posto a Giovanni Battista Scaglia (DC) del governo Moro II, il ministro al Bilancio Antonio Giolitti (PSI) venne sostituito da Giovanni Pieraccini (PSI), il ministro ai lavori pubblici Giovanni Pieraccini (PSI) venne sostituito da Giacomo Mancini (PSI), il Ministro alla Sanità Giacomo Mancini (PSI) venne sostituito da Luigi Mariotti (PSI) e il ministro del Lavoro e Previdenza sociale Giacinto Bosco (DC) venne sostituito da Umberto delle Fave (DC).

Da quel che sappiamo, nel pieno della crisi di governo, il 15 luglio 1964, il Presidente della Repubblica Antonio Segni convocò al Quirinale il generale dello stato maggiore e comandante dei carabinieri Giovanni De Lorenzo, si trattò di un incontro ufficiale, non segreto ma a porte chiuse, la notizia della convocazione e dell’incontro venne data anche dai quotidiani e telegiornali dell’epoca.

In quel momento le tensioni all’interno del governo erano palpabili e indubbiamente c’era una forte preoccupazione istituzionale, come normale che sia nel pieno di una crisi di governo (anche se queste, nella prima repubblica erano molto più comuni e in realtà meno gravi di quanto non siano percepite oggi). Non c’è quindi da sorprendersi troppo se il capo dello stato, durante una crisi di governo, ha convocato ed incontrato diversi funzionari.

Uno di quei funzionari come già detto fu proprio il generale De Lorenzo e, in seguito avremmo scoperto, ricevette da Segni un incarico molto delicato, ovvero l’elaborazione di un piano d’emergenza per l’ordine pubblico, tale piano è oggi noto come Piano Solo, e avrebbe fatto dell’arma dei carabinieri l’esecutore e garante dell’ordine sociale in caso di grave crisi politica e sociale in Italia.

Il motivo per cui Segni si rivolse a De Lorenzo e l’arma dei carabinieri può avere diverse ragioni, sia strategiche che politiche, sul piano strategico, come apprendiamo dalle audizioni di De Lorenzo, è legato al regolamento dell’Arma dei carabinieri, inoltre, l’Arma gode di una diffusione capillare nel territorio italiano che non è seconda a nessun altro apparato militare o di polizia, di conseguenza può operare in situazioni d’emergenza con maggiore efficienza rispetto ad altri come esercito o polizia. Inoltre, pur essendo in quel momento un ramo dell’Esercito Italiano, i carabinieri dipendevano da due ministeri, quello dell’Interno e quello della Difesa, mentre il suo comandante, in questo caso specifico Giovanni de Lorenzo, rispondeva direttamente al Capo dello Stato. L’insieme di questi fattori rappresentava un elemento di primaria importanza nell’ottica in cui si fosse resa necessaria una mobilitazione totale in caso d’emergenza.

Il ruolo “esclusivo” e privilegiato dell’Arma dei carabinieri nel programma di mobilitazione generale, fu emblematico del nome con cui sarebbe diventato noto il Piano ovvero “Piano Solo” nel senso che il piano prevedeva l’intervento dei “soli” carabinieri.

Il 23 luglio 1964, a meno di 10 giorni dalla convocazione di De Lorenzo al Quirinale, Aldo Moro, Pietro Nenni e gli altri membri del secondo governo Moro II prestano, la crisi è rientrata e come abbiamo visto, fatta eccezione per alcuni cambi di posizione, il nuovo governo ha una composizione pressocché identica al precedente.

Appena un giorno prima del giuramento, il 22 luglio 1964, Pietro Nenni, ancora e nuovamente vicepresidente del consiglio, pubblica sull’avanti un proprio commento sulla crisi.

Le destre sapevano ciò che volevano e bisogna dire che sono state a un passo dall’ottenere ciò che volevano. Se il centro-sinistra avesse lanciato la spugna sul ring, il governo della Confindustria e della Confagricoltura era pronto per essere varato. Aveva un suo capo, anche se non è certo se sarebbe arrivato primo al traguardo senza essere sopravanzato da un qualche notabile democristiano. Aveva per sé la più vasta orchestrazione di stampa quotidiana e periodica che mai abbia operato in Italia. Aveva punti solidi di appoggio in ogni parte del Paese. Aveva un suo disegno strategico: la umiliazione del Parlamento dei partiti e delle organizzazioni sindacali a cui dava forza la minaccia, puramente tattica, delle elezioni immediate.

Pietro Nenni, L’Avanti, 22/07/1964

Lo scandalo del Piano Solo

Passata la crisi, nell’estate del 64, la mobilitazione prevista dal piano Solo non fu più necessaria, e l’esistenza stessa del Piano Solo rimase abbastanza segreta. Nota per lo più a funzionari istituzionali e vertici di governo e delle opposizioni. Sarebbe stata però rivelata all’Italia e agli italiani, in maniera estremamente fragorosa, nel maggio del 1967 quando, su L’Espresso, Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi pubblicarono alcuni documenti relativi al Piano Solo, tra cui anche alcune controverse dichiarazioni attribuite al generale De Lorenzo.

Come possiamo vedere, in copertina viene attribuita la seguente frase al generale De Lorenzo «Stiamo per vivere ore decisive. La nazione, tramite la più alta autorità, ha bisogno di noi. Dobbiamo tenerci pronti per gli obiettivi che ci verranno indicati».

Si tratta di parole forti e di impatto che esplosero in uno scandalo politico senza eguali, e il dibattito pubblico che ne conseguì, ebbe come effetto la rimozione quasi immediata di De Lorenzo dalla carica di Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, allo stesso tempo, il generale rispose alle accuse querelando per diffamazione i due giornalisti. Ne segue un lungo e tortuoso, molto controverso e complesso poiché, che nel frattempo è cambiato ancora ed ora siamo al governo Moro III, anche questo sostenuto dal PSI e con Pietro Nenni Vicepresidente, negò alla magistratura l’accesso alla documentazione necessaria per accertare e verificare le informazioni riportate da Scalfari e Jannuzzi, e senza possibilità di verificare tali documenti, il processo si concluse con una sentenza di colpevolezza per i due giornalisti.

All’epoca in molti si chiesero, e si chiedono tutt’ora, perché il governo Moro III negò alla magistratura l’accesso alla documentazione di quello che veniva dipinto come un piano di golpe che aveva nel mirino proprio il governo Moro e una parte delle forze politiche che lo sostenevano. La risposta a queste domande forse risiede nelle oltre 45.000 pagine di documenti dalla una commissione d’inchiesta, ma al momento risulta senza una risposta chiara.

Nel 1969, l’ex generale De Lorenzo, ora parlamentare, querelò altri due giornalisti, Gianni Corbi e Carlo Gregoretti, per articoli analoghi a quelli pubblicati da Scalfari e Jannuzzi nel 67, ma, a differenza dei loro predecessori loro vennero assolti con formula piena, pertanto, Scalfari e Jannuzzi fecero ricorso per richiedere la propria assoluzione. A questo punto sembra che il generale De Lorenzo decise di rimettere le querele, e le parti coinvolte accettarono la remissione.

Come dicevamo, nel frattempo De Lorenzo era passato dallo stato maggiore al parlamento, questo passaggio avviene nel 1968 con l’inizio della V legislatura, durante la quale De Lorenzo entrò in Parlamento tra le fila del Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica. De Lorenzo non rimane a lungo nel PDIUM e nel 1971 aderisce al Movimento Sociale Italiano, che in quel momento è presieduto da Augusto De Marsanich, politico attivo, quasi senza interruzioni fin dal 1929. Tra gli “ex fascisti” attivi nell’Italia repubblicana, fu uno dei promotori della linea moderata del MSI che portarono all’allontanamento di individui più radicali come Juno Valerio Borghese.

La commissione di inchiesta sul piano solo

La commissione d’inchiesta sul Piano Solo fu istituita il 15 aprile 1969 e rimase in attività fino al 15 dicembre 1970, ci troviamo agli inizi della V legislatura e in questo periodo l’Italia vide il susseguirsi di quattro governi, Rumor I, II, III e Colombo.

Come anticipato, la commissione acquisì un quantitativo enorme di documenti, testimonianze, e produsse una mole di documenti altrettanto imponente. Tra i primi ad essere ascoltati, ci fu il deputato Giovanni De Lorenzo, considerato l’attore principale del Piano Solo, a lui vengono dedicate 4 audizioni tenutesi il 23, 27 e 40 maggio 1969.

La prima audizione ebbe luogo il 23 maggio alle ore 09:20, fu presieduta dal deputato (ex senatore) e presidente della commissione Giuseppe Alessi, ed fu strutturata in sette gruppi di domande.

  • Il primo gruppo, come si legge nel verbale della seduta riguarda l’attività svolta dal generale dell’arma in materia di ordine pubblico, nel giugno-luglio 1964.
  • Il secondo gruppo di domande fu in riferimento al tema specifico della costituzione, dell’origine, della struttura e dell’impiego della Brigata meccanizzata dell’Arma dei carabinieri.
  • Il terzo gruppo fu in riferimento a quello che venne definito “piano solo”.
  • Il quarto gruppo fu in riferimento alle liste del SIFAR, alla loro trasmissione e alle misure prese o predisposte per l’eventuale esecuzione di provvedimenti in ordine a tali liste.
  • Il quinto gruppo di domande fu invece in riferimento alle situazioni dell’ordine pubblico nel giugno-luglio 1964.
  • Il sesto gruppo di domande fu in riferimento ad eventuali visite con il presidente della Repubblica.
  • Il settimo ed ultimo gruppo di domande invece, interessava i rapporti tra il generale e la loro natura, in quel periodo (estate 1964) con personalità politiche o partiti. Fu inoltre posta una domanda conclusiva circa l’installazione di dispositivi tecnologici al quirinale.

Dopo quasi 20 mesi di audizioni, dibattiti e valutazioni, la commissione d’inchiesta parlamentare, ha prodotto delle valutazioni finali che accertavano e testimoniavano l’esistenza del piano Solo e ne definivano la natura.

Per la commissione il Piano Solo esiste, o meglio, esisteva un piano segreto predisposto dal generale De Lorenzo, che prevedeva l’impiego esclusivo dell’arma dei carabinieri in situazioni di emergenza politica o sociale. Tale piano era nato in risposta all’eventualità di scioperi generali, manifestazioni di massa o altre forme di agitazione ritenute “destabilizzanti” per l’ordine pubblico.

Il piano, una volta esposto nella sua interezza, emerse agli occhi della commissione d’inchiesta come uno strumento preventivo, per garantire il mantenimento dell’ordine pubblico in scenari di grave tensione sociale o politica e non sembra esserci alcun fine eversivo o sovversivo, né sembra esserci l’intenzione nel rovesciare il governo o di instaurare un regime autoritario.

Quanto al ruolo del generale De Lorenzo, la commissione ha individuato nel generale Giovanni De Lorenzo il principale artefice del Piano Solo. Inoltre, il piano venne elaborato nel merito delle funzioni istituzionali del comandante dei Carabinieri, pertanto, non emersero responsabilità penali direttamente imputabili al generale.

Stando a ciò che emerge dalla commissione, oltre al capo dello stato e i vertici militari coinvolti, sembra che anche diverse figure politiche, membri del governo e delle opposizioni, nell’estate del 64, furono messe a conoscenza del Piano

Durante le indagini sembrerebbe essere emerso anche un forte coinvolgimento del SID (Servizio Informazioni Difesa) di cui lo stesso De Lorenzo è stato direttore tra il 55 ed il 62. Il coinvolgimento dei servizi segreti militari sembra sia stato determinante nella raccolta di informazioni e nella redazione di elenchi contenenti persone considerate potenzialmente pericolose per l’ordine pubblico. Questi individui sarebbero stati posti sotto controllo o fermate in caso di attuazione del piano.

Sebbene il Piano Solo non avesse ufficialmente un “colore politico”, i documenti esaminati dalla commissione, in particolare gli elenchi redatti dal SID, sembrano contenere principalmente cittadini legati alle sinistre, ai sindacati e ad altre organizzazioni politiche o sociali, che, in caso di attuazione, sarebbero stati oggetto di misure restrittive.

Gli elenchi oggi sono stati declassificati, pertanto sono pubblici e consultabili presso l’archivio della camera e molti di essi sono disponibili in forma digitale, per scaricarli è sufficiente fare richiesta con lo SPID.

Conclusioni

Nell’estate del 64, durante la crisi del primo governo Moro, il generale Giovanni De Lorenzo, su sollecitazione del presidente Segni, produsse un piano teorico da attuare in caso di gravi disordini sociali e politici, una sorta di piano d’emergenza anti-golpe, che prevedeva monitoraggio ed arresto di diverse centinaia di soggetti attenzionati dal servizio di sicurezza militare. L’intera operazione sarebbe stata gestita, se necessario, in maniera esclusiva dall’Arma dei Carabinieri. Di questo piano segreto furono messi al corrente vertici politici, militari ed esponenti di governo ed opposizioni.

Anni dopo, una commissione d’inchiesta ha analizzato e valutato il piano segreto, ritenendo che non fosse un piano di matrice sovversiva, e che anzi, si trattava di un piano d’emergenza, per far fronte ad un ipotetica crisi politica, sociale o golpe.

Situazione che in realtà si sarebbe verificata, qualche anno più tardi, nella notte tra il 7 e 8 dicembre del 1970, appena una settimana prima che la commissione terminasse i propri lavori, quando l’ex comandante della X Mas, e criminale di guerra Juno Valerio Borghese, tentò un vero e proprio colpo di stato, occupando RAI, Ministeri e diversi obbiettivi strategici, per poi ritirarsi poche ore dopo, quasi senza un apparente ragione, creando un casuale intreccio tra due eventi molto particolari e controversi.

Gli eroi di Mussolini – Guida alla Lettura

Guida alla lettura del saggio Gli eroi di mussolini, Niccolò Giani e la scuola di mistica fascista, di Aldo Grandi edito da Diarkos

Niccolò Giani, padre e ispiratore della scuola di mistica fascista, fondata nel 1930 insieme ad Arnaldo Mussolini, è protagonista di un interessante saggio semi biografico di Aldo Grandi. Il saggio sviscera il tema della scuola di mistica, in modo puntuale e critico, utilizzando come fonte primaria numerose lettere e scritti dello stesso Niccolò Giani. Nel complesso, il saggio risulta appassionato e interessante, anche se, non adatto a chiunque, è infatti necessaria una discreta conoscenza storiografica del ventennio. Conoscenza storiografica che non vuol dire conoscenza di miti propagandistici sul ventennio.

Circa un mese fa, era il 26 febbraio, mi è arrivato da Diarkos Editore una copia del libro “Gli eroi di Mussolini, Niccolò Giani e la Scuola di Mistica fascista” di Aldo Grandi, e, come da tradizione, dopo averlo letto, procedo con una breve, ma spero utile, guida alla lettura.

Faccio una premessa, riprendendo ciò che avevo originariamente scritto sul profilo instagram di Historicaleye quando ho ricevuto il libro, si tratta di una nuova edizione del libro Gli Eroi di Mussolini di Aldo Grandi, pubblicato inizialmente Rizzoli BUR Editore nel 2004.

Sono passati più di quindici anni dalla prima edizione e ancora, purtroppo, il saggio di Grandi continua ad essere uno dei pochissimi studi sulla scuola di mistica fascista. Come già osservava Giulia Beltrametti nella propria recensione alla prima edizione, pubblicata sul portale del SISSCO, la società Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea, l’ultima opera monografica sul tema, prima di questo saggio di Grandi, è a firma Daniele Marchesini e risale al 1976.

Premesso quindi che Aldo Grandi è un giornalista che si è affacciato, da diverso tempo e in numerose occasioni al panorama storico e, citando ancora una volta Giulia Beltrametti nella sua recensione, in cui osserva che Grandi ci ha fornito un racconto biografico appassionato su Niccolò Giani e i membri della Scuola di mistica fascista, va fatto presente che, il tema affrontato è molto delicato e poco studiato, ciò implica un immenso, per non dire colossale, lavoro preliminare di ricerca e studio del fenomeno da parte dell’Autore.

Detto ciò, possiamo cominciare con la guida e direi di iniziare proprio inquadrando meglio l’Autore (di cui a breve dovrei pubblicare un intervista).

Chi è Aldo Grandi?

Aldo Grandi nasce a Livorno nel 1961 e si laurea in Scienze Politiche a Roma nel 1987. L’anno seguente, stando alla sua breve biografia pubblicata sul proprio portale, vince una borda di studio della “Poligrafici Editoriale Spa” che gli permette di avviarsi alla professione giornalistica. Grandi aveva già collaborato, durante gli anni dell’università, con le pagine culturali di Paese Sera e l’Avanti oltre che al periodico Lavoro e Società della UIL, all’epoca diretto da Aldo Forbice. Nell’aprile del 1990 diventa giornalista professionista nella redazione lucchese del quotidiano La Nazione e, dall’anno seguente collaboratore del Corriere della Sera.

Chi era Niccolò Giani?

Il saggio di Grandi ha come sottotitolo “Niccolò Giani e la scuola di mistica fascista”, credo sia quindi doveroso aprire un ulteriore parentesi preliminare per inquadrare al meglio Niccolò Giani, così da poter comprendere meglio l’intero saggio dal carattere semi biografico che ruota attorno a questo personaggio.

Niccolò Giani è stato il padre della corrente denominata “Mistica fascista” nonché fondatore della Scuola di Mistica fascista al centro del saggio di Grandi. Giani ha avuto un ruolo estremamente importante nella definizione del pensiero fascista, pur non essendo un fascista della prima ora, esso infatti aveva poco più di 10 anni quando Mussolini salì al potere, Giani nasce a Muggia, in Friuli, nel 1909, e la sua storia nel contesto fascista inizia nel 1930, anno in cui fondò, insieme ad Arnaldo Mussolini, fratello minore di Benito Mussolini, la sopracitata scuola di mistica fascista.

Padre e iniziatore della scuola, ma direttore solo per un breve periodo, Giani infatti lasciò la direzione della scuola, assunta nel 1931, sul finire del 1932, al seguito della XXI riunione della Società Italiana per il Progresso delle Scienze (SIPS) che quell’anno coincise con il decennale della marcia su Roma. Durante il proprio intervento alla riunione Giani espose i principi della scuola di mistica e diede l’impulso alla produzione e pubblicazione dei Quaderni della scuola di mistica.

La storia personale di Giani si intreccia profondamente con la scuola di mistica ed è ampiamente esposta nel libro di Grandi, in questa sede ci interessava comprendere meglio chi fosse e quale fosse il suo legame con la scuola e il fascismo.

Concludiamo quindi la parentesi biografica su Giani segnalando che, nel 1940 partì volontario per il fronte Greco-Albanese, e che, proprio in quel contesto bellico, perse la vita, cadendo in combattimento nel marzo del 1941.

Le fonti dei Aldo Grandi

Come anticipato nell’introduzione, il tema della scuola di mistica fascista, tema estremamente importante per definire la cultura fascista durante il ventennio, è uno dei temi meno studiati e noti, sul quale sono stati condotti relativamente pochi studi e prodotte pochissime opere. Quando Aldo Grandi si è approcciato allo studio della scuola di mistica, ha dovuto inevitabilmente scontrarsi con il problema della scarsità di fonti e studi, dovendo quindi compiere un importante lavoro di ricerca in archivio, nell’intento di recuperare fonti di prima mano da poter scandagliare.

Se ci rechiamo tra le fonti bibliografiche consultate da Giani, indicate nel saggio, ciò che incontriamo è un enorme quantità di lettere e cartoline personali di Niccolò Giani, oltre ai suoi scritti pubblici e qualche raro saggio monografico. La scarsità di saggi ed altri studi nella bibliografia, va precisato ulteriormente, è stata una scelta obbligata dettata dalla scarsità di opere in merito e, a distanza di oltre 15 anni, la situazione non è molto cambiata, chiunque oggi voglia approcciarsi allo studio della scuola di mistica fascista, deve inevitabilmente passare per i registri della scuola e le lettere di Giani, affiancandole eventualmente alla lettura dei saggi di Grandi e Marchesini.

Il saggio Gli eroi di Mussolini di Aldo Grandi

Il saggio risulta appassionato e interessante, ma non adatto a tutti. Il tema affrontato è estremamente di nicchia, e non si rivolge ad un pubblico generalista. Per poter affrontare al meglio la lettura di questo saggio è opportuna una buona, se non ottima, conoscenza del ventennio. Il saggio ci pone di fronte alla storia di una vera e propria scuola di pensiero fascista, una scuola tra le tante, che si fa espressione di una delle numerose correnti interne al partito, partito che ricordiamo, era unico sulla carta ma non nella conformazione. Il PnF, se bene all’apice vedesse la figura di Mussolini, all’interno era molto frammentario, e, utilizzando classificazioni moderne, si configurava come una sorta di mega coalizione che, a seconda del dove e quando, andava dall’una o dall’altra parte.

Il libro solleva il velo del partito unico e mette a nudo i dibattiti interni del PnF, e, particolarmente interessante risulta il dibattito/polemica sulla chiesa cattolica che impegno per diverso tempo la scuola di mistica. Il saggio di Grandi ci racconta questa vicenda, a mio avviso molto interessante, in cui si discuteva della posizione della mistica fascista in relazione alla mistica religiosa, ci si chiedeva se poteva esserci una “mistica fascista indipendente da quella religiosa” e se quest’ultima poteva essere ignorata dalla mistica fascista. E questo avveniva agli inizi degli anni 30, all’indomani dei patti lateranensi che, a quanto si evince dai dibattiti interni, molto probabilmente erano contestati già all’epoca da una parte del PnF.

Ciò che emerge da questo libro sulla scuola di mistica è un PnF diverso da quello che siamo soliti immaginare, un PnF al cui interno, per quanto limitata, esisteva una pluralità di pensiero, pluralità che trova compimento nel 1943 quando il gran consiglio decise di rimuovere Benito Mussolini dalla guida del partito e dello stato italiano.

Conclusioni

Concludendo, il saggio è molto interessante, molto avvincente anche se non adatto a tutti. Pur non essendo l’opera di uno storico, il saggio si configura come un opera storiografica dal carattere biografico, ben definita. Come abbiamo visto vi è una buona pluralità di fonti, anche se principalmente fonti prodotte dalla stessa mano, quella di Niccolò Giani, ma, trattandosi di un opera “parzialmente biografica”, avere come fonti molte lettere di Giani, non risulta un grande problema. Alla fine, possiamo dire che il saggio racconta la scuola di mistica fascista di Giani, usando come lente lo stesso Giani. L’esperienza che ne consegue è una lettura sicuramente soggettiva (da parte di Giani) della scuola di Mistica e degli eroi del fascismo, condita con un analisi critica e raffinata, prodotta dall’autore che quindi, con abilità e intelletto, riesce a bilanciare la narrazione.

Orso Mario Corbino, il liberale che ha “introdotto le pensioni” in italia

Lui è Orso Mario Corbino e probabilmente non avete mai sentito parlare di lui. O, se ne avete sentito parlare, è in merito ad uno scandalo di tangenti che coinvolge la Standard Oil nel 1924.

Orso Corbino è stato un senatore del regno d’Italia durante il regime Fascista, eletto in parlamento per la prima volta nel 1921 e rimasto in carica fino al 1937, anno della sua morte.

Oltre ad essere un Senatore, Corbino, tra il 1921 ed il 1924, fu anche Ministro, prima dell’Istruzione e poi dell’economia nazionale, tuttavia, nonostante fu ministro durante il governo Mussolini I, Corbino non era un fascista, e non lo sarebbe mai stato.

La storia delle pensioni, in italia, è ovviamente molto più ampia di così, e inizia nel 1898 con la fondazione di un istituto che oggi conosciamo con il nome di INPS e che, tra il 1895 e il 1919, consentì ai dipendenti pubblici, su base volontaria, di avere accesso ad un indennità, una somma di denaro mensile versato dallo stato, una volta raggiunta una certa età e l’impossibilità di continuare a lavorare, associabile a quella che oggi chiamiamo pensione.

Posizione politica di Orso Mario Corbino

Orso Corbino era un liberale, un liberale convinto, eletto al senato del regno d’italia nel 1921 tra le fila del Partito Liberale Italiano, il partito della Destra storica, che in quel momento rappresentava tutto ciò che rimaneva dell’eredità di Cavour.

Nel 1921 Ivanoe Bonomi invitò Corbino nella propria squadra di governo, affidandogli il ministero dell’Istruzione, carica che avrebbe ricoperto fino al Febbraio del 22. Come sappiamo, nell’ottobre del 22 ci fu la marcia su Roma, che portò alla nascita del governo Mussolini I e proprio durante questo governo, nel luglio del 1923, in seguito ad un rimpasto di governo Orso Mario Corbino venne invitato, da Mussolini, a ricoprire l’incarico di Ministro dell’Economia Nazionale, andando così a rimpiazzare Teofilo Rossi, liberale Giolittiano che dopo la marcia su roma si era schierato a favore del fascismo.

I motivi per cui Mussolini sostituì Rossi con Corbino sono diversi, tra questi, la grande popolarità di Corbino sia tra i Liberali che i Socialisti, popolarità che quindi permetteva al PNF che governava con appena il 19% dei consensi, di poter legiferare.

Appena insediato al ministero Corbino si fece immediatamente promotore di una proposta di legge, poi diventata legge effettiva con il decreto legge 3184 del 30 dicembre 1923, con cui si rendeva obbligatoria la pensione.

La famosa legge con cui, da anni, i fascisti alimentano il mito di Mussolini e le pensioni. Ecco, quella legge lì, proprio la legge con cui “mussolini” introdusse le pensioni civili. Quella legge è stata proposta da un Liberale, oltre che accademico, che, in vita sua, non avrebbe mai aderito al fascismo e anzi, sarebbe stato uno dei primi senatori ad aderire al movimento antifascista.

La legge sulle pensioni

Questa legge in realtà non fu una creazione originale di Corbino, la legge era stata infatti proposta per la prima volta nel 1919, ma, in seguito al cambio di governo e degli equilibri politici successivi alle elezioni del novembre 1919, la legge aveva subito una brusca interruzione.

Nel febbraio del 1920 Dante Ferraris aveva provato a rilanciare il disegno, e lo stesso fece, nel giugno dello stesso anno il socialista Arturo Labriola, purtroppo però, Liberali e Socialisti avevano visioni diverse e il quadro politico dell’epoca, molto instabile, soprattutto per via dei turbamenti legati al biennio rosso, misero la legge in stasi.

Con le nuove elezioni del 1921 la situazione, almeno all’inizio, non migliorò, i liberali, con Bonomi, sostenuti inizialmente dai popolari ed altri partiti minori, ottennero la guida del governo, ma l’alta instabilità non permise di realizzare granché.

Nell’ottobre del 22, con la marcia su roma e la guida del governo affidata a Mussolini, la situazione migliorò solo di facciata, de facto le commissioni parlamentari produssero pochissimi testi che divennero effettivamente leggi, e i pochi che ci riuscirono, furono realizzati grazie al grande carisma dei promotori e la mobilitazione di tutte le forze politiche.

Orso Mario Corbino, certamente non mancava di carisma, come anticipato, fu invitato al ministero dell’economia nazionale, per la sua grande capacità, dimostrata durante l’esperienza da ministro dell’istruzione, di mettere d’accordo le diverse forze politiche, e trovare un punto di incontro su un terreno comune.

Corbino accettò l’incarico dal luglio del 23 al settembre del 24 fu Ministro dell’economia nazionale.

Corbino e la legge sulle pensioni

L’invito di Mussolini a Corbino non era disinteressato, l’abilità politica del fisico ed il suo carisma erano uno strumento importante e la popolarità di Crobino iniziava a crescere molto rapidamente, anche fuori dagli ambienti politici. Mussolini pensò quindi di legare il nome di Corbino al Fascismo, facendo di lui uno degli uomini chiave della propaganda.

Questo si tradusse in una totale autonomia di Corbino, che poté quindi operare liberamente, sostenuto dal fascismo, dai liberali, dai popolari e dai socialisti.

Grazie a questa libertà Corbino propose un disegno di legge che rendeva obbligatorie le pensioni, il disegno di legge fu il frutto di un compromesso tra le posizioni liberali e quelle dei socialisti sul tema, e ricevette l’approvazione di Mussolini e del fascismo, che vedevano in quella legge una doppia opportunità.

Se la legge fosse stata accolta in modo positivo dagli elettori, sarebbe stata rivendicata, come è stato, come un grande successo del fascismo, se invece sarebbe stata un flop, la responsabilità sarebbe stata scaricata sul promotore, che, non era fascista, rendendola quindi un fallimento di liberali, popolari e socialisti.

La legge venne accolta positivamente, e, anche se promossa da Corbino, la legge non venne mai chiamata con il suo nome, venne invece legata alla propaganda fascista, mentre Corbino, cadde nel dimenticatoio e, dopo le elezioni del 24, pur venendo riconfermato come senatore, il suo nome non figurò più nel roast dei ministri di mussolini.

Corbino e la massoneria

Sull’uscita di scena di Corbino vi sono varie teorie, da un lato alcuni sostenono che l’uomo, durante il proprio mandato ministeriale, abbia intascato una tangente dalla Standard Oil insieme al ministro Gabriele Carnazza, entrambi massoni della Serenissima Gran Loggia d’Italia.

Secondo questa ipotesi, i massoni di Piazza del Gesù sarebbero dietro al delitto Matteotti, il quale sarebbe stato assassinato per coprire le tangenti riscosse dai propri adepti.

Questa ipotesi è tuttavia altamente improbabile, si fonda esclusivamente su incartamenti privati di Mussolini, scagiona Mussolini dal delitto Matteotti, ed incrimina gli unici due ministri, del primo governo Mussolini, non fascisti.

Questa storia presenta molte irregolarità, ed è fin troppo conveniente per Mussolini, autore delle uniche prove a sostegno di questa teoria, prove che sono emerse durante le indagini sul delitto Matteotti.

In ogni caso, uno dei principali sostenitori di questa teoria è il saggista statunitense, ex agente dell’OSS, Peter Tompkins, autore di libri molto popolari come “Dalle carte segrete del Duce”, 2001, la cui autorevolezza storiografica è prossima allo zero, si tratta di libri più inclini alla narrativa che non alla narrazione storica, in cui si elaborano teorie cospirative, estremamente affascinanti, ma non basate sul metodo comparativo.

Se volete leggere qualcosa sul tema della massoneria, vi consiglio il libro La Massoneria, la storia, gli uomini, le idee, a cura di Zeffiro Ciuffoletti e Sergio Moravia

Conclusioni

Orso Mario Corbino è stato un accademico e politico italiano, due volte ministro tra il 1921 ed il 1924, prima come ministro dell’Istruzione, sotto il governo Bonomi e poi ministro dell’economia nazionale sotto il governo Mussolini.

Nonostante Corbino fu ministro nel primo governo di mussolini, il fisico non aderì mai al fascismo e mai ne condivise i valori o gli ideali. Nel 1925 Corbino si unì al movimento antifascista e fu uno dei pochi politici italiani che non si iscrissero mai al Partito.

Corbino fu un uomo molto riservato ed un politico molto carismatico, capace di mettere d’accordo socialisti e liberali, una dote rara che gli permise di portare a compimento un progetto legislativo iniziato nel 1919, creando le pensioni civili.

Un merito incredibile che il fascismo riuscì a strappargli facendolo proprio.

Corbino fu anche al centro di uno scandalo che emerse durante le indagini sul delitto Matteotti, uno scandalo probabilmente costruito ad Hoc da Mussolini per allontanare le indagini dal reale mandante e liberarsi allo stesso tempo di un possibile rivale ed oppositore politico.

La legge Corbino, mai chiamata con questo nome, è stata una delle pochissime leggi, insieme alla Legge Acerbo, ad essere prodotte in italia durante il primo governo Mussolini.

In ogni caso, le pensioni in italia sono un invenzione dei Liberali, rese possibili dal compromesso tra liberali e socialisti e nell’iter legislativo che portò alla creazione della legge 3184 del 30 dicembre 1923, il ruolo di Mussolini e del Fascismo fu assolutamente marginale. La legge venne proposta da un Liberale, venne votata da tutte le forze politiche, e il solo contributo dato dal fascismo alla legge, in fase di scrittura, fu il voto favorevole alle camere, un voto obbligato dal fatto che la legge era stata proposta da un ministro del governo Mussolini I, anche se, quel ministro, non solo non era un Fascista, ma mai lo sarebbe stato.

Il ricordo storico delle Foibe

Oggi è la giornata delle memoria per le vittime delle Foibe, parliamo allora delle vittime delle foibe. Ma parliamone in termini storici e senza fare propaganda.

Quando si parla delle Foibe, la prima cosa che si dice è che furono uccisi perché “colpevoli di essere italiani”.
La verità, è leggermente più complicata di così e la storia che le vittime delle foibe furono vittime di un qualche odio verso gli italiani/italiofoni, è in realtà, frutto della propaganda.

La vera “colpa” delle vittime delle foibe (e con questo non voglio assolutamente giustificare i foibisti, anzi, condanno i loro crimini, non meno disgustosi di quelli del fascismo e del terzo reich) non era quella di “essere italiani o italiofoni” perché tra i foibisti, in realtà, c’erano moltissime persone che parlavano italiano, e che erano molto più vicini alla cultura e alle tradizioni italiche che a quelle dell’area balcanica.

La loro colpa era quella di essersi rifiutati di lasciare le terre che pochissimi anni prima avevano occupato, la loro colpa era quella di essere andati lì come fascisti e di aver stuprato donne e assassinato brutalmente chiunque si fosse opposto a loro, erano colpevoli di aver cacciato i locali dalle proprie terre e dalle proprie case e di essersi impossessati di quelle terre e di quelle case.
Va però altresì detto che non tutti gli “italiani” o per essere più precisi, tutti i non slavi nella regione rientravano in questo profilo, vi erano anche moltissime persone che erano andate lì come lavoratori stagionali e che erano rimaste lì, pacificamente, e che avevano vissuto pacificamente con i locali, ma purtroppo, durante le ondate “nazionaliste” quando si va a tracciare una linea di confine tra “noi e loro” chiunque non sia “noi” diventa automaticamente portatore di tutti i crimini commessi dagli altri, e di conseguenza moltissimi italiani innocenti, vennero trattati come dei criminali e vennero messi al bando, vennero cacciati e costretti ad andare via, a lasciare per sempre quelle terre, in un modo o nell’altro.
Alcuni capendo la situazione fuggirono, e i primi a fuggire furono proprio quelli con la coscienza sporca, quelli che si sentivano direttamente minacciati, molti altri invece, non avendo fatto nulla di male, decisero di rimanere, e nel rimanere, andarono in contro alla rappresaglia disumana e sproporzionata dei foibisti e vennero trattati, come gli italiani avevano trattato chi si era rifiutato di giurare fedeltà al Fascismo.
Vennero arrestati, portati sui monti, assassinati e gettati nelle Foibe.

Ciò che è successo è stato schifoso e disumano, e lo è stato sia prima che durante che dopo la guerra, è stato disgustoso e disumano il comportamento degli italiani prima e durante la guerra, nei confronti dei locali, così come lo è stato quello dei locali, dopo la guerra, nei confronti degli italiani, e personalmente trovo altrettanto schifoso far finta che la colpa sia solo dell’una o dell’altra parte, senza invece considerare il contesto storico e tutto ciò che vi era dietro e che tra il 1919 (dall’occupazione di fiume) e il 1945 aveva contribuito ad alimentare tensione e intolleranza nella regione.

Le vittime delle foibe sono anzitutto vittime del Nazionalismo cieco e brutale, sono vittime della generalizzazione, dell’incapacità di distinguere il vero colpevole, da un qualcuno che si trovava lì per caso, ed è abbastanza surreale, che oggi, siano proprio i nazionalisti e sovranisti a puntare il dito contro i crimini del nazionalismo e il sovranismo della jugoslavia di Tito.

Va detta anche un altra cosa, nel 1948 il governo italiano, in accordo con il governo jugoslavo, ha scelto di mettere una pietra su questa vicenda, di passare oltre.
L’italia nel dopoguerra aveva tanti problemi, e rischiava di perdere il controllo di alcune città e regioni di “frontiera” a causa di una disputa sulla liberazione, con la Jugoslavia, inoltre vi erano accuse reciproche, tra Italia e Jugoslavia, di aver commesso atroci crimini durante il periodo bellico.

Settant’anni dopo, quello che è successo va assolutamente ricordato, ma va ricordato in modo Storico, come fatti ormai conclusi da oltre settant’anni. Delle stragi, gli eccidi, la pulizia etnica, sia in età fascista che nel regime di Tito, va preservata la memoria storica, non va invece proseguita la narrazione politica, politicizzata e propagandistica.

Anche perché, a volerla dire tutta, fu la corrente di destra della DC e successivamente il MSI a spingere per l’archiviazione dei fascicoli per crimini di guerra, mentre il PCI si configurò nella scena politica degli anni cinquanta, come l’unico partito italiano condannò apertamente i crimini di guerra della Jugoslavia e che a più riprese, in modo costante fino al 1954 e in modo saltuario fino ai primi anni sessanta, chiese pubblicamente la riapertura dei fascicoli, ma la sua voce rimase inascoltata fino a quando non svanì del tutto.

Bibliografia e Fonti

Michele Battini, Peccati di memoria. La mancata Norimberga italiana, Laterza. 
Jon Elster, Chiudere i conti. La giustizia nelle transizioni politiche, Il Mulino.
Jacques Sémelin, Purificare e distruggere. Usi politici dei massacri e dei genocidi, Einaudi.
Joanna Bourke, Le seduzioni della guerra. Miti e storie di soldati in battaglia, Carocci.
Carlo Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia, Einaudi.
Danilo Zolo, La giustizia dei vincitori, Feltrinelli.
Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi, Emilio Franzina, Storia dell’emigrazione italiana, Donzelli.
Corrado Barberis, Le campagne italiane dall’ottocento ad oggi, La Terza

Perché la Germania si vergogna del Nazismo mentre l’Italia non fa lo stesso con il Fascismo?

Perché in germania i tedeschi si vergognano del Nazismo, metre gli italiani non sembra si vergognino più del fascismo e in alcuni casi sembrano desiderare un suo ritorno?

Come mai in Germania, l’opinione pubblica, si vergogna di essere stati nazisti (nonostante qualche rare eccezione), mentre da in italia, l’opinione pubblica, molto spesso è spesso nostalgica di quegli anni e addirittura nel nostro paese ci sono forze politiche, non irrilevanti, dichiaratamente simpatizzanti per la politica fascista, pur non dichiarandosi apertamente fascisti perché fortunatamente la costituzione lo impedisce?

Perché in Italia il Fascismo non è universalmente percepito come una macchia nel nostro passato, un qualcosa di cui vergognarsi e da cui mantenere le distanze, ostracizzando quelle idee, quelle proposte e quegli elementi propri della politica fascista?

Detto più banalmente, perché gli eredi di Hitler, Himmler e degli altri gerarchi nazisti si vergognano dei propri antenati, mentre in italia gli eredi di Mussolini e degli altri gerarchi fascisti vanno fieri dei propri antenati e in alcuni casi, ne esaltano la memoria, cercando in ogni modo di evidenziare le “cose buone” fatte dal fascismo… come se aver bonificato una palude potesse giustificare omicidi, pestaggi, deportazioni ed eccidi…

La risposta a queste domande non è semplice, ma voglio provare comunque a rispondere.

La ragione è politica, ma non parlo della politica odierna, mi riferisco invece alla politica del dopoguerra, perché è in quegli anni, tra il 1945 ed il 1948 circa, che il problema del fascismo nostalgico, affonda le proprie radici.

Finita la guerra, finita la seconda guerra mondiale, la Germania ed i tedeschi, hanno dovuto prendere coscienza del proprio passato, di ciò che era successo, di ciò che era stato fatto e di ciò che la popolazione tedesca aveva permesso al Nazismo di fare. Mentre in Germania il nazismo è stato ufficialmente condannato, sia politicamente che giuridicamente, e la popolazione tedesca ha in qualche modo “pagato il conto” dell’esperienza nazista, in italia tutto questo non è successo e la popolazione italiana è stata in un certo senso assolta. Complice anche la guerra civile (1943-1945) e le operazioni di “resistenza” al fascismo da un lato, e la mancata volontà politica di parlare di guerra civile per decenni, facendo invece percepire il conflitto avvenuto nella penisola tra il 1943 ed il 1945 come una guerra tra italiani e stranieri (americani o tedeschi che siano), creando così, sul piano politico dell’epoca un vero e proprio divario tra “italiani” e “fascisti”.

Nel 1945, la Germania prendeva cosicenza che i tedeschi avevano appoggiato e voluto il Nazismo, e chi non lo voleva si era banalmente voltato dall’altra parte o era scappato, dando de facto la percezione che, tutti i tedeschi erano nazisti e dovevano pentirsi di ciò che avevano fatto. In Italia invece, questo non avviene, gli italiani, per via della guerra civile, nonostante per circa un ventennio non abbiano mosso un dito, improvvisamente non sono più fascisti, e dunque non c’era motivo di vergognarsi delle azioni dei fascisti, solo i fascisti erano colpevoli… dimenticando forse troppo facilmente che per oltre vent’anni il fascismo aveva regolato ogni aspetto della vita degli italiani, e che, salvo pochissime eccezioni, quasi nessuno prima del 43 si era opposto in modo incisivo. Gli italiani, esattamente come i tedeschi, avevano scelto il fascismo, ma, una volta che il fascismo non c’era più, semplicemente si voltarono dall’altra parte, così come per vent’anni si erano voltati dall’altra parte mentre il fascismo imperava nel paese.

Detto più semplicemente, all’epoca, nell’immediato dopoguerra, il discorso politico in Germania si impostò sul concetto che in Germania, i tedeschi avevano scelto volontariamente il nazismo, e quindi erano complici del Nazismo. Diversamente, in Italia, l’impostazione fu che gli italiani subirono il fascismo, partito da un colpo di stato, e dunque non ne erano complici, e non avevano di che vergognarsi… avevano semplicemente chinato il capo all’uomo col manganello e l’olio di ricino.

Questo tipo di impostazione, permise all’Italia e agli italiani, da un lato di “ripulire le coscienze” degli italiani, che de facto non dovettero mai fare i conti con il fascismo e i suoi crimini, non erano stati gli italiani ad assassinare Matteotti, erano stati i fascisti, non erano stati gli italiani a tacere quando i fascisti andaro a prendere Gobetti, ma gli era stata tappata la bocca, non erano gli italiani ad aver accettato le leggi raziali, erano state imposte dai fascisti. Ma non solo, questa operazione di “pulizia delle coscienze”, si trasferì anche nelle aule dei tribunali e dei tribunali militari, aule vuote in cui dovevano essere processati i i criminali di guerra italiani, i fascisti, ma de facto, ciò non avvenne, non ci furono processi ne condanne, e questo perché, sulla base del principio di reciprocità, l’Italia accettò di processare i propri criminali, ma solo se anche francesi, jugoslavi e americani, vincitori della guerra, avessero processato i propri criminali, e i vincitori della seconda guerra mondiale questo non lo avrebbero mai fatto, mai si sarebbero piegati, da vincitori, alle richieste degli sconfitti, e dunque, l’Italia, ottenendo di poter processare autonomamente i propri criminali, de facto non li processò mai.

La mancata norimberga italiana, per usare un termine coniato nei primi anni duemila da diversi storici italiani che affrontarono la vicenda, è in larga parte responsabile del fatto che, gli italiani non hanno mai fatto i conti col fascismo e che il fascismo non è mai stato completamente consegnato alla storia.

Nel dopoguerra, tutti i partecipanti alla seconda guerra mondiale stilarono enormi liste di criminali di guerra, e dopo anni di trattative e richieste respinte, alla fine si accettò di far ricorso al principio di reciprocità, così da mettere fine, una volta per tutte, alla seconda guerra mondiale. Ogni paese accettò di farsi carico dei processi ai propri criminali, accusati da altre nazioni, così fece anche l’italia, i cui processi furono in qualche modo avviati, i fascicoli furono aperti, le indagini preliminari iniziarono, ma poi accadde qualcosa e tutto venne archiviato e dimenticato in quello che Franco Giustolisi intorno alla metà degli anni 90, definì l’“armadio della vergogna” .

Si tratta di un armadio rimasto chiuso per oltre quarant'anni, in cui, nel 1994 vennero trovati gli incartamenti dei processi mai computi ai criminali di guerra italiani.

Viene da chiedersi, perché, al di la del principio di reciprocità, l’italia non portò a termine quei processi, e la risposta a questa domanda ci arriva direttamente dal materiale trovato in quell’armadio.

Analizzando i documenti, oggi liberamente consultabili da chiunque e conservati presso gli uffici dell’ex tribunale militare di La Spezia, emerge che all’epoca, sul finire degli anni quaranta, a ormai qualche anno di distanza dalla fine della seconda guerra mondiale, in italia si manifersò la precisa volontà politica, dell’allora classe dirigente italiana “dimenticare il fascismo”, di lasciarselo alle spalle, senza però mai farci realmente i conti, senza mai affrontarlo realmente e concretamente, e non affrontandolo il fascismo è rimasto lì, a sedimentare e fermentare.

Oggi, col senno di poi, possiamo dire che ignorare quei fascicoli ed evitare quei processi è stato un gravissimo errore, e volendo cercare dei responsabili, non è difficile individuarli. Tra il materiale emerso dall’armadio della vergognia vi è infatti anche un appunto di un giovane Giulio Andreotti, all’epoca appena un sottosegretario di un ministero senza poetafogli, in cui si invita a ignorare la questione dei processi, per evitare eventuali problemi politici sia interni che internazionali.

Erano anni in cui alcune città italiane, come Trieste, erano sotto il controllo non dello stato italiano ma di forze internazionali, e vi erano pressioni politiche da parte della Jugoslavia per cui le aree liberate dai Jugoslavi durante la guerra, diventassero territori Jugoslavi, e l’unico modo per evitare che questo accadesse era trovare un accordo tra Italia e Jugoslavia.

L’Italia decise quindi, per mantenere l’integrità e l’unità dei propri territori, di non richiedere alla Jugoslavia di processare i propri criminali, tra cui i responsabili degli eccidi delle Foibe, che nel nuovo asset del governo di Tito ricoprivano incarichi di rilievo e posizioni centrali.

L’Italia, o meglio, la sua leadership politica, scelse di non processare i fascisti per ragioni politiche e geopolitiche.

Va detto che, già tra 45 e 48, sulle pagine de l’unità, queste scelte politiche furono aspramente criticate, l’unità fu, fino ai primi anni cinquanta, l’unico giornale in italia che continuò a chiedere apertamente di processare i criminali italiani, ma la sua voce rimase inascoltata. Principalmente perché, per una fetta importante dell’opinione pubblica, queste richieste mascheravano la volontà politica dei comunisti italiani di proseguire la guerra o comunque di aiutare i comunisti Jugoslavi a danno dell’Italia.

Ad ogni modo, ignorata o meno, già all’epoca, sulle pagine dell’unità e tra le fila del PCI (e in larga parte anche del PSI) si teorizzava (e col senno di poi, possiamo dire che si prevedeva e la loro previsione era molto oculata) che ignorare i criminali italiani e non affrontare seriamente il problema del fascismo, fingendo che questi non fosse mai esistito, avrebbe avuto l’effetto pericoloso, in un futuro non troppo reoto, di far sbocciare nuovamente il fiore del fascismo e di riportare alla luce quella pericolosa interpretazione politica della realtà.

Insomma, si diceva chiaramente che, se l’italia non avesse condannato i fascisti, in futuro questi sarebbero potuti tornare, facendo le vittime, poiché non essendo “colpevoli”, visto che nessun fascista era stato condannato da un equo tribunale, e che, i soli fascisti condannati erano stati condannati da tribunali popolari del CLN, potevano, colpevolizzare le scelte dell’Italia antifascista, e, associando l’antifascismo al comunismo, rimettere in discussione l’intera struttura repubblicana ed i suoi equilibri istituzionali, poiché, in questa chiave interpretativa, i fascisti non vennero condannati per i propri crimini di guerra e contro l’umanità, ma, apparentemente, solo per ragioni politiche, rendendo quelle condanne apparentemente inique.

Fonti :

C.Pavone, Una guerra Civile.
M.Battini, Peccati di memoria.
L.Paggi, Il popolo dei morti.
Michele Battini, Peccati di memoria. La mancata Norimberga italiana.
Jon Elster, Chiudere i conti. La giustizia nelle transizioni politiche.
Jacques Sémelin, Purificare e distruggere. Usi politici dei massacri e dei genocidi
Joanna Bourke, Le seduzioni della guerra. Miti e storie di soldati in battaglia.
Carlo Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia.
Einaudi.Danilo Zolo, La giustizia dei vincitori.

Casapound lascia la politica, ma non l’attivismo politico.

Dopo il pessimo risultato alle europee e una crescente impopolarità, Casapound Italia ha deciso di lasciare la politica, lo dice Simone di Stefano, per dedicarsi alla politica.

Dopo il pessimo risultato elettorale conseguito da Casapound Italia alle ultime elezioni europee, dove il partito di estrema destra ha ricevuto appena lo 0,3% dei consensi, e forte di una massiva impopolarità derivante dalla linea politica estremamente dura e intollerante del partito, spesso associato per linguagio, operato e ideologia al fascismo, Casapound Italia ha deciso di chiudere i battenti e lasciare la via politica, almeno quella ufficiale, ma questo non significa abbandono reale della politica.

Casapound esce dai palazzi (nei quali fortunatamente non è mai entrata completamente), abbandona la via politica delle elezioni, e torna, a suo dire, a fare attivismo politico per, cito le parole del leader del partito

Simone di Stefano su Twitter

“tornare ad essere il laboratorio di avanguardia politica, culturale e solidaristica che era un tempo”

Avanguardia politica, culturale e solidaristica… parole forti, parole grosse, e in questo caso parole ingombranti.

Ingombranti perché non riflettono neanche lontanamente quella che è l’attività di Casapound Italia, un organizzazione politica che da sempre vive al margine della legalità e tra i cui militanti figurano individui con la fedina penale più sporca della carta igienica usata da qualcuno che è intollerante al lattosio, dopo aver mangiato da solo un inera zizzona di battipaglia.

Sono giorni duri per la democrazia, sono giorni oscuri per la nostra repubblica, sono giorni dannati per la nostra libertà, una libertà pericolosa a volte, ma sacra. Una libertà culturale e di espressione che CPI da sempre rivendia per se, ma non per altri, e da sempre, è pronta a negare ad altri quelle libertà fondamentali garantite dalla nostra costituzione.

Che CPI non mi piaccia non credo sia un segreto, e personalmente credo che chiunque abbia un briciolo di dignità, buon senso, e intelligenza, condivida la mia poca simpatia per questa organizzazione politica a tratti criminale, a tratti paramilitare, che in passato, in più occasioni, ha cercato di sostituirsi alle istituzioni statali, agendo autonomamente con atti di squadrismo, pestaggi e atti di vandalismo.

Per CPI la cultura non è cultura, è un dogma, valida solo se risponde a determinati requisiti e allineata ad un preciso orientamento politico, oltre il quale la cultura non esiste esiste e non può esistere.

Sinceramente non so cosa intendano quando parlano di cultura, probabilmente incontri a porte chiuse, in cui ricordare con nostalgia il ventennio e vomitare odio su qualsiasi altra cosa ed espressione culturale. Sicuramente non è una cultura storica, poiché la “loro” idea di storia è distorta dalla propaganda politica di estrema destra e rigettano sistematicamente ogni qualsiasi altra narrazione, o interpretazione storica, per non parlare dell’avulsione della storiografia.

Voglio sperare che l’abbandono della politica “ufficiale” da parte di CPI non si traduca nell’inizio di un attività di “militanza attiva” in altri partiti, più grandi e rilevanti sul piano nazionale, deviando ulteriormente la politica italiana verso l’estrema destra, che già una volta ha devastato l’italia e causato innumerevoli vittime civili, ma soprattutto, voglio sperare che il loro abbandono della politica sia reale, e non solo di facciata. Ma viste le premesse e l’intento di “tornare” ad essere un laboratorio di avanguardia politica (fossilizzato sulla politica del ventennio) con un ideologia di forndo fortemente intollerante, xenofoba e omofoba, mi è estremamente difficile pensare che adesso CPI resterà in silenzio, e anzi, fuori dalla politica “ufficiale” temo che cercheranno di far sentire ancora di più la propria voce, e la mia preoccupazione più grande è che si trasformeranno in uno strumento esterno ad altri partiti, con i cui leader CPI è in ottimi rapporti, per promuovere e sviscerare i sentimenti di intolleranza che li accomunano, trasformandosi a tutti gli effetti in una primigena forma di squadrismo asservita ad altre forze politiche di estrema destra.

Questa visione catastrofista e puramente speculativa prende le battute dal nostro recente passato. Già una volta è accaduto qualcosa di molto simile e lo scotto da pagare per l’italia e gli italiani è stato un regime dittatoriale rimasto in carica per un ventennio e successivamente una guerra civile che non ha risparmiato nessuno nell’intera penisola.

Dai Blocchi Nazionali a CPI, passando per il ventennio fascista e la guerra civile.

Nel 1920 diversi gruppi politici (partiti minori) di estrema destra, si sciolsero ed i loro militanti confluirono in un macrogruppo noto come Blocchi Nazionali, il cui referente politico era Giovanni Giolitti, alle politiche del 1921 questi blocchi nazionali ottennero un importante risultato elettorale, se bene non fu tale da garantire loro la possibilità di governare e dopo circa un anno di esitazioni e tentennamenti, venne organizzata una marcia dei militanti dei blocchi nazionali, che nel frattempo aveva cambiato nome in Partito Nazionale Fascista, questa marcia, nota come Marcia su Roma.

La marcia su roma, non fu improvvisata come molti credono, ma ci fu una lunga e oculata preparazione, di cui ho parlato in un precedente articolo, qui mi limito a dire che fu un elemento di enorme pressione politica per il Re che fu “forzato” a nominare Benito Mussolini, leader del PNF nuovo capo di stato, con l’incarico, ben preciso, di riformare il parlamento e produrre una legge elettorale in grado di garantire un governo forte e autonomo.

La legge arrivò nel 1924 ed è nota come Legge Acerbo che conferiva un premio di maggioranza di oltre il 60% al primo partito, a condizione che questi superasse il 20% dei voti. In un altro articolo ho parlato nel dettaglio della Legge Acerbo, spiegando come si è giunti ad essa.

Con la Legge Acerbo il PNF riesce ad ottenere la maggioranza dei seggi, grazie a qualche broglio, il pestaggio degli oppositori e la distruzione sistematica delle sedi dei partiti diversi dal PNF, con un escalation di violenza che confluì nel rapimento e omicidio del deputato socialista Giacomo Matteotti. Tutto questo portò alla nascita del regime fascista, l’inizio della dittatura e la fine della libertà in italia.

L’aria che si respirava all’epoca era fetida, più fetida di un sacchetto dell’umido lasciato a riposare per 2 settimane sotto il sole di agosto, per andare avanti, per vivere, per sopravvivere in italia bisognava tapparsi il naso, buttare giù un cucchiaio di olio di ricino, e sperare di non essere pestati per aver pensato qualcosa di sbagliato.

Oggi, catastrofismi a parte, non siamo neanche lontanamente vicini a quel livello, e se bene nell’aria inizi a sentirsi un po’ di puzza, e si respira un sempre maggiore clima di violenza e l’intolleranza, ed i sentimenti di razzismo e odio viscerale per il diverso sono sempre più forti, in realtà c’è ancora una fetta importante di italia civile, che, si spera, questa volta resisterà e non sceglierà la più comoda via dell’ignavia, manifestando il proprio dissenso senza però muovere un dito, come invece accadde all’alba del ventennio.

Legge Acerbo | Tutto quello che devi sapere sulla legge Acerbo

La legge Acerbo del La legge Acerbo (18 dicembre 1923) assegnava un premio di maggioranza del 60% al primo partito italiano, ecco come si è giunti a questa legge elettorale.

La legge Acerbo (legge 18 dicembre 1923, n. 2444), dal nome dell’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giacomo Acerbo, è stata una legge elettorale del regno d’Italia, ed aveva il compito di garantire al paese (Italia), quello che oggi definiremmo un governo stabile, assegnando quindi una maggioranza parlamentare al primo partito italiano, per numero di voti ottenuti alle elezioni.

La Legge Acerbo, così come tutte le leggi del regno d’italia, precedenti l’avvento del fascismo, segue un preciso iter burocratico e parlamentare, che va dalla presentazione del Disegno di Legge, avvenuta per mano di Giacomo Acerbo, allora sottosegretario alla presidenza del consiglio, al consiglio dei ministri che la approvò il 4 giugno 1923, successivamente, il 9 giugno venne presa in carica dalla camera e sottoposta alla verifica di una commissione parlamentare, che da prassi era nominata dal presidente della Camera, all’epoca Enrico de Nicola, futuro presidente dell’assemblea costituente e successivamente presidente provvisorio della repubblica.

La commissione parlamentare che ha lavorato alla legge acerbo

La commissione parlamentare che lavorò alla realizzazione della Legge Acerbo, nota come commissione dei diciotto, era costituita da diciotto parlamentari, selezionati in base al principio di rappresentanza dei gruppi, questo significa che vennero inseriti nella commissione un certo numero di parlamentari per ogni gruppo/partito presente in parlamento, proporzionale al numero di seggi totali di cui ogni partito disponeva e il partito con meno seggi in parlamento ottenne un solo rappresentante in commissione.
A presiedere la commissione fu Giovanni Giolitti, in rappresentanza della lista dei Blocchi Nazionali (futuro Partito Nazionale Fascista), con cui Giolitti era stato eletto in parlamento, e in quel momento era il principale partito di governo poiché la carica di capo del governo era stata assegnata a Benito Mussolini che aveva assunto il controllo dei Blocchi Nazionali.

Giovanni Giolitti era stato in passato una figura centrale nella politica italiana, ricoprendo la carica di capo del governo per quasi vent’anni e la sua influenza fu tale che quel periodo avrebbe preso il nome di “età giolittiana”. Se vuoi approfondire l’argomento, ho dedicato un video video all’età giolittiana.

Altri membri di rilievo della commissione acerbo furono, gli ex primi ministri, Vittorio Emanuele Orlando, Antonio Salandra e Ivonne Bonomi, va inoltre segnalata la presenza in commissione di un relativamente giovane Alcide de Gasperi, all’epoca quarantenne, che, insieme ad Enrico De Nicola, avrebbe rappresentato il volto della prima repubblica, diventando nel 1945 il primo presidente del consiglio dell’italia repubblicana.

Una volta ottenuta l’approvazione della camera e passata al voto del senato, la “legge” Acerbo divenne effettivamente legge il 18 dicembre 1923. La legge n.2444 del 18 novembre 1923 è universalmente nota come Legge Acerbo e come è facile intuire, prende il nome dal proprio ideatore originale, l’allora sottosegretario alla presidenza del consiglio Giacomo Acerbo della lista dei Blocchi Nazionali.

Cosa prevede la legge Acerbo?

Questa legge prevedeva l’adozione del sistema maggioritario plurinominale all’interno di un collegio unico nazionale. Detto più semplicemente, questo significa che con la legge acerbo, il parlamento italiano era eletto su base nazionale ed i seggi parlamentari erano assegnati in proporzione ai voti totali ottenuti dalle varie liste su scala nazionale.

Ogni lista poteva presentare (al massimo) un numero di candidati pari ai due terzi dei seggi totali del parlamento, questo perché inizialmente il premio di maggioranza era fissato ai 2/3 del parlamento e successivamente, durante le operazioni di revisione della commissione, questo numero fu ridotto dal 66% (due terzi del parlamento) al 60%, rimase però invariato il numero di parlamentari che potevano essere inseriti nelle liste. Il restante 40% del parlamento, secondo questa legge elettorale, stato distribuito, in maniera proporzionale, tra tutti i restanti partiti eletti. Questo però significa anche che, indipendentemente dall’effettivo risultato elettorale, la ripartizione dei seggi parlamentari dipendeva esclusivamente dal premio di maggioranza riconosciuto alla lista vincitrice.

Detto il più semplicemente possibile, alla lista che alle elezioni avesse ottenuto più voti, e con più voti si intendeva anche un solo voto in più rispetto alla seconda lista, ed avesse superato un margine di sbarramento posto al 25% dei voti totali, sarebbero stati assegnati, grazie alla suddetta legge, il 60% dei seggi totali del Parlamento italiano, mentre il restante 40% sarebbe stato distribuito, in maniera proporzionale tra tutte le altre liste e che possiamo identificare con i principali partiti politici dell’epoca.

In questo modo, anche nel caso estremo in cui tutte le forze di minoranza si fossero alleate tra di loro, nel tentativo di ostacolare l’operato del governo, questi non avrebbero avuto abbastanza voti a disposizione, per poter impedire al governo di lavorare, poiché il governo era rappresentanza del primo partito e questi, in ogni caso, poteva contare sul 60% del parlamento.

Va precisato che, negli anni immediatamente precedenti alla Legge Acerbo, il sistema partitico del regno d’italia era leggermente diverso da quello che siamo abituati a conoscere oggi, e allo stesso tempo era profondamente diverso dal sistema partitico ottocentesco in cui, i singoli parlamentari erano eletti direttamente in parlamento, su base locale e regionale, senza passare per liste o partiti, ed soltanto successivamente, una volta prestato giuramento al regno di italia e preso posto in parlamento, questi si organizzavano in gruppi politici. Per farla breve, nei primi anni ’20 le modalità con cui si costituiva il parlamento, erano una sorta di via di mezzo tra il vecchio sistema ottocentesco e quello odierno.

Conclusioni

Qualche breve considerazione finale e in un certo senso personale, anche se in misure diverse, tutti i partiti presenti in parlamento nel 1923 contribuirono a realizzare questa legge elettorale, di fatto ci fu relativamente poca, pochissima, opposizione e la legge proposta dai Blocchi Nazionali subì pochissime modifiche durante i vari passaggi in commissione. Questo significa che se da una parte è assolutamente vero che questa legge consegnò definitivamente il paese italia nelle mani di Benito Mussolini e del fascismo, perché i Blocchi Nazionali furono identificati come gli ideatori reali di questa legge che avrebbe dato stabilità al paese, va sottolineato e non va assolutamente dimenticato che la responsabilità finale, dell’approvazione della legge, e delle sue conseguenze, fu di tutte le forze politiche che diedero la propria approvazione alla realizzazione di una legge elettorale che de facto assegnava il 60% del parlamento ad un singolo partito, rendendo assolutamente irrilevanti le opposizioni.

Fonti e libri per approfondire

Portale Storico della Camera dei deputati della repubblica – sistema premio di maggioranza 1924
E.Gentile, Fascismo. Storia e interpretazioneE.Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925)
E.Gentile, Il fascismo in tre capitoli
R.De Felice, Le Interpretazioni del Fascismo
R.De Felice, Intervista sul Fascismo
R.De Felice, Breve Storia del Fascismo
B.Mussolini, Dottrina del fascissmo

Vittorio Emanuele III, il Re Ignavo

In questi giorni il nome Savoia è particolarmente legato alla cronaca, soprattutto per quanto riguarda Vittorio Emanuele III e la richiesta dei suoi eredi affinché l’antenato venga sepolto al Pantheon, dove giacciono altri suoi più illustri antenati e numerosi “patrioti” italiani.

Sono apparsi numerosi articoli biografici su Vittorio Emanuele III e sui Savoia in generale e penso sarebbe superfluo riproporre questi stessi contenuti anche qui, ma allo stesso tempo, da storico dell’età contemporanea, non posso esimermi dal parlarne e anzi, approfitto della vicenda per consigliarvi un libro. I Savoia di Gianni Oliva.

Cominciamo col dire che Gianni Oliva è uno storico italiano di origini torinesi, molto legato alla sua città e questo legame lo ha reso in qualche modo uno dei principali interpreti del novecento italiano, soprattutto per questioni riguardanti casa Savoia, questo libro in particolare ripercorre la storia di questa famiglia che, nel bene e nel male, ha giocato un ruolo centrale nella più recente storia italiana.
Nel libro Oliva racconta i Savoia sin dalle loro origini, ovvero quando non erano ancora una delle grandi famiglie della nobiltà europee, tuttavia, già dalla presentazione scopriamo che la storia dei Savoia è una storia molto antica, iniziata nella Borgogna del X secolo, quando la famiglia amministrava un i territori della Contea di Savoia nel regno di Borgogna. Circa cinque secoli più tardi, nel XV secolo quegli stessi territori furono elevati allo status di Ducato e continuarono ad essere amministrati dalla famiglia Savoia che di conseguenza fu elevata al titolo di Duca. Nei secoli successivi i membri di casa Savoia riescono a sopravvivere alle grandi turbolenze che in europa hanno portato alla capitolazione di molte teste coronate, in particolare la rivoluzione francese e campagne napoleoniche. In fine, nel XVIII secolo, sfruttando a proprio vantaggio alcune correnti e interessi politici di altre nazioni, riuscirono ad elevare il proprio ducato alla dignità di regno dando inizio a quello che sarebbe poi diventato il regno d’Italia e questo avrebbe permesso alla famiglia Savoia, di giocare finalmente un ruolo centrale sul grande scacchiere europeo, diventando a tutti gli effetti una casa reale degna di tale nome.

L’unificazione italiana è vista da alcuni storici come l’apice del potere di casa Savoia, secondo altri invece essa rappresenta solo l’inizio di una fase espansionistica. Questa seconda scuola di pensiero osserva che, non passò molto tempo dalla compiuta unificazione prima che l’italia si trasformasse in una “potenza coloniale” in grado di garantire ai propri regnanti il titolo e la dignità di Imperatore.
In questi termini qualcuno potrebbe obiettare, dicendo che l’Impero d’Italia è probabilmente uno dei più piccoli, brevi e peggio organizzati imperi della storia occidentale e non farebbe una piega, queste critiche sono assolutamente legittime e innegabili, l’Impero d’Italia ebbe un estensione minima, per non dire ridicola se confrontata ad altri imperi contemporanei, durò effettivamente pochi decenni, per non dire anni, ma nonostante tutto, fu comunque un impero.  Non sono infatti le dimensioni a fare un impero, ma la varietà dei popoli che lo abitano. C’è un video sul mio canale youtube dove spiego che cos’è un impero, qui mi limiterà a dare la definizione da “dizionario”.

Un impero è convenzionalmente un’entità statale costituita da un esteso insieme di territori e popoli, a volte anche molto diversi e lontani, sottoposti ad un’unica autorità, generalmente impersonificata dalla figura dell’imperatore (ma non necessariamente).

Se da una parte nel XIX secolo il regno d’italia vide la sua massima estensione territoriale, fino a diventare un impero, dall’altra, in quello stesso secolo, vide anche il suo declino, un declino che è legato soprattutto ad una serie di scelte politiche sbagliate e azioni sconsiderate che portarono il regno di Italia nella prima e soprattutto nella seconda guerra mondiale, una guerra dalla quale il regno sarebbe uscito sconfitto e distrutto, ma dalle cui ceneri non va dimenticato, sarebbe nata la Repubblica italiana.

E proprio la fine della seconda guerra mondiale e la nascita della repubblica Italiana rappresentano la chiave di lettura di questo mio personalissimo intervento.

Quando nel 1946 gli italiani furono chiamati a votare in un referendum per scegliere tra monarchia e repubblica, una vasta schiera di elettori (circa il 46%) confermò la propria fiducia alla monarchia e a casa Savoia votando in favore della Monarchia, tuttavia questo non fu sufficiente in quanto più del 53% degli italiani sfiduciò la monarchia scegliendo la Repubblica.

 

Come sappiamo la vittoria repubblicana non fu un trionfo, fu più una vittoria di fortuna e la differenza di appena 2 milioni voti tra Repubblica e Monarchia fu estremamente lieve,  e fu proprio la massiccia presenza dei Monarchici italiani, soprattutto nell’Italia meridionale, che spinse la nascente Repubblica Italiana a bandire ed esiliare i Savoia dal territorio italiano.
I padri costituenti sapevano che la presenza in italia dei Savoia avrebbe avuto un peso politico enorme, un peso che non poteva essere ignorato e che avrebbe permesso loro di influenzare le decisioni politiche, estremamente delicate, che avrebbero accompagnato i primi anni del dopoguerra. Per queste ed innumerevoli altre ragioni, si decise allora di allontanare i Savoia.

Allontanare i Savoia all’epoca sembrò una scelta necessaria per poter affrontare l’impegnativa sfida di creare e costituire uno stato repubblicano e allo stesso tempo per poter prendere le distanze dai numerosi crimini commessi dall’Italia Fascista e nel nome del Re, nel corso del ventennio appena trascorso.
Senza girarci troppo intorno, a distanza di oltre settant’anni possiamo dire che i Savoia e la dittatura furono usati come capro espiatorio per provare a ripulire le coscienze, coscienze che si erano compromesse con una politica dalla quale bisognava prendere le distanze, almeno  finché i loro cuori non sarebbero stati abbastanza maturi per poter affrontare il proprio passato e riconoscere le proprie responsabilità. Nel passato dell’italia e degli italiani c’è stato un ventennio particolarmente oscuro e doloroso, un ventennio con nel bene e nel male (soprattutto nel male) ha rappresentato un capitolo importantissimo della storia italiana.

Oggi Vittorio Emanuele III è noto come il re che ha appoggiato il fascismo, il sovrano d’italia che permise a Mussolini di conquistare il potere, il re che ha affidato il paese nelle mani di un dittatore particolarmente violento, ed è vero, è assolutamente vero e nessuno può negarlo, nessuno può negare il fatto che Vittorio Emanuele III si piegò alle pressioni di Mussolini e che lo nominò primo ministro, nessuno può negare il fatto che Vittorio Emanuele III avesse il potere di sollevare Mussolini dalla guida del paese e che, se bene avesse questo potere, non lo fece ma “restò impassibile a guardare il proprio paese che sprofondava”, ma è anche vero che Vittorio Emanuele III non è diventato re nel 1926, anzi, il suo regno è stato molto probabilmente uno dei più lunghi (nella breve storia del Regno d’Italia), fu incoronato re nell’estate del 1900 e regnò senza governare per più di 45 anni, ovvero fino al 1946 anno in cui abdicò in favore di suo figlio Umberto II, che a differenza del padre ebbe il regno più breve della storia italiana (circa un mese).

Durante il regno di Vittorio Emanuele si sono susseguiti numerosi governi che hanno letteralmente guidato il paese attraverso un passaggio epocale.
Il suo regno è iniziato negli anni conclusivi di una durissima crisi agraria ed economica per la quale il mondo, non solo l’Italia, non era preparato. In quasi mezzo secolo di regno, Vittorio Emanuele III ha assistito alla prima crisi agraria tipo moderno e dovette affrontare due delle più dure crisi economiche del secolo, ha assistito all’ascesa e il declino dello Stato liberale e successivamente all’ascesa e al declino del Fascismo crollato sotto i colpi della Resistenza antifascista. Ha visto la trasformazione dell’Italia, una nazione politicamente molto giovane, in una nazione di primo piano a livello internazionale, i cui modelli politici, per quanto estremi e pericolosi, furono esportati in gran parte dell’europa e visti con ammirazione quasi ovunque nel mondo “occidentale” almeno fino agli anni trenta e dovette affrontare non una, ma ben due guerre mondiali, inoltre vide l’introduzione del suffragio universale prima maschile e poi femminile.

Vittorio Emanuele III non era un santo e non era certamente un demone, un moderno Dante Alighieri probabilmente collocherebbe Vittorio Emanuele III nell’antiinferno insieme agli Ignavi e di fatto possiamo considerare Vittorio Emanuele III un re Ignavo, che non si è prodigato per il bene o per il male e che non ha mai osato, un re che ha limitato la propria autorità adeguandosi alla volontà dei più forti, prima i Liberali, poi i Fascisti e in fine agli Alleati.

I Savoia avrebbero pagato questa inadeguatezza dovendo accettare un profondo sacrificio, dovendo rinunciare alla monarchia, ma allo stesso tempo, proprio questo sacrificio avrebbe dato ad un paese letteralmente distrutto, la forza di ricominciare. L’Italia ha potuto affrontare il secondo dopoguerra con lo spirito di una nazione nuova, una nazione che si era lasciata alle spalle un enorme fardello, una nazione che era disposta a dimenticare e perdonare le responsabilità e le colpe di molti, alcuni dei quali forse con più responsabilità dello stesso re. Per molti ex fascisti l’italia del dopoguerra decise di chiudere un occhio e di perdonare per poter ricominciare, per poter dare inizio ad un nuovo capitolo della propria storia sotto l’emblema della repubblica.

Non sono un Fan di casa Savoia ne della monarchia, personalmente credo profondamente nella democrazia e nelle istituzioni repubblicane ma sono profondamente convinto che se oltre settant’anni fa l’Italia poté affrontare il cammino della ricostruzione e della rinascita, fu anche perché il re Vittorio Emanuele III si fece carico delle colpe e responsabilità di un intera nazione. Di certo questo non basta per cancellare quello che è stato e di certo non ridarà la vita ai milioni di uomini, donne e bambini, che persero la vita durante le guerre in Libia ed Etiopia, ne alle vittime del fascismo e della seconda guerra mondiale, ma, per quanto mi riguarda, credo sia sufficiente a garantire all’ex re d’italia, un posto d’onore nella nostra storia perché, per quanto Vittorio Emanuele III non sia stato un re molto presente nella vita politica del paese, ci ha lasciato un grande insegnamento. Non si può restare a guardare mentre un paese cade lentamente nelle mani di un movimento politico estremista, xenofobo e violento. Vittorio Emanuele III ha pagato con l’esilio e la vita di milioni di Italiani questa indifferenza.

La folla e la storia: intervista al professor Emilio Gentile

Emilio Gentile, storico di fama internazionale, è professore emerito dell’Università di Roma La Sapienza e socio dell’Accademia dei Lincei. Nel 2003 ha ricevuto dall’Università di Berna il Premio Hans Sigrist per i suoi studi sulle religioni della politica. Collabora al “Sole 24 Ore”.

  • Ultimamente, grazie anche all’opera di molti storici, il connubio tra storia e narrativa sta riscuotendo un successo sempre più crescente. Nell’opera di gestazione di un testo, qual è il rapporto che vuole che si instauri tra lei ed un ipotetico lettore?

Un rapporto basato fondamentalmente sul proposito di comunicare al lettore nella forma più chiara e interessante il risultato delle mie ricerche, nella speranza che possano aiutarlo a conoscere e a comprendere meglio l’evento storico narrato. Cerco di esporre i fatti lasciando parlare i documenti – dalle citazioni testuali alle illustrazioni –  affidando all’intreccio narrativo l’interpretazione che io ritengo sia più prossima alla realtà storica. Nei miei libri, lo sforzo costante è intrecciare narrazione e interpretazione, ma ritengo che compito primario dello storico sia raccontare le esperienze umane del passato cercando attraverso la sensibilità dei contemporanei del passato, evitando di incorrere nel peggiore dei peccati storiografici, cioè la sovrapposizione prevaricante dello  storico sui  soggetti che egli studia

  • Quali furono le spinte che lo portarono a scegliere di studiare storia? Che ruolo ha avuto in questo il suo maestro Renzo de Felice?

Ho raccontato nel libro Renzo De Felice. Lo storico e il personaggio (Laterza 2003) e nel libro  Italiani senza padri. Intervista sul Risorgimento, a cura di Simonetta Fiori (Laterza 2011) come è sorta in me la passione per la conoscenza storica fin dall’infanzia, quando osservavo, prima intimorito, poi incuriosito, le stele funerarie di epoca romana che erano esposte nei giardini del paese in cui sono nato. Cominciò allora il desiderio di conoscere gli esseri umani nel passato in tutte le forme della loro esistenza. Con gli anni scolastici, fino all’università, la curiosità è cresciuta a dismisura, man mano che si ampliavano con lo studio gli orizzonti delle civiltà nel passato. All’università scelsi subito di studiare storia, anche se mi iscrissi alla Facoltà di filosofia perché, appassionato lettore di Benedetto Croce al liceo, consideravo lo studio della filosofia propedeutico alla storiografia. I miei primi entusiasmi furono per la Storia medievale, seguendo i corsi sugli eretici tenuto da Arsenio Frugoni. Poi mi entusiasmai per gli “eretici dell’età giolittiana”, da Prezzolini a Gobetti, che erano materia di un corso di Nino Valeri.  Accademicamente, non fui allievo di Renzo De Felice. Nell’ultimo anno di liceo, nel 1965, avevo letto il primo volume della biografia di Mussolini, ma all’università non frequentai i suoi corsi di lezione, non feci con lui alcun esame,  e mai lo incontrai prima della preparazione della tesi di laurea in Storia moderna, iniziata con Valeri e proseguita, dopo il suo pensionamento, con Ruggero Moscati. Conobbi De Felice quando fu nominato come correlatore della mia tesi di laurea. Dopo la laurea, ho insegnato per alcuni anni nei licei varie materie, italiano e latino, storia dell’arte, storia della filosofia; poi, quando vinsi una borsa di studio, iniziai a collaborare con la cattedra di De Felice e col gruppo dei suoi allievi. La sua personalità umana e l’esempio scientifico del suo lavoro storiografico mi aiutarono a proseguire le ricerca e a migliorare il metodo, la riflessione e il concreto lavoro storiografico.

  • Il tema trattato nel suo saggio “Il capo e la folla” è stato per alcuni anni al centro del dibattito storiografico, ma negli anni successivi l’attenzione su questo argomento è andata scemando. Cosa l’ha spinta a scrivere un libro su questo tema?

 

Fin dai primi saggi sul nazionalismo italiano e nel  primo libro, La Voce e l’età giolittiana (1972),  il problema delle masse nella storia contemporanea è stato presente nelle mie ricerche e nella mia riflessione. Dalle avanguardie e dagli  che volevano influire con la cultura e con l’arte sulle masse per formare una coscienza nazionale moderna,  al fascismo, al totalitarismo, alle religioni della politica, fino al capo e la folla, vi è stato un sviluppo continuo della mia riflessione sulla politica di massa, sia in regimi democratici sia in regimi totalitari. Chi avesse la pazienza di ripercorrere attraverso i miei libri, lo svolgimento delle mie ricerche e delle mie interpretazioni, forse giungerebbe alla conclusione che in cinquanta anni ho studiato sempre un unico fenomeno, da molte prospettive e in diverse epoche.

Il capo e la folla (laterza, 2016)

 

  • Un momento di cambiamento nel  rapporto tra il capo e la folla, viene da lei individuato con l’aumento demografico. In che modo tale aumento condizionò questo cambiamento?

 

La politica di massa è fenomeno contemporaneo derivato e connesso ai mutamenti sociali che hanno posto fine all’isolamento delle sparse comunità di villaggio, soggette alla periodica falcidia demografica delle malattie, delle carestie, delle guerre, della fame, e nello stesso tempo hanno accelerato l’aumento progressivo della popolazione, l’urbanizzazione, l’agglomerazione sociale nelle nuove attività produttive, la differenziazione delle classi sociali con la modernizzazione, l’industrializzazione, le migrazioni di massa. Sono questi fenomeni che hanno a loro volta generato le organizzazioni di massa, partiti e sindacati,  e nello stesso tempo hanno generato lo Stato delle masse, dall’ampliamento della scuola pubblica alla leva di massa, alla guerra di massa. Dall’epoca delle rivoluzioni democratiche del Settecento, non si può fare politica ignorando la massa, anche se a farla sono singoli individui, minoranze, élites, oligarchie o consorterie.

 

  • Negli anni 30 in Europa cambia il rapporto tra il leader politico e la folla. Quali sono le cause che portarono a questo cambiamento?

 

Prima di tutto, l’impatto violento della Grande Guerra nel processo di organizzazione e mobilitazione delle masse iniziato con la rivoluzione francese. I nuovi capi delle masse sono quasi ovunque uomini di guerra, che hanno fatto la guerra e partecipato alla nascita di una militanza di massa modellata sull’esperienza della guerra. Anche capi democratici come Churchill e Franklin D. Roosevelt erano capi formati in periodo della Grande Guerra: Churchill era per educazione un guerriero, aveva partecipato alle guerra coloniali, era  ministro della marina durante la Grande Guerra e dopo il disastro dei Dardanelli combattè in trincea sul fronte occidentale. Roosevelt fu sottosegretario alla marina durante la Grande Guerra, si rivolgeva a milioni di americani che avevano vissuto, direttamente o indirettamente, l’esperienza della guerra in Europa, e nella sua oratoria presidenziale usò metafore di guerra per incitare gli americani a combattere contro la depressione per salvare le democrazia. Lo stesso si può osservare, e ancor di più, per il generale De Gaulle divenuto improvvisamente capo politico e fondatore di una Quinta repubblica. Quanto ai capi dei nuovi movimenti e regimi totalitari, sia di destra che si di sinistra, l’esperienza della Grande Guerra fu decisiva nel renderli consapevoli del modo di mobilitare e organizzare le masse per conquistare il potere e instaurare regimi a partito unico, che nel costante rapporto con le masse svolsero i loro esperimenti totalitari per future conquiste imperiali o rivoluzioni sociali mondiali.

 

Alla fine del suo libro, lei professore tratta il tema della personificazione del potere alla fine degli anni 50 del 1900, con gli esempi di Kennedy e De Gaulle. Secondo lei ci sono stati esempi italiani nello stesso periodo?

L’unico esempio italiano che mi sentirei di proporre è Alcide De Gasperi, che negli anni in cui fu al governo partecipò al compimento di un’opera gigantesca per ridare all’Italia lo slancio di una democrazia industriale dopo la catastrofica disfatta che aveva travolto tutto il paese nella guerra feroce fra eserciti stranieri e fra italiani. Per il resto, ci sono stati fra i politici italiani degli anni sessanta numerosi aspiranti De Gaulle e aspiranti Kennedy, ma nessuno è riuscito ad essere effettivamente l’uno o l’altro, diventando un mito nella tradizione nazionale. Nessun politico italiano della Repubblica ha avuto una trasfigurazione mitica.

 

Come si è modificato il rapporto tra il capo e la folla rispetto agli anni 50?

 

Da una parte, il rapporto si è svolto nella scia inaugurata da De Gaulle e da Kennedy, soprattutto attraverso la televisionizzazione dell’appello alla folla. Inoltre, è stato un rapporto che si è svolto, fino agli anni più recenti, attraverso le organizzazione dei partiti di massa. Oggi, la televisionizzazione del rapporto fra il capo e la folla è quel che resta dell’esperienza di De Gaulle e di Kennedy, mentre ai partiti di massa come organizzazioni permanenti di formazione della volontà politica e dei dirigenti, si vanno sostituendo fluidi aggregati coagulati attorno a un capo spesso improvvisato, che fonda movimenti o partiti personali o personalizza i partiti esistenti fluidificandone le strutture tradizionali per trasformarli in sodali al proprio seguito.

 

Il rapporto che istaura il fascismo con Mussolini tra il capo e la folla si può considerare innovativo e moderno? In che modo si differenzia con gli altri regimi totalitari?

 

Il rapporto fra Mussolini e la folla fu innovativo e moderno rispetto alla tradizionale politica italiana dei notabili parlamentari, che governavano con consorterie parlamentari e il suffragio limitato di grandi elettori. La differenza del fascismo dagli altri regimi totalitari, per quanto riguarda il rapporto specifico fra capo e folla, consiste principalmente nella primogenitura dell’esperimento ducesco rispetto al culto staliniano della personalità, che fu instaurato quando da alcuni anni già esisteva, caso unico alla fine degli anni venti, il culto mussoliniano della personalità. Penso che non solo Hitler e altri duci di movimenti e regimi fascistizzanti abbiamo seguito il modello mussoliniano, ma lo abbia seguito anche Stalin.

 

Quanto rimane del “fascismo-movimento” cioè portatore di alcune istanze di rinnovamento nella Repubblica sociale italiana?

Non mi ha mai convinto la distinzione fra “fascismo movimento” e “fascismo regime” come contrapposizione fra innovazione e conservazione nell’esperimento totalitario fascista. I capi più importanti della Repubblica sociale erano stati gerarchi del regime fascista, e le istanze di rinnovamento erano la prosecuzione, radicalizzata dalla esigenza di dare un più accentuato carattere sociale al regime, istanza già presenti negli ultimi anni del regime totalitario, specialmente nelle giovani generazioni fasciste.

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