La teoria che Mussolini ridusse il debito pubblico italiano è infondata; in realtà, il debito crebbe e l’Italia pagò un prezzo alto per presunti “tagli”.
Periodicamente torna a circolare su diversi quotidiani e social la storia per cui Benito Mussolini sarebbe stato l’unico uomo ad aver tagliato il debito pubblico italiano. Questa stravagante teoria non è nuova, ed emerge spesso negli ambienti di un certo orientamento politico, vicino agli ideali di Mussolini e del Fascismo, ma corrisponde alla verità o si tratta solo di Propaganda?
Come ogni questione storica, la risposta purtroppo non è semplice, e liquidare il tutto ad una frase non è semplice, ma, al di la della complessità della vicenda, una cosa è certa, dire che Mussolini tagliò il debito italiano è falso, ma andiamo con ordine.
Il contesto economico pre-fascista: L’eredità della Grande Guerra.
Prima dell’ascesa al potere di Mussolini e l’avvento del fascismo, l’italia si trovò ad affrontare diversi e gravi problemi di natura economica, elemento che accompagnò tutti i paesi europei impegnati nella grande guerra.
Per riavviare il paese, riconvertire il sistema produttivo e rilanciare l’economia, l’italia fece ricorso all’emissione di moneta e a molteplici interventi da parte di Banca d’Italia per “salvare” le aziende in difficoltà. La nuova moneta immessa sul mercato era solo in parte coperta dall’emissione di titoli di stato e di conseguenza la moneta italiana andò in contro ad una forte svalutazione.
L’alta inflazione che ne derivò andò a colpire soprattutto le fasce più povere della popolazione, principalmente lavoratori dipendenti che, allo svalutarsi della moneta ed il conseguente incremento dei prezzi, non videro corrispondere un aumento dei salari.
In questo clima economico, fortemente sfavorevole e di grande tensione si verificarono gli avvenimenti del famoso biennio rosso (1919-1920) che causarono gravi disordini in tutto il paese e spinsero molti lavoratori impoveriti a sostenere il Fascismo poiché, neanche Giovanni Giolitti, che in passato era stato protagonista di una stagione splendente per l’economia italiana, riuscì a risolvere la crisi e sanare il debito crescente.
Questa fu la situazione che spianò la strada alla prese di potere da Quando nell’ottobre del 1922 Vittorio Emanuele III affidò il governo a Mussolini, l’italia si trovava in una situazione stagnante, con un enorme debito crescente alimentato da una moneta molto debole ed un enorme spesa statale.
Questa lunga premessa può sembrare noiosa, ma è fondamentale per capire esattamente se Mussolini riuscì a tagliare realmente il debito, se non lo ridusse ma riuscì comunque a contenerlo o se invece provocò un incremento del debito pubblico italiano.
La politica economica fascista: Ruolo di Mussolini e gestione De’ Stefani (1922-1925).
A questo punto bisogna aprire una breve parentesi sull’orientamento economico del regime, la politica economica fascista, detta della terza via, si colloca in un limbo, una zona grigia intermedia che derivavano dall’orientamento dei vari ministri delle finanze, dall’ideologia fascista e da varie contingenze nazionali e internazionali. E a tal proposito è importante ricordare che, se bene Accentrò nelle proprie mani numerosi ministeri ed esercitò grande influenza e pressioni sui ministeri che non erano di sua competenza, Mussolini non fu mai ministro delle Finanze, del Commercio e del Tesoro.
Mussolini fu ministro dell’Areonautica, degli Esteri dell’Africa italiana, delle Colonie, delle Corporazioni, della Guerra, dei Lavori Publici e della Marina, ma nessuno di questi ministeri era in grado di intervenire direttamente sul debito, e anzi, i suoi ministeri erano quelli che assorbirono maggiori risorse economiche, giocando de facto un ruolo attivo nell’incremento e non nella riduzione della spesa, ma andiamo con ordine.
Sul piano puramente linguistico possiamo dire con assoluta certezza che Mussolini, attraverso i suoi ministeri, non fece nulla per ridurre il debito, resta però da capire se invece il governo fascista, nel suo complesso, riuscì in qualche modo a ridurre il debito o comunque a contenere la spesa limitando l’aumento del debito.
Tra il 1922 ed il 1925, il ministero delle finanze e del tesoro fu affidato ad Alberto De’ Stefani che attuò una politica di grandi tagli alla spesa pubblica, e cercò di incrementare le entrate, con l’intento di rimettere in ordine il bilancio dello stato. Una politica comune in situazioni di questo tipo, da Agostino Magliani(ministro delle finanze agli albori della prima crisi economica del regno d’italia nell’ultimo quarto dell’ottocento) a Mario Monti.
Per quanto riguarda la riconfigurazione delle entrate, De’ Stefani non intervenne aumentando le tasse come spesso avviene, ma al contrario, osservando che una fetta enorme della popolazione era esclusa dalla partecipazione contributiva, fece in modo di allargare la base, tassando quelle fasce sociali fino a quel momento escluse, e allo stesso tempo, ridusse le aliquote per categorie sociali ritenute più inclini all’investimento.
Detto più semplicemente, tassò le fasce più povere della popolazione, fino a quel momento esonerati e ridusse le tasse all’alta e media borghesia, producendo così un incremento delle entrate dovuto al maggior numero di contribuenti.
L’intento di De’ Stefani era quello di rilanciare l’iniziativa privata e ridurre le spese dello stato, spese che, in quel momento, erano rappresentate soprattutto dai salari di dipendenti pubblici, e di conseguenza il taglio della spesa si configurò come un taglio netto nel personale dei settori “improduttivi” dello stato, licenziamento di circa 65.000 impiegati pubblici e circa 27.000 ferrovieri e favorendo l’ingresso dei privati in alcuni settori, fino a quel momento sotto il controllo dello stato, come il settore assicurativo, ferroviario e telefonico.
In termini numerici gli interventi di De’ Stefani furono positivi e il bilancio, almeno quello statale, fu riportato in pari, mentre quello degli enti locali non fu mai parificato durante tutto il ventennio. In ogni caso, questi interventi favorirono una leggera ripresa e innescarono un lieve processo di crescita per il paese che però non risolse il problema monetario, la lira valeva sempre meno e anche se, in termini numerici il debito cresceva più lentamente, il minor valore della lira, rendeva più difficile un suo risanamento.
Fin dai tempi dalla grande guerra la Banca d’Italia si era impegnata nel sostegno delle imprese e banche immobilizzate dalla riconversione e questo impegno continuò durante i primi anni del fascismo, producendo tra il 1922 e il 1925 un incremento di liquidità che portò ad un ulteriore ondata inflazionistica, alimentata da un peggioramento della bilancia dei pagamenti. Nel 1925 De’ Stefani promosse alcuni provvedimenti che però si rivelarono insufficienti e portarono ad un tracollo della borsa italiana e al fallimento di numerose aziende italiane.
La gestione Volpi (1925-1928) e la ristrutturazione del debito estero.
Gli industriali rappresentavano lo zoccolo duro del fascismo ed avevano molta influenza sulle azioni del governo, così, per non perdere il loro consenso, Mussolini sostituì il ministro delle finanze, assegnando l’incarico a Giuseppe Volpi.
Volpi rimase in carica dal 1925 al 1928 e durante il suo mandato giocò un ruolo decisivo per le sorti economiche e di bilancio dell’Italia.
Sul piano internazionale il 1924, con il piano Dawes aveva visto la fine alla questione delle riparazioni tedesche e si stava valutando un ritorno delle nazioni al gold standard per stabilizzare le monete, idea nata in seno al trattato di Versailles.
Nonostante questo però, la forte svalutazione della lira, il peggioramento della bilancia commerciale e numerosi altri fattori speculativi, non resero semplice il lavoro di Volpi e come se non fosse abbastanza, il fallimento del rinnovo dei BOT venticinquennali nel 1924, dovuto alla grande richiesta di liquidità di banche e privati, impedì all’Italia di emettere nuovi titoli di stato.
Nel 1925 il bilancio interno ufficialmente era in pari, ma nei fatti non lo era, nel bilancio infatti non erano stati conteggiati i titoli di stato da ripagare e l’italia, fortemente indebitata, non era in grado di ripagare i propri debiti.
Volpi decise quindi di agire in sintonia con la Banca d’Italia che sostenne il cambio, riuscendo a raggiungere un accordo con gli in investitori americani più favorevole in termini assoluti, ma va precisato gli investitori americani raggiunsero accordi simili in tutta europa e tra i tanti, l’accordo italiano fu quello “meno morbido“, il merito di Volpi non fu quindi quello di aver trovato un accordo favorevole, come spesso si dice, ma fu quello di aver trovato un accordo.
Sul finire del 1925 gli il governo statunitense accordò all’Italia un prestito, noto come Prestito Morgan, il cui intento era quello di risollevare la lira, di fatto acquistando parte del debito pubblico italiano. Sulla stessa linea nel gennaio del 1926 l’italia trovò un accordo simile con il regno unito. Secondo questo accordo l’italia cedette al regno unito la propria quota di riparazioni tedesche, gestite della Cassa autonoma di ammortamento dei debiti di guerra, costituita il 3 marzo 1926.
Analisi critica del “taglio”: Un pareggio di bilancio pagato a caro prezzo.
Grazie a questo accordo l’italia riuscì a ripagare parte dei propri debiti esteri, rinunciando al flusso costante di ripartizioni di guerra tedesche.
A questo punto, in termini numerici l’italia era ufficialmente in pari con il bilancio, ma questo pareggio come detto, va contestualizzato e il contesto è quello di un paese che ha dovuto ricorrere letteralmente al baratto.
L’italia ha “cancellato” il proprio debito consegnando ai propri creditori tutto quello che aveva, l’italia ripaga i propri creditori cedendo titoli esteri acquistati dal tesoro in precedenza e rinunciando alle proprie riparazioni di guerra, dal valore di diversi milioni di marchi pagati in oro ogni anno, pagamenti che la Germania avrebbe interrotto qualche anno più tardi con una decisione unilaterale in seguito all’avvento del Nazismo e di Hitler, e che avrebbe ricominciato a pagare nel secondo dopoguerra.
Il Trattato di Versailes aveva imposto alla Germania il pagamento di 132 miliardi di marchi oro, e parte di quell’oro sarebbe andato all’Italia, e anche se rateizzato, la quota italiana delle riparazioni di guerra aveva un ammontare complessivo enormemente superiore al proprio debito.
Conclusione: La smentita storica dell’affermazione sul risanamento del debito.
In conclusione, se è vero che sul piano linguistico è falso dire che Mussolini tagliò il debito, ma nei fatti questo taglio è riconducibile a Mussolini, allo stesso tempo, è vero dire che il fascismo tagliò il debito, ma nei fatti, questo taglio è costato all’Italia miliardi in oro, avrebbe contribuito ad alimentare una progressiva e crescente svalutazione monetaria e produsse, parallelamente alla cancellazione del debito, l’impossibilità per l’italia di ottenere nuovi prestiti e finanziamenti, trascinando il paese verso un progressivo impoverimento generale che non sarebbe stato possibile disinnescare se non fosse stato per gli aiuti postbellici, ricevuti dopo la seconda guerra mondiale.
Dire quindi che Mussolini e il fascismo hanno “sanato il debito pubblico italiano” è la cosa più falsa che si possa dire.
Dal Movimento Sociale Italiano a Fratelli d’Italia, una parte della destra italiana ha sempre esibito con fierezza e orgoglio un simbolo di partito, la fiamma tricolore, un simbolo che porta con se un eredità storica oltre che politica, si tratta infatti di uno dei simboli politici più longevi nella storia della Repubblica Italiana, secondo solo allo scudo crociato della Democrazia Cristiana, usato anche nel regno d’Italia e la falce e martello comunista, anche questo usato già prima della repubblica.
Fin da quando esiste la repubblica italiana, la fiamma tricolore, emblema della destra e in alcuni momenti estrema destra italiana, ha mantenuto una presenza costante nel panorama politico evolvendo nel tempo insieme alla stessa politica italiana, con risvolti complessi e controversi e soprattutto con diverse interpretazioni legate alle sue origine e al suo significato.
Il simbolo, creato agli albori della Repubblica, da un partito formato da ex fascisti ed esponenti della Repubblica sociale italiana, quasi sempre è stato ricondotto al fascismo italiano, tuttavia, la storia di questo simbolo è molto più ampia e si radica in un Italia che precede il fascismo stesso.
In questo articolo andremo alla scoperta della storia, le origini e le leggende legate alla fiamma tricolore, simbolo storico della destra italiana, e forse sfateremo qualche mito e falsa credenza legati a questo simbolo.
La Fiamma Tricolore
Partiamo dalla sua creazione ufficiale, siamo sul finire degli anni quaranta, più precisamente tra 1946 e 1947, il 26 dicembre 1946 alcuni reduci della Repubblica Sociale Italiana ed ex esponenti del regime fascista, tra cui Giorgio Almirante e Pino Romualdi, si riuniscono per fondare un nuovo partito da inserire nel panorama nazionale, nasce così il Movimento Sociale Italiano, MSI, e nel gennaio del 1947, appare per la prima volta La fiamma tricolore come simbolo di questo nuovo partito, erede e allo stesso tempo distaccato dall’esperienza fascista.
Non sappiamo con precisione chi progettò il simbolo, secondo alcuni fu opera dello stesso Almirante che nel 1946, scrisse “Siamo nati nel nome d’Italia/stretti attorno alla nostra Bandiera/è rinata con noi primavera/si è riaccesa una Fiamma nel cuor/Italia, sorgi a nuova vita, così vuole/Chi per te morì”. Secondo altre versioni invece, la fiamma sarebbe un simbolo preesistente.
Ad oggi non sappiamo con certezza chi abbia concepito la fiamma e la sua simbologia, e sebbene alcuni studi ipotizzino che, questo simbolo sarebbe una derivazione del distintivo del reggimento degli Arditi, corpo speciale del Regio Esercito italiano durante la Prima Guerra Mondiale. Tuttavia, l’unica fiamma che troviamo tra i simboli del regimento degli arditi è quella del IX reparto d’assalto, ed è una fiamma molto diversa da quella usata dal MSI e molto più simile alla fiamma dei Carabinieri, in uso fin dal 1882, mentre il simbolo ufficiale degli arditi era un teschio con una corona d’alloro e un pugnale tra i denti.
Cercando tra simboli militari e politici in uso negli anni precedenti la nascita del MSI possiamo tuttavia trovare un simbolo, molto simile, alla fiamma tricolore adottata dal MSI, ed è il simbolo del Rassemblement national populaire, RNP, fondato nella Francia di Vichy nel 1941 dall’ex ministro dell’aviazione francese Marcel Déat. Il RNP fu uno dei tre partiti “collaborazionisti” (che collaborarono con i nazisti) della Repubblica di Vichy, e fu sostanzialmente un partito nazionalsocialista e di ideologia fascista, francese.
La fiamma nel simbolo del RNP ci apre una nuova strada alle origini della fiamma tricolore del MSI, e soprattutto smentisce le parole di Fabio Rampelli, secondo il quale “la fiamma è un simbolo del secondo dopoguerra che nulla ha a che vedere con i totalitarismi del Novecento. Il simbolo simmetrico alla falce e martello è la croce uncinata nazista e il fascio littorio e tutti e tre sono stati stigmatizzati dal Parlamento europeo da una risoluzione” poiché è vero che la fiamma tricolore non era il simbolo del fascismo, ma è anche vero che, almeno dal 1941, vari movimenti fascisti e collaborazionisti, adottarono la fiamma.
Va detto che un altra fiamma, prima di quella del MSI e successiva alla fiamma del RNP appare nella simbologia politica italiana nel 1942, e contrariamente a quello che ci potremmo aspettare a questo punto della storia, appare in un partito antifascista, ovvero il Partito d’Azione di Perruccio Parri, Emilio Lussu, Ugo La Malfa e Riccardo Lombardi.
Si tratta, come possiamo vedere, di una fiamma molto diversa da quella del MSI e del RNP francese, che invece sono tra loro molto affini, soprattutto se si considera che il simbolo del Front National del 1972, erede in un certo senso del RNP, è una fiamma tricolore identica alla fiamma del MSI, con la sola differenza che i colori sono Blu, Bianco e Rosso e non Verde, Bianco e Rosso
Anche in Belgio, nel 1985, il Front National di Daniel Féret, ha adottato come simbolo una fiamma tricolore, che sembra incrocio tra la fiamma del MSI e la fiamma del RNP.
Come possiamo osservare molti partiti, con ideologie simile, generalmente partiti di destra, fortemente Nazionalisti, in molte parti d’Europa, hanno adottato, nel corso del tempo il simbolo della fiamma, molto spesso derivato dal simbolo del MSI, che a sua volta sembra essere derivato da simboli precedenti.
Cosa significa la fiamma?
Il simbolo della Fiamma Tricolore viene inizialmente concepito come un trapezio, al cui interno è presente la sigla del MSI. Secondo il Michelangelo Borri dell’Università di Trieste, la Fiamma ha un forte legame con il MSI, e qualunque sia la sua origine, diventa a tutti gli effetti un simbolo politico, nel 1946 grazie al MSI. Secondo Borri infatti, nel 1946 il MSI prende il simbolo della fiamma e lo carica di significato, attraverso il suo utilizzo come logo, come stemma e attraverso il suo racconto trasversale. La fiamma non è solo il logo, è presenta anche nell’inno del partito, il “canto degli Italiani” scritto da Almirante.
Siamo nati un cupo tramonto Di rinuncia, vergogna, dolore: siamo nati in un atto d’amore riscattando l’altrui disonor. Siamo nati nel nome d’Italia, stretti attorno alla nostra Bandiera: è rinata con noi primavera, si è riaccesa una Fiamma nel cuor. Italia, sorgi a nuova vita, così vuole Chi per te morì, chi il suo sangue donò chi il nemico affrontò Giustizia alla Patria darà. Italia, rasserena il volto, abbi fede: nostro è l’avvenir. Rispondi, rispondi, o Italia! Si ridesta la tua gioventù. Noi saremo la vostra avanguardia, Italiani, coraggio: in cammino. Solo ai forti sorride il destino; liberate la Patria, il Lavor. Noi saremo la Fiamma d’Italia, il germoglio di un’alba trionfale, la valanga impetuosa che sale: Italiani, coraggio: con noi! Italia, sorgi a nuova vita.
C’è poi un interpretazione più diretta e audace, fornita da Anna Foa, secondo cui il simbolo della fiamma “sta probabilmente a significare lo spirito fascista che risorge”. Questa interpretazione che collega esplicitamente il simbolo a una continuità ideologica con il fascismo, potrebbe avere un senso, se non fosse che, come abbiamo visto, nel 1941 il simbolo della Fiamma era già in uso a movimenti filofascisti d’oltre alpe, e dunque l’idea di una “rinascita” dello spirito fascista, ha poco senso.
C’è allora da caire cosa vuol dire effettivamente la Fiamma prima della seconda guerra mondiale. Ma prima della guerra non sembrano esserci utilizzi effettivi della fiamma, o meglio, non ci sono utilizzi chiari, forti e carichi di significato. Come già osservato, l’unico utilizzo riconosciuto di una simbologia analoga lo abbiamo con la fiamma del RNP francese del 1941, ed è un caso interessante poiché il contesto storico, politico, culturale, in cui esistette il RNP è analogo all’esperienza vissuta in Italia dal della RSI, tra 1943 e 1945, ovvero una dittatura militare con un governo fantoccio per un regime collaborazionista della Germania nazista. E proprio in quel contesto incontriamo molti dei futuri fondatori del MSI, tra cui lo stesso Giorgio Almirante che nella RSI fu capo di gabinetto del Ministero della Cultura Popolare.
Da un certo punto di vista quindi, più che una continuità diretta tra il “fascismo” e il MSI, potremmo dire che, almeno nel MSI delle origini, ci fu una continuità tra il MSI e la RSI, visto che innumerevoli funzionari della RSI, scampati alla galera per via dell’amnistia, confluirono nel MSI, e questo forse è anche più grave, poiché prendendo per buona l’idea che il Mussolini dittatore d’Italia “ha fatto anche cose buone”, è decisamente più “difficile” individuare qualcosa di positivo nell’esperienza della RSI, de facto una provincia del Reich, complice di rastrellamenti, deportazioni, linciaggi e innumerevoli crimini di guerra. Ma non siamo qui a dare giudizi, siamo qui per individuare le origini del simbolo della fiamma tricolore.
La fiamma tricolore, così come è stata concepita nel 1946, e per come è stata utilizzata dal 47 ad oggi, porta con se una serie di idee, ideologie, e valori, che possono piacere o meno, essere condivisi o meno, alcuni dei quali sono appartenuti anche al fascismo e l’antifascismo italiano degli anni 30 e 40. Principalmente un ideologia nazionalista radicale, generalmente militarista, con elementi di socialismo rivoluzionario e irredentista, e tali principi sono ancora fortemente radicati nella fiamma.
Il simbolo, generalmente rappresentata come una fiamma più o meno stilizzata, colorata con i simboli della bandiera nazionale, ad oggi è utilizzato, non più solo in Italia e Francia, per lo più da partiti, movimenti e forze politiche di forte ispirazione nazionalista e ultranazionalista, antiglobalista, generalmente di destra ed estrema destra, e in alcuni rari casi dichiaratamente di ispirazione “nostalgica”. Tale simbolo è presente nell’iconografia politica Italiana e Francese, ma anche Belga, Portoghese, Spagnola, Greca, Ceca, Romena, Argentina, Cilena, Norvegese e Polacca, e se in Francia e Italia ha avuto origine in epoca fascista, o comunque da uomini che hanno avuto un ruolo attivo nell’esperienza fascista, come Giorgio Almirante e Marcel Déat, nel resto del mondo in realtà stato adottato molto più recentemente. Fatta eccezione per il Belgio che l’ha ereditata dalla Francia negli anni ottanta, il resto del mondo l’ha adottata a partire dalla fine degli anni novanta e inizio anni 2000, e nel complesso, si tratta per lo più di movimenti politici che in momenti differenti hanno manifestato e dichiarato, in maniera più o meno aperta, un desiderio di continuità con l’ideologia fascista e nazional-socialista.
Molti di questi movimenti hanno avuto un evoluzione simile, sono nati con un impronta fortemente radicale e in continuità con un passato, più o meno recente, di ispirazione fascista, e crescendo si sono aperti a correnti più moderate, in sostanza, man mano che i loro consensi crescevano, le posizioni più radicali venivano abbandonate in favore di posizioni più moderate, questo è particolarmente evidente nei casi di maggior rilievo, come il MSI italiano e il Front National francese, la cui continuità con il passato fascista e nazionalsocialista è stata progressivamente abbandonata e in alcuni casi apertamente rinnegato.
Dal MSI ad oggi
Come abbiamo visto, la fiamma tricolore è cambiata negli anni e con essa è cambiato il MSI e i suoi eredi, assumendo col tempo posizioni sempre più moderate. Negli anni sessanta assistiamo ad un vero e proprio rinnovamento del partito che porterà all’allontanamento di individui pericolosi come Juno Valerio Borghese (ex comandante della X-MAS e futuro golpista italiano), evoluzione e ammorbidimento che negli anni 90 porterà allo scioglimento del MSI e la nascita di Alleanza Nazionale sotto la guida di Gianfranco Fini, tra i primi in quell’ambiente politico a prendere ufficialmente le distanze dall’ideologia fascista, fino a quel momento riconosciuta come una parte importante del proprio passato. Fin dal 1948 il MSI aveva adottato come proprio slogan l’idea di “non rinnegare, ne restaurare” il Fascismo, e questa visione, già allontanata da Augusto De Marsanich negli anni 60, venne definitivamente abbandonata con Fini.
L’effetto di questo rinnovamento come sappiamo portò nel 2009 alla fusione di Alleanza Nazionale con Forza Italia nel Popolo della Libertà segnando per la prima volta la sparizione della fiamma tricolore dalla simbologia politica italiana, una sparizione che sarebbe durata solo 5 anni, ovvero fino alla sua riapparizione nel 2014 come parte del simbolo di partito di Fratelli d’Italia in quanto erede di Alleanza Nazionale.
Sono finalmente riuscito a recuperare M, il figlio del secolo, la serie Sky con Luca Marinelli nei panni di Mussolini.
E visto che più di qualcuno me l’ha chiesto, vi do il mio parere.
Comincio col dire che la serie mi è piaciuta tantissimo è inquietante, divertente e ci mostra un Italia degli anni 20 molto attuale, diciamo pure che viviamo in un momento storico in cui tracciare un parallelismo con gli anni 20 del secolo scorso, è abbastanza “facile”.
Il Mussolini che incontriamo nella serie è un ottimo Mussolini, ben caratterizzato e forte di discorsi e riflessioni che sono presi direttamente dai suoi scritti, sia pubblici che privati.
Gli scritti pubblici ci mostrano un mussolini “forte”, quelli privati un mussolini più vulnerabile e la serie dosa bene questi momenti.
Piccola nota tecnica, molte scene sono prese direttamente da un ciclo di lezioni di storia del professor Emilio Gentile, tenute circa 15 anni fa, e per chi fosse interessato, sono disponibili come podcast su Audible.
Dico che sono prese da lì, e non da altre opere biografiche su Mussolini, perché Marinelli nella serie si rivolge direttamente allo spettatore, fa alcune considerazioni, battute e provocazioni che troviamo anche nelle lezioni di Emilio Gentile, come battute e provocazioni del professore.
Tornando a Mussolini, sebbene sia un ottimo personaggio negativo, quello ci viene mostrato non è proprio Mussolini, e volendo essere provocatori, non è più Mussolini del Mussolini di raccontato da Indro Montanelli in “Io e il Duce”, solo che lo vediamo dal punto di vista “opposto”.
La serie ci mostra un Mussolini surreale, scaltro e manipolatore ma anche codardo e opportunista, che sa girare a proprio vantaggio anche un evento negativo, mentre Montanelli ci fornisce un racconto molto assolutorio nei confronti del Duce, ci racconta un Mussolini vittima degli eventi, un uomo sostanzialmente buono che si circonda di cattive amicizie e commette “qualche errore” nel tentativo di inseguire il potere.
La verità sta nel mezzo, Mussolini è entrambi i Mussolini e non è nessuno dei due.
Mussolini nel ventennio fece un lavoro meticoloso per costruire attorno a se e alla propria figura un culto quasi religioso, una fede laica nell’uomo e, per usare proprio le parole di Emilio Gentile, divenne un autentico nume vivente, il primo e forse unico vero nume vivente della storia contemporanea… Hitler e Stalin dopo di lui lo hanno imitato, e pur facendo un ottimo lavoro, non sono riusciti a farsi “amare” quanto gli italiani amarono Mussolini.
E questo la serie lo sa, ce lo dice, e prova a decostruire quel mito, raccontando un Mussolini più umano e “miserabile”.
La serie strappa via quell’aura di sacralità e misticismo che da più di un secolo avvolge Mussolini e ci restituisce un uomo, che ha delle paure, che commette degli errori, e ne commette, senza che però questa sua umanizzazione lo assolva, ma anzi, diventa quasi un aggravante.
Nel complesso la serie l’ho già detto, l’ho apprezzata molto, e il fatto che parli più dell’attualità che degli anni 20, forse è un motivo in più per guardarla.
È è il 19 febbraio 1937, ci troviamo in Etiopia, più precisamente ad Addis Abeba, quel giorno il viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani e parte delle autorità italiane presenti in Etiopia stanno partecipando ad una cerimonia presso il recinto del Piccolo Ghebì del Palazzo Guenete Leul. La cerimonia però, viene brutalmente interrotta dall’esplosione di alcune bombe a mano lanciate dalla folla contro le autorità.
Si tratta di un attentato compiuto da due giovani ribelli etiopi che avrebbe innescato il più grande massacro di civili, ad opera dei fascisti nella storia d’Italia, noto come strage di Addis Abeba o massacro di Graziani, sintetizzabile in una rappresaglia di tre giorni di violenze assoluta e indiscriminata ad opera delle milizie fasciste tra il 19 e 21 febbraio 1937. Questa sintesi tuttavia è fin troppo benevola nei confronti dei coloni, poiché non tiene traccia di alcuni tratti peculiari che rendono questa strage molto più di una semplice rappresaglia durata tre giorni.
La violenza sistemica è infatti un tassello importante della strategia coloniale fascista, ed episodi analoghi, se pur di intensità e portata minore, hanno accompagnato l’intera esperienza coloniale dell’Italia degli anni 30.
Ho voluto quindi produrre un racconto, il più possibile ricco di documenti e testimonianze, per inquadrare e contestualizzare al meglio ciò che accadde durante i tre giorni (e non solo) della strage di Addis Abeba. L’analisi di questa tragedia, si basa prevalentemente su documenti ufficiali italiani oltre a testimonianze dirette, lettere e telegrammi, e le più ampie narrazioni di questi eccidi, magistralmente raccontato in “Il massacro di Abbis Ababa, una vergogna italiana” di Ian Campbel, edito in Italia da Rizzoli, e l’opera monumentale di Angelo del Boca, “Italiani Brava Gente?” che a differenza del saggio di Campbell, fornisce un quadro generale sull’italiano nuovo concepito e prodotto dal regime fascista e i suoi crimini dentro e soprattutto fuori dall’Italia geografica e imperiale.
L’attentato a Graziani e la strage di Addis Abeba
Come anticipato, la strage di Addis Abeba di base è una rappresaglia innescata da un attentato al viceré Rodolfo Graziani. Da quel che sappiamo sull’attentato i responsabili furono due giovani etiopi, membri della resistenza e affiliati ad un gruppo noto come Yechebooch Tarik, letteralmente Giovani Etiopi, un movimento costituito prevalentemente da intellettuali, studenti e religiosi, che si opponevano al dominio coloniale italiano. Tra di loro militano anche, Abraha Deboch, un giovane etiope che aveva studiato in Italia e Moges Asgedom, anch’egli educato in istituti italiani e secondo le fonti ufficiali, questi due giovani furono gli organizzatori ed esecutori dell’attentato al viceré Graziani.
La narrazione ufficiale vuole che i due attentatori riuscirono ad infiltrarsi tra la folla, portando con sé alcune bombe a mano nascoste nei cesti della frutta e durante la cerimonia, lanciarono quegli ordigni verso il palco riuscendo a ferire gravemente Graziani e altri cinque ufficiali italiani.
Sempre secondo la narrazione ufficiale, unica testimonianza che abbiamo sull’attentato, poiché tutti i partecipanti non fascisti alla cerimonia non sono sopravvissuti alla strage, il caos scaturito dalle esplosioni offrì ai due attentatori la possibilità di lasciare la piazza, fuggire e nascondersi temporaneamente. Nonostante la fuga, le fonti ufficiali ci dicono che gli attentatori vennero individuati e catturati la stessa mattina del 19 febbraio, e senza troppe cerimonie e indagini, immediatamente giustiziati e i loro corpi esposti pubblicamente come monito per la popolazione.
Si potrebbe discutere ampiamente su questa narrazione che propone una straordinaria efficacia delle autorità fasciste nell’individuare e catturare i due attentatori, ma non è da escludere che sia vera, anzi, è probabile che molti etiopi, pur di evitare rappresaglie, collaborarono con le milizie fasciste. Certo, una collaborazione che col senno del poi fu totalmente inutile visto che le rappresaglie iniziarono ugualmente dopo la cattura dei presunti attentatori, ma questa è un altra storia.
L’esibizione pubblica dei corpi degli attentatori, giocava un ruolo politico, era un messaggio aperto e diretto alla popolazione, stava a significare “questa è la fine di tutti i ribelli”, e non fu un caso unico, l’esposizione in pubblica piazza dei corpi dei ribelli uccisi, era in vero una prassi nel regime fascista che fu presto importata anche dal regime nazista, che fu ampiamente usato dall’Italia in Etiopia, durante l’occupazione dell’Istria e Dalmazia e durante la guerra civile italiana, dove ad essere esibiti erano i corpi dei partigiani italiani.
Esibire i corpi senza vita degli attentatori serviva a diffondere paura e terrore e reprimere la resistenza nell’orrore di quello scempio, tuttavia, quell’esibizione di violenza, incendiò lo spirito dei coloni fascisti, che videro in quell’attentato al viceré Graziani un pretesto per dare libero sfogo a tutto l’odio che provavano nei confronti degli indigeni e così, fin dalla mattina del 19 febbraio, i coloni italiani in Etiopia massacrarono migliaia di persone, i più fortunati vennero passati per le armi, altri vennero bastonati a morte, altri ancora, bruciati vivi insieme alle proprie abitazione, e si stima inoltre che interi villaggi, alle porte di Addis Abeba, vennero sterminatiti con armi chimiche. E sulle armi chimiche usate dall’Italia in Etiopia si potrebbe parlare ancora a lungo, ma non è questo il luogo.
L’insieme di questi elementi rende la strage di Addis Abeba del 1937 uno dei capitoli più oscuri della storia italiana, un episodio caratterizzato da una brutalità e una disumanità senza eguali ne precedenti nella storia, al cui confronto le mutilazioni attuate da Leopoldo del Congo sembrano un trattamento quasi umano. I documenti ufficiali, le lettere, i telegrammi dell’epoca e le testimonianze, ci dicono che, contrariamente a quanto sostenuto da Montanelli, quella rappresaglia non fu un atto isolato, ma era parte di una strategia deliberata per annientare e reprimere nel sangue ogni qualsivoglia forma di resistenza da parte della popolazione etiope.
Contesto storico del massacro
La strage di Addis Abeba compiuta tra il 19 ed il 21 febbraio 1937, si colloca come anticipato nel contesto generale del colonialismo fascista. L’Italia ha iniziato la propria avventura coloniale nel corno d’africa da poco più di un anno, la campagna di Etiopia è iniziata nell’ottobre del 35 e si è rapidamente conclusa nel maggio del 36, e Graziani è viceré di Etiopia da appena otto mesi, ha ricevuto l’incarico nel 36.
L’attentato non è letale, Graziani sopravvive all’attentato, in effetti Graziani sopravvive anche al Fascismo visto che nel 1953 succede alla guida del Movimento Sociale Italiano, ma anche questa è un altra storia, e sebbene gli attentatori, come abbiamo visto, furono prontamente catturati e giustiziati, la reazione italiana, anzi, la reazione fascista, fu immediata, violenta e soprattutto sproporzionata.
Le rappresaglie dei tre giorni successivi produssero circa 19.000 vittime etiopi nella sola Addis Abeba, numeri che superano i 30.000 se si tiene conto anche delle vittime nei villaggi limitrofi e cresce esponenzialmente se si tiene traccia anche di altre rappresaglie, successive al 21 febbraio, giustificate dalla possibile collaborazione con gli attentatori del 19 febbraio.
Restando ad Addis Abeba, le strade si tinsero di rosso, il cielo fu fu quasi oscurato dalle fiamme delle capanne, al cui interno erano bloccati gli indigeni e sui cui tetti venne versata benzina uccidendo i più fortunati per asfissia mentre altri bruciarono vivi e in preda al terrore. Nella corrispondenza e nei diari dei coloni troviamo un racconto macabro di quei giorni e di quei massacri, alcuni di loro vanno fieri di aver bruciato capanne con dentro intere famiglie, altri ancora di aver bastonato a morte uomini donne e bambini, prima di bruciare i loro corpi. Qualcun’o dichiara di aver stuprato donne di fronte ai mariti e figli prima di ucciderli ‘altro va anche oltre.
Paradossalmente però, nonostante abbiamo una vasta documentazione su tali crimini, e nella maggior parte dei casi sono gli stessi coloni fascisti ad ammettere di aver massacrato civili etiopi, nessuno di loro, durante e dopo il regime fascista, è stato processato. Lo stesso Rodolfo Graziani, che ha ordinato le rappresaglie ed ha chiesto al ministero delle colonie l’autorizzazione ad usare armi chimiche contro la popolazione civile, come forma di rappresaglia per l’attentato subito, non verrà punito e anzi, in età repubblicana grazie alla “grande amnistia” per la pacificazione nazionale, voluta un po’ dalla P2 un pò da pressioni USA, avrà modo di tornare a fare politica e nel 53 succede a Juno Valerio Borghese alla guida del Movimento Sociale Italiano, ma anche questa è un altra storia.
Tornando alla strage di Addis Abeba, in termini puramente numerici essa rappresenta una delle più ampie rappresaglie coloniale di cui abbiamo traccia nella storia italiana, e in termini più ampi intesa come un massacro su larga scala, pochi eventi nella storia hanno fatto più vittime in così poco tempo, vi lascio immaginare quali.
Come già detto, quella strage non fu l’unica, ne la prima o l’ultima. Episodi analoghi, seppur di portata minore, accompagnano l’intera esperienza coloniale dell’Italia fascista poiché, come vedremo a breve, la violenza era una delle colonne portanti del regime. Nel solo contesto coloniale le autorità fasciste cercarono, ovunque si insediarono, di consolidare il proprio potere ed il controllo sulla popolazione civile attraverso l’uso sistemico della violenza.
Documenti Ufficiali e Fonti Primarie
Ciò che sappiamo della strage di Addis Abeba ci arriva prevalentemente da documenti ufficiali, in particolare documenti dell’allora Ministero delle Colonie, tra questi documenti anche lettere e telegrammi, ma anche diari privati. Tra i documenti più importanti che possiamo consultare una serie di telegrammi tra gli uffici di Graziani ad Addis Abeba e il ministero delle colonie, in cui il viceré chiede l’autorizzazione a reprimere la rivolta, usando anche armi chimiche, e le rispettive risposte da parte di funzionari di Roma tra cui lo stesso Mussolini. Tra questi documenti spicca un telegramma datato 19 febbraio 1937, si tratta di una risposta inviata da Mussolini in persona, in cui si diceva che “Tuitti i civili e religiosi, comunque sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi.”
Questo telegramma fa parte di un più ampio scambio di comunicazioni, di cui però non abbiamo traccia nella sua interezza. Sappiamo però che una delle risposte, datata 20 febbraio, è un telegramma inviato dal generale Pietro Maletti al ministero delle colonie, con cui il generale fornisce un resoconto dettagliato delle misure adottate per “punire esemplarmente” la popolazione locale, ed è importante sottolineare che Maletti parla di punire la popolazione, non i ribelli.
Altri documenti ci forniscono una panoramica più ampia sulla strage, fornendo una serie di dettagli macabri sulle atrocità commesse, prima, dopo e durante i tre giorni di rappresaglia. Particolarmente significativa alcune lettere del capitano Luigi Frusci inviate al comando centrale, lettere in cui scriveva che “La lezione deve essere severa affinché nessuno osi più sfidare la potenza dell’Italia“, si confermano poi esecuzioni sommarie e la distruzione di interi villaggi.
Scavando tra questi documenti è possibile imbattersi in testimonianze estremamente crude e raccapriccianti, alcuni di essi ad esempio ci raccontano la metodologia, estremamente efficiente e crudele, con cui si giustiziavano i ribelli. Angelo del Boca in Italiani brava gente? Riporta alcuni di questi episodi, uno dei quali è così riducibile. Decine di uomini in catena venivano condotti in una cava, lì, un telo copriva le loro teste e uno alla volta venivano scoperti e passati per le armi. Uno dopo l’altro tutti i prigionieri venivano giustiziati, tuttavia, essi incatenati tra loro, non avevano modo di sapere quando sarebbe stato il proprio turno per morire.
La maggior parte dei documenti che abbiamo a testimonianza della strage di Addis Abeba e degli eccidi sistemici nell’Italia coloniale, sono diventati di pubblico dominio solo molti anni dopo la fine del regime fascista e la fine della prima repubblica. Basti pensare che per un ammissione del Ministero degli Esteri sull’uso di armi chimiche in Etiopia durante la guerra coloniale, tra 1935 e 1936, abbiamo dovuto aspettare il 1996. In effetti la maggior parte di questi documenti sono diventati “accessibili intorno alla metà degli anni novanta.
Oggi telegrammi e lettere tra funzionari al seguito del viceré Graziani e il ministero delle colonie e le varie corrispondenze tra governo e le cancellerie estere, sono conservati principalmente presso l’archivio di stato diplomatico, altri documenti, come ordini operativi e rapporti sono invece conservati presso l’archivio centrale dello stato, per quanto riguarda lettere private e diari, alcuni di questi sono relativamente di pubblico dominio e fanno parte di fondi e collezioni private aperte al pubblico, altre invece sono completamente blindate.
La reazione internazionale alla strage
Un avvenimento così violento e incisivo, come la strage di Addis Abeba, non poteva passare inosservato alle cancellerie estere o alla Società delle Nazioni. Sappiamo a tale proposito che il regime cercò di minimizzare l’avvenimento, mettendo in funzione a pieno regime la macchina della censura ma alcune informazioni riuscirono comunque fuoriuscire dall’Etiopia causando alcune critiche, che tuttavia si risolsero in un nulla di fatto.
All’atto pratico abbiamo tanto fumo ma poca sostanza, dovuta soprattutto alla debolezza della Società delle Nazioni, l’organo internazionale più significativo dell’epoca, il cui potere tuttavia era pressocché nulla. La società era in effetti già intervenuta nel 1935 ammonendo l’Italia per la propria iniziativa coloniale, ammonizione che tuttavia non scosse minimamente il regime e non ebbe nessun effetto, così, nel 37, all’indomani della strage di Addis Abeba, la società delle nazioni, scelse il silenzio e la neutralità.
Come dicevamo, nonostante i tentativi di censura di Graziani e del Regime in Italia, qualche notizia sulla gestione delle rappresaglie trapelò e negli uffici diplomatici di Francia e Regno Unito troviamo traccia di queste informazioni, iniziarono infatti a circolare numerosi rapporti che rivelavano una crescente preoccupazione per le violenze perpetrate dal regime fascista in Etiopia. In un documento del Foreign Office Britannico la repressione italiana viene descritta come “una campagna di terrore senza precedenti”. Nonostante queste partole però, ciò che preoccupava realmente Francia e Regno Unito era altro, è il febbraio del 1937 e da lì a qualche mese il ministro degli esteri britannico, Lord Halifax, avrebbe rassicurato persino Hitler, considerando la Germania Nazista l’ultimo baluardo dell’Europa civilizzata contro la barbarie bolscevica.
Lo stesso vale per l’Italia, la brutale repressione dei “ribelli” etiopi passa in secondo piano rispetto all’ombra più minacciosa e imminente che aleggia sull’Europa, ovvero la minaccia Sovietica che il fascismo aveva sradicato dall’Italia come si fa con una pianta infestante, di conseguenza, temendo di compromettere i buoni rapporti con Mussolini, in vista di un possibile scontro con i sovietici, si decise di per il non intervento.
L’unica potenza estera che espresse formalmente la propria preoccupazione, pur rimanendo comunque neutrale nei confronti dell’Italia, furono gli Stati Uniti. Sappiamo infatti che alcuni diplomatici statunitensi, non direttamente presenti in Etiopia, inviarono a Washington diversi rapporti basati su testimonianze indirette con cui documentavano in modo dettagliato le atrocità commesse dalle truppe italiane in Etiopia. Questi resoconti sono conservati presso gli archivi del dipartimento di stato e sono pubblicamente consultabili.
C’è in sostanza una marginale preoccupazione internazionale per le violenze italiane in Etiopia, ma siamo sul finire degli anni 30 del novecento, e l’opinione pubblica mondiale non è più solo l’opinione e la posizione ufficiale dei governi. Esistono in quel tempo e si stanno diffondendo su scala globale i primi movimenti anticoloniali, e questi, appresa la notizia della strage di Addis Abeba, ne fecero un simbolo, un evento emblematico delle ingiustizie del dominio coloniale.
Tali movimenti, va detto che nel 37 erano poco più che delle voci minori e con poco seguito ed ebbero maggior successo dopo la fine della seconda guerra mondiale, ma già nel 37 provarono a far sentire la propria voce, coinvolgendo intellettuali e attivisti di tutto il mondo, denunciarono pubblicamente le violenze italiane con pamphlet e articoli sui propri giornali indipendenti che mettevano in evidenza la sistematicità delle rappresaglie italiane e chiedevano giustizia per le vittime. Tale mobilitazione però, non ebbe molto successo.
Anche in Italia, nonostante il tentativo di censura voluto dal regime, qualche notizia trapelò, suscitando qualche critica nei confronti delle politiche coloniali del regime stesso, considerato promotore e mandante di tali violenze, critiche che tuttavia venne etichettate quasi immediatamente come propaganda del Partito Comunista Italiano che attraverso i propri pamphlet e articoli pubblicati soprattutto all’estero, cercava di mettere in cattiva luce l’opera civilizzatrice del governo fascista e dell’impresa coloniale italiana in Etiopia.
L’emblematico caso di Debre Libanos e la testimonianza diretta
Scavando tra le lievi voci fuori dal coro, che sopravvissero alla macchina della censura del fascismo, troviamo una delle testimonianze più agghiacciante degli eventi di quei giorni, si tratta della testimonianza diretta di un monaco del monastero di Debre Libanos, dove settimane dopo la fine delle rappresaglie da parte dei civili, i soldati italiani massacrarono oltre 2000 persone tra monaci e pellegrini accusati di aver partecipato e sostenuto la resistenza. Il monaco, in un intervista degli anni 60 ha raccontato dettagliatamente cosa accadde agli inizi di maggio del 1937 nel monastero di Debre Libanos e la sua testimonianza integrale è riportata nel libro di Ian Campbell, Il Massacro di Addis Abeba, una vergogna italiana, qui lascio solo un breve estratto.
“Le truppe arrivarono all’alba, bruciarono le case e uccisero chiunque cercasse di fermarli. Molti furono costretti a scavare le proprie fosse prima di essere fucilati”
Ciò che emerge dalle testimonianze dei superstiti di Debre Libanos, oltre all’inaudita violenza di quelle ore, è il modo surreale e pretestuoso con cui i gli le milizie fasciste giustificarono quelle azioni. Nel monastero di Debre Libanos i soldati italiani giunsero alle prime luci dell’alba, mesi dopo la fine della strage e accusarono i monaci di aver partecipato o sostenuto attivamente la resistenza etiope, accuse infondate e pretestuose, finalizzate esclusivamente a legittimare un massacro di innocenti, ma che partono dal telegramma di Mussolini del 19 febbraio. Quello in cui dice di passare per le armi tutti i civili e religiosi, sospettati di un coinvolgimento con la resistenza.
Non era importante che ci fosse un collegamento reale, era sufficiente un pretesto, per giustiziare decine, centinaia, migliaia di persone. L’episodio di Debre Libanos è collegato solo indirettamente agli eccidi del 19-21 febbraio 1937, poiché fu una delle innumerevoli rappresaglie scaturite dall’attentato a Graziani, rappresaglie che continuarono per mesi e che ci permettono di comprendere la reale dimensione, portata e natura di quanto accadde in quei giorni di fine febbraio 1937, una strage che uno fu solo una rappresaglia, ma un autentico crimine d’odio.
Conclusione
La strage di Addis Abeba del 1937 non si limita ai soli 3 giorni di violenza indiscriminata intercorsi tra il 19 ed il 21 febbraio e rappresenta uno dei capitoli più bui del colonialismo italiano e della storia italiana.
Si tratta di un evento la cui la brutalità senza eguali e precedenti svela una metodologia sistematica, con cui il regime fascista cercò di consolidare il proprio dominio assoluto sull’Etiopia.
Le dimensioni della violenza furono immense, si contano migliaia di vittime civili in soli tre giorni di rappresaglie, le stime ufficiali parlano di un numero di vittime civili che oscilla tra le 19.000 e le 30.000 ma è probabile che siano molte di più. La maggior parte delle vittime tra il 19 ed il 21 febbraio non furono causate dai soldati fascisti, ma dai coloni italiani, fascisti convinti che cercavano solo un pretesto per dar sfogo alla propria crudeltà, e quel pretesto arrivò con l’attentato al viceré Rodolfo Graziani. Questo massacro come abbiamo visto, non fu un atto isolato ma faceva parte di una più ampia strategia, o forse sarebbe meglio dire, di una consolidata metodologia, per reprimere nel terrore ogni forma di resistenza. E si protrasse nel tempo e lo spazio ben oltre i limiti temporali del colonialismo fascista.
La portata di questa strage va infatti ben oltre il numero delle vittime. Essa fu un espressione del reale volto del fascismo, Rodolfo Graziani era agli occhi di Mussolini uno dei migliori esempi di Italianità, era un “fascista ideale” il prototipo di un fascista esemplare che il regime stava cercando di costruire. Questa strage va oltre il colonialismo fascista e simboleggia la natura brutale che muoveva lo stesso fascismo, evidenzia quella logica di violenza indiscriminata usata come strumento di controllo politico e sociale e che rendeva la colonia d’Africa, lontana da occhi indesiderati, un perfetto laboratorio per testare la propria efficacia, del resto, la popolazione indigena era agli occhi dei colonizzatori una popolazione sostanzialmente priva di diritti, considerata sporca e selvaggia, da civilizzare o eliminare.
L’Italia fascista era impegnata in una campagna “civilizzatrice” concetto che nella sua applicazione assomiglia più a quello di “pulizia etnica” che ad altro. Poiché il rango di “civilizzato” spettava unicamente alla popolazione bianca. La strage di Addis Abeba ci dice chiaramente che la maggior parte dei coloni italiani in Etiopia erano razzisti e che il razzismo e le teorie sulla superiorità della razza non furono importate dalla Germania nazista. Va infatti ricordato che siamo nel febbraio del 1937 e in Italia le leggi raziali verranno introdotte solo nel novembre del 1938. Questa strage nel complesso porta con se un significato storico profondo e complesso, essa è un monito sulla natura distruttiva del colonialismo e del fascismo, della violenza politica e delle conseguenze devastanti delle teorie sulla supremazia razziale e militare.
È una strage che nella sua crudeltà ha qualcosa da insegnarci e la memoria di questo evento nefasto è qualcosa che andrebbe protetto e conservato nel patrimonio culturale dell’intera umanità, tuttavia, il suo ricordo, soprattutto in Italia, è ancora fortemente ostacolato, è come se gli italiani avessero cercato di rimuovere e dimenticare questo capitolo di inaudita violenza e crudeltà dalla propria memoria. Tuttavia, sempre più studi a partire dagli anni 90, stanno contribuendo a riportare alla luce la verità su quanto accadde ad Addis Abeba tra il 19 ed il 21 febbraio 1937.
Mi permetto una piccola considerazione personale, quella strage è una ferita aperta, forse più per gli italiani che per gli Etiopi, poiché ricordare quei momenti, quella strage, significa fare i conti con un passato nefasto che abbiamo chiuso in un vergognoso armadietto di Roma, più di 75 anni fa, e lì lo abbiamo abbandonato sperando che prima o poi svanisse dalla storia.
Spesso ci riempiamo la bocca con la parola “Politica” usata in modo inopportuno, o peggio, dispregiativo, relegandola a determinati soggetti e categorie di persone, i soli che “possono fare politica” perché sono politica, e se non si fa ha questa etichetta, l’etichetta di politico, allora non si fa, non si può “fare politica”. Ma cos’è la politica, cos’è davvero la politica, cosa vuol dire fare politica e soprattutto chi è il politico, ovvero colui che fa politica?
Nell’uso comune spesso si intende la politica come qualcosa che fare con forme partitiche in qualche modo legate a governi e amministrazioni, ad una sorta di leadership gerarchica della società, ma se andiamo alla radice del termine e del concetto stesso di politica, possiamo osservare che in realtà politica è qualcosa di diverso, molto più semplice e per questo estremamente complesso.
Una delle definizione più semplicistiche e generali che possiamo dare del concetto di politica è “tutto ciò che ha a che fare con la sfera pubblica“, ma in questo senso apparentemente semplificato e generale, tutto può diventare politica. Ed è davvero così? Davvero tutto può diventare politica? un concerto, uno spettacolo teatrale, un dibattito, una scampagnata con gli amici, o delle semplici chiacchiere tra due individui, di persona o sui social, sono tutti esempi diversi di “politica”?
Partendo da questa definizione generale, che comprende letteralmente qualunque interazione tra due o più individui, tutto sembra essere politica. In questo articolo proveremo a “raffinare”, se così si può dire, su base etimologica, storica e filosofica, il concetto di politica.
Alle origini del termine
La prima cosa da individuare è l’etimologia della parola “Politica”, un termine che trova le proprie radici nel termine greco politeia (πολιτεία), parola già in uso e con un concetto ben radicato nella cultura greca classica. Questa parola designa l’essenza stessa dell’organizzazione politica come atto collettivo che si lega ad un altro termine, ben più noto, legato anch’esso alla cultura greca classica, ovvero polis (πόλις), la città-stato greca.
Per capire meglio il significato della Politica quindi, dobbiamo comprendere meglio anche il concetto di Polis, che non è solo un entità geografica e amministrativa, che incontriamo nella penisola ellenica tra il VI e il III secolo avanti cristo, ma anche è un vero e proprio modello di organizzazione etica e sociale, che regola la convivenza umana.
Ed è proprio in quel sistema sociale che nasce la parola politica. Al tempo e nel mondo polis greche infatti, incontriamo i primi utilizzi “formale” della parola politica, o meglio Politeia. Tra questi utilizzatori del termine incontriamo Platone con la sua “Politeia”, un opera meglio nota in italiano come “La Repubblica”.
La Politica in età classica
La Repubblica di Platone, è un opera monumentale, è uno dei testi più importanti della storia della Filosofia, ed è scritto nella forma di un dialogo con Socrate, vero protagonista del libro in cui il filosofo greco, attraverso il proprio maestro, cerca di rispondere alle domande sulla natura della giustizia, di fatto l’opera è per certi versi un indagine sulla natura della giustizia e sulla sua importanza nella vita dell’uomo e nella società e, tra le altre cose, Platone esplora diverse forme di governo, tra quelle note all’epoca ed ipotetiche, individuando con straordinaria lucidità e in maniera quasi profetica, alcune delle maggiori criticità delle democrazie moderne, come ad esempio la “sete di libertà”.
Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati tiranni. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia.
Platone
Per Platone il concetto di politica è fortemente legato alla moralità, alla conoscenza, alla giustizia e alla capacità del buon governante, che per lui deve essere un Re Filosofo, di prendere decisioni che beneficino l’intera comunità.
Come Platone, anche il suo miglior allievo, Aristotele, userà il termine politica, nell’opera Politica, in greco Tá politiká (Τά πολιτικά) per descrivere le varie forme di governo e la scienza che studia l’organizzazione delle Polis, per il maestro di Alessandro Magno, il politico non è solo un legislatore, ma è qualcosa di più, poiché la politica è finalizzata alla filosofia ed ha il dovere di creare condizioni ottimali affinché si possa coltivare la scholè (tempo libero) e le attività teoretiche (filosofia, matematica, fisica ecc).
Più semplicemente, per Aristotele politica, non si limita alla semplice amministrazione statale, ma implica una visione olistica del vivere politico, del vivere pubblico, per cui l’amministrazione e la ogni attore attivo di quel luogo e quello spazio pubblico in cui l’individuo realizza la propria natura di zoon politikón (animale politico). Ciò significa che i tre concetti moderni di politica, pubblico e sociale, per Aristotele coincidono in maniera totale, sono sovrapponibili e sostituibili, di fatto sono la stessa cosa e questo perché per Aristotele, politica non è solo amministrazione, ma anche socialità.
Cambiando “mondo” e spostandoci in avanti nel tempo di qualche circa 2 secoli, arriviamo alla Roma del primo secolo a.c., qui Marco Tullio Cicerone aggiunge il proprio contributo al concetto di Politica con il suo De Republica, in cui il filosofo latino associa la res publica alla legge intesa come fondamento della comunità e definisce la politica come una sorta di scienza del governo, concetto che, in forma più o meno diversa verrà ripreso a più battute in tutto il medioevo culminando con il realismo politico di Machiavelli per il quale la politeia diventa arte del potere, per cui la politica mente o come è più comunemente noto “il fine giustifica i mezzi“.
Possiamo quindi definire politica come un qualcosa che si compone di due elementi, esercizio del potere e partecipazione attiva alla sfera pubblica.
Chi fa Politica? Cittadini e governanti
Che la si guardi in ottica moderna, medievale o classica, la politica ha un forte legame con il pubblico e con il sociale, sia quando è esercizio del potere per governare il popolo, sia quando è espressione della volontà del popolo, sia quando è al servizio del popolo. Ma chi fa politica? chi è il politico?
Nella Grecia classica esiste il termine polites con cui ci si riferisce a coloro che partecipavano attivamente alla vita pubblica, esercitando diritti e doveri, potremmo tradurre questo termine con il moderno “politico” o “cittadino”. Apriamo allora una parentesi sul cittadino, nel mondo antico la cittadinanza era un concetto abbastanza ampio, al punto che in epoca Romana, incontriamo nello stesso stato diverse forme di cittadinanza che riflettono privilegi. Oggi la cittadinanza è qualcosa di diverso rispetto a come era concepita nel mondo antico, dove, semplificando moltissimo, era qualcosa di molto simile al concetto moderno di “sovranità popolare”, di conseguenza il cittadino contribuisce alla formazione della volontà generale e vi è pertanto un rapporto di reciprocità tra cittadino e governante, che insieme, e solo insieme, sono espressione autentica della politica.
Nel mondo classico il politico è in sostanza un attore attivo della vita pubblica, c’è sinergia tra il “politico e il governante”, per Platone i governanti dovessero essere filosofi guidati dalla saggezza e al servizio del benessere collettivo. Nel medioevo tuttavia, Machiavelli rovescia questa prospettiva, descrivendo ne Il principe, il leader come un abile manipolatore delle circostanze, anteponendo la sopravvivenza dello stato alla virtù personale e dopo di lui Hobbes, nel Leviatano, teorizza un sovrano assoluto in grado di garantire sicurezza al popolo, il cui potere tuttavia non è immutabile ed è legittimato da un contratto sociale.
Abbiamo visto prospettive differenti, da Platone ad Hobbes, ma nella sostanza, il politico mantiene un elemento costante, ovvero il suo legame con la sfera pubblica. Politico e pubblico, continuano ad essere, nel XVII secolo, concetti sovrapponibili.
Il confine tra pubblico e politico?
Per gran parte della nostra storia, siamo arrivati ad Hobbes, ma in realtà ancora oggi, pubblico e politico sono concetti ampiamente sovrapponibili, risulta quindi necessario cercare di capire se c’è, e se c’è dov’è questa la linea di demarcazione tra Pubblico e Politico, cosa definisce l’azione politica?
Per Hannah Arendt la politica è l’essenza stessa dell’azione collettiva e della vita pubblica. Non si tratta più semplicemente di istituzioni, di procedure, ma di un esperienza umana fondamentale, che affonda le proprie radici nella capacità degli individui di agire insieme. La politica è a tutti gli effetti uno spazio d’incontro tra individui, un luogo di dialogo e di decisioni collettive, uno spazio vitale per il funzionamento delle democrazie.
La Politeia oggi
Oggi la Politica è un concetto dinamico, ridefinito innumerevoli volte nel corso dei secoli e dalle trasformazioni storiche e filosofiche, ma alcuni elementi sono sopravvissuti nel tempo, passando, almeno in Europa e nel Mediterraneo, dalle Polis all’impero di Alessandro a quello Romano, ai regni romano barbarici a gli stati nazione e le monarchie assolute europee, per poi sfociare negli imperi risorgimentali, nei totalitarismi e giungere, in fine, alle democrazie moderne.
Della politica oggi rimane fondamentalmente un amalgama sociale, che non è solo istituzioni statali, ma anche e soprattutto movimenti sociali, organizzazioni nazionali e internazionali, è dibattiti pubblici e digitali, mantenendo nel suo insieme un focus unico ancora fisso sull’ideale aristotelico del bene comune, che la storia ha piegato e adattato rendendolo ad oggi compatibile con un mondo follemente e ferocemente interconnesso, dove il “pubblico” supera ampiamente i confini tradizionali e dove, come scriveva Sandro Pertini, «la moralità dell’uomo politico consiste nel perseguire il bene comune».
Quella linea di demarcazione tra pubblico e politico a conti fatti, non l’abbiamo trovata e questo perché la sfera pubblica e sociale è qualcosa di interconnesso, in maniera indissolubile all’esercizio politico, è politica. D’altro canto però, negare l’appartenenza alla sfera pubblica e cercare di ostacolare la natura pubblica e sociale della politica, chiudere quello spazio collettivo, baluardo della libertà e della democrazia, aiuta alla creazione di terreno fertile per i sistemi totalitari, e non è un caso se nel proprio percorso storico, uomini come Mussolini, Hitler, Stalin, e qualsiasi altro dittatore mai esistito, abbiano costruito i propri regimi partendo proprio dalla censura e il “diritto alla censura”, rivendicando per se quella stessa libertà che negavano ai propri oppositori.
Si entra qui nel paradosso della tolleranza di Popper che possiamo esprimere parafrasando Luca Marinelli nei panni di Mussolini in M il figlio del Secolo “La democrazia è una cosa straordinaria, ti da la libertà di fare ogni cosa, anche di distruggerla”, e nel farlo, concretizza la profezia platonica dei Coppieri che ubriacano il popolo assetato di libertà, permettendo alla mala pianta della tirannia di germogliare.
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Lui è Orso Mario Corbino e probabilmente non avete mai sentito parlare di lui. O, se ne avete sentito parlare, è in merito ad uno scandalo di tangenti che coinvolge la Standard Oil nel 1924.
Orso Corbino è stato un senatore del regno d’Italia durante il regime Fascista, eletto in parlamento per la prima volta nel 1921 e rimasto in carica fino al 1937, anno della sua morte.
Oltre ad essere un Senatore, Corbino, tra il 1921 ed il 1924, fu anche Ministro, prima dell’Istruzione e poi dell’economia nazionale, tuttavia, nonostante fu ministro durante il governo Mussolini I, Corbino non era un fascista, e non lo sarebbe mai stato.
La storia delle pensioni, in italia, è ovviamente molto più ampia di così, e inizia nel 1898 con la fondazione di un istituto che oggi conosciamo con il nome di INPS e che, tra il 1895 e il 1919, consentì ai dipendenti pubblici, su base volontaria, di avere accesso ad un indennità, una somma di denaro mensile versato dallo stato, una volta raggiunta una certa età e l’impossibilità di continuare a lavorare, associabile a quella che oggi chiamiamo pensione.
Posizione politica di Orso Mario Corbino
Orso Corbino era un liberale, un liberale convinto, eletto al senato del regno d’italia nel 1921 tra le fila del Partito Liberale Italiano, il partito della Destra storica, che in quel momento rappresentava tutto ciò che rimaneva dell’eredità di Cavour.
Nel 1921 Ivanoe Bonomi invitò Corbino nella propria squadra di governo, affidandogli il ministero dell’Istruzione, carica che avrebbe ricoperto fino al Febbraio del 22. Come sappiamo, nell’ottobre del 22 ci fu la marcia su Roma, che portò alla nascita del governo Mussolini I e proprio durante questo governo, nel luglio del 1923, in seguito ad un rimpasto di governo Orso Mario Corbino venne invitato, da Mussolini, a ricoprire l’incarico di Ministro dell’Economia Nazionale, andando così a rimpiazzare Teofilo Rossi, liberale Giolittiano che dopo la marcia su roma si era schierato a favore del fascismo.
I motivi per cui Mussolini sostituì Rossi con Corbino sono diversi, tra questi, la grande popolarità di Corbino sia tra i Liberali che i Socialisti, popolarità che quindi permetteva al PNF che governava con appena il 19% dei consensi, di poter legiferare.
Appena insediato al ministero Corbino si fece immediatamente promotore di una proposta di legge, poi diventata legge effettiva con il decreto legge 3184 del 30 dicembre 1923, con cui si rendeva obbligatoria la pensione.
La famosa legge con cui, da anni, i fascisti alimentano il mito di Mussolini e le pensioni. Ecco, quella legge lì, proprio la legge con cui “mussolini” introdusse le pensioni civili. Quella legge è stata proposta da un Liberale, oltre che accademico, che, in vita sua, non avrebbe mai aderito al fascismo e anzi, sarebbe stato uno dei primi senatori ad aderire al movimento antifascista.
La legge sulle pensioni
Questa legge in realtà non fu una creazione originale di Corbino, la legge era stata infatti proposta per la prima volta nel 1919, ma, in seguito al cambio di governo e degli equilibri politici successivi alle elezioni del novembre 1919, la legge aveva subito una brusca interruzione.
Nel febbraio del 1920 Dante Ferraris aveva provato a rilanciare il disegno, e lo stesso fece, nel giugno dello stesso anno il socialista Arturo Labriola, purtroppo però, Liberali e Socialisti avevano visioni diverse e il quadro politico dell’epoca, molto instabile, soprattutto per via dei turbamenti legati al biennio rosso, misero la legge in stasi.
Con le nuove elezioni del 1921 la situazione, almeno all’inizio, non migliorò, i liberali, con Bonomi, sostenuti inizialmente dai popolari ed altri partiti minori, ottennero la guida del governo, ma l’alta instabilità non permise di realizzare granché.
Nell’ottobre del 22, con la marcia su roma e la guida del governo affidata a Mussolini, la situazione migliorò solo di facciata, de facto le commissioni parlamentari produssero pochissimi testi che divennero effettivamente leggi, e i pochi che ci riuscirono, furono realizzati grazie al grande carisma dei promotori e la mobilitazione di tutte le forze politiche.
Orso Mario Corbino, certamente non mancava di carisma, come anticipato, fu invitato al ministero dell’economia nazionale, per la sua grande capacità, dimostrata durante l’esperienza da ministro dell’istruzione, di mettere d’accordo le diverse forze politiche, e trovare un punto di incontro su un terreno comune.
Corbino accettò l’incarico dal luglio del 23 al settembre del 24 fu Ministro dell’economia nazionale.
Corbino e la legge sulle pensioni
L’invito di Mussolini a Corbino non era disinteressato, l’abilità politica del fisico ed il suo carisma erano uno strumento importante e la popolarità di Crobino iniziava a crescere molto rapidamente, anche fuori dagli ambienti politici. Mussolini pensò quindi di legare il nome di Corbino al Fascismo, facendo di lui uno degli uomini chiave della propaganda.
Questo si tradusse in una totale autonomia di Corbino, che poté quindi operare liberamente, sostenuto dal fascismo, dai liberali, dai popolari e dai socialisti.
Grazie a questa libertà Corbino propose un disegno di legge che rendeva obbligatorie le pensioni, il disegno di legge fu il frutto di un compromesso tra le posizioni liberali e quelle dei socialisti sul tema, e ricevette l’approvazione di Mussolini e del fascismo, che vedevano in quella legge una doppia opportunità.
Se la legge fosse stata accolta in modo positivo dagli elettori, sarebbe stata rivendicata, come è stato, come un grande successo del fascismo, se invece sarebbe stata un flop, la responsabilità sarebbe stata scaricata sul promotore, che, non era fascista, rendendola quindi un fallimento di liberali, popolari e socialisti.
La legge venne accolta positivamente, e, anche se promossa da Corbino, la legge non venne mai chiamata con il suo nome, venne invece legata alla propaganda fascista, mentre Corbino, cadde nel dimenticatoio e, dopo le elezioni del 24, pur venendo riconfermato come senatore, il suo nome non figurò più nel roast dei ministri di mussolini.
Corbino e la massoneria
Sull’uscita di scena di Corbino vi sono varie teorie, da un lato alcuni sostenono che l’uomo, durante il proprio mandato ministeriale, abbia intascato una tangente dalla Standard Oil insieme al ministro Gabriele Carnazza, entrambi massoni della Serenissima Gran Loggia d’Italia.
Secondo questa ipotesi, i massoni di Piazza del Gesù sarebbero dietro al delitto Matteotti, il quale sarebbe stato assassinato per coprire le tangenti riscosse dai propri adepti.
Questa ipotesi è tuttavia altamente improbabile, si fonda esclusivamente su incartamenti privati di Mussolini, scagiona Mussolini dal delitto Matteotti, ed incrimina gli unici due ministri, del primo governo Mussolini, non fascisti.
Questa storia presenta molte irregolarità, ed è fin troppo conveniente per Mussolini, autore delle uniche prove a sostegno di questa teoria, prove che sono emerse durante le indagini sul delitto Matteotti.
In ogni caso, uno dei principali sostenitori di questa teoria è il saggista statunitense, ex agente dell’OSS, Peter Tompkins, autore di libri molto popolari come “Dalle carte segrete del Duce”, 2001, la cui autorevolezza storiografica è prossima allo zero, si tratta di libri più inclini alla narrativa che non alla narrazione storica, in cui si elaborano teorie cospirative, estremamente affascinanti, ma non basate sul metodo comparativo.
Orso Mario Corbino è stato un accademico e politico italiano, due volte ministro tra il 1921 ed il 1924, prima come ministro dell’Istruzione, sotto il governo Bonomi e poi ministro dell’economia nazionale sotto il governo Mussolini.
Nonostante Corbino fu ministro nel primo governo di mussolini, il fisico non aderì mai al fascismo e mai ne condivise i valori o gli ideali. Nel 1925 Corbino si unì al movimento antifascista e fu uno dei pochi politici italiani che non si iscrissero mai al Partito.
Corbino fu un uomo molto riservato ed un politico molto carismatico, capace di mettere d’accordo socialisti e liberali, una dote rara che gli permise di portare a compimento un progetto legislativo iniziato nel 1919, creando le pensioni civili.
Un merito incredibile che il fascismo riuscì a strappargli facendolo proprio.
Corbino fu anche al centro di uno scandalo che emerse durante le indagini sul delitto Matteotti, uno scandalo probabilmente costruito ad Hoc da Mussolini per allontanare le indagini dal reale mandante e liberarsi allo stesso tempo di un possibile rivale ed oppositore politico.
La legge Corbino, mai chiamata con questo nome, è stata una delle pochissime leggi, insieme alla Legge Acerbo, ad essere prodotte in italia durante il primo governo Mussolini.
In ogni caso, le pensioni in italia sono un invenzione dei Liberali, rese possibili dal compromesso tra liberali e socialisti e nell’iter legislativo che portò alla creazione della legge 3184 del 30 dicembre 1923, il ruolo di Mussolini e del Fascismo fu assolutamente marginale. La legge venne proposta da un Liberale, venne votata da tutte le forze politiche, e il solo contributo dato dal fascismo alla legge, in fase di scrittura, fu il voto favorevole alle camere, un voto obbligato dal fatto che la legge era stata proposta da un ministro del governo Mussolini I, anche se, quel ministro, non solo non era un Fascista, ma mai lo sarebbe stato.
il 22 Febbraio Vittorio di Battista, padre di alessandro di battista, in un post su facebook ha citato mussolini… ma la frase da lui attribuita al duce, non è mai stata pronunciata da l dittatore italiano
“Attenzione al pericolo giallo”, così scrive Vittorio Di Battista, padre dell’ex deputato M5S Alessandro di Battista, in un suo post, in cui attribuisce la paternità di queste parole all’ex dittatore italiano Benito Mussolini.
Di Battista senior, a proposito dell’emergenza coronavirus, ha scritto su facebook
LA PROFEZIA. "Attenzione al pericolo giallo. Nei prossimi decenni ci dovremo guardare dall'espansionismo cinese. Invaderanno il mondo con la loro smisurata prolificità, con i loro prodotti a basso costo e con le epidemie che coltivano al loro interno". Benito Mussolini, discorso di saluto a Galeazzo Ciano, nominato rappresentante italiano a Shangai. Discorso pronunciato a Roma nel 1927, anno V° EF. E mo? E mo, Speranza…
Con queste parole, il fascista più liberale conosciuto da Alessandro di Battista lascia intendere una profetica visione di Mussolini con la quale il duce degli italiani, non solo avrebbe “previsto” l’espansione economica cinese, ma anche l’epidemia di corona virus.
Nel suo post Di Battista Senior ci fornisce anche un indicazione ben precisa del momento in cui Mussolini avrebbe pronunciato quelle parole. Il discorso di saluto a Galeazzo Ciano, nominato rappresentante italiano a Shangai, nel 1927.
Comparando questa informazione con con il percorso diplomatico di Ciano notiamo alcune incongruenze.
Nel 1927 Ciano non si trovava a Shangai, ma a Pechino dove era stato inviato come segretario di legazione, alle dipendenze dell’ambasciatore Daniele Varè. In quell’occasione Ciano era poco più di un semplice funzionario statale, di basso livello, e il suo legame con Mussolini era prevalentemente privato e dovuto alla relazione sentimentale con Edda Mussolini, figlia del duce. Non vi è peraltro traccia (come è normale che sia) di un discorso pubblico di saluto a Ciano nel 1927.
Già questo sarebbe sufficiente per etichettare la citazione fatta da Vittorio di Battista a Mussolini, come falsa o inesatta. Vi è però una fase della carriera di Ciano in cui il diplomatico fascista è stato effettivamente a Shangai, e alla sua partenza vi è stato un saluto pubblico da parte del Duce, ovvero, nel tra il maggio del 1930 e il luglio del 1933.
Nel maggio del 1930 Galeazzo Ciano venne nominato Console italiano a Shangai, e partì, insieme alla consorte, Edda Mussolini, figlia di Benito Mussolini, a pochi giorni dal proprio matrimonio, avvenuto il 24 aprile 1930. In occasione della loro partenza, il duce tenne un discorso pubblico in cui salutava il nuovo console, non tanto in funzione del proprio ruolo diplomatico, ma quanto più perché marito di Edda. In questo discorso Mussolini si rivolge soprattutto alla coppia, e non affronta questioni politiche. L’anno successivo Ciano venne trasferito da Shangai a Pechino, dive ottenne l’incarico, nel 1931, di Ambasciatore Plenipotenziario a Pechino.
Continua a non esserci traccia, nei discorsi di Mussolini, al “pericolo giallo” citato da di Battista.
Facendo un passo in dietro, e andando a ricercare tra i documenti della Camera, scopriamo però che, il 26 Maggio 1927, Mussolini tenne un discorso alla Camera dei Deputati, oggi noto come “Discorso dell’ Ascensione“, in cui, affrontando, tra le altre cose, il tema della sanità e della salute pubblica, Mussolini pronunciò le seguenti parole:
[...]Sotto la diretta sorveglianza degli organi della Sanità pubblica si sono derattizzati novemila bastimenti, cioè si sono uccisi quei roditori che portano dall'Oriente malattie contagiose: quell'Oriente donde ci vengono molte cose gentili, febbre gialla e bolscevismo. [...]
Questo discorso è molto celebre, perché è il punto di origine del mito per cui Mussolini avrebbe sconfitto la Mafia, in quanto, in questo stesso discorso, Mussolini presenta i numeri relativi ad alcuni interventi statali e di polizia, grazie ai quali, un elevato numero di “delinquenti associati” sono stati individuati e arrestati. Ma questa è un altra storia.
Il discorso dell’ascensione è l’unico discorso, pronunciato da Mussolini nel 1927, in cui si fa un esplicito riferimento all’oriente, e alle “malattie” provenienti dall’oriente. Non vi è però, alcuna connessione, tra questo discorso e la nomina di Ciano a Console a Shangai o di Ambasciatore a Pechino, e la frase, messa tra virgolette da Vittorio di Battista, non è mai stata pronunciata da Benito Mussolini.
Si tratta quindi di una Falsa Attribuzione, probabilmente il frutto di una distorta interpretazione del discorso dell’ascensione, dal quale sono stati estrapolati alcuni concetti, quali la diffidenza e la preoccupazione espressi da Mussolini nei confronti della Cina, per poi adattare quei concetti alla quasi contemporanea partenza di Ciano per la Cina.
Tra il 1934 ed il 1937 Mussolini fu promotore di una politica di incoraggiamento della Fede Islamica che lo avrebbe portato ad essere riconosciuto, nel mondo islamico, come Protettore dell’Islam, riconoscimento di grande valore che sarebbe stato consacrato con la consegna, da parte di un capo berbero, dell’antica e leggendaria Spada dell’Islam.
Era il 20 Marzo 1937 quando Benito Mussolini, incontrò, nei pressi di Tripoli, nella Libia Italiana, Yusef Kerbisc, un capo berbero vicino al regime Fascista da cui avrebbe ricevuto in dono l’antica e leggendaria spada dell’Islam, appositamente forgiata per l’occasione, suggellando così l’amicizia tra Mussolini ed il popolo islamico, che Mussolini si impegnava a proteggere da uomo laico.
Mussolini in posa, mentre impugna la spada dell’islam, dopo essere stato proclamato protettore sacro dell’islam.
Mussolini non voleva essere percepito come un invasore o conquistatore straniero, poiché la campagna in Libia era stata raccontata in patria come una campagna di ricongiungimento con i cugini libici.
Mussolini non voleva che la Libia Italica venisse percepita, in Libia, in Italia e all’Estero come un territorio Coloniale, e, diversamente dal corno d’africa, voleva che la Libia fosse percepita come parte integrante del territorio Italico, e di conseguenza fu avviata, già dal 1934, la possente macchina della propaganda che, in Libia si tradusse in una vera e propria politica di “incoraggiamento” della fede islamica.
Mussolini sapeva perfettamente che la fede è un arma potente era un arma potente e che, controllando la fede, avrebbe potuto facilmente controllare il popolo, aveva già sperimentato in Italia, con ottimi risultati, questa linea politica che, attraverso i Patti Lateranensi, gli aveva permesso di mettere le mani sul consenso dei cattolici.
Analogamente a quanto fatto in Italia dunque, Mussolini cercò il consenso dei musulmani e iniziò a definire le popolazioni locali come “musulmani italiani della quarta sponda d’Italia”, la Libia italiana era la quarta sponda d’Italia e i suoi abitanti erano, per la propaganda del regime, italiani a tutti gli effetti, tuttavia, diversamente dagli italiani della penisola, gli italiani della quarta sponda non erano cristiani, e dunque, per loro, nel “rispetto” della loro fede, fece restaurare le antiche moschee danneggiate dalla guerra e ne fece costruire di nuove, fece costruire scuole coraniche, e, a Tripoli, fece inaugurare la Scuola Superiore di Cultura Islamica, fece inoltre istituite numerose strutture di assistenza per i pellegrini diretti alla Mecca.
Per il popolo libico Mussolini “aveva fatto tante cose buone”, e anche se per ragioni puramente politiche, si era indirettamente fatto promotore di una politica di convivenza civile e pacifica tra cristiani e musulmani, spianando la strada all’idea di uno stato laico in cui la fede è un qualcosa di intimo e personale e che non influisce minimamente sulla condizione sociale… o almeno, sulla carta era così.
Questa linea politica, di estrema apertura al mondo islamico, aveva ridotto al minimo le resistenze al dominio italico, ed aveva procurato a Mussolini il favore delle masse popolari, limitando gli oppositori ai soli a pochi esponenti della vecchia elite ottomana. Tuttavia, Mussolini non era soddisfatto, e rivendicava per se, qualcosa di più del semplice consenso.
Mussolini era un uomo ambizioso, ed era stanco di vivere all’ombra del Re che, pur non facendo nulla, continuava ad essere il Re, continuava ad essere colui a cui bisognava giurare fedeltà, continuava ad essere l’uomo più potente dello stato italiano, e in libia, nel 1937, assistiamo al primo duro colpo inflitto da Mussolini all’autorità del Re, rivendicando per se il titolo di successore del califfo, che, in teoria, sarebbe spettato al Re d’Italia.
Yusef Kerbisc, esibisce la spada sacra del’islam prima di donarla a mussolini
Il consenso di Mussolini in Libia era per certi versi superiore a quello che aveva in Italia, tuttavia, per assumere i pieni poteri e godere della lealtà e fedeltà dei “musulmani italiani della quarta sponda” doveva trovare un modo per riequilibrare la propria posizione spirituale, Mussolini era pur sempre l’uomo che aveva fatto firmare i Patti Lateranensi, che de facto sbilanciavano lo stato italico verso il mondo cattolico, e per riportare equilibrio nella spiritualità italica, Mussolini doveva necessariamente trovare il modo di legarsi al mondo islamico, senza però minare i legami con il mondo cristiano, era dunque da escludersi a priori la “conversione all’Islam“.
La soluzione non tardò ad arrivare, Mussolini, già dal 1934 aveva rivendicato per se il ruolo di successore del califfo, e per creare quel legame con il mondo islamico, non doveva far altro che sancire in maniera bilaterale quella rivendicazione. Fece dunque quello che ogni Leader Italico avrebbe fatto…
Mise un piede in due scarpe, e da abile doppiogiochista qual’era, rivendicando per se la successione italica al califfo Ottomano, si fece proclamare, da Yusef Kerbisc, un capo berbero vicino al regime, Protettore dell’Islam e per suggellare questa nomina, ricevette in dono la spada dell’islam e dovette giurare di garantire al popolo libico, “pace, giustizia, benessere e rispetto delle leggi del Profeta”.
Perché in germania i tedeschi si vergognano del Nazismo, metre gli italiani non sembra si vergognino più del fascismo e in alcuni casi sembrano desiderare un suo ritorno?
Come mai in Germania, l’opinione pubblica, si vergogna di essere stati nazisti (nonostante qualche rare eccezione), mentre da in italia, l’opinione pubblica, molto spesso è spesso nostalgica di quegli anni e addirittura nel nostro paese ci sono forze politiche, non irrilevanti, dichiaratamente simpatizzanti per la politica fascista, pur non dichiarandosi apertamente fascisti perché fortunatamente la costituzione lo impedisce?
Perché in Italia il Fascismo non è universalmente percepito come una macchia nel nostro passato, un qualcosa di cui vergognarsi e da cui mantenere le distanze, ostracizzando quelle idee, quelle proposte e quegli elementi propri della politica fascista?
Detto più banalmente, perché gli eredi di Hitler, Himmler e degli altri gerarchi nazisti si vergognano dei propri antenati, mentre in italia gli eredi di Mussolini e degli altri gerarchi fascisti vanno fieri dei propri antenati e in alcuni casi, ne esaltano la memoria, cercando in ogni modo di evidenziare le “cose buone” fatte dal fascismo… come se aver bonificato una palude potesse giustificare omicidi, pestaggi, deportazioni ed eccidi…
La risposta a queste domande non è semplice, ma voglio provare comunque a rispondere.
La ragione è politica, ma non parlo della politica odierna, mi riferisco invece alla politica del dopoguerra, perché è in quegli anni, tra il 1945 ed il 1948 circa, che il problema del fascismo nostalgico, affonda le proprie radici.
Finita la guerra, finita la seconda guerra mondiale, la Germania ed i tedeschi, hanno dovuto prendere coscienza del proprio passato, di ciò che era successo, di ciò che era stato fatto e di ciò che la popolazione tedesca aveva permesso al Nazismo di fare. Mentre in Germania il nazismo è stato ufficialmente condannato, sia politicamente che giuridicamente, e la popolazione tedesca ha in qualche modo “pagato il conto” dell’esperienza nazista, in italia tutto questo non è successo e la popolazione italiana è stata in un certo senso assolta. Complice anche la guerra civile (1943-1945) e le operazioni di “resistenza” al fascismo da un lato, e la mancata volontà politica di parlare di guerra civile per decenni, facendo invece percepire il conflitto avvenuto nella penisola tra il 1943 ed il 1945 come una guerra tra italiani e stranieri (americani o tedeschi che siano), creando così, sul piano politico dell’epoca un vero e proprio divario tra “italiani” e “fascisti”.
Nel 1945, la Germania prendeva cosicenza che i tedeschi avevano appoggiato e voluto il Nazismo, e chi non lo voleva si era banalmente voltato dall’altra parte o era scappato, dando de facto la percezione che, tutti i tedeschi erano nazisti e dovevano pentirsi di ciò che avevano fatto. In Italia invece, questo non avviene, gli italiani, per via della guerra civile, nonostante per circa un ventennio non abbiano mosso un dito, improvvisamente non sono più fascisti, e dunque non c’era motivo di vergognarsi delle azioni dei fascisti, solo i fascisti erano colpevoli… dimenticando forse troppo facilmente che per oltre vent’anni il fascismo aveva regolato ogni aspetto della vita degli italiani, e che, salvo pochissime eccezioni, quasi nessuno prima del 43 si era opposto in modo incisivo. Gli italiani, esattamente come i tedeschi, avevano scelto il fascismo, ma, una volta che il fascismo non c’era più, semplicemente si voltarono dall’altra parte, così come per vent’anni si erano voltati dall’altra parte mentre il fascismo imperava nel paese.
Detto più semplicemente, all’epoca, nell’immediato dopoguerra, il discorso politico in Germania si impostò sul concetto che in Germania, i tedeschi avevano scelto volontariamente il nazismo, e quindi erano complici del Nazismo. Diversamente, in Italia, l’impostazione fu che gli italiani subirono il fascismo, partito da un colpo di stato, e dunque non ne erano complici, e non avevano di che vergognarsi… avevano semplicemente chinato il capo all’uomo col manganello e l’olio di ricino.
Questo tipo di impostazione, permise all’Italia e agli italiani, da un lato di “ripulire le coscienze” degli italiani, che de facto non dovettero mai fare i conti con il fascismo e i suoi crimini, non erano stati gli italiani ad assassinare Matteotti, erano stati i fascisti, non erano stati gli italiani a tacere quando i fascisti andaro a prendere Gobetti, ma gli era stata tappata la bocca, non erano gli italiani ad aver accettato le leggi raziali, erano state imposte dai fascisti. Ma non solo, questa operazione di “pulizia delle coscienze”, si trasferì anche nelle aule dei tribunali e dei tribunali militari, aule vuote in cui dovevano essere processati i i criminali di guerra italiani, i fascisti, ma de facto, ciò non avvenne, non ci furono processi ne condanne, e questo perché, sulla base del principio di reciprocità, l’Italia accettò di processare i propri criminali, ma solo se anche francesi, jugoslavi e americani, vincitori della guerra, avessero processato i propri criminali, e i vincitori della seconda guerra mondiale questo non lo avrebbero mai fatto, mai si sarebbero piegati, da vincitori, alle richieste degli sconfitti, e dunque, l’Italia, ottenendo di poter processare autonomamente i propri criminali, de facto non li processò mai.
La mancata norimberga italiana, per usare un termine coniato nei primi anni duemila da diversi storici italiani che affrontarono la vicenda, è in larga parte responsabile del fatto che, gli italiani non hanno mai fatto i conti col fascismo e che il fascismo non è mai stato completamente consegnato alla storia.
Nel dopoguerra, tutti i partecipanti alla seconda guerra mondiale stilarono enormi liste di criminali di guerra, e dopo anni di trattative e richieste respinte, alla fine si accettò di far ricorso al principio di reciprocità, così da mettere fine, una volta per tutte, alla seconda guerra mondiale. Ogni paese accettò di farsi carico dei processi ai propri criminali, accusati da altre nazioni, così fece anche l’italia, i cui processi furono in qualche modo avviati, i fascicoli furono aperti, le indagini preliminari iniziarono, ma poi accadde qualcosa e tutto venne archiviato e dimenticato in quello che Franco Giustolisi intorno alla metà degli anni 90, definì l’“armadio della vergogna” .
Si tratta di un armadio rimasto chiuso per oltre quarant'anni, in cui, nel 1994 vennero trovati gli incartamenti dei processi mai computi ai criminali di guerra italiani.
Viene da chiedersi, perché, al di la del principio di reciprocità, l’italia non portò a termine quei processi, e la risposta a questa domanda ci arriva direttamente dal materiale trovato in quell’armadio.
Analizzando i documenti, oggi liberamente consultabili da chiunque e conservati presso gli uffici dell’ex tribunale militare di La Spezia, emerge che all’epoca, sul finire degli anni quaranta, a ormai qualche anno di distanza dalla fine della seconda guerra mondiale, in italia si manifersò la precisa volontà politica, dell’allora classe dirigente italiana “dimenticare il fascismo”, di lasciarselo alle spalle, senza però mai farci realmente i conti, senza mai affrontarlo realmente e concretamente, e non affrontandolo il fascismo è rimasto lì, a sedimentare e fermentare.
Oggi, col senno di poi, possiamo dire che ignorare quei fascicoli ed evitare quei processi è stato un gravissimo errore, e volendo cercare dei responsabili, non è difficile individuarli. Tra il materiale emerso dall’armadio della vergognia vi è infatti anche un appunto di un giovane Giulio Andreotti, all’epoca appena un sottosegretario di un ministero senza poetafogli, in cui si invita a ignorare la questione dei processi, per evitare eventuali problemi politici sia interni che internazionali.
Erano anni in cui alcune città italiane, come Trieste, erano sotto il controllo non dello stato italiano ma di forze internazionali, e vi erano pressioni politiche da parte della Jugoslavia per cui le aree liberate dai Jugoslavi durante la guerra, diventassero territori Jugoslavi, e l’unico modo per evitare che questo accadesse era trovare un accordo tra Italia e Jugoslavia.
L’Italia decise quindi, per mantenere l’integrità e l’unità dei propri territori, di non richiedere alla Jugoslavia di processare i propri criminali, tra cui i responsabili degli eccidi delle Foibe, che nel nuovo asset del governo di Tito ricoprivano incarichi di rilievo e posizioni centrali.
L’Italia, o meglio, la sua leadership politica, scelse di non processare i fascisti per ragioni politiche e geopolitiche.
Va detto che, già tra 45 e 48, sulle pagine de l’unità, queste scelte politiche furono aspramente criticate, l’unità fu, fino ai primi anni cinquanta, l’unico giornale in italia che continuò a chiedere apertamente di processare i criminali italiani, ma la sua voce rimase inascoltata. Principalmente perché, per una fetta importante dell’opinione pubblica, queste richieste mascheravano la volontà politica dei comunisti italiani di proseguire la guerra o comunque di aiutare i comunisti Jugoslavi a danno dell’Italia.
Ad ogni modo, ignorata o meno, già all’epoca, sulle pagine dell’unità e tra le fila del PCI (e in larga parte anche del PSI) si teorizzava (e col senno di poi, possiamo dire che si prevedeva e la loro previsione era molto oculata) che ignorare i criminali italiani e non affrontare seriamente il problema del fascismo, fingendo che questi non fosse mai esistito, avrebbe avuto l’effetto pericoloso, in un futuro non troppo reoto, di far sbocciare nuovamente il fiore del fascismo e di riportare alla luce quella pericolosa interpretazione politica della realtà.
Insomma, si diceva chiaramente che, se l’italia non avesse condannato i fascisti, in futuro questi sarebbero potuti tornare, facendo le vittime, poiché non essendo “colpevoli”, visto che nessun fascista era stato condannato da un equo tribunale, e che, i soli fascisti condannati erano stati condannati da tribunali popolari del CLN, potevano, colpevolizzare le scelte dell’Italia antifascista, e, associando l’antifascismo al comunismo, rimettere in discussione l’intera struttura repubblicana ed i suoi equilibri istituzionali, poiché, in questa chiave interpretativa, i fascisti non vennero condannati per i propri crimini di guerra e contro l’umanità, ma, apparentemente, solo per ragioni politiche, rendendo quelle condanne apparentemente inique.
Il nipote di Mussolini parla di storia, ma forse confonde la storia con la fiaba della buona notte in cui il suo antenato non era uno dei criminali più disonorevoli della storia d’italia.
Scusami se oggi parlo di politica ed attualità su una blog di storia, ma è la storia stessa che mi impone di esprimermi a riguardo, perché nell’immagine che vedete si fa riferimento alla storia, ed è un qualcosa che da storico non accetto.
Da storico mi fa ribrezzo una tale strumentalizzazione politica della storia e sempre da storico, mi sento violato, offeso e in questa immagine, vedo buttare al casso il lavoro di storici che per decenni hanno cercato di ricostruire con efficacia e razionalismo, cosa è realmente successo nel ventennio, con tutte le enormi difficoltà del caso e al di la delle proprie opini personali.
Da “storico“, trovo aberrante questa strumentalizzazione della storia che propone il ricordo di un passato falsato e distorto, di una storia imposta dall’alto e non per amor di conoscenza, ma per interesse politico, una storia che viaggia a senso unico, senza competenza, senza alcuna forma di comparazione delle fonti, senza indagini approfondite, senza contestualizzazione, senza storia.
Una narrazione storica falsata che parte da un opinione personale e attorno ad essa rielabora gli avvenimenti del passato, un opinione per cui, Mussolini è passato dall’aver fatto “anche” cose buone, (osservazione opinabile ma non del tutto errata) che col tempo è evoluta ed invertito il trend. Mussolini negli ultimi anni non è più stato il dittatore che nell’ampiezza del proprio regime, compì anche cose buone, ma è diventato un uomo giusto e buono, che nella sua lunga carriera politica, ha commesso qualche errore, e tutti successivi all’alleanza con la Germania, insomma, oggi, l’idea sempre più diffusa è che Mussolini abbia fatto “solo” cose buone.
E se “ha fatto anche cose buone” era un osservazione opinabile, la nuova chiave interpretativa, è semplicemente disgustosa.
Questo post si intitola “Già le mani dalla storia” anche se inizialmente pensavo di chiamarlo “Tenete la Storia fuori dalla politica“, perché la storia, la nostra storia non è una componente politica e non appartiene all’una o all’altra corrente di pensiero, all’una o all’altra fazione, ma è di tutti, vincitori e vinti, giusti e malvagi, vittime e carnefici e in questo caso specifico, possiamo dire, con coscienza storica che la storia richiamata dal nipote del dittatore è tutt’altro che dalla loro parte, e farebbe meglio pensarci due volte prima di richiamare un passato di cui il nostro paese dovrebbe vergognarsi ma di cui, a quanto pare, ultimamente va sempre più fiero.
Il futuro verso cui viaggiamo, verso cui viaggia l’umanità non ha spazio per gli spettri di un passato burrascoso, barbarico ed incivile, in cui non esistevano libertà ne diritti, ma solo doveri, e la storia ci insegna, attraverso i propri corsi e ricorsi, che chiunque abbia provato a cancellare i diritti altrui, prima o poi è stato sopraffatto. Da Giulio Cesare a Benito Mussolini, passando per Oliver Cromwell e Napoleone, e non escludendo ovviamente il regime Sovietico, quello Maoista e quello Castrista, o le innumerevoli giunte militati che nel corso dell’ultimo secolo hanno preso il potere in america Latina e Africa o i vari imperi coloniali. Aggiungo inoltre che il tempo inasprisce i sentimenti di chi è stato privato dei propri diritti e generalmente più questo tempo aumenta, più brutale e violenta stata la sopraffazione degli oppressori da parte degli oppressi, vedi la sorte di dello stesso Mussolini o più recentemente Gheddafi.
If you’re wondering what fascism leads to, just ask Benito Mussolini and his mistress Claretta. pic.twitter.com/uc2wZl0YBu
Reputo del tutto irrazionale che un uomo, candidato in un partito improntato sulla staticità e che cerca di contrastare la storia, osi parlare di “storia” e si riempia la bocca di parole e frasi assurde sul fascismo e sul proprio antenato, dicendo allo stesso tempo di non avere idee vicine a quelle del proprio avo, ma allo stesso tempo, difendendolo e dicendo di “aprire un libro di storia”, a chi osserva che quel regime totalmente nelle mani di Mussolini, compì crimini immani in tutto il proprio corso e al di fuori dell’alleanza con la Germania.
Personalmente mi reputo una persona che i libri di storia, non si è limitata ad aprirli, ma li ha studiati, sviscerati, analizzati fino al midollo, e non ho dubbi su chi abbia e chi non abbia mai aperto un libro di storia tra chi critica e chi difende il regime fascista e nel caso ci fossero dubbi a riguardo, chi difende il fascismo, evidentemente non ha idea di cosa sia stato il fascismo in italia.
Dire che Mussolini fece anche cose buone, è opinabile, ma accettabile, perché è assolutamente vero. In vent’anni di governo qualcosa di buono l’ha effettivamente fatto, è una questione puramente statistica, nella maggior parte dei casi, queste cose buone furono il frutto di continuità con il passato e il proseguimento di politiche “positive” che precedono (in alcuni casi di qualche decennio) l’avvento del fascismo, in altri casi, furono operazioni originali e proprie del governo fascista, ma nel computo generale di positivo e negativo, dubito che aver bonificato qualche palude, edificato qualche casa popolare e completato parte dell’infrastruttura ferroviaria, possa essere solo minimamente sufficiente a giustificare o rendere tollerabili gli immani crimini compiuti dal regime, i quali, per portata e varietà, va precisato, furono nettamente superiori alle “cose positive”. E se da un lato dire che Mussolini fece anche cose buone è opinabile, ma nel complesso generale vero, negare i suoi crimini e dire che il suo unico errore fu l’alleanza con Hitler, è frutto o di malafede o ignoranza, in entrambi i casi però, significa mentire spudoratamente.
Evidentemente i pestaggi, gli eccidi, i massacri, i brogli, la corruzione, la speculazione edilizia, i sequestri di persona e gli omicidi, compiuti dalle squadre fasciste nei primissimi anni dell’esperienza fascista, e fino almeno al 1929, per chi ha determinate idee, sono probabilmente atti dovuti, sono dei valori, dei pregi, sono un qualcosa di positivo di cui andare fieri, del resto, tutto questo è avvenuto non solo prima dell’alleanza con Hitler, ma addirittura prima dell’apparizione stessa di Hitler sulla scena politica tedesca. Insomma, di cose discutibili il Fascismo ne ha fatte ben prima dell’alleanza con Hitler. Non parliamo poi degli arresti, dei pestaggi e degli omicidi politici, che colpirono esclusivamente chi aveva un opinione o idea diversa da quella unica imposta dal regime, e stendiamo un velo pietoso sul modo in cui l’italia trattò gli indigeni nei propri possedimenti coloniali, perché non voglio aprire la questione sui crimini di guerra, i linciaggi, la riduzione in schiavitù e la compravendita di esseri umani, per decenni negati non solo dal regime, ma anche di illustri figure della stampa italiana negli anni della repubblica (ogni riferimento a Montanelli è puramente voluto). Restando quindi all’Italia e fingendo che le colonie non esistono e che quindi i crimini compiuti nelle colonie sono solo un invenzione degli storici. Ricordiamo che, in Italia, durante gli anni del regime fascista, per godere dei pochi diritti rimasti, essere italiani era una condizione necessaria ma non sufficiente, e se non sie era iscritti al Partito Nazionale Fascista, essere “cittadini italiani” era solo una formalità retorica, ma serviva a ben poco, di fatto, chi non era iscritto al partito, era come se non fosse un cittadino, o peggio, era un cittadino di serie B, al quale erano negati assistenza sociale, diritti civili e lavoro. Da questo punto di vista fa sorridere che nei suoi discorsi pubblici, Mussolini stesso ripetesse più volte “italiani”, riferendosi però, non a tutti gli italiani, ma solo a quelli tesserati.
Se oggi alcuni leader di partiti che in un modo o nell’altro sono eredi del partito fascista, ritengono opportuno e lecito dichiarare pubblicamente che “il pensiero unico ci impone di ascoltare tutti” facendolo passare quasi come un qualcosa di negativo, di vergognoso e assolutamente “antidemocratico”, è forse solo un eredità di quegli anni in cui, il partito fascista si era sostituito allo stato, ed aveva il potere di decidere arbitrariamente chi potesse e chi non potesse godere dei pochi diritti costituzionali ancora esistenti.
Mi permetto di aggiungere un ultima riflessione personale, a mio avviso, da storico ed osservatore attivo del mio tempo, il pensiero unico non è quello internazionalista e in un certo senso sancito dalla nostra stessa costituzione, costituzione che ricordiamo, parla di diritti universali per tutti (e sottolineo tutti) i cittadini, senza distinzione di sesso, etnia, origini, religione o pensiero politico. Il pensiero unico è, a mio avviso, quello di chi censura, denigra, minaccia, zittisce ed uccide chiunque la pensi diversamente, e questo, oltre ad essere in aperta violazione di uno dei principi fondamentali della nostra costituzione, è anche e soprattutto antistorico e non accetto che, fautori del pensiero unico, nostalgici di un tempo in cui in italia non esisteva alcuna forma di libertà, si permettano di distorcere la realtà storica, per le proprie finalità politiche. Di fatto, sparando cazzate senza ritegno, ne rispetto per la storia.
Quando si parla comunemente di marcia su Roma si intende quella particolare spedizione militare avvenuta negli ultimi giorni dell’ottobre del 1922 con la quale i fascisti mossero verso la capitale. In realtà, l’espressione marcia su Roma può riguardare un avvenimento molto più ampio, di preparazione alla fase finale che si concluse il 28 ottobre.
Le vicende dell’ottobre 1922 ci sono note solo nei loro tratti principali, ma appena si cerca di approfondire emerge una complessità molto ampia di cui si possono notare due problemicentrali: il ruolo giocato dalla Corona e quello del Governo. Questa situazione fu molto complessa tanto che ancora oggi le stesse istituzioni, i giornali, i partiti non conoscono le proporzioni, i caratteri, le finalità complessive del movimento.
In quel periodo si era definitivamente manifestata, a partire dai primi mesi del 1922 la crisi dello Stato liberale, infatti i due Governi che si succeddettero nel 1922, il Governoguidato da Ivanoe Bonomi e quelli guidati da Luigi Facta erano Governi estremamente deboli che si basavano su una maggioranza eterogenea composta dal Partito Liberale Italiano, Partito Popolare Italiano, Partito Democratico Sociale Italiano, Partito Socialista Riformista Italiano e Partito Agrario.
Il succedersi dei fatti è abbastanza conosciuto; Mussolini prepara la marcia su Roma, il Governo risponde con un mezzo non raro nella storia dell’Italia liberale, proclamando lo stato di assedio che consente l’impiego dell’esercito.Il re inizialmente accetta la scelta del Governo, ma il 28 ottobre, quando si tratta di passare ai fatti, si rimangia la parola e si rifiuta di avviare l’azione repressiva da parte dell’esercitodel Governo. Il Presidente del Consiglio presenta le dimissioni, seguendo la consuetudine che fa capire come ancora nel 1920 la fiducia del sovrano sul Governofosse ancora importante, il re accetta immediatamente. Questa è in estrema sintesi quello che è successo in quei giorni, ma gli svolgimenti e le implicazioni disegnano un quadro più complesso fin dall’organizzazione della marcia su Roma.
Per tutto il 1922 c’erano state già quelle che da molti storici sono consideratedelle prove generali delle anticipazioni della marcia su Roma con l’occupazione di Bolzano, Trento, Bologna e altri centri minori che rinforzavano il ruolo politico militare del fascismo nel Paese.Il 26 settembre 1922 Mussolini si recò a Cremona tra l’entusiasmo delle camicie nere; dopo il consueto discorso introduttivo di Farinacci, parlò il leader del fascscismo: “È dalle rive del Piave che noi abbiamo iniziato una marcia che non può fermarsi fino a quando non abbiamo raggiunto la meta suprema: Roma”.Il 24 ottobre ci furono ulteriori prove generali con il grande concentramento di Napoli, il piano ormai consolidato era quello di conquistare prima la periferia come era stato su scala minore, ma questa volta l’obbiettivo era la capitale. Lo squadrismo voleva quindi forzare la mano a quella parte politica liberal-moderata monarchica, sostenuta dalla Confindustria che guardava con simpatia al fascismo, ma che avrebbe concesso in un Governo di centro-destra solo qualche ministero al fascismo. Divisa l’Italia in dodici territori, Mussolini e i quadrunviri lasciarono la grande manifestazione di Napoli, tutti avevano dei compiti precisi che dovevano svolgere in poco tempo tra il 25 e il 27 ottobre;inoltre il piano insurrezionale era stabilito in cinque tempi come ha scritto lo storico Renzo De Felice:
1-Occupazione degli uffici pubblici delle principali città del Regno;
2-Concentramento delle camicie nere a Santa Marinella, Perugia, Tivoli, Monterotondo, Volturno;
3- Ultimatum al Governo di Facta per la cessione generale dei poteri dello stato;
4-Entrata a Roma e presa di possesso ad ogni costo dei ministeri. In caso di sconfitta le milizie fasciste avrebbero dovuto ripiegare verso l’Italia centrale, protette dalle riserve ammassate nell’Umbria;
5- Costituzione di un Governo fascista in una città dell’Italia centrale. Radunata rapida delle camicie nere della Vallata Padana e ripresa dell’azione su Roma fino alla vittoria ed al possesso.
Nel doloroso caso di un investimento bellico, la colonna Bottai (Tivoli e Valmontone) accerchierà il quartiere di S. Lorenzo entrando dalla Porta Triburtina e da Porta Maggiore. La colonna Igliori con Fara (Monterotondo) premerà da porta Salaria e da Porta Pia e la colonna Perrone (Santa Marinella) da Trastevere.
Apartire dal 26 ottobre le squadre occuparono molte città dell’Italia settentrionale e centrale prendendo il possesso dei centri strategici come le prefetture per poi muovere verso Roma. Le autorità dello Stato nelle diverse città non avevano disposizioni precise su come contrastare queste iniziative ed erano troppo abituate a lasciarcorrere gran parte cedettero pacificamente ovennero sopraffatte. L’azione vera e propria iniziò nella notte tra il 27 e il 28 ottobre. Alcuni dei comandanti di zona diedero le disposizioni attraverso delle apposite staffette ai comandanti locali e altri le diedero in treno.L’ordine di mobilitazione comandava che questa avvenisse tra il 27-28 di notte, l’orario dipendeva dalla distanza dei vari luoghi dal capoluogo di provincia. Gli squadristi dovevano avere la tessera, dei viveri a secco per tre giorni ed essere in assetto da guerra.
Il comportamento del re e del Governo in questa situazione mutò rapidamente infatti se all’inizio sembrò a favore della proclamazione dello stato d’assedio e dette l’impressione di sollecitare Facta, in giro di breve tempo, come sostiene Renzo de Felice, rifiutò la firma del decreto. Questo cambiamento non è da ricercare in una preventiva intesa con Mussolini e si può escludere che i fascisti nella notte tra il 27 e il 28 ottobre abbiano fatto pressioni sul Re. La motivazione reale di questo cambiamento secondo Renzo de Felice bisogna ricercarla negli ambienti vicini a lui e sui quali riponeva fiducia tanto da influenzarlo, dato che Il re era solo parzialmente a favore di Mussolini: inizialmente la sua idea era di non firmare lo stato d’assedio e di dare il governo a Salandra; è quindi ipotizzabile che avesse accettato solo metà della proposta suggeritagli.
Si arrivò quindi alla marcia su Roma con il Sovrano e il Governo senza una linea comune e questo creò solo confusione.
La propaganda è oggetto di studi dal XX secolo circa. Ma è un fenomeno nuovo?
Essa nasce con la società e quindi, nel momento in cui l’uomo ha deciso di organizzarsi con una struttura sociale ben definita e con un sistema di potere. Ma com’è cambiata e soprattutto quando la propaganda ha cominciato ad assumere un ruolo centrale nella storia?
Proprio questi sono gli interrogativi da porsi per capire l’essenza di uno strumento da sempre fondamentale per la gestione del potere sulle grandi masse, che ha sempre mantenuto un alto livello di efficienza ed ancora oggi viene utilizzato.
Già in epoca pre-romana la propaganda era uno strumento diffuso per la conquista del consenso, per la costruzione dell’opinione pubblica ed il mantenimento di un equilibrio sociale. Emblema del suo utilizzo è Pisistrato, tiranno di Atene. Tra l’altro la propaganda di Pisistrato è, paradossalmente, più vicina a quella moderna che a quella utilizzata in epoca romana. Egli utilizzò elementi moderni quali il nemico pubblico e quelle che oggi definiamo fake-news. I Romani invece, nonostante l’inserimento dell’informazione all’interno della propaganda quale elemento nuovo, si concentrarono di più su messaggi di adorazione verso l’imperatore di turno.
Oggi sappiamo che questo tipo di propaganda non funziona, ma funziona invece quella più vicina a Pisistrato e cioè mascherata dietro un’informazione apparentemente libera ed indipendente, che utilizza la tecnica del nemico pubblico, delle fake news e che prende dai Romani l’utilizzo dell’elemento informativo.
Il passaggio significativo da una propaganda di questo genere, ovvero efficace, ma comunque antica ad una moderna c’è stato con la Prima Guerra Mondiale. Rappresentavano l’avanguardia in questo campo le grandi potenze europee e gli Stati Uniti. La Germania, sarà maestra della propaganda nella Seconda Guerra Mondiale. Con questo strumento si riuscì a far passare una guerra come un qualcosa di doveroso, necessario, addirittura sacro.
La Grande Guerra fu il banco di prova del potere della persuasione: oltre al fronte fisico vero e proprio e cioè le trincee, si costituì in ogni paese coinvolto un fronte interno con lo scopo di mantenere l’equilibrio sociale e giustificare, in qualche modo, i sacrifici che si chiedevano alla popolazione. La propaganda fu lo strumento centrale per reclutare soldati giovani da mandare in trincea.
Senza lo Zio Sam con “I Want You” probabilmente nessuno si sarebbe mai arruolato volontariamente per andare a combattere con il 50% delle possibilità di non tornare a casa. Senza lo slogan “Fare il mondo sicuro per la democrazia”, probabilmente il popolo americano non avrebbe mai accettato la decisione del governo di entrare in guerra nel 1917 e si sarebbe organizzato per ribellarsi. Invece, con un’ottima propaganda si riuscì addirittura a rendere gli americani contenti ed orgogliosi dell’azione militare intrapresa. In Inghilterra nel solo primo anno di guerra si arruolarono circa 200.000 giovani grazie ad un’azione propagandistica fatta di 12.000 riunioni, 8 milioni di lettere, 54 milioni di manifesti e volantini: un ingente investimento che diete i frutti attesi. Co
n azioni di propaganda si finì per far credere alle masse che la guerra fosse un atto sacro e pian piano s’instaurò una vera e propria religione basata sulla guerra: altari della Patria, sepoltura del milite ignoto, cimiteri di guerra, monumenti ai caduti, spade accomunate a croci, soldati morti considerati martiri della Patria. Insomma, una vera e propria religione civile arricchita dagli elementi della sacralità della guerra e del militarismo.
Ma perché dalla propaganda si arrivò poi a delineare una vera e propria religione? Semplice, basta rifarsi alla definizione naturale del termine “propaganda”:
ciò che della fede deve essere propagato, cioè le credenze, i misteri, le leggende dei santi, i racconti dei miracoli.
Non si trattava di trasmettere quindi una conoscenza obiettiva e accessibile a tutti tramite il ragionamento, ma di convertire a verità nascoste che promanano dalla fede, non dalla ragione.
Nonostante quello appena descritto sia stato un significativo passaggio da una propaganda antica ad una moderna, essa non era ancora oggetto di studio vero e proprio e soprattutto non era ancora uno strumento largamente diffuso. Divenne una vera e propria scienza dopo la Grande Guerra, in particolar modo con Edward Bernays, nipote di Freud, che sfruttò la teoria freudiana della psicanalisi rendendo la propaganda uno strumento ancora più potente. Successivamente, con una geniale intuizione lo sfruttò anche in campo commerciale. Numerose aziende si affidarono a Bernays per accrescere il proprio volume di affari.
Perché gli inglesi oggi fanno colazione con uova e pancetta? Perché Bernays ricevette da un’azienda produttrice di pancetta l’incarico di fare una propaganda affinché aumentasse il consumo del loro prodotto. E. B. riuscì a trasmettere alla popolazione il messaggio secondo cui la mattina è necessaria, nonché consigliata dai medici, un’abbondante colazione, quindi cosa meglio di uova e pancetta?
È incredibile come con un semplice messaggio propagandistico si riesca a controllare una massa e a portarla a fare ciò che si vuole, a prescindere da tutto.
La propaganda, largamente diffusa ed utilizzata anche in ambito commerciale, assunse un particolare rilievo e raggiunse il suo apice di sviluppo nell’epoca dei totalitarismi e della Seconda Guerra Mondiale. Emblema di questo apice fu il manifesto “Es Lebe Deutschland” della propaganda Nazista, che contiene tutti gli elementi della propaganda moderna e soprattutto della religione che con i totalitarismi da civile divenne politica. Ad oggi maestro della propaganda è il califfato islamico, che con tale strumento è riuscito a mettere in uno stato di continua tensione l’intero occidente. Per quanto possiamo essere informati e consapevoli circa il potere della propaganda, questa funzionerà sempre, perché agisce sull’inconscio.
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