Il Giovane Karl Marx – RECENSIONE

Il 5 aprile 2018 uscirà al cinema “Il Giovane Karl Marx“, ed io ho avuto la fortuna di essere invitato all’anteprima stampa e mi dicono dalla regia che, oltre ad essere “una storia di grande passione politica, impegno e rivoluzione” sarà anche “una grande storia di amicizia e d’amore“.

Provo quindi a scrivere una mia recensione del film, basandomi sul mio gusto personale ed esponendo quelle che sono le mie opinioni in merito.

Prima di cominciare con la recensione vera è propria però, provo a tracciare rapidamente il quadro della situazione, per contestualizzare storicamente gli eventi narrati nel film.

E trattandosi di un film che in qualche modo racconta gli anni giovanili di Karl Marx, credo sia opportuno fornire qualche superficiale dato biografico, che potete verificando scrivendo Karl Marx su google.

Karl Marx nasce il 5 maggio 1818 a Treviri, una città tedesca e all’età di 29 anni, quasi 30, precisamente il 21 febbraio 1848, avrebbe firmato, insieme all’amico Friedrich Engels, il Manifesto del Partito Comunista, un documento che, senza girarci troppo attorno, avrebbe cambiato e segnato per sempre la storia mondiale.

Al di la del pensiero marxista e delle varie critiche al marxismo, Karl Marx è stato certamente un personaggio estremamente “affascinante” e controverso, che con la sua visione del mondo è riuscito a creare una vera e propria scuola di pensiero e proprio a in merito alla figura storica di Marx, mi dicono dalla regia, questo film si ripropone di “illuminarne il pensiero, l’ardore, la passione politica”.

Il Giovane Karl Marx è ambientato negli anni quaranta del secolo XIX, anni in cui i due giovani intellettuali avrebbero dato vita a un movimento che si riproponeva di voler emancipare, i lavoratori oppressi di tutto il mondo.

Gli anni quaranta sono anni molto intensi, il quarantotto in particolare, sono anni di fermento, soprattutto in una “Germania” all’apice della sua rivoluzione industriale, negli stessi anni in Francia gli operai del Faubourg Saint-Antoine si misero in marcia e in Inghilterra il popolo era sceso in strada per manifestare, sono gli anni in cui, parafrasando Guccini, “in europa si incominciava la guerra santa dei pezzenti” e mentre l’europa viveva questi momenti di grande fermento e intensità politica e intellettuale, in “Germania” l’opposizione intellettuale era fortemente repressa, e questa repressione avrebbe in qualche modo costretto Marx e la sua donna a lasciare la “Germania”.

A scanso di equivoci, scrivo “Germania” tra virgolette perché in questi anni la Germania in realtà non esiste ancora o non esiste più, il sacro romano impero era stato disciolto dal Congresso di Vienna e la sua riunificazione sarebbe partita dopo il 1848.

Ad ogni modo, il protagonista del film è un giovane Marx in “esilio”, e durante la sua permanenza francese a Parigi, incontra Friedrich Engels, figlio di un grande industriale tedesco, che ha studiato e conosce molto bene le condizioni di lavoro del proletariato inglese.

Questi due giovani provengono da mondi diversi, provengono da estrazioni sociali molto diverse, ma entrambi sono dotati di una mente brillante, sono giovani, pieni di vita ed energia, sono appassionati, sono grintosi e soprattutto, sono dei grandi provocatori e tutti questi elementi mescolati insieme gli avrebbero permesso di creare un movimento rivoluzionario unitario che come abbiamo già detto, nel bene o nel male, avrebbe segnato per sempre le sorti del mondo.

Passiamo ora alla recensione del Film

A dare il volto a Karl Marx è August Diehl, già apparso in film diversi colossal hollywoodiani come Bastardi senza gloria, Salt, e altri film di rilievo come Treno di notte per Lisbona e Il falsario – Operazione Bernhard (vincitore dell’oscar come Miglior Film Straniero nel 2008).

A dare il volto a Friedrich Engels è invece Stefan Konarske, mentre i panni di Jenny Marx (la moglie di Marx) sono vestiti da Vicky Krieps, portata al successo dal recente Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson, dove ha interpretato la musa del couturier inglese interpretato da Daniel Day Lewis.

Il film è nelle premesse e nelle promesse molto interessante, già dal trailer è possibile vedere il doppio volto di questa pellicola, storicamente accurata, arricchita da un ambientazione verosimile sia nella costruzione delle location che nei costumi e la cui natura di film di intrattenimento per il cinema e non di documentario è ben evidente.

Dialoghi, emozioni, sentimenti e situazioni in alcuni casi anche al limite della commedia, contribuiscono a creare un atmosfera  che a mio avviso fantastica, perché è estremamente piacevole e grazie a questa atmosfera riesce a raccontare con una romanzesca semplicità, alcuni degli anni più significativi della vita di Marx.

Gli anni giovanili raccontati in questo film sono gli anni in cui il pensiero di Marx assume una forma tangibile, sono gli anni in cui viene schioccata la scintilla che avrebbe acceso il fuoco che avrebbe bruciato il capitalismo borghese. O che almeno ci avrebbe provato.

Qualcuno tra i più attenti di voi avrà riconosciuto in queste mie parole una citazione al film “Gli Ultimi Jedi”  di J.J. Abrams, della saga cinematografica di Star Wars e non è un caso se ho scelto questa citazione per descrivere questi anni della vita di Marx raccontati da questo film.

Ho scelto queste parole perché voglio che sia chiaro, al di la di ogni ragionevole dubbio, che questo film non è un documentario e che tutti gli angoli smussati da una narrazione romanzata, per quanto mi riguarda, non costituiscono un difetto, ma un valore aggiunto, poiché grazie ad essi i circa 120 minuti di film, sono letteralmente volati.

Per quanto mi riguarda Il giovane Karl Marx fa esattamente quello che un buon film dovrebbe fare, ovvero raccontare una storia, e la storia che racconta è una storia emozionante e avvincente, e nonostante sia tratta dalla realtà, da una realtà storica che non è avvincente, la realtà storica è lenta, è noiosa, è monotona, ci viene raccontata in modo piacevole e con un certo alone di leggerezza, ma la leggerezza non toglie nulla alla storia, non toglie nulla alla realtà e questo film, nonostante la relativa leggerezza riesce a toccare le tematiche proprie del pensiero di Marx e riesce a valorizzarle trasmettendole con immediata semplicità allo spettatore, ed è esattamente quello che speravo di trovare in un film fondamentalmente storico.

Vi confesso che quando ho letto le prime notizie su questo film, quando ho saputo che Raoul Peck aveva realizzato un film sulla vita di Marx, la prima cosa che ho pensato è stata, “chi cacchio è Raoul Peck?“, ma forse questo mio primo pensiero non è tanto importante, la seconda cosa che ho pensato invece, è stata, “speriamo non sia una merda” e per diverse settimane, per diversi mesi, sono stato titubante, non sapevo cosa aspettarmi da questo film, mi chiedevo se ne sarebbe venuto fuori un piccolo capolavoro o se invece si trattava di un disastro annunciato, ero davvero terrorizzato dall’idea di vedere film brutto e noioso ma fortunatamente così non è stato.
Quello che ho visto è stato un film che mi è piaciuto davvero tanto,un film che mi è piaciuto e che ho apprezzato sia da semplice spettatore che da storico che suo modo nel XIX secolo ha lasciato il suo cuore, e sono davvero felice che le mie preoccupazioni alla fine si siano rivelate vane.

Per quanto mi riguarda mi piacerebbe vedere più film “storici” come questo, mi piacerebbe vedere altri film in cui l’essere legati alla realtà storica dei fatti, non precluda l’intrattenimento e il piacere di assaporare una bella storia, anche quando si parte da una storia vera e si trattano temi importanti e profondi, quali possono essere in questo caso i vari temi sollevati dal pensiero di un giovane Marx che si scontra con un mondo che è figlio dei valori universali della rivoluzione francese, ma in cui, quei valori in realtà sono solo una farsa e la vecchia disparità sociale tra l’uomo comune e il nobile non è stata realmente superata, ma ha semplicemente cambiato volto.

Penso che Raoul Peck sia riuscito nell’impresa di realizzare un film relativamente leggero, che può andare bene sia allo spettatore più esigente che a quello più accondiscendente. Ovviamente non è un film per bambini, ma non è neanche un pubblico “selezionato”, non è un film per i soli estimatori di Marx o per cinefili incalliti, e credo che possa essere apprezzato sia da chi ha letto la biografia di Karl Marx, che da chi crede che Marx sia il nome ed Engels il cognome di un unico uomo.

Voi invece? cosa ne pensate?
Fatemelo sapere con un commento.

Lo Sterco del Demonio: esiste un Capitalismo nel Medioevo?

La peculiarità del capitalismo consiste nel calcolo razionale del profitto e la sua genesi è legata al diffondersi di una nuova etica nata grazie al diffondersi del protestantesimo. Così concludeva Max Weber in uno dei suoi libri più famosi, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905). Oggi vorrei invitarvi a riflettere proprio sulla genesi del capitalismo per problematizzare (ed eventualmente approfondire) la tesi di fondo di Weber.

Quando nasce il capitalismo? Quando assistiamo alle prime forme embrionali di questo modo di produzione che ha così profondamente segnato la nostra stessa idea di lavoro, di economia, di modi e mezzi di produzione? Per rispondere a queste domande dobbiamo ripercorrere alcuni aspetti della storia economica e sociale del medioevo poiché le prime esperienze capitalistiche si incontrano proprio tra il Trecento e il Quattrocento.

Cominciamo con due premesse. (i) Con il termine capitalismo si intende un sistema economico in cui il capitale è di proprietà privata e, in questa accezione comune, diventa sinonimo di economia di libero mercato e di iniziativa privata. L’uso del termine in senso tecnico compare per la prima volta nel XVIII secolo e si basa sullo sviluppo della grande industria, del lavoro salariato, dell’uso in larga scala delle macchine. Abbiamo dunque a che fare con un sistema che ha come obiettivo il massimo profitto da reinvestire – in parte, nei mezzi di produzione – ossia un sistema in cui sono attestate operazioni economiche destinate ad ottenere ingenti guadagni a fronte di altrettanto ingenti rischi. In questa lettura il capitalismo risulterebbe vincolato alle dinamiche di rischio/rendimento cui va incontro un’attività economica.

(ii) A differenza di capitale, che nella pratica mercantile del basso medioevo indicava una somma di denaro in grado di produrre interessi, il termine capitalismo è come abbiamo visto abbastanza recente e risulta ovvio che non si possa parlare di capitalismo medievale nello stesso modo in cui si parla di capitalismo moderno. O, almeno, che non sia così scontato farlo.

Esistono certamente delle differenze, ma molti storici ritengono non sia così anacronistico parlare di capitalismo medievale poiché danno una definizione di capitalismo che coincide con quella che abbiamo esposto al punto (i), svincolandola naturalmente dalle riflessioni di Marx. E in questo senso è abbastanza plausibile che le origini del capitalismo vadano proprio ricercate nel Medioevo, in particolare nei cambiamenti del tessuto sociale, culturale ed economico tra il Trecento e il Quattrocento (quella che secondo le categorie storiografiche sarebbe la fioritura commerciale del XIII secolo).

Capitalismo commerciale e capitalismo industriale. Bene, abbiamo risolto il problema delle origini ma ancora non abbiamo dati sufficienti per comprendere la specificità della vita economica di quell’epoca. Dobbiamo quindi introdurre due termini o, meglio, due aggettivi che ci permettono di distinguere i tipi di capitalismo in gioco nelle diverse epoche: da un lato abbiamo un capitalismo commerciale, dall’altro un capitalismo industriale. “Il capitalismo commerciale è un sistema economico in cui i mercanti-imprenditori controllano la produzione artigianale attraverso il controllo del lavoro a domicilio, disciplinandola fino ad adeguarla alle esigenze dei mercati più lontani. Per capitalismo industriale intendiamo invece un sistema in cui gli imprenditori non si limitano più a controllare la produzione, ma si preoccupano di riorganizzarla”, (Rinaldo Comba, Storia Medievale, Raffaello Cortina Editore, p. 279).

Questa distinzione è essenziale per rispondere alla domanda che ci siamo posti. Per quanto riguarda l’economia del medioevo (XIII-XV secolo) nella maggior parte dei casi possiamo parlare di capitalismo commerciale evitando, in questo modo, di cedere alla tentazione di assolutizzare quelle isolate attestazioni di sviluppo industriale che caratterizzano la fine dell’età medievale. Ma ciò non significa che queste esperienze pur isolate non abbiano un significato. Sono infatti le prime sporadiche attestazioni di quel meccanismo di produzione che noi conosciamo molto bene; questa tesi è corroborabile analizzando le caratteristiche del capitalismo nel XV secolo. Sono essenzialmente quattro (le riporto come compaiono negli studi di Comba):

(1) la divisione del lavoro ha specializzato la produzione di molte regioni europee e ha portato le aree più deboli a gravitare attorno al cuore dell’economia europea: Italia Settentrionale, Fiandre e Germania meridionale. (2) Gli scambi internazionali si intensificano e sono controllati da cerchie strette di mercanti-imprenditori (e finanzieri) che operano nelle città situate nell’area centrale. (3) Il capitale commerciale ha esteso il suo controllo anche sul lavoro a domicilio che era rimasto per secoli un’attività di famiglia e autonoma, al massimo un mercato locale ristretto. (4) Il rapporto del capitale con l’artigianato ne rivela un limite non trascurabile: la produzione non ne viene trasformata ma solo dominata.

I minatori europei e il lavoro salariato. Nell’Europa centrale degli ultimi decenni del Quattrocento avviene una trasformazione che può essere considerata l’alba del capitalismo industriale: i minatori diventano a tutti gli effetti lavoratori salariati. Come mai nelle miniere i mercanti-produttori iniziano a riorganizzare la produzione? Tra il XIII e il XIV secolo l’attività mineraria era stata organizzata da collettività di minatori che sfruttavano miniere non troppo profonde; quando si cominciò a scavare in profondità la collettività di minatori non era più in grado di sostenere le spese (la proprietà di queste miniere infatti era suddivisa in un certo numero di quote tra i minatori). Per farle funzionare occorreva una gran quantità di manodopera e una vera e propria divisione tra capitale e lavoro.

E questo è innegabilmente un tratto caratteristico del capitalismo moderno. La proprietà delle miniere venne divisa in quote o azioni (kuxe) i cui proprietari vivevano in città; queste trasformazioni si associarono a un vero e proprio boom economico che tra il 1460 e il 1530 portò la produzione delle miniere d’argento in Europa centrale a una crescita del 500% e quella delle miniere di ferro del 400%.

Ecco il primo esempio di quel capitalismo industriale tanto stigmatizzato dagli ambienti del socialismo utopistico intorno alla metà del Diciannovesimo Secolo, appunto per l’evidente esclusione dei lavoratori dalla proprietà del capitale. Ma se vogliamo una definizione abbastanza esaustiva di capitalismo dobbiamo attendere le critiche dei primi pensatori socialisti e Karl Marx: il capitalismo è un sistema economico caratterizzato da un’ampia accumulazione di capitale. Ma ciò non basta; abbiamo infatti una scissione tra proprietà privata e mezzi di produzione in modo che il lavoro venga ridotto a lavoro-salariato (poi sfruttato per ricavarne il massimo profitto). Ed è su questo aspetto che Marx insiste: è nota l’espressione modo di produzione capitalistico per indicare quel particolare sistema di relazioni sociali, insieme all’organizzazione del processo produttivo, che si basano proprio sullo sfruttamento della forza-lavoro salariata.

Ciò posto, torniamo a noi. Abbiamo un’altra testimonianza del fatto che quello medievale fu un vero e proprio capitalismo industriale, benché sperimentato solo in alcune aree geografiche. Qual è? L’analisi degli effetti che si generarono sul piano sociale. Tra Trecento e Quattrocento vediamo crescere a dismisura le distanze tra ricchi e poveri. Un intero settore di attività produttive – come il setificio e le industrie del lusso – può prosperare grazie alla concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi agiati. Gli esempi di questo processo di polarizzazione sono numerosi, ma uno su tutti può rendere l’idea: nel 1427 a Firenze cento famiglie corrispondenti all’1% della popolazione urbana posseggono più di un quarto delle ricchezze della città. Le loro ricchezze erano oltre l’87% di quelle della cittadinanza intera insieme alle città di Pisa, Pistoia, Arezzo, Volterra, Prato e Cortona.

Per comprendere le ricadute sociali di questo fenomeno gli storici hanno mutuato dalla stria romana il termine patriziato (che non compare mai nelle fonti e nei testi medievali). Nobiltà e borghesia finanziaria e mercantile convergono dando vita al nuovo ceto egemonico del patriziato cittadino. Nasce una nuova classe politica oltre che sociale, che vive nei palazzi, dedita al lusso e alla vita dispendiosa.

Arme della Famiglia Crociani, patrizi fiorentini (1350-1409), crediti: Raccolta Ceramelli Papiani.

Alla luce di quanto abbiamo detto fin qui, sarebbe interessante rileggere ciò che Max Weber (che non era un marxista) diceva a proposito del capitalismo, nel senso che se è vero che una delle sue peculiarità riposa nel calcolo razionale del profitto, la sua genesi non sembra solo legata all’affermazione al diffondersi di una nuova etica nata da correnti religiose protestanti. I meccanismi economici che si innescarono in Italia Settentrionale, Fiandre e Germania Meridionale sembrano dunque confermare che il Medioevo ha vissuto, in modo diverso quanto a importanza e intensità del fenomeno, almeno due forme di capitalismo distinte.

Esiste dunque una nuova etica connessa con la nascita della nuova classe dei minatori-salariati? Che rapporto c’è tra capitalismo ed economia, visto che Karl Polanyi sostiene con convinzione che nella società occidentale l’economia non possiede una specificità autonoma fino al XVIII secolo? Sulla base della documentazione storica in nostro possesso sembra che le esperienze capitalistiche siano nate a monte, prima della domanda sullo statuto dell’economia, ben prima della domanda sul nesso etica-capitalismo industriale.

Bibliografia:

Karl Marx, Il Capitale, UTET.

Karl Marx, Lavoro salariato e capitale, Rusconi.

Jacques Le Goff, Lo sterco del Diavolo. Il denaro nel Medioevo, Laterza.

Jacques Le Goff, Il Medioevo. Alle origini dell’identità europea, Laterza.

Max Weber, L’ etica protestante e lo spirito del capitalismo, BUR.

Geoffrey Ingham, Capitalismo, Einaudi.

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