Io ti vedo, ma tu mi vedi? – La Prosopagnosia

Oliver Sacks nel libro edito da Adelphi nel 2009 – quasi autobiografico – L’occhio della mente mette in risalto un proprio disturbo percettivo: la  prosopagnosia. Essa è nondimeno l’incapacità di riconoscere i volti delle persone e talvolta anche oggetti di uso quotidiano o i luoghi, nei casi più gravi. Tale incapacità è un vero proprio limite corticale cerebrale: il volto – o oggetti o luoghi – non sono “visti” dal paziente colpito, bensì essi vedono un occhio o un naso, perché incapaci totalmente di associare questi elementi ad un volto completo e, successivamente, riconosciuto. Si potrebbe dire che essi scorgano una massa informe e nulla più, a causa del deficit associativo.

Innanzitutto, è una malattia vera e propria: la diagnosi deve essere eseguita da un neurologo, quindi un chirurgo specializzato nel trattare problemi anatomici del cervello nonché nell’operare il telencefalo. Il telencefalo è il termine anatomico corretto che sostituirebbe il più comune “cervello”, in quanto questo si compone di diverse aree e tessuti, nonché sezioni specializzate e diverse – bulbo, mesencefalo, midollo, cervelletto. Nel telencefalo il lobo temporale mediale subisce una menomazione, come un’ablazione sistemica. Le sinapsi tra neuroni si distruggono, il tessuto muore, resta solamente un composto cellulare non più funzionante. Perciò si parla di fisiologia. I neuroni per funzionare necessitano di nutrimento e in quest’area ogni tipo di cellula coadiuvante decade (astrociti, per esempio) e oltre a questo i neurotrasmettitori smettono di arrivare in quest’area. Si è scritto sociologico: la prosopoagnosia, come vedremo in seguito, coinvolge un intero circuito di medici, specialisti, familiari del paziente nonché disagi con il mondo reale.

Veniamo ora ai passi della storia per l’affermarsi di questa malattia come malattia non psichiatrica bensì psicologica.

Nel Seicento vennero fatti dei primi studi, ma l’idea generale era questa: l’anima non poteva stare in un pezzo di carne, il cervello. Cartesio fu un pioniere in verso opposto: propose un primo dualismo, come è noto, tra mente e corpo. I medici del tempo erano quasi entusiasti nello studiare gli effetti di ictus, lesioni cerebrali – traumi di guerra o lavorativi e così via. Allora si sospettò dell’esistenza di un legame tra cervello e funzioni mentali.

 Franz Joseph Gall, medico tedesco del XXVIII secolo, propose dunque che le funzioni mentali scaturivano dal cervello, non dall’anima o dal cuore o dal fegato, bensì dal telencefalo. La teoria di Gall consisteva nel credere che il cervello fosse suddiviso in 27 organi, ognuno responsabile di una facoltà morale o mentale. Questo andava incontro a problemi di stampo etico-religioso: non poteva l’anima essere segregata in un organo. Le facoltà morali sono quelle che oggi i neuroscienziati chiamano funzioni percettive, le facoltà cognitive e i tratti morali: saper distinguere i colori, fare di calcolo, avere attitudini musicali, ragionamenti logici, capacità linguistiche, socialità, caratteri comportamentali quali ira, gioia, timidezza e così via. Questo però costò a Gall l’esilio: si rifugiò in Francia. Qui conobbe Jean-Pierre Flourens(1794-1867): questi eseguì gli esperimenti sui cervelli dei piccioni partendo proprio dai presupposti di Gall. Suddivise in sezioni i piccoli organi cercando correlazioni, senza ottenere alcun riscontro. Ovviamente all’epoca le ablazioni erano complicate da eseguire su esseri tanto piccoli. Ma la sentenza del francese fu una sola: “il cervello secerne i pensieri come il fegato secerne la bile”.

Dopo un lunghissimo silenzio perdurato fino alla fine degli anni Sessanta dell’Ottocento emerge la figura di Paul Broca (1824-1880). Questi studiò pazienti con afasia espressiva – le loro facce non davano segnali emotivi, erano come paralizzate nella medesima espressione neutrale – dimostrando che presentavano un danno circoscritto al lobo frontale sinistro, quindi dietro l’occhio sinistro. Nel 1865 Broca affermò che “noi parliamo con il nostro emisfero sinistro”. Pertanto, a dispetto delle credenze pregresse e convalidate da Flourens, il cervello non era un organo omogeneo ed equipotente al fegato, un organo semplice senza alcuna facoltà “superiore”: vi risiedevano le capacità cognitive. In particolare, la facoltà cognitiva del riconoscimento visivo, tra le tante.

Nel 1947 Joachim Bodamer (1910-1995) – neurologo tedesco – descrisse tre pazienti. Essi non riconoscevano  soltanto i volti e per capire chi avevano di fronte usavano espedienti quali l’abbigliamento, l’acconciatura dei capelli, la voce, tutti tratti distintivi di una persona – ma mai quanto il viso.

Nel 1955 Christopher Pallis (1923-2005) – neurologo inglese – pubblica un nuovo studio: alcuni pazienti non riconoscevano nemmeno i colori, i luoghi dove erano nati o vissuti. Il deficit era però legato anche al campo visivo, il quale ha un correlato nel cervello, ovvero la faccia inferiore della corteccia occipitotemporale (dopo le orecchie e verso la nuca, in linguaggio volgare). È un’area diversa e distinta da quella studiata da Broca e si aprono gli studi verso agnosie ancora più specifiche. Seguirono altri studi, eseguiti su pazienti deceduti, durante le autopsie ai medesimi.  In seguito, grazie alla tomografia computerizzata, una sorta di scanner cerebrale, e la risonanza magnetica gli esami poterono essere eseguiti in vivo, analizzando le risposte dei pazienti e senza danneggiarli. Fu Dominic Fflychte a dare un nome a questa zona: l’area fusiforme per il riconoscimento facciale. Insomma, un lobo cerebrale specifico era deputato al riconoscimento dei volti e se lesionato – ictus, tumori, infezioni – poteva dare questo problema: la prosopoagnosia.

Christof Koch (1956, -) e colleghi notarono una maggiore attività del lobo temporale mediale ( quindi ancora una volta di quell’area di materia grigia che si trova all’incirca dietro le orecchie).

Ma quali sono gli effetti di questa lesione?

 Oliver Sacks offre diversi esempi. Un individuo smette di riconoscere i volti, quindi anche sé stesso allo specchio o i propri cari in fotografia. Ma se il tutto succedesse ad un neuroscienziato o… a Sacks? Ecco, la malattia non risparmiò nemmeno chi l’aveva studiata così a lungo. Oliver Sacks scrisse L’occhio della mente anche per poter narrare l’esperienza personale di fronte alla prosopoagnosia. Illustra magistralmente come non riuscendo a riconoscere le persone ci si trovi impacciati, non ci si senta a proprio agio negli ambienti affollati perché anche con l’espediente dell’osservazione dei particolari – acconciature, abiti, gioielli, camici, borse – è complicato socializzare. Immaginate un vostro caro che improvvisamente non riconosce più la vostra faccia: significherebbe che tra tante persone il vostro ragazzo o la vostra ragazza, il vostro migliore amico o vicino di casa diventerebbe un estraneo. Vostra moglie o vostro marito degli sconosciuti in casa, pur nella consapevolezza che voi avete un marito o una moglie o dei figli. Se poi peggiorasse, vi potreste ritrovare davanti alla vostra abitazione senza nemmeno sapere che è la vostra casa e via dicendo.

Come può reagire un paziente in tali condizioni? Può farsi aiutare chiedendo cortesemente di indossare sugli abiti una targhetta con un nome, spiegare quali sono le difficoltà.

Il problema dell’accettazione è duplice: capire che il proprio cervello non funziona bene e far comprendere agli altri che non si è folli, bensì si ha una lesione cerebrale e quindi non si può fare altrimenti. Cure non ne esistono se non allenamenti nel riconoscimento tramite la mimetica delle persone, il loro modo di incedere camminando o la voce. Quanto è complicato però il tutto! Se due persone sono vestite in egual modo: come distinguerle se non parlano?

I dilemmi sociali ed etici sono tantissimi. I pazienti coinvolti sono circa il 2% negli Stati Uniti, il che significa che non è una malattia così inusuale, sebbene rara. Sacks incontrò un cinese che disse pure che in Cina non aveva difficoltà, mentre con gli occidentali sì, perché sono tutti uguali. Può parere buffo, ma il luogo natio è influente in queste patologie, soprattutto per quanto concerne la sfera sociale. Ora ci sono anche diversi siti web o libri o addirittura puntate di telefilm – come Perception – che trattano o parlano di questa malattia, di questo deficit. Ci sono anche centri di ascolto o di aiuto comunitario, per far sì che il paziente non si senta folle. Altroché: è ben consapevole della propria condizione.

 

ANNA MARIA VANTINI

 

BIBLIOGRAFIA:

Storia Greca: il Destino delle Operaie nei Palazzi Micenei

Il mondo descritto da Omero è pura fantasia. Questa era l’opinione della maggior parte degli storici fino al 1870 circa. Lo steso George Grote faceva iniziare la storia greca nel 776 a. C., con l’istituzione dei primi giochi olimpici. A suo parere, tutti i racconti tramandateci dalla tradizione antica andavano intese come miti e leggende. Da tempo sappiamo che le cose stanno diversamente.

La riscoperta delle culture minoica e micenea ha arricchito non poco le nostre conoscenze, anche retrospettivamente, ossia sulla Protostoria del mondo greco (1900 a.C. – 900 a. C. circa). Dopo le scoperte di Heinrich Schliemann (1822-1890) non si può più negare che le raffinate civiltà dell’Egeo del II millennio a.C. abbiano una forte eco nelle pagine dell’Iliade e dell’Odissea. Quando Schliemann salì per la prima volta sull’Acropoli di Micene pensò di aver scoperto la reggia di Agamennone. La sua convinzione aumentò quando scoprì una serie di tombe in cui erano stati inumati uomini con il volto coperto da maschere di lamina d’oro.

Benché Schliemann si fosse sbagliato, dal momento che le tombe risalivano a un periodo anteriore alla data presunta della guerra di Troia, la rocca di Micene è senza dubbio il monumento miceneo più importante. La tradizione vuole che qui abbiano dominato gli Atridi, i discendenti di Atreo, e che proprio da qui sia partito un esercito per conquistare Troia.

L’ingresso della tomba a tholos nota come Tesoro di Atreo, ritrovata a Micene, (CC BY-SA 3.0).
L’accesso principale all’Acropoli di Micene e la porta dei Leoni, XIV secolo a.C., (CC BY-SA 2.5).

Oltre al recupero di Omero come testimonianza storica e tutti gli effetti, un altro elemento chiave nel cambiamento di questo paradigma storiografico è dato dallo studio dei diversi tipi di scrittura. La scrittura propriamente detta è stata preceduta nel III millennio dall’uso di sigilli e di segni di vario tipo sia sui vasi che sui blocchi di pietra: si parla, rispettivamente, di marchi di vasaio e di marchi di muratore. Il significato di questi marchi resta oscuro. Solo nel II millennio, a Creta, comincia a diffondersi l’uso di una sequenza di segni la cui combinazione assume un significato. Gli uomini cominciano a scambiarsi messaggi. Nel mondo Egeo sono state isolate cinque scritture, imparentate tra loro ma indipendenti da quelle orientali (lo schema dipende da Pierre Carlier, 2014):

(1) il minoico gerogrifico, battezzato così da Arthur Evans per il carattere astratto dei segni, che è distinto dal gerogrifico egizio; (2) la Lineare A cretese; (3) la Lineare B che è imparentata con il greco arcaico (e lo sappiamo grazie agli studi di Michael Ventris) e su cui riposa gran parte della nostra conoscenza della cultura micenea; (4) il cipro-minoico, diffuso a Cipro tra il 1500 e il 1200 a.C., derivato dalla Lineare A; (5) il sillabario cipriota classico (VIII-III secolo) usato sia per il greco sia per un’altra lingua eterocipriota (presso Amatunte).

Disco di Festo (CC BY-SA 3.0).

Rispetto a queste, va ricordato il famoso disco di Festo che resta un hapax in quanto i suoi caratteri non rientrano nello schema (1)-(5): “nulla prova che sia stato fabbricato nell’Egeo, né che esso dati all’Età del Bronzo; le sue coordinate storiografiche non sono state registrate: una sera del 1908 esso fu consegnato all’archeologo italiano responsabile dello scavo di Festo, in mezzo a un gran numero di reperti minoici … ed ellenistici. Tutte le proposte di decifrazione poggiano in sommo grado sulla fantasia”, (Pierre Carlier, Omero e la storia, Carocci, 2014, p. 43).

Nella storiografia greca, la conoscenza delle scritture egee ha avuto certamente gli effetti macroscopici cui abbiamo accennato all’inizio; sarebbe tuttavia un errore accontentarsi di uno sguardo sinottico sul passato e dimenticare i dettagli. Uno di questi è particolarmente interessante e riguarda la vita delle donne nei palazzi. Uno degli obiettivi principali dei micenologi è la ricostruzione degli archivi così com’erano al momento in cui furono incendiati (il fuoco, infatti, consente di cuocere le tavolette e dunque di conservarle). Gli studiosi cercano di ricostruire i lotti di documenti facenti capo, di solito, al medesimo scriba in modo da inventariarli e comprendere la tipologia delle informazioni conservate.

Le analisi sulle tavolette in Lineare B di Pilo ci forniscono uno spaccato di vita quotidiana: la serie Aa censisce circa 800 donne con i loro figli, le cui assegnazioni professionali suggeriscono una capillare divisione del lavoro soprattutto nel campo della tessitura. Nella serie Ab leggiamo che a queste donne veniva assegnato un compenso per il lavoro svolto, una razione mensile di fichi e di grano, il che mostra la loro dipendenza dall’economia di palazzo.

Iscrizione in Lineare B su una tavoletta da Pylos, (CC BY 2.0).

Sappiamo che queste operaie lavoravano in un contesto economico che possiamo delineare, almeno per sommi capi. L’organizzazione sociale dei Micenei era fortemente centralizzata: faceva capo ad un re, il wanax,  seguito dal lawaghetas che comandava l’esercito. C’erano poi l’aristocrazia e i sacerdoti. Al re, come al capo dell’esercito, spettava un lotto di terra, chiamato temenos, il cui controllo ed organizzazione faceva capo al palazzo che, grazie ad una burocrazia capillare, controllava gli allevamenti, soprattutto ovini, la produzione di lana, olio e profumi, la metallurgia e l’agricoltura.

Ma c’è di più: secondo le tavolette di Pilo, uomini e giovani venivano censiti sulla base della relazione di parentela con le operaie, ossia come figli-di e figlie-di, il che suggerisce che la qualifica professionale delle madri fosse essenziale per il futuro dei figli all’interno della classe sociale di appartenenza. Infine, dato che molte di queste donne erano designate con nomi etnici: Milesie, Lemnie, Cnidie, si trattava probabilmente di schiave o prigioniere catturate lungo le coste dell’Anatolia e poi utilizzate come manodopera. Questo è lo stato attuale delle nostre conoscenze. Ad oggi, sul destino delle operaie palazziali possiamo fare solo congetture.

Exit mobile version