La vita quotidiana alla fine del mondo antico di G.Ravegnani

La vita quotidiana alla fine del mondo antico di Giorgio Ravegnani è un saggio storico che racconta in modo semplice, chiaro e appassionante, la vita quotidiana in quell’epoca turbolenta compresa tra il IV e il VI secolo dopo cristo

Se quello che cerchi è un libro che stravolga completamente tutto ciò che sapevi o credevi di sapere sulla quotidianità negli ultimi secoli dell’impero romano, questo libro, non fa al caso tuo. La vita quotidiana alla fine del mondo antico di Giorgio Ravegnani è un saggio storico di carattere divulgativo che, come ogni buon saggio storico, si basa prevalentemente sull’analisi e la comparazione delle fonti classiche, e dipinge un quadro ampio e dettagliato, degli aspetti sociali alla fine del mondo antico, alternando classici della letteratura latina a documenti e atti giuridici.

Il libro

La vita quotidiana alla fine del mondo antico racconta la società e i suoi cambiamenti tra il IV e il VI, cambiamenti che sono legati in parte all’affermazione del cristianesimo nei territori dell’impero romano o ex impero romano, in parte alla divisione definitiva dell’impero tra orientale e occidentale, e la conseguente nascita di una nuova Roma orientale sul Bosforo, Costantinopoli, capitale dell’impero orientale che per la prima volta nella storia romana è pari di Roma, e in parte per la caduta dell’impero romano d’Occidente, che sarebbe stato travolto nei secoli a venire da numerosi invasioni barbariche.

Tutte queste trasformazioni, tutti questi cambiamenti turbolenti, a tratti improvvisi e brutali, hanno impattato sulla società e sulla vita quotidiana dell’epoca, e il libro cerca proprio di capire come e quanto questi avvenimenti hanno contribuito a trasformare la vita quotidiana alla fine del mondo antico.

Questione storiografica

Sapere come vivevano gli antichi è sempre interessante, la storia, ci dice Marc Bloch e la scuola degli annales è anche (e soprattutto) storia di vite quotidiane, e contrariamente a quello che si è pensato per lunghissimo tempo, “le masse popolari” non hanno fatto irruzione nella storia soltanto negli ultimi secoli, ma sono sempre stati parte integrante della storia, per alcuni autori esse rappresentano addirittura il reale motore invisibile della storia, motivo, quest’ultimo che ha portato numerosi storici a rivalutare e dare più spazio e attenzione alla storia delle classi subalterne, preferendo questi aspetti ed equilibri, alla storia dei grandi avvenimenti. Carlo Ginzburg con il suo Il Formaggio e i vermi è un esempio eccellente di questo modo di vedere la storia, così come lo sono gli innumerevoli studi di genere o studi su popoli subalterni o uomini e donne in condizioni subalterne, come ad esempio gli schiavi, le donne, gli omosessuali, gli stranieri in una determinata civiltà, ecc ecc ecc.

In questo immenso ed estremamente affascinante filone storiografico si colloca il saggio di Giorgio Ravegnani, il quale, decide di puntare la propria lente su un determinato momento storico, la fine del mondo antico, gli ultimi anni dell’impero romano e i primi anni dei regni romano barbarici.

Il contesto storico

La vita quotidiana alla fine del mondo antico racconta una forbice temporale estremamente ristretta, ovvero i secoli compresi tra il IV ed il VI secolo dopo cristo, sono gli anni che accompagnano il declino di roma, e che attraverso la crisi politica, militare e sociale che sussegue alla caduta dell’impero romano d’occidente, innescano una serie di trasformazioni radicali nella società.

Il mondo cambia di continuo, la storia è storia di continuo mutamento, ma, in alcuni momenti il cambiamento è più veloce e imprevedibile, ed il periodo individuato da Ravegnani è uno dei periodi di maggiore trasformazione del mondo e della società.

Cambiano i rapporti di forza, gli equilibri sociali, cambiano le dinamiche sociali e la stessa società nel mediterraneo occidentale. Nel mediterraneo orientale la presenza dell’impero romano d’oriente o impero bizantino, garantisce una certa stabilità, le trasformazioni sono relativamente poche o comunque, più contenute rispetto alle trasformazioni che avvengono in Italia e nell’intera Europa occidentale.

La grande frammentazione dell’ormai ex impero romano, porta alla nascita dei regni romano barbarici, realtà politiche in cui le dinamiche della società romana, si intrecciano con le dinamiche politiche e sociali dei nuovi dominatori barbarici, e le diverse culture che, in varie zone d’europa, prenderanno il potere, contribuiranno a gettare le basi per la nascita di quelli che in seguito sarebbero diventati gli stati di Francia, Germania, Spagna, Gran Bretagna, Italia, ecc ecc ecc.

Quello che è il mondo oggi, le differenze e le rivalità tra i vari popoli e le varie culture europee, hanno origine in quel momento, e pure, sul piano politico, le differenze, osserva Ravegnani, sembrano essere minime. Dai regni romano barbarici nasce la società feudale, sistema sociale che avrebbe governato l’europa per oltre mille anni, ed è un sistema comune a popoli franchi, ispanici, germanici e italici.

Osservando però, più nel dettaglio le singole società, puntando la lente sulla quotidianità degli uomini comuni, si possono notare le prime differenze, differenze che vanno dalla lingua parlata, sempre più lontana dal latino, all’alimentazione, che per ovvie ragioni, è in quel momento subordinata alle possibilità offerte dalla terra.

Geografia e lingua influenzano e definiscono le abitudini alimentari e culturali e queste tracciano il profilo delle diverse società.

La vita quotidiana

La vita quotidiana molto spesso la immaginiamo in tanti modi differenti. In realtà la quotidianità nei secoli non è mutata poi troppo, ci sono state ovviamente delle trasformazioni più o meno significative, ed è evidente che la vita quotidiana nel I secolo a.c, durante le guerre civili di Roma, era profondamente diversa dalla vita quotidiana alla fine del mondo antico, così come la vita quotidiana alla fine del mondo antico era profondamente diversa dalla vita rinascimentale o dell’età moderna.

Con questo libro, Giorgio Ravegnani ci mostra che ogni epoca ha la propria storia quotidiana, ogni luogo, ogni tempo, hanno la propria realtà ordinaria, ma allo stesso tempo, nonostante le differenze, molti elementi sono ricorrenti. E se osserviamo la quotidianità alla fine del mondo antico, riducendola ai minimi termini, epurandola quindi delle condizioni economiche e tecnologiche della società dell’epoca, possiamo osservare che il mondo non era poi così diverso da come è oggi.

Le fonti

Raccontare la vita quotidiana non è semplice, principalmente per una certa carenza di fonti dirette. Non ci sono molti autori classici che hanno raccontato e descritto nel dettaglio come funzionava, ad esempio un mercato, ma qualcosa lo abbiamo. Plinio il Vecchio ad esempio, nella sua Naturalis historia ha raccontato nel dettaglio il funzionamento della villa romana e di tutti i suoi equilibri interni, compresi i rapporti familiari e tra padrone, schiavi e dipendenti. Ma il racconto di Plinio sulla domus romana non è sufficiente, da solo, a tracciare un quadro completo e generale, della vita quotidiana nel mondo antico, e di certo, non ci da molte informazioni sul periodo compreso tra IV e VI secolo.

Queste informazioni fondamentali per l’opera, Ravegnani è riuscito a recuperarle grazie ad uno scrupoloso e meticoloso lavoro di ricerca di fonti giuridiche, fiscali e atti notarili, ma anche lettere, registri mercantili e diari. Grazie alle fonti giuridiche che costituiscono il costituiscono il corpo centrale dell’apparato monumentale delle fonti alla base della sua opera, Ravegnani è riuscito a ricostruire in modo abbastanza ampio e completo le dinamiche ed i rapporti economici e sociali, delle varie classi sociali alla fine del mondo antico tra IV e VI secolo. Conoscendo questi rapporti, e grazie anche ai racconti di anonimi e cronisti che nei loro aneddoti hanno descritto eventi alti, e intrecciando il tutto, è stato possibile per lo storico milanese, ricostruire in modo sorprendentemente accurato la vita quotidiana nel mondo antico.

Chi è Giorgio Ravegnani

Per capire a fondo l’opera di Ravegnani e la complessità del sui lavoro, credo sia opportuno aprire una breve parentesi sullo storico.

Giorgio Ravegnani è uno storico italiano, nato a milano nel 1948 , laureato in lettere classiche nel 1972. La sua carriera da docente è iniziata nel 1979, in concomitanza con l’apertura del corso di laurea in storia all‘Università Ca’ Foscari, di cui è diventato docente di Storia Bizantina. Prima della docenza Ravegnani ha svolto attività di ricerca presso l’università di bologna.

Oltre alla cattedra di Storia Bizantina, Ravegnani ha insegnato anche Storia medievale, Storia dell’Italia bizantina e Storia militare del Medioevo.

Vi lascio di seguito un elenco delle sue pubblicazioni fin dal 1976.

Il saggio la vita quotidiana alla fine del mondo antico è stato elaborato tra 2014 e 2015 e pubblicato nel 2015, ed è interessante notare come questo testo sia preceduto da testi come, Gli esarchi d’Italia, Aracne editrice, Roma 2011, un saggio che analizza nel dettaglio e in ogni suo aspetto l’esarcato bizantino in italia, ovvero i territori italici controllati direttamente dall’impero bizantino in quell’epoca a metà tra età antica e medievale, e La caduta dell’impero romano, Il Mulino, Bologna, 2012, un saggio osserva la società italica al tramonto di Roma, inoltre, il primo saggio successivo alla vita quotidiana è l’opera biografica Teodora. La cortigiana che regnò sul trono di Bisanzio, Salerno, Roma, 2016, che racconta ed intreccia, la vita quotidiana di una cortigiana e le dinamiche politiche al vertice della società bizantina.

Quasi certamente il saggio sulla vita quotidiana alla fine del mondo antico ha enormemente beneficiato delle ricerche e degli studi effettuati precedentemente, e allo stesso tempo, ha gettato le basi per la più dettagliata e specifica opera su Teodora.

Possiamo inoltre osservare, leggendo l’intera bibliografia di Ravegnani, che, fatta eccezione per pochissime opere, tra cui anche La vita quotidiana alla fine del mondo antico, la quasi totalità dei suoi scritti ruota attorno a due elementi chiave, ovvero Bisanzio e Venezia. In realtà anche il saggio sulla vita quotidiana è fortemente legato al tema di Bisanzio, tema sul quale Ravegnani è indubbiamente un esperto, in quanto ha dedicato allo studio della storia bizantina, gran parte della propria vita.

Le opere di Giorgio Ravegnani

  • Le biblioteche del Monastero di San Giorgio Maggiore, L. S. Olschki, Firenze 1976
  • Castelli e città fortificate nel VI secolo, Edizioni del girasole, Ravenna 1983
  • La corte di Bisanzio, Essegi, Ravenna 1984; Jouvence, Roma 1989
  • Soldati di Bisanzio in età giustinianea, Jouvence, Roma 1988
  • La corte di Giustiniano, Roma, Jouvence, 1989.
  • Giustiniano, Giunti & Lisciani, Teramo 1993
  • I trattati con Bisanzio 992-1285, (2 voll. con Marco Pozza), Il cardo, Venezia 1993-1996
  • I bizantini e la guerra. L’età di Giustiniano, Jouvence, Roma 2004, 2015
  • La storia di Bisanzio, Jouvence, Roma 2004
  • I Bizantini in Italia, Il Mulino, Bologna 2004, 2019
  • Bisanzio e Venezia, Il Mulino, Bologna 2006 ISBN 978-88-15-10926-2
  • Introduzione alla storia bizantina, Il Mulino, Bologna 2006 (nuova ed. 2008)
  • Imperatori di Bisanzio, Il Mulino, Bologna 2008
  • Soldati e guerre a Bisanzio. Il secolo di Giustiniano, Il Mulino, Bologna 2009
  • Bisanzio e le crociate, Il Mulino, Bologna 2011
  • Gli esarchi d’Italia, Aracne editrice, Roma 2011
  • La caduta dell’impero romano, Il Mulino, Bologna, 2012
  • Il doge di Venezia, Il Mulino, Bologna, 2013
  • La vita quotidiana alla fine del mondo antico, Il Mulino, Bologna, 2015
  • Teodora. La cortigiana che regnò sul trono di Bisanzio, Salerno, Roma, 2016
  • Andare per l’Italia bizantina, Il Mulino, Bologna, 2016
  • G. Ravegnani-Dedo di Francesco, Eleonora d’Aquitania e il suo tempo, Robin, 2017.
  • Il traditore di Venezia. Vita di Marino Falier doge, Laterza, Roma-Bari, 2017
  • Galla Placidia, Il Mulino, Bologna, 2017
  • Medioevo (quasi) inconsueto, Robin, 2017.
  • Donne d’arte, d’intrighi e di guerre. Storie di donne che hanno segnato al storia, Robin, 2018.
  • Ezio. L’ultimo dei Romani, il generale che sconfisse Attila prima della caduta dell’Impero, Roma, Salerno, 2019
  • Bisanzio e l’Occidente medievale, Bologna, Il Mulino, 2019
  • L’età di Giustiniano, Roma, Carocci, 2019

Conclusioni

Veniamo quindi alle conclusioni finali su questo libro. Personalmente l’ho apprezzato molto la vita quotidiana alla fine del mondo antico di Giorgio Ravegnani. Uno dei motivi del mio apprezzamento è il linguaggio, molto scorrevole e leggero, a differenza di Ravegnani non sono un esperto di storia bizantina, anzi, probabilmente il periodo dei regni romano barbarici e la storia bizantina sono ciò che conosco meno in assoluto, si tratta di un mondo che mi ha sempre comunicato e appassionato poco, e pure, questo libro sono riuscito a leggerlo in modo estremamente scorrevole, e non ho avuto alcun tipo di difficoltà durante la lettura. Tutti i concetti sono esposti in modo chiaro, puntuale e completo, nulla è lasciato al caso, nulla è dato per scontato. Questo è certamente dovuto alla natura dell’opera, concepita non per un pubblico di soli addetti ai lavori, ma anzi, costruito per catturare l’interesse e l’attenzione, anche, e soprattutto, di lettori occasionali, curiosi e appassionati di storia.

La vita quotidiana alla fine del mondo antico si rivolge ad un pubblico molto ampio, e variegato, e di conseguenza il testo risulta estremamente coinvolgente, e avvincente, permettendo quasi al lettore di mettersi nei panni di un uomo o una donna del tardo antico, grazie anche e soprattutto alla presenza di numerosi aneddoti e storie di vita quotidiana, di cui l’opera è ricca.

Il libro la vita quotidiana alla fine del mondo antico va preso per ciò che è un saggio storico di carattere divulgativo e va letto per ciò che è, non è un saggio di approfondimento, non è un saggio di ricerca, non promette rivoluzionarie scoperte, al contrario, promette al lettore un viaggio nella vita quotidiana tra il IV e il VI secolo, un epoca certamente turbolenta e movimentata, e la turbolenza di quel mondo emerge in ogni immagine, in ogni storia, in ogni dinamica sociale, in ogni tratto della vita quotidiana degli uomini e delle donne di quel tempo. Si tratta di un saggio divulgativo e a mio avviso Ravegnani riesce perfettamente nell’impresa di fare una buona narrazione storica, senza mai annoiare, ma anzi, mantenendo viva l’attenzione del lettore attraverso storie e scene di vita quotidiana sul finire del mondo antico. Il titolo di quest’opera ci dice già tutto ciò che bisogna sapere sull’opera in se, ci dice di cosa parlerà, ci dice qual è l’intento dell’autore, ci prende per mano e ci accompagna in quel viaggio di poco più di 200 pagine.

Ogni epoca ha la sua storia quotidiana, ogni luogo, ogni tempo, hanno la propria realtà ordinaria, e dei tanti libri sul tema, La vita quotidiana alla fine del mondo antico di Giorgio Ravegnani è forse uno dei pochi che abbia letto con piacere, oltre che con interesse, ed è il piacere che mi ha donato questa lettura il motivo per cui non ho dubbi sul consigliare questo libro.

I Medici, il declino della serie TV

La terza stagione de I Medici snatura totalmente la serie, banalizzandola e livellandola verso il basso. La prima stagione de i Medici era a suo modo un capolavoro, la terza stagione, sembra la versione ad alto budget di Elisa di Rivombrosa

I Medici, nel nome della famiglia, questo è il titolo della terza stagione della fiction Rai sulla famiglia de Medici, ma forse un nome più adatto sarebbe I Medici di Rivombrosa, perché questa stagione, almeno dai primi episodi, mi ricorda più Elisa di Rivombrosa che la prima stagione de I Medici che personalmente ho apprezzato, nonostante i molti difetti e le forzature storiche finalizzate ad una narrazione avvincente.

Purtroppo in questa stagione il livello qualitativo, generale, della serie si abbassa, si abbassa tanto, livellandosi verso il basso, in un modo tale che, le scelte stilistiche e le esigenze narrative, non possono e non riescono a spiegare.

La prima stagione rappresentava, a mio avviso, un giusto compromesso tra accuratezza storica e intrattenimento, mentre nella terza, l’equilibrio, già alterato nella seconda stagione, è totalmente saltato, restituendo al pubblico una serie che va avanti per inerzia e grazie al titolo importante che porta, ma la cui qualità generale è solo un lontano ricordo e in questo post, vi spiegherò perché non ho apprezzato i primi episodi di questa stagione.

La prima stagione de I Medici, che raccontava parte della vita del capostipite della signorile famiglia fiorentina, Cosimo de Medici, è stata un successo non troppo inaspettato, la serie era caratterizzata da una storia avvincente, personaggi carismatici come Contessina De Bardi, che ha conquistato i cuori di gran parte degli spettatori, con un cast internazionale e attori diretti in modo sapiente.

Questi elementi, che hanno fatto la fortuna della serie, anche di fronte a qualche buco di trama e forzatura storica di troppo, che nel contesto risultava gradevole, una serie di grande intrattenimento, dal respiro internazionale, che dava allo spettatore ciò che voleva … un Richard Madden in costume medievale, interpretare un Cosimo de Medici in un arco temporale di oltre 30 anni, al centro di intrighi, tradimenti, scontri e colpi di scena, per quanto possano esserci colpi di scena in una serie che si ispira al mondo reale e alla storia reale.

Tutti questo, nella seconda stagione, ispirata alla figura di Lorenzo de Medici, il più celebre esponente della famiglia fiorentina, è venuto a mancare, la narrazione ha perso di spessore, il carisma dei personaggi è andato scemando, i colpi di scena sono stati ridicoli, e, il cambio di regia che ha visto passare le redini della serie dalle mani del regista italo americano Sergio Mimica-Gezzan alle mani degli sconosciuti Jon Cassar e Jan Maria Michelini è stato percepito è stato percepito e decisamente poco apprezzato dal pubblico che, si è detto abbastanza contrario ad alcune scelte stilistiche e narrative… come quella volta che un uomo, senza scudo è stato colpito al petto da una lancia durante una giostra e ne è uscito totalmente illeso… qui andiamo ben oltre la sospensione dell’incredulità.

Nella seconda stagione, ne hera l’antagonista principale della narrazione, Iacopo Pazzi, e di lui ricordo solo che era interpretato da Sean Bean, vi giuro, ho dovuto cercare su google che personaggio interpretasse, perché non lo ricordavo, per non parlare di papa Sisto IV interpretato da Raul Bova che viene presentato come un ridicolo personaggio minore, facilmente manipolabile e senza personalità … Sisto IV, uno dei pontefici più controversi della storia, considerato un “machiavellico” genio della politica, capace di tessere trame fitte e talmente intricate da confondere qualsiasi rivale, un uomo che la storia ha raccontato come due uomini distinti, tanto era grande e inesplorabile la sua intelligenza, e tanto era incomprensibile la sua mente, che viene ridotto ad un inetto.

Va però spesa una nota in favore di questo personaggio nella terza stagione, poiché il ruolo di papa Sisto passa nella terza stagione da Raul Bova a John Lynch, e questo potrebbe riflettere un cambio significativo nella sua personalità… vedremo.

Nessuno dei personaggi della seconda stagione de I Medici, ha lasciato qualcosa di se al pubblico, e mentre ricordo ancora con entusiasmo la scena di Contessina che irrompe a cavallo in palazzo vecchio durante un consiglio, non ricordo assolutamente nulla, nessuna scena, della seconda stagione, se non forse l’ultima sequenza, in cui i pazzi vengono gettati dalle finestre del palazzo della signoria.

E arriviamo quindi alla terza stagione, sono andate in onda solo due episodi, e tanto mi basta per trarre le conclusioni su questa serie, che a questo punto possiamo certificare essere stata prolungata in modo innaturale, ben oltre la propria prefissata conclusione.

Se i Medici fosse rimasto alla prima stagione, l’avrei amata, se avesse mantenuto lo stile della prima stagione, l’avrei amata comunque, nonostante le distorsioni storiche, perché ne avrei riconosciuto il valore di serie tv di alto profilo e che ha come obbiettivo finale l’intrattenimento e non l’istruzione del pubblico. Purtroppo però, così non è stato e alla seconda, discutibile, ma comunque tollerabile stagione, se n’è aggiunta una terza che, nei primi episodi, appare non all’altezza della prima stagione.

Questa stagione, dalle promesse, sembra potenzialmente avvincente, è ambientata in un momento di grande fermento nella storia fiorentina e italica, e ruota attorno ad una delle più grandi crisi che la famiglia medicea, nella figura di Lorenzo de Medici, abbia mai affrontato, una vicenda dalla quale, non vi anticipo nulla sulla serie, e anzi, vano di 10 anni più avanti rispetto a quella che ipotizzo sarà la fine di questa stagione, in termini storici la famiglia de Medici ne sarebbe alla fine uscita vittoriosa e trionfale, accrescendo enormemente il proprio potere e la propria influenza internazionale. Questo posso dirlo, pur non avendo ancora visto gli ultimi 6 episodi della stagione, perché è comunque una serie che si ispira ad una narrazione storica e non serve che veda la serie per sapere che alla fine, nel 1498, Savonarola verrà ucciso in malo modo dal popolo fiorentino, e che nel 1513 Giovanni de Medici, il figlio quartogenito di Lorenzo de Medici e Clarice Orsini, sarebbe asceso al soglio pontificio, assumendo il nome di papa Leone X.

Che quindi la terza stagione de I Medici, terminerà con una nuova primavera della famiglia, posso dirlo senza timore di spoilerare nulla, e posso anche dire che, almeno che nella produzione non siano completamente impazziti, questa stagione non giungerà ai momenti da me citati, ma rimarrà ancorata al periodo 1482-1487, quando Savonarola giunge per la prima volta a Firenze. Sarebbe stupido, per non dire ridicolo, accorpare insieme questa fase della storia medicea, estremamente intensa e vivace, alle successive.

Per quanto riguarda la stagione in se, mi riservo di vedere tutta la stagione per un giudizio definitivo, basandomi sui primi due episodi, posso dire di non apprezzarla. Non l’apprezzo perché non è all’altezza della stagione precedente, che a sua volta non era all’altezza della prima stagione.

Quando l’avventura de i Medici è iniziata, quando ho visto la prima stagione, ne ero entusiasta, questa serie è stata presentata al mondo come una grande fiction storica, che narrava le vicende di una delle più importanti famiglie italiche del XV secolo, in modo abbastanza accurato, e la serie faceva esattamente questo e il fatto che vi fossero delle incongruenze e forzature storiche dettate da esigenze narrative, era più che tollerabile. L’ho detto in video, l’ho detto in live, l’ho detto in decine di post, l’accuratezza storica, se danneggia l’intrattenimento, per me è più che sacrificabile. Nella seconda stagione, l’accuratezza è passata diminuita, e, cosa più grave, il livello qualitativo generale della stagione è sceso, e a quel punto, il valore “storico” di una serie che viene presentata come una docu-fiction inizia a diventare incisivo.

Se la serie è bella, se la storia è avvincente e i personaggi sono carismatici, profondi e riesco ad entrare in empatia con loro, non mi importa troppo se Papa Sisto IV è presentato come un inetto, ma se la storia è noiosa e ripetitiva, se i personaggi non sono carismatici e risultano piatti, allora il fatto che papa Sisto IV venga presentato come un inetto, mi da oltremodo fastidio e da quel che si può percepire dai primi episodi della terza stagione, ci troviamo proprio in quest’ultimo caso.

Come anticipavo però, il papa Sisto della terza stagione è un uomo diverso dal Sisto della seconda, è un uomo più maturo, con una maggiore esperienza politica, ma soprattutto, interpretato da un attore diverso che, voglio sperare, essere una manifestazione visiva del cambio della personalità dell’uomo. Voglio sperare che ci sia una motivazione più profonda nella sostituzione di Bova con John Lynch rispetto alla differenza d’età. Ricordiamo che Richard Madden ha interpretato Cosimo de Medici a 16 e 40 anni, non credo che invecchiare un attore con del trucco sia un operazione così complicata da giustificare il cambio di un attore.

Il ruolo di Papa Sisto è uno di quelli che guardo con maggiore attenzione e spero possa essere una discriminante che mi porterà a rivalutare questa stagione che, per il momento, da quanto emerso dalla visione dei primi due episodi, non mi sta entusiasmando, nonostante lo sfondo storico sia uno dei più ricchi e vitali che la fiction abbia mai conosciuto, e ci siano in scena personaggi come Lorenzo il Magnifico, Gian Galeazzo Sforza, Papa Sisto IV, Innocenzio VIII e Savonarola.

Mi sorprende e un po’ ma non troppo, scoprire che in scena, almeno per il momento, non figura il ruolo do Ferdinando I di Aragona, nonostante abbia legami di amicizia con la famiglia Orsini, con la famiglia Sforza e con i pontefici Sisto IV e successivamente Innocenzio VIII.
Credo però che il motivo principale dell’assenza di Ferdinando sia il suo peso, Ferdinando I di Aragona sarebbe in questa narrazione un personaggio molto ingombrante, e credo che sia stato escluso dalla narrazione, dando spazio ai suoi emissari e feudatari, che invece compaiono in gran numero, e in ruoli minori.

Ad ogni modo, il mio giudizio finale sulla terza stagione de I Medici, resta in sospeso della conclusione, per il momento mi sta deludendo, ma potrebbe rifarsi. Aspetto di vedere come evolverà il ruolo di Papa Sisto e di Savonarola.

Se dovessi esprimere un voto, credo che non assegnerei oltre la sufficienza, forse un 6 di incoraggiamento, che però può facilmente diventare un insufficienza, un 4 o anche meno, se non dovesse esserci un evoluzione reale dei personaggi, da Bruno Bernardi a Papa Sisto, passando per Lorenzo e Savonarola.

Imperator Rome | un parere da Storico

Imperator Rome, è uno strategico a turni, ambientato nel mondo romano che condurrà il giocatore alla formazione del più grande impero dell’antichità.

Buongiorno a tutti, oggi volevo spendere qualche parola a proposito di Imperator Rome, il nuovo strategico a turni di casa Paradox, gli sviluppatori di Europa Universalis <3, Victoria e altri strategici a turni che hanno accompagnato gran parte della mia vita videoludica.

Più che una recensione, la mia è un opinione a caldo, perché non ho ancora giocato ad Imperator Rome, ma sono intenzionato a giocarlo quanto prima (magari anche in live su twitch se volete), mi limiterò quindi ad alcune considerazioni sul gioco, basandomi sul trailer, le prime immagini promozionali e la mia esperienza con i precedenti titoli della Paradox (che ho sempre apprezzato avendo totalizzato circa 140 ore di gioco su Europa Universalis IV e più di 200 ore su Victoria II).

Questa tipologia di giochi mi è sempre piaciuta molto e uno strategico ambientato nel mondo romano, confesso che mi attira e mi attrae particolarmente, e prima di cominciare ci tengo a sottolineare che l’accuratezza storica del titolo non è uno dei parametri che prenderò in considerazione, perché sono dell’opinione che in alcuni titoli (come gli strategici a turni) dove il giocatore ha molta libertà d’azione, troppa accuratezza storica tolga libertà al giocatore. L’accuratezza va bene in un avventura grafica, in un punta e clicca, in un titolo con una storia ben precisa da seguire, ma se c’è libero arbitrio e il giocatore può interagire con il mondo come e meglio crede, un eccessiva accuratezza storica rischia di uccidere il gameplay rendendo il gioco noioso e a nessuno piacciono i giochi noiosi.

Parto commentando questa immagine che è a mio avviso stupenda, perché racchiude in poco spazio gran parte della storia di roma, dalla fondazione alla caduta, e lo fa in modo fighissimo.

L’immagine è costruita su uno colle, e già qui meritano un applauso, ai piedi del colle sono raffigurate alcune immagini che richiamano eventi chiave della storia di roma, c’è la lupa che allatta gli infanti Romolo e Remo, immagine iconica della fondazione della città, c’è l’assassinio di cesare, c’è l’affissione delle leggi o delle liste di proscrizione di Silla (credo sia l’affissione delle leggi) ci sono i nemici di roma che puntano le loro armi contro Roma, ci sono degli uomini che cercano di fermare la caduta di una colonna, probabilmente un sacco di Roma o la caduta stessa di Roma, e in fine, ma non meno importante, in cima al colle, c’è l’imperatore di roma, ispirato ad Ottaviano, che si erge sulla storia di roma, e invito chiunque pensi che quella statua raffiguri Giulio Cesare a riflettere su due cose, la prima, il cesare assassinato poco più in basso ha fattezze diverse da quelle dell’uomo in alto e in secondo luogo, dare un occhiata all’Augusto di Prima Porta o Augusto loricato, perché il richiamo a quella statua, nella posa dell’imperatore di roma, è a mio avviso più che palese.

Augusto di Prima Porta, noto anche come Augusto loricato

Da quel che ho letto sul sito di paradox, il gioco copre un arco temporale molto ampio, che va dall’impero ellenico di Alessandro all’apice dell’impero romano, di conseguenza quindi abbiamo almeno 4 secoli giocabili, e da quel che si può vedere nei trailer (che in questo video commento a caldo, mentre li vedo per la prima volta) sarà possibile giocare con più di 400 nazioni (per la maggior parte popolazioni elleniche e tribù celtiche e germaniche) collocate geograficamente tra l’india orientale e la penisola scandinava, passando per il nord africa e le isole britanniche.

Tanta giocabilità quindi e potenzialmente tanta rigiocabilità, sia in single player che in multiplayer on-line

Per quanto riguarda le meccaniche di gioco, avendo giocato diversi titoli di paradox come i victoria ed europa universalis, mi permetto di fare una previsione e dire che quasi certamente a livello di gameplay, Imperator Rome, non si discosterà molto dai suoi predecessori, è uno strategico a turni in cui il giocatore dovrà imporsi sulle varie altre nazioni in game attraverso la gestione di economia, politica e guerra, e da questo punto di vista, la sola differenza rispetto ad un Victoria è che questa volta l’ambientazione sarà il mondo romano o meglio, il mondo classico, vista la presenza di nazioni giocanti e giocabili i cui contatti con roma, storicamente, sono quasi inesistenti.

La grande varietà di nazioni giocabili mi fa temere per una scarsa caratterizzazione delle stesse che de facto potrebbero avere ben poche differenze le une dalle altre, se non per pochi casi come Roma, sicuramente caratterizzata in modo forte (essendo la civiltà protagonista del titolo), Cartagine, l’Egitto, e i regni ellenici in generale, civiltà mostrate nei trailer, temo invece (e spero di sbagliarmi) una moltitudine di popolazioni più o meno identiche tra loro, caratterizzate semplicemente da skin di colore differente e racchiuse in quattro o cinque macro categorie, insomma, temo che fatta eccezione per Roma e poche altre popolazioni giocabili, tutte le altre avranno una caratterizzazione riducibile a popolazioni germaniche, popolazioni druidiche, popolazioni “orientali” e popolazioni elleniche.

Il Gameplay

L’obbiettivo del gioco è la conquista del mondo conosciuto in un anacronistica guerra totale, sarà però interessante trovare la via più efficace per questa conquista.

Si dice che tutte le strade portino a Roma, e in uno dei trailer ci viene mostrata proprio l’edificazione di strade che da roma si diramano in tutto il mondo di gioco, e in questo caso, a proposito di questo gioco, possiamo dire che molte strade portano alla gloria di Roma, e che quasi certamente il giocatore potrà provare a raggiungere questa gloria percorrendo strade diverse a seconda della popolazione scelta e di come vorrà giocare, ad esempio incentrando la propria campagna sulla gestione dell’economica, facendo del commercio il proprio punto di forza e creando così un impero economico che non ha bisogno di combattere per soggiogare i propri rivali, oppure attraverso la diplomazia, creando una vasta rete di alleati da unire poi in un unica nazione, oppure seguendo la via tradizionale della guerra, saccheggiando le città nemiche e annientando tutte le nazioni che si opporranno alla propria.

Da questo punto di vista Imperator Rome promette molta varietà e mi auguro che questa varietà si traduca in alcune nazioni più adatte alla guerra rispetto ad altre più inclini alla diplomazia o all’economia, come già accadeva in Victoria ed Europa Universalis.

In ogni caso, sono fiducioso del fatto che Paradox abbia sviluppato un titolo all’altezza dei precedenti.

La Battaglia, storia di Waterloo di Alessandro Barbero | Recensione

Recensione del saggio La Battaglia, storia di Waterloo di Alessandro Barbero

Molte volte ho parlato di Napoleone e di Waterloo, di quella battaglia che in un certo senso ha rotto l’incanto e consegnato Napoleone alla Storia.

La battaglia di Waterloo è stata raccontata da innumerevoli autori, a partire da Carl Von Clausewitz che su quel campo di battaglia era effettivamente presente, e non è mia intenzione aggiungermi, con questo post, alla lunga lista di nomi che hanno raccontato la battaglia.

Il mio intento è quello di fornire la mia personalissima ed estremamente soggettiva opinione sul saggio La Battaglia, Storia di Waterloo di Alessandro Barbero, storico e divulgatore italiano, docente di storia all’università di Torino che non ha certo bisogno di presentazioni, il suo lavoro come consulente e divulgatore su Rai Storia e membro del comitato scientifico di programmi come Quark e Ulisse, i suoi saggi e le sue innumerevoli conferenze tenute in tutta italia sono una garanzia di qualità e affidabilità, e questo saggio sulla battaglia di Waterloo non fa eccezione, è un un saggio a mio avviso meraviglioso, che vi consiglio di recuperare se non avete già letto.

Non serve che quindi mi dilunghi oltre sul curriculum e la biografia del professor Barbero e forse non serve neanche che vi dica cosa troverete nel libro qualora decideste di leggerlo, ma lo farò lo stesso.

Napoleone, per anni era stato forse qualcosa in più di un semplice uomo, di un semplice generale, di un semplice imperatore. Per milioni di uomini e donne in tutta europa Napoleone era stato quasi l’incarnazione di un sogno, aveva rappresentato l’avanguardia di una nuova epoca che si faceva strada nel vecchio mondo, era stato quasi una visione del mondo futuro che si affacciava sulla vecchia e logora europa.

Allo stesso tempo però, per altri versi, Napoleone era stato anche uno spietato signore della guerra, un demone sanguinario feroce, un folle che aveva spalancato i cancelli degli inferi, lasciando che la morte si riversasse sull’Europa come un fiume in piena e da questo punto di vista, la battaglia di Waterloo si presentava come l’ultimo grido disperato del morente gigante Golia che cadeva sotto i colpi di fionda del piccolo Davide.

Napoleone era stato il sogno e l’incubo dell’Europa tutta e dei suoi popoli, era stato amato ed odiato, prima di essere consegnato definitivamente alla storia, nell’atto finale di quel monumentale spettacolo che era stato l’impero francese, e che ora conosceva nella battaglia finale di Waterloo.

La battaglia di Waterloo è sicuramente più di una semplice battaglia, ebbe senz’altro un valore simbolico sia sul piano militare che sul piano politico, fu certamente una battaglia epocale, il cui esito avrebbe definito il futuro e le sorti dell’europa, che all’epoca, era ancora il cuore pulsante del mondo, e di conseguenza la battaglia di Waterloo segnò il futuro del mondo da quel momento in avanti.

Ma al di la di questo banale esercizio di retorica, alla fine, a Waterloo si combatté una vera battaglia, e soldati ed uomini provenienti da ogni angolo del vecchio continente, si scontrarono, si affrontarono, furono posti gli uni contro gli altri, fucile contro fucile, spada contro spada, cadavere sopra cadavere, per definire le sorti del mondo.

La Battaglia, Storia di Waterloo, ha per cardine una battaglia, forse la battaglia più importante dell’europa del XIX secolo, la grande battaglia di Waterloo, che qualcuno potrebbe definire come la grande battaglia per il destino del mondo, ma il fatto che sia un libro che parla della battaglia di Waterloo, non significa che parli solo della battaglia di Waterloo.

Ovviamente la battaglia vera e propria, gli schemi utilizzati, gli schieramenti, le unità sul campo, l’equipaggiamento dei soldati, l’artiglieria, ecc, ecc sono una componente centrale, fondamentale, per questo libro, ma raccontare la battaglia di Waterloo significa anche e soprattutto raccontare la storia di quella battaglia, significa racconta il mondo in cui venne vissuta e combattuta questa battaglia. Barbero tra le pagine di questo libro ci dice cosa c’era in gioco su quel campo di battaglia, chi erano i giocatori, qual’era lo stato d’animo delle pedine, disseminate sul campo di battaglia da entrambe le fazioni, ci racconta le paure e le angosce degli uomini che si affrontarono sul campo ed i timori e le speranze dei generali asserragliati nelle retrovie.

Da quella battaglia, dalla battaglia di Waterloo dipendevano, come già detto, le sorti del mondo, da quella battaglia dipendeva il futuro dell’europa e di tutti i suoi abitanti, e tutti, in quel momento, ne erano consapevoli.

La Battaglia, Storia di Waterloo di Alessandro Barbero è questo, un libro che racconta uno scontro di civiltà interno all’Europa, uno scontro che iniziò sul finire del XVIII secolo e continuò per gran parte del XIX secolo, il libro racconta la battaglia centrale di quello scontro epocale vissuto al cavallo tra quei due mondi che oggi indichiamo come età Moderna ed età Contemporanea, racconta un tempo troppo veloce che ha rischiato di lasciarsi la storia alle spalle, ma anche un tempo che si è impantanato e per questo è stato raggiunto e senza che se ne accorgesse, è stato superato dalla storia. Racconta l’alba di un epoca dalla doppia morale e dalla doppia faccia, che con una mano dispensava prosperità e progresso e dall’altra raccoglieva morte e distruzione.

Racconta di quel momento indelebile della storia che ha visto spalancare i cancelli degli inferi e la morte ha iniziato a cavalcare sull’Europa, da Waterloo in avanti, nel bene o nel male, l’europa non sarebbe più stata la stessa europa. A Waterloo, in quella storica battaglia, non ci furono vincitori ne vinti, ci fu solo, un deroga del tempo concesso al vecchio mondo che si sarebbe trascinato in avanti, con qualche affanno, ancora per qualche decennio.

Per quanto riguarda il libro in se, il mio giudizio è più che positivo, scritto nel solito stile di Alessandro Barbero, con la solita non banale semplicità, con la solita ironia ed accuratezza, un libro che dice tutto quello che c’era da dire e forse anche qualcosa di più, ma senza che questo risuoni come un eccesso, è un libro che racconta una storia militare, ma non la storia di una battaglia qualsiasi, bensì la storia della più grande ed importante battaglia del XIX secolo.

Questo libro ci porta, attraverso la sua narrazione, nel ventre della balena, ci conduce nel vivo della battaglia di Waterloo, e al fianco dei soldati bonapartisti, ci mostra i colori, i suoni, i profumi, ma anche il dolore, il fetore di sangue che si mischia con l’odore acre della polvere da sparo ed il fumo dei cannoni, mentre le grida dei soldati che cadono uno dopo l’altro come mosche, si mischiano tra loro e si perdono tra l’affannoso respiro dei cavalli ed il boato assordante di colpi di fucile, cannone ed esplosioni di mortai.

Non ho altro da aggiungere, queste erano le mie considerazioni sul libro La Battaglia, Storia di Waterloo, di Alessandro Barbero e più in generale le mie considerazioni personali sulla battaglia di Waterloo.

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Wonderland, la cultura di massa da Walt Disney ai Pink floyd – Recensione

Recensione di “Wonderland, la cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd”, di Alberto Mario Banti, docente di storia contemporanea e storia culturale all’Università di Pisa.

Ho appena finito di leggere “Wonderland, la cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd“, un vero e proprio capolavoro (non posso definirlo un semplice libro) di Alberto Mario Banti, docente di storia contemporanea e storia culturale all‘Università di Pisa.

Quasi sicuramente nelle prossime settimane pubblicherò una guida alla lettura, ma per ora mi limito a fare alcune considerazioni personali, che possiamo considerare una sorta di recensione, nella quale dirò, a grandi linee, cosa penso di questo libro.

Anche se forse è un discorso superfluo visto che l’ho definito un vero e proprio capolavoro. Ad ogni modo, Cosa ne penso ?

Penso che sia un libro assolutamente stupendo, da un certo punto di vista un vero e proprio capolavoro, che forse sarà un azzardo, ma possiamo considerarlo come un testo rivoluzionario ed estremamente innovativo per il suo genere.

Una delle critiche che da sempre si muovono alla storia culturale è che questa attinga sempre alle poche e solite fonti, e questa critica, non piò essere mossa nei confronti di Wonderland perché il testo del Banti non attinge alle solite fonti, e anzi, potremmo quasi dire che non attinge affatto alle tradizionali fonti, certo, il testo utilizza fonti classiche, analisi sociologiche, studi storici ecc, ma attinge anche ad una moltitudine di elementi propri della pop culture, che difficilmente incontriamo in un saggio storico, a meno che non sia un saggio dedicato esclusivamente ad un determinato elemento pop.

Ed è qui che il saggio è rivoluzionario, perché a differenza di altri, che in passato hanno sottolineato ed evidenziato l’impatto della pop culture nella società, nella cultura di massa, ancorandosi ad un singolo elemento, un singolo aspetto di quella cultura, dal quale partire per sviluppare un discorso storico analitico di stampo tradizionale, questo saggio rompe gli schemi, e racconta la civiltà contemporanea, racconta la società di massa, attraverso i gusti delle masse, attraverso i molteplici elementi, in un certo senso ludici e di intrattenimento, usa film, fumetti, sport, musica, ecc ecc ecc.

Vi sono molti altri saggi che fanno qualcosa di simile, saggi che raccontano un epoca e la società attraverso un filone musicale, attraverso una saga cinematografica, vi sono persino saggi che, ponendo un festival musicale come specchio della società, partono da quel festival per tracciare gli aspetti e gli elementi propri della società e della cultura di quel paese.

Wonderland in questo diverge, non limitandosi ad un singolo elemento della pop culture, ma attingendo a piene mani, ad una moltitudine di elementi. Attraverso questo saggio, che di fatto allarga lo sguardo dandoci una prospettiva più ampia sulla cultura di massa, scopriamo che la società contemporanea è plasmata da alcuni elementi della pop culture che quella stessa società produce, ma, allo stesso tempo, altri elementi di questa pop culture riflettono le inclinazioni della società, andando in contro ai gusti e alle tendenze, configurandosi come un vero e proprio specchio della società. Possiamo quindi dire che, mentre alcuni elementi raccontano la società, altri la influenzano.

Vi assicuro che leggere questo libro cambierà la vostra prospettiva, se vi interessa leggerlo, e vi consiglio di leggerlo, potete acquistarlo su Amazon cliccando qui di seguito.

Wonderland. La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd

Se proprio vogliamo trovare un qualche difetto, una qualche mancanza a questo libro, e vi assicuro che non è stata affatto facile trovarne, anche perché in realtà non è affatto un difetto, non è una mancanza, è il suo limite temporale, questo saggio infatti prende in esame un determinato arco temporaneo e questo limite esclude necessariamente alcuni elementi in un certo senso “successivi” ai Pink Floyd. Dico in un certo senso perché alcuni di quegli elementi che oggi sono importanti indicatori dei gusti della società di massa, nascevano al tempo dei Pink Floyd, ma all’epoca erano ancora in una fase embrionale che di fatto non rifletteva realmente la cultura di massa.

Va inoltre precisato che, se si considera la vastità di fonti utilizzate nel limitato arco temporale preso in esame, è facile comprendere perché il Banti si sia dato un limite temporale, ed abbia deciso di escludere quegli elementi come la prima internet ed i primi videogiochi, dall’analisi, trent’anni fa Internet non era così come siamo abituati a conoscerlo oggi, era molto più difficile da utilizzare e soprattutto non era alla portata di tutti, era uno strumento si esistente ma che di fatto non trova un riscontro nella cultura popolare, lo stesso discorso vale per le prime generazioni videoludiche, trent’anni fa erano si uno strumento di intrattenimento, certamente innovativo e tecnologicamente molto avanzato, ma che, nella cultura di massa, si rivolgeva ad un utenza molto giovane, un utenza appartenente ad alcune generazioni che, per ragioni fisiologiche in quel momento vengono escluse dal discorso sulla cultura di massa, ma che sarebbero rientrate nel discorso soltanto qualche anno più tardi.

Di casi analoghi se ne potrebbero citare anche altri, ma per il momento rimaniamo solo su questi due, su internet ed i videogiochi. Questi elementi con il tempo avrebbero ampliato il proprio bacino di utenza, includendo nuove generazioni fino a diventare elementi centrali nella cultura di massa, degli anni novanta e al ridosso degli anni duemila, per poi esplodere negli anni successivi, ma questo significa che Internet ed i Videogiochi diventano un elemento di cultura di massa molto al di la del paletto temporale fissato dall’opera.

La loro esclusione quindi non può essere considerata una mancanza, quanto un preludio ad un secondo volume e personalmente spero, con tutto il cuore, che prima o poi verrà pubblicato un secondo volume, una Wonderland due punto zero, che vada dai Pink Floyd a Fortnite.

Questo mio desiderio è alimentato dalla conoscenza e dall’ammirazione personale che nutro nei confronti del professor Banti, che ho avuto il piacere di conoscere all’Università e con il quale ho dato alcuni esami durante il mio percorso accademico, conosco il valore dei suoi studi, dei suoi saggi, conosco il valore del suo lavoro, so quanto influente sia diventato il suo nome e so che forse è uno dei pochi, se non addirittura l’unico storico italiano che potrebbe finalmente trovare una collocazione storica e storiografica ad elementi come internet, e tutte le sue componenti interne, fatte di blog, forum, social media, servizi di stremaing audio e video ecc, o ancora, di elementi come i videogiochi, e le app per smartphone, spesso osannati dalla critica e ingiustamente ritenuto la causa principale di ogni male della nostra società.

Guardare ad internet e al videogioco con prospettiva storica, mi rendo conto che non è qualcosa di facile, e probabilmente dovremmo aspettare ancora qualche anno affinché questo accada, tuttavia, non posso nasconderlo, sarei felicissimo se questi elementi entrassero nel discorso storico grazie ad uomini come Alberto Mario Banti, del resto, con Wanderland ha introdotto Topolino in un discorso storico, non vedo perché lo stesso destino non possa toccare, un giorno, anche a personaggi come Kratos, Ezio Auditore, o il ragazzo del Volt 101.

Il formaggio e i Vermi di Carlo Ginzburg | Recensione

Recensione e guida alla lettura del saggio “il formaggio e i vermi” di Carl Ginzburg, capolavoro dello storico italiano che ha reinventato la microstoria.

E se la terra fosse in realtà un enorme forma di formaggio, se la vita animale non fosse altro che vermi schiusi nutrendosi dei succhi del formaggio, come accade sul Casu Marzu e se tutti i vegetali del pianeta non fossero altro che muffa, come nel più pregiato formaggio gorgonzola e se in fine le cavità della terra non fossero altro che bolle d’aria come quelle presenti nel groviera svizzero?

Queste osservazioni possono far sorridere, ma nel 500 c’era ben poco da sorridere e l’inquisizione era pronta ad intervenire, soprattutto se qualcuno, sostenendo un parallelismo tra la vita sulla terra ed i vermi del formaggio, avesse involontariamente negato l’esistenza di Dio passando per eretico. E se proprio vogliamo dirla tutta, qualcuno lo fece davvero, qualcuno nel cinquecento sostenne realmente, razionalmente e in maniera consapevole, un possibile parallelismo tra una forma di formaggio e la vita sulla terra, ma questo qualcuno non era un filosofo, un fisico, uno studioso, questa teoria non venne da uomini come Newton o Galilei, ma da un umile mugnaio friulano che la storia ricorda con il nome di Menocchio.

Menocchio era un mugnaio friulano, nato Domenico Scandella dalle parti di Montereale Valcellina, presumibilmente nel 1532, e passò la sua vita a fare il formaggio e sfuggire al tribunale dell’inquisizione che voleva condannarlo per eresia e che alla fine, intorno al 1600 lo mise a morte condannandolo al rogo per le sue stravaganti teorie eretiche secondo cui, la vita sulla terra non sarebbe stata opera di Dio, ma proprio come accade al formaggio con i vermi, sarebbe nata in maniera spontanea.

Nel grande pentolone della storia dei grandi eventi, tra i grandi uomini, generali, principi e imperatori, vescovi, cardinali e papi, non c’è posto per un uomo come Menocchio ma il suo ricordo è sopravvissuto per secoli e in un modo o nell’altro, il suo nome sarebbe diventato un tassello importantissimo per definire il fenomeno inquisitorio nel cinquecento.

Tra i primi che ricostruì e raccontò la storia di Menocchio, va certamente annoverato Carlo Ghinzburg, storico italiano di fama mondiale che, durante gli anni settanta, si mise al lavoro sul curioso caso di Domenico Scandella, e del suo scontro con l’inquisizione, dando vita ad un opera di straordinaria bellezza quale il saggio storico “il formaggio e i vermi”.

Al di la del racconto quasi aneddotico e biografico della vita di Menocchio e delle vicende che lo avrebbero portato alla morte, Carlo Ghinzburg ricostruisce in maniera estremamente precisa e particolare la questione dell’inquisizione in italia agli inizi dell’età moderna. Il Formaggio e i vermi è un saggio di “microstoria” che non si limita però all’analisi del singolo caso particolare, ma al contrario, proprio partendo da questo caso particolare, e diversamente dal classico modo di fare storiografia, in cui si tende a partire dal generale scendendo sempre più nel particolare, qui accade l’esatto contrario, si parte dal particolare, si parte da Menocchio, si parte da Montereale Valcellina, si parte dall’inquisizione friulana, per poi andare a sviscerare l’intera struttura inquisitoria italiana tra sedicesimo e diciassettesimo secolo.

Con il suo saggio Ghinzburg ha ribaltato il modello storiografico, sottolineando l’importanza e della “storia dal basso”, della microstoria, dedicando proprio alla definizione di questo modello storiografico un importante fetta della prefazione e va detto che il modello analitico proposto da Ghinzburg negli anni settanta avrebbe avuto molta fortuna, soprattutto negli Stati Uniti e nel mondo divulgativo. Altro elemento caratterizzante e distintivo di questo testo di Ghinzburg è la sua capacità di analizzare e comparare il rapporto reale, esistente e troppo spesso dimenticato tra la cultura ufficiale, la cultura delle classi dominanti, e cultura popolare.

Il caso di Menocchio è stato dimenticato, è stato ignorato per secoli dalla cultura ufficiale, Menocchio era solo un mugnaio, la sua storia era una storia comune, una storia banale, una storia che non valeva la pena ricordare, almeno per le classi dominanti, ma a livello popolare il suo ricordo divenne leggenda e sopravvisse negli anni, nei racconti e nei ricordi fiabeschi di un passato ormai dimenticato.

Questo testo di Ghinzburg ha un triplice valore, perché si impone su tre diversi piani, con tre diverse chiavi interpretative che riguardano il mondo storico e storiografico ed è per queste ragioni che ho deciso di consigliarlo.

Il testo è anzitutto un saggio storico molto complesso, che affronta tematiche importanti, ma è anche un buon manuale di tecnica storiografica, oltre che un saggio critico ed un ottima fonte aneddotica, ma andiamo con ordine.

Dal punto di vista puramente divulgativo, la storia di Menocchio, le sue teorie ed il suo scontro con la chiesa e l’inquisizione è sicuramente, dal punto di vista narrativo, molto avvincente e interessante, ci viene raccontata la storia di un uomo comune catapultato in situazioni più grandi di lui, chiamato a rispondere di accuse che non riesce a comprendere, chiamato a giustificarsi per un semplice pensiero genuino e “ignorante” che, agli occhi di chi aveva la pretesa di custodire la sola verità valida, era un qualcosa di abominevole e ripugnante, i pensieri, le idee, le osservazioni di Menocchio erano eretiche, anche se Menocchio non si reputava un eretico, era semplicemente un uomo pieno di dubbi con troppe domande a cui il suo tempo non era ancora in grado di rispondere. Del resto, le sue teorie avrebbero preceduto di diversi secoli teorie, ipotesi analoghe, formulate da uomini di scienza e non da mugnai, in un epoca e in un clima molto più positivo e tollerante nei confronti dell’innovazione.

Dal punto di vista critico e analitico, come abbiamo già osservato, soprattutto nella prefazione, Ghinzburg definisce un nuovo modello analitico, stabilisce nuovi canoni di ricerca, nuove linee di costruzione per le opere storiografiche, ribalta la storia portando gli uomini comuni nella storia, screditando in qualche modo l’idea che le masse popolari fecero la propria irruzione nella storia soltanto nell’ottocento, Menocchio è testimone di ben altra storia, Menocchio è un uomo del popolo ed è al centro di una vicenda storica realtà, completa, valida, Menocchio rappresenta la quotidianità del proprio tempo ed è attraverso quella quotidianità che Ghinzburg riesce a ricostruire magistralmente la società friulana del cinquecento e le dinamiche dell’inquisizione. Inoltre, il fatto che il testo ribalti quello che, fino a quel momento era il canonico ordine stilistico dei testi storiografici, passando quindi dal particolare al generale invece che dal generale al particolare, come si era soliti fare all’epoca (e ancora oggi) è estremamente importante perché avrebbe spianato la strada ad un nuovo modello globale di pubblicazione storica, inaugurando in un certo senso la letteratura storiografica “divulgativa”.

Il testo “il formaggio e i vermi” edito da Einaudi per la prima volta nel 1976 è a tutti gli effetti un testo divulgativo, diventa letteratura scientifica, letteratura tecnica grazie alla sua lunga prefazione, ma se si ignora la prefazione, ciò che ci troviamo sotto gli occhi è un testo relativamente semplice, scritto in maniera estremamente elegante da un autore brillante che ci racconta la vita di un mugnaio friulano e attraverso ad essa ci racconta la società in cui quel mugnaio viveva e le difficoltà che un uomo come lui era chiamato ad affrontare, dal formaggio che va a male perché fa i vermi o ammuffisce, alle pesanti accuse di eresia dinanzi al tribunale dell’inquisizione.

La fine della Cultura di Eric Hobsbawm | Recensione

La fine della cultura di Eric Hobsbawm, guida alla lettura

Eric Hobsbawm lo sapete, è il mio storico preferito, amo le sue opere in maniera quasi morbosa e tra i tanti libri che ha scritto, il secolo breve è sicuramente il più iconico e famoso, ma probabilmente è anche il meno importante.

Hobsbawm è stato uno storico sociale, di formazione marxista, significa che nel suo lavoro ha sempre tenuto gli occhi puntati sull’elemento sociale, sulla società, in particolar modo sulla società ottocentesca che poi è stato l’oggetto privilegiato di gran parte della letteratura prodotta dallo stesso Hobsbawm e solo negli ultimi anni di attività, diciamo negli ultimi 2 decenni, Hobsbawm ha in qualche modo dipanato le ali e dato uno sguardo dall’alto anche al Novecento.
Il secolo breve rappresenta in qualche modo un punto di rottura con il passato, il 1991 rappresenta la fine di un epoca ma anche di un modo di scrivere. Senza girarci troppo intorno, dopo il Secolo Breve Hobsbawm ha iniziato a rivolgere lo sguardo su temi più ampi, producendo opere più intime e personali, in un certo senso più riflessive che analitiche.

Nell’età degli Imperi che cronologicamente copre il periodo immediatamente precedente l’inizio del secolo breve, Hobsbawm propone una ricostruzione storica delle dinamiche sociali, economiche e politiche del mondo in quegli anni, propone un analisi storica e critica di quel mondo, mentre, in opere come il secolo breve e ancora di più in “la fine della cultura” Hobsbawm si lascia andare molto di più alle proprie osservazioni e considerazioni personali, il tutto sempre condito da un profondo rispetto per l’argomento studiato e con la maestria di cui solo uno dei più grandi storici del secolo scorso potrebbe fare, e questo ci porta al soggetto di questo post.

Il libro “La fine della cultura. Saggio su un secolo in crisi d’identità” pubblicato nel febbraio 2012, pochi mesi prima della sua scomparsa nell’ottobre di quello stesso anno.

Si tratta de facto dell’ultimo libro di Eric Hobsbawm, della sua ultima fatica, del suo ultimo capolavoro, e in quanto tale ha per me, che amo Hobsbawm, un enorme valore affettivo e significativo, al di la del suo contenuto sul quale sono state spesso mosse critiche di varia natura, dal fatto che il libro sia “troppo personale” molto più giornalistico che storico, per intenderci, al fatto che sembra quasi un opera incompiuta e data in stampa prematuramente.

E se per quanto riguarda la prima osservazione posso essere in parte d’accordo, considerando però, questa soggettività che ci viene dichiarata esplicitamente dall’autore nella prefazione del libro, come un valore aggiunto e non un elemento discriminatorio, poiché si tratta del punto di vista di un icona della storiografia del novecento, non condivido invece la seconda critica, il libro a mio avviso è completo e preciso, puntuale, pungente e ironico, tratto distintivo della penna di Hobsbawm che è forse uno dei motivi principali per cui ho iniziato ad amare questo grandissimo storico.

Per quanto riguarda il libro in se comunque, non è un libro semplice da leggere, non è un libro per tutti gli utenti e di sicuro non per lettori inesperti, per comprenderlo a pieno è necessario conoscere Hobsbawm, conoscerlo bene e conoscere il suo pensiero, un pensiero espresso più o meno velatamente nelle varie prefazioni ai suoi libri e in maniera dichiarata nella sua autobiografia “Anni interessanti” pubblicata nel 2002, autobiografia che almeno nella sua cronologia editoriale si colloca esattamente a metà strada tra “il secolo breve” (1992) e “La fine della cultura” (2012), e che nella sua cronologia interna condivide gran parte della strada percorsa con il secolo breve, nella cui prefazione lo stesso Hobsbawm ci dice che quel periodo (1914-1991) coincide quasi completamente con la sua vita.

Uno dei motivi per cui “la fine della cultura” non è un libro semplice è perché fondamentalmente non è un vero e proprio libro, si tratta più di una raccolta di saggi, circa venti saggi elaborati dall’autore nel corso della sua vita, e che condividono un tema comune, i ragionamenti, le osservazioni, le osservazioni e le critiche espresse da Hobsbawm sul suo tempo, sul tempo in cui viveva e la società in cui viveva, e alla luce di ciò appare evidente perché conoscere la chiave di lettura del mondo adottata da Hobsbawm.

Leggere la fine della cultura consapevoli del fatto che Hobsbawm sia uno storico sociale, inglese e di formazione marxista, ci permette di comprendere quei saggi fin nel profondo del loro essere e se ci soffermiamo a riflettere sul fatto questo libro è il frutto di quasi mezzo secolo di riflessioni storiche dell’autore, può viene quasi naturale commettere l’errore di ricercare un qualche un parallelismo con “l’apologia della storia” di March Bloch, che ricordiamo essere un opera postuma data alle stampe per volontà di Lucien Febvre, in cui sono raccolte le riflessioni e le osservazioni che hanno accompagnato la vita di Bloch sul mestiere di storico e non è su questo che riflette il testo di Hobsbawm.

In questa raccolta, a differenza dell’Apologia della Storia, si pone l’attenzione sulla società, sul mondo e sulla cultura, osservando da una parte sulle nuove forme di espressione artistica nell’era della globalizzazione, sull’esiguo spazio che oggi resta alla cultura del passato e dall’altra parte riflette su moltissimi altri aspetti dell’arte e della cultura contemporanea, dal ruolo degli intellettuali a quello della scienza, dai rapporti tra arte e politica alla pop art, all’emancipazione femminile al ruolo delle religioni nel mondo contemporaneo, sul fallimento delle avanguardie e su quella che definisce come la “tradizione inventata” del cowboy americano, tema a cui è dedicato un intero saggio, posizionato in chiusura del libro, quasi come se questo saggio volesse essere la sua ultima sfida dello storico inglese, la sua ultima grande provocazione, l’ennesimo scossone dato alla storiografia dall’uomo che aveva inventato il secolo breve.

L’autore non a caso osserva che la rivoluzione scientifica e tecnologica del ventesimo secolo ha totalmente mutato le tradizionali modalità con cui si scandiva il ritmo delle giornate e gli uomini comuni si guadagnavano da vivere e se in questo nuovo mondo dalle infinite potenzialità le masse popolari, dopo aver fatto la propria irruzione nella storia nel secolo precedente ora, nel novecento, fanno la propria irruzione sulla scena politica. Per Hobsbawm questa irruzione ha abbattuto «il muro tra cultura e vita, tra venerazione e consumo, tra lavoro e tempo libero, tra corpo e spirito», ed ha portato ad un progressivo svuotamento del ruolo privilegiato riservato alle arti nel passato, in quella che definisce come la vecchia società borghese.
Nel mondo contemporaneo per Hobsbawm è venuta a mancare l’estetica tradizionale, l’estetica borghese e di conseguenza, la cultura dell’accezione borghese deve «lasciare il posto alla cultura nel significato antropologico puramente descrittivo» spingendo verso un progressivo imbarbarimento della cultura, della politica e della società, anticipando, con estrema lucidità quello che sarebbe successo su scala globale negli anni successivi, con l’avvento e l’affermazione dei vari e numerosi partiti populisti, spesso di estrema destra, in Europa e nelle Americhe.

La fine della cultura è un libro che inizia la sua storia editoriale nel 1964 e che vede la sua stampa soltanto nel 2012, raccogliendo al proprio interno le considerazioni e le osservazioni di uno dei più fini e attenti osservatori del novecento nonché uno dei più grandi storico del ventesimo e della prima decade del ventunesimo secolo.

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Ecco perché tutti dovrebbero guardare Peaky Blinders | Recensione (Serie TV)

Buongiorno a tutti, ho da poco terminato la terza stagione della serie Peaky Blinders, prodotta dalla BBC e disponibile su Netflix e volevo condividere con voi alcune osservazioni e pensieri di carattere storico riguardante questa fantastica serie tv.

Ci tengo a sottolineare, a scanso di equivoci, che Peaky Blinders non è una docu-serie, non non racconta avvenimenti reali e non prende spunto dalla realtà storica se bene la narrazione sia collocata all’interno di un contesto storico ben preciso (l’Inghilterra dei primi anni 20) e se bene abbia come protagonista un gruppo di banditi, una “banda”, realmente esistiti, va specificato che i protagonisti della serie, che occasionalmente interagiscono con personaggi storici concreti come ad esempio Winston Churchill, in realtà, non sono personaggi storici reali e della loro esistenza non vi è alcuna traccia storica.

Leggi tutto “Ecco perché tutti dovrebbero guardare Peaky Blinders | Recensione (Serie TV)”

Il libro nero dell’Impero britannico di John Newsinger | Recensione

Questa è la prima volta che mi ritrovo a scrivere seriamente una sorta di recensione di un libro storico, di un saggio storico, e mi scuso preventivamente se quella che verrà fuori avrà poco la forma di una recensione, di fatto quello che troverete in questa rubrica mensile assomiglierà molto di più ad una sorta di racconto della mia personale esperienza di lettura di questo libro e a dei consigli su come approcciarsi alla lettura di questo libro, piuttosto che ad una recensione nel senso classico del termine, e vi dico fin da subito che in questo ciclo di “recensioni” che curerò tra queste pagine di historicaleye, verranno affrontati prevalentemente libri che in qualche modo hanno contribuito alla mia formazione di storico o di testi che per un motivo o per un altro mi hanno colpito ed affascinato, insomma, e questo significa che difficilmente troverete recensioni “negative”, ma, nel peggiore dei casi, potrete trovare delle osservazioni critiche, e prima di iniziare con la recensione vera e propria, volevo chiudere questa breve premessa ringraziando 21 Editore per avermi dato la possibilità di recensire quest’opera di John Newsinger.

Chi è John Newsinger?

Newsinger è uno storico inglese di orientamento Marxista e docente alla Bath Spa University (da non confondersi con la Bath University), ed è diventato particolarmente celebre al grande pubblico britannico per aver collaborato in diverse occasioni con la BBC e in particolare per aver ricoperto il ruolo di consulente storico della televisiva Scozia & Impero prodotta dalla BBC. Per quanto riguarda invece il suo “mestiere di storico”, le sue opere hanno rappresentato un importante contributo alla critica, di sinistra, alla storia moderna britannica e americana, soprattutto alla luce degli avvenimenti politici e militari degli ultimi anni.

La sua attività di ricerca è iniziata con lo studio del movimento repubblicano irlandese tra XIX e XX secolo che lo avrebbero portato alla pubblicazione di Orwell Politics, edito nel 1999, un saggio che va ad indagare sulla visione politica di George Orwell, contestualizzando storicamente le opere di Orwell nello sfondo dell’imperialismo britannico, della disoccupazione degli anni Trenta, della Guerra civile spagnola e della Seconda guerra mondiale.

Si tratta di una chiave di lettura al limite del revisionismo storico, un revisionismo che sarebbe stato accentuato nel saggio British counterinsurgency: from Palestine to Northern Ireland, un’opera caratterizzata da un approccio estremamente critico e revisionista nei confronti della politica dell’impero britannico, soprattutto per quanto riguarda le questioni legate alla gestione stessa dell’impero delle colonie, ed è proprio da qui che parte Blood Never Dried: A People’s History of the British Empire edito in italia con il titolo il libro nero dell’impero britannico.

Il libro nero dell’impero Britannico

Il libro nero dell’impero Britannico eredita dalle precedenti opere di Newsinger un approccio critico alla politica britannica e tra le sue circa 343 pagine racconta una storia alternativa e parallela alla storia del grande impero britannico, ne racconta i panni sporchi, ne racconta la decadenza, il degrado e l’insoddisfazione coloniale, e racconta gli abusi imperiali e le contraddizioni che si celavano dietro il velo di glorioso splendore di una delle ultime corone imperiali del vecchio continente.

Come ha scritto Jacopo Bassi nella sua recensione a quest’opera pubblicata tra le pagine di Diacronie,

“Il libro nero dell’impero britannico è, anzitutto, una replica polemica all’apologia dell’impero britannico portata avanti da alcuni tra i più famosi storici che si sono occupati dell’argomento: Niall Ferguson, Max Boot e Robert Kaplan. Newsinger adotta un approccio che si concentra sul tema della resistenza all’impero britannico, denunciando la politica di violenza perpetrata nel mondo sotto le insegne imperiali. Il libro può dunque essere considerato come una storia della repressione britannica o, più precisamente, una storia della resistenza al colonialismo britannico.”

E c’è veramente poco da aggiungere a queste parole di Bassi, il libro nero dell’impero britannico è semplicemente questo, uno sguardo sugli aspetti “dimenticati” o ignorati dell’impero britannico, uno sguardo su quei tratti cupi e contraddittoria a cui una larga schiera di autori britannici ha dedicato uno spazio marginale nelle proprie opere, preferendo soffermarsi sui tratti più splendenti e gloriosi, e in questo senso le critiche di Newsinger si rivolgono soprattutto ad autori come Niall Ferguson, Max Boot e Robert Kaplan portatori di una (re)visione acritica della grandezza dell’impero britannico, in particolare a Ferguson che nel 2003 aveva pubblicato un opera dal titolo “Empire: How Britain Made the Modern World”, edito in italia da Mondadori con il titolo “Impero: Come la Gran Bretagna ha fatto il Mondo Moderno“.

Questo libro mette in risalto le contraddizioni dell’impero britannico, un impero che la storiografia tradizionale britannica esaltava per il proprio impegno nella lotta al commercio di schiavi e alla schiavitù, ignorando le numerose rivolte di schiavi, avvenute nei Caraibi britannici prima che la corona si impegnasse nella lotta alla schiavitù, e trascurando il fatto che il commercio atlantico degli schiavi fu alimentato per diversi secoli anche dai traffici marittimi britannici.

Il secondo capitolo prende di mira l’amministrazione politica dell’impero, prendendo in esame soprattutto la devastante carestia irlandese degli anni quaranta, sottolineando come, da una parte la popolazione irlandese morisse per la fame, e vivesse di erba raccolta in strada impossibilitata ad acquistare pane e patate, perché troppo rare e costose, ma nello stesso periodo, 1846, 47 e 48 l’Irlanda abbia comunque esportato patate per un valore di circa 15 milioni di sterline.

Nel terzo capitolo la lente di Newsinger viene puntata sul traffico illecito dell’oppio che affluiva a fiumi nelle strade dell’impero e in tutta europa. La storiografia tradizionale ci ha abituati ad immagine edulcorata delle fumerie d’oppio tanto care ai grandi uomini del XIX secolo e descritte in maniera quasi poetica e romantica nelle loro opere e Newsinger sottolinea come quella realtà appartenesse soltanto alle grandi città europee e vivesse di una clientela molto elitaria, ma nella maggior parte dei casi, le fumerie d’oppio erano luoghi di decadenza frequentati da personalità poco raccomandabili e generalmente gestite in maniera rozza e brutale ed erano dei ricettacoli di malattie veneree, e situazioni di degrado e sfruttamento.

Il quarto capitolo ci racconta la grande rivolta irlandese del 1857-1858, spesso liquidata nei manuali in poche righe o al massimo in qualche paragrafo, senza dare troppo spazio e spessore alla repressione a tratti cruenta e quella che sarebbe più opportuno definire, secondo Newsinger come una guerra civile o una fallimentare guerra di indipendenza.

Sulla stessa linea si muovono i capitoli successivi, il quinto rivolge il proprio sguardo all’occupazione dell’Egitto di fine ottocento, e introduce appena il lettore all’analisi critica della brutale colonizzazione dell’Africa. Guardando alla colonizzazione dell’Africa Newsinger ci fa notare che i crimini compiuti da Leopoldo del Belgio hanno canalizzato la critica alla “spartizione dell’Africa” lasciando ben poco spazio ai “crimini” compiuti da francesi, olandesi e britannici e in questo capitolo Newsinger cerca di riempire il vuoto, soffermandosi sull’Egitto perché trattare nella loro interezza le politiche coloniali britanniche avrebbe richiesto forse un intero libro e non escluderei che questo possa essere proprio l’oggetto di studio del prossimo lavoro di Newsinger.

Il testo continua affrontando in maniera critica il ruolo britannico nelle guerre mondiali e quasi tutta la seconda parte del libro è dedicata alla gestione e l’amministrazione britannica dei territori coloniali durante la decolonizzazione e in particolare, durante le guerre di indipendenza che esplosero nell’intero impero britannico, dando particolare attenzione alla questione dell’India, alla crisi di Suez, del Kenya, della Malesia e dell’estremo oriente.

Negli ultimi due capitoli infine, viene introdotto il rapporto d’amicizia tra Inghilterra e “impero americano”, e gli effetti di questa “amicizia” nella politica internazionale e in particolare nella gestione dei conflitti moderni, fondamentalmente dal Vietnam all’Afganistan.

Consigli per il lettore

Per una buona lettura e comprensione de Il libro nero dell’Impero Britannico è raccomandabile una conoscenza, anche basilare, dell’età contemporanea e dei principali eventi storici, legati all’impero britannico. La sua natura di opera critica e revisionistica che un po’ sfida il canone classico della storiografia britannica, proponendo una storia in qualche modo parallela a quella ufficiale, rende il libro potenzialmente fuorviante, soprattutto se approcciato in maniera troppo superficiale.

Parafrasando Andrea Galeazzi, nelle sue recensioni di smartphone cinesi, il libro nero dell’impero britannico è un libro per utenti consapevoli, ma consapevoli di cosa?
Consapevoli del fatto che l’opera di Newsinger è un opera critica che va a riempire gli spazi vuoti lasciati dalla storiografia tradizionale e nel fare questo l’autore tende a dare per scontate alcune informazioni basilari, che un lettore generico non è tenuto a conoscere, un esempio di questo tipo possiamo incontrarlo nel primo capitolo, quando Newsinger critica la “propaganda imperiale” e antischiavista puntando la propria lente sulle rivolte di schiavi nelle colonie britanniche. Nel fare questo l’autore ci da uno sguardo “alternativo” e dietro le quinte, dando però per scontato che il lettore sia a conoscenza del successivo impegno britannico nella lotta al commercio degli schiavi ed il ruolo centrale avuto dall’impero britannico, agli inizi del secolo XIX nella messa al bando del commercio degli schiavi e della schiavitù in gran parte del mondo.

Consiglio di affiancare il testo di Newsinger alla lettura o rilettura di un manuale di storia contemporanea, meglio ancora se un manuale di storia dell’Impero britannico in età contemporanea. Questo perché il testo di Newsinger non è un manuale e non vuole essere un manuale. Il libro nero dell’impero britannico è una raccolta di saggi riguardanti l’impero britannico in età contemporanea e questi saggi sono accomunati dal sottile filo rosso delle politiche di “repressione” del suddetto impero britannico.

Conclusione

Il Libro nero dell’Impero Britannico di John Newsinger fornisce sicuramente uno sguardo nuovo ed interessante alla storia dell’impero britannico, racconta la storia oscura di questo impero, racconta le sue malefatte e quei momenti, quegli atteggiamenti di cui forse gli inglesi si vergognano e che forse vorrebbero cancellare dal proprio passato, ci racconta una storia che non è la storia dei vincitori e ci ricorda che la storia non è scritta dai vincitori. E’ scritta dagli storici e agli storici interessa capire più che tifare.

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