Il Codice di Hammurabi: tra i più antichi corpus di leggi | CM

Il codice di Hammurabi, tra i più antichi codici di leggi scritti conosciuti. Risale agli inizi del secondo millenni a.c.

Conosciuto come il sesto sovrano della I dinastia di Babilonia, Hammurabi regnò all’incirca dal 1792 al 1750 a.C. (salito al trono probabilmente in età adolescenziale), portando la Babilonia dell’epoca paleo-babilonese in una condizione di assoluto successo e splendore, attraverso l’unificazione di quasi tutta la bassa Mesopotamia. Fino a quel momento infatti Babilonia aveva avuto un ruolo importante, ma non sufficientemente incisivo per determinare in modo definitivo gli equilibri del Vicino Oriente. Molto scarse e altrettanto poco chiare risultano le fonti e le informazioni in nostro possesso a proposito della sua carriera politica, economica e militare, ma soprattutto della sua vita, collocabile cronologicamente tra il 1810 e il 1750 a.C. circa, in piena media età del bronzo (periodo cronologico convenzionalmente interposto tra il 2000 e il 1500 a.C.).

Il regno di Hammurabi può tuttavia essere diviso in due periodi ben distinti, suddivisi in base alla sua attività politica, economica, sociale e militare. La prima parte del suo regno risulta infatti caratterizzata da uno scarso impegno militare, sostituito da un più attivo interesse nell’economia e nell’edilizia, che lo portò a trasformare Babilonia in una magnifica capitale ricca di statue, monumenti e giardini.

Hammurabi attuò inoltre un’intensa serie di lavori pubblici per migliorare le condizioni idriche del Paese, allo scopo di agevolare sia il commercio fluviale che quello terrestre, collegando Babilonia con il mare attraverso un canale soprannominato il “canale di Hammurabi”, utile a intensificare i rapporti con più Paesi possibili del Vicino Oriente antico. Un’ulteriore caratteristica di questa prima fase è anche rappresentata da un discreto impegno religioso, che lo portò a eleggere il dio Marduk (divinità poliade di Babilonia simboleggiata da un dragone) come principale protettore del suo regno, costringendo tutti i regni vassalli a versare tributi in suo onore.

Per quanto riguarda invece la seconda parte del suo regno, nettamente differenziata rispetto alla prima, è possibile parlare di un’energica attività militare di conquista, grazie alla quale riuscì anche abilmente a sfruttare tutta una serie di alleanze che caratterizzano la strategia bellica, politica ed economica della media età del bronzo. L’ampia conquista della Mesopotamia da parte di Hammurabi comincia proprio con la conquista dell’Elam, territorio a est di Babilonia che, come l’Assiria, si era sempre distinto come uno dei vicini più invadenti e pericolosi.

Tale vittoria diede il via a una lunga serie di successi nel Vicino Oriente, come la conquista di Yamutbal, Larsa ed Eshunna, la spedizione sul Medio Eufrate e verso l’alta Mesopotamia, e infine la distruzione di Malgium e Mari, con la conseguente sconfitta di Zimri-Lim, ultimo grande sovrano di Mari con il quale fu costretto a rompere una vantaggiosa alleanza, tradendolo.

Si è dunque soliti delineare nettamente il regno di Hammurabi in due fasi ben definite, per evidenziare come il giovane sovrano appena salito al trono e gravato da numerose responsabilità abbia in un primo momento saputo agire con estrema cautela, dedicandosi maggiormente a opere difensive nei confronti della città di Babilonia, al miglioramento della qualità della vita del suo popolo e, infine, a importanti azioni liturgiche per ingraziarsi sia le divinità che gli indovini, componente particolarmente influente nella società mesopotamica. Gli dei rappresentavano inoltre una costante presenza nella vita degli uomini del Vicino Oriente, ed era compito di ogni sovrano assicurarsi la loro benevolenza e protezione, soprattutto per tutelare l’intera città. Hammurabi stava così preparando la strada e le condizioni ideali per quello che sarebbe poi stato uno dei più grandi imperi di tutto il Vicino Oriente.

Il “codice” di Hammurabi: re e legislatore

Nonostante venga ampiamente ricordato per una ricca e intensa serie di conquiste militari e alleanze politiche, oltre che per varie attività pubbliche e cittadine come precedentemente citato, ciò che maggiormente ha reso Hammurabi celebre e degno di nota è soprattutto la promulgazione di una fitta raccolta di leggi, oggi nota come il “codice” di Hammurabi, che gli conferì anche l’illustre titolo e la nomea di “sovrano legislatore” (titolo non comune tra i sovrani mesopotamici). Alcuni storici ritengono persino che si tratti del primo vero grande legislatore della Terra, ma questo rappresenta un tema ancora oggi molto dibattuto. La questione del “codice” di Hammurabi rappresenta infatti un elemento estremamente complesso e articolato, sul quale rimangono attualmente molti interrogativi.

Bisogna innanzitutto sottolineare come il termine “codice” rappresenti in realtà un’espressione anacronistica non del tutto corretta, in quanto non si tratterebbe di un vero e proprio codice di leggi, bensì di una raccolta di norme, poichè diversamente dai nostri codici di diritto, non è stato concepito in maniera sistematica al fine di disciplinare organicamente delle “materie” determinate (come penale, civile, tributario, ecc.).

Tali norme rappresenterebbero invece una serie/raccolta di modelli esemplari, senza la precisa ambizione di dover obbligatoriamente disciplinare tutti i possibili casi legislativi. Allo stesso tempo il “codice” contribuirebbe anche direttamente a celebrare l’immagine del sovrano a fini propagandistici come principale garante della giustizia per mandato divino (la stessa carica regia era frutto di un “dono”, per volere degli dei).

Come precedentemente menzionato, le norme esposte all’interno del “codice” di Hammurabi non si figuravano come vere e proprie leggi, bensì come esempi e modelli presentati sotto forma di periodi ipotetici (elemento caratteristico di quasi tutte le raccolte di leggi rivenute a proposito della Mesopotamia, così come la raccolta di Ur-Namma, sovrano sumero del periodo di Ur III). Tuttavia, talvolta le norme rappresentano anche la prassi documentata dai documenti legali dell’epoca, come atti di processi, sentenze, contratti, ecc., sebbene questi ultimi non citino mai il “codice” come fonte della norma applicata. Risulta dunque estremamente probabile che la raccolta racconti la “legge” che veniva già esercitata dalle autorità locali, suddivisa sulla base degli argomenti e della gravità dei fatti.

La struttura del “codice”

Conosciuto come uno tra i primi e più antichi codici legislativi rinvenuti nella storia mesopotamica, la fitta iscrizione in lingua accadica (paleobabilonese) del “codice” di Hammurabi risulta essere incisa su un’alta stele in basalto (225 cm x 79 cm x 47 cm).

Si tratta di un imponente monolite di più di due metri, oggi esposto al museo del Louvre, rinvenuto in uno scavo di Susa, in Persia, nel 1902 (anni di ricche scoperte archeologiche in tutto il Vicino Oriente), dove potrebbe esservi giunto come uno tra i numerosi bottini di guerra in seguito a svariati saccheggi per opera del sovrano elamita Shutruk-Nakhunte, intorno al 1155 a.C. circa. Caratteristica principale della stele è l’ottimo stato di conservazione, che ha permesso una quasi totale decrifrazione dell’intero “codice”.

Tale “codice” tuttavia risulta essere inoltre molto conosciuto anche grazie a numerosi manoscritti contemporanei o di epoca successiva alla data della sua incisione; era infatti un processo molto comune nel Vicino Oriente quello di copiare e ricopiare per secoli testi considerati dei “classici” (così come fecero secoli più avanti i monaci amanuensi medievali) per la cultura del Vicino Oriente, in quanto divenuti testi tipici della tradizione mesopotamica. Lo stesso processo fu certamente subito dal “codice” di Hammurabi, il quale, pur avendo con gli anni perduto ogni valore giuridico e legislativo, riuscì ugualmente a mantenere una forte valenza sul piano culturale e sociale, fatto che lo rese protagonista di una lunga e celebre tradizione del mondo scribale.

Per quanto riguarda la struttura del “codice” in questione, ci troviamo di fronte a un testo estremamente articolato e ben organizzato. Strutturato secondo la tipica formulazione casuistica (articolazione per periodi ipotetici), il testo del “codice” di Hammurabi è articolato secondo una triplice distinzione in un prologo di apertura delle leggi, il testo vero e proprio con tutte le 282 norme, e infine un epilogo finale per concludere il tutto. Prologo ed epilogo, sebbene non rappresentino direttamente norme o leggi come dovrebbe invece fare il “codice”, sono essenziali in quanto si occupano di presentare la figura del sovrano come devoto agli dei e come un grande conquistatore; il ruolo della giustizia appare dunque estremamente marginale in un quadro complessivo dove è invece Hammurabi l’indiscusso protagonista attento al benessere della popolazione per volere divino (scopo propagandistico).

Norme e iconografia del codice di Hammurabi

Come citato in precedenza, il “codice” di Hammurabi non rappresenta un vero e proprio codice legislativo, bensì un insieme di norme suddivise e organizzate per tematiche e reati, associati alle relative procedure da seguire in caso di crimini. Erano infatti classificabili più come modelli che come vere e proprie leggi, e la distinzione delle pene avveniva sulla base di una triplice classificazione sociale: i signori (awilum), dotati dei massimi privilegi, i cittadini comuni (mushkenum), e infine gli schiavi (wardum), considerati alla stregua di un oggetto o di una proprietà privata, e dunque esentati da ogni possibile tipologia di tutela. La pena risultava pertanto proporzionata al valore della persona che commetteva il crimine o che veniva in qualche modo danneggiata da esso.

Per quanto riguarda invece le punizioni, esse erano molto numerose e variavano in base al crimine commesso e alla persona che l’aveva commesso o ricevuto. La pena capitale era piuttosto rara e veniva applicata quasi esclusivamente in caso di omicidio o tradimento, c’erano poi svariate pene corporali attuate soprattutto sulla base della legge del taglione, molto in voga nel mondo mesopotamico così come in quello biblico, le pene pecuniarie erano invece molto frequenti e venivano inflitte multe di diversa portata in base ai reati commessi; infine, un’altra pena applicata piuttosto raramente era l’esilio. L’accertamento della verità di un crimine era poi un altro fatto molto importante da considerare, poichè, in mancanza della flagranza del reato, poteva avvenire tramite documenti scritti, testimoni, giuramenti e tramite la prova dell’ordalia (ancora utilizzata in epoca medievale e moderna).

Infine, un ultimo considerevole fattore che caratterizza la stele del “codice” di Hammurabi è rappresentato da un elaborato elemento iconografico posto sulla sommità del monolite. Si tratta di un piccolo bassorilievo finemente lavorato rappresentante il sovrano Hammurabi di fronte a Shamash, un’importante divinità del pantheon mesopotamico relativa al Sole e, appunto, alla giustizia, poichè trattandosi di un dio solare/celeste, può vedere e sapere tutto in qualsiasi momento. Hammurabi è inoltre rappresentato in un tipico atteggiamento di grande devozione nei confronti del dio, ponendo il braccio sinistro conserto e la mano destra davanti alla bocca. Tale iconografia viene rinvenuta spesso in sigilli e statue del Vicino Oriente per simboleggiare la vicinanza e il rispetto del sovrano nei confronti delle divinità.

In conclusione, sebbene il “codice” di Hammurabi rappresenti più un testo di carattere celebrativo e propagandistico nei confronti del sovrano, piuttosto che un codice dai tratti legislativi e giudiziari, esso risulta essere essenziale per tratteggiare non solo la figura di Hammurabi, ma anche l’antica concezione mesopotamica che vigeva nei riguardi della giurisdizione. Il “codice” ha inoltre consentito di analizzare una complessa stratificazione gerarchica e sociale della popolazione, oltre che un articolato sistema politico, economico e militare operato da Hammurabi durante il suo regno; si tratta di temi non indifferenti se si considera che, in seguito alla morte del sovrano, tutto ciò che era stato da lui duramente costruito entrerà in crisi, non essendo i suoi successori più in grado di controllare stabilmente un impero esteso dal Golfo Persico fino all’alta Mesopotamia. Il “codice” risulterebbe dunque essere una diretta testimonianza di una delle più grandi fasi a cui abbia assistito l’impero babilonese.

Consigli di lettura

Hartmut Schmokel – Hammurabi di Babibonia. Dalla politica espansionistica alla riforma giuridica

Esportare Oligarchie: la Colonizzazione della Grecia Arcaica

Aristotele nella Politica mette in relazione la colonizzazione arcaica con lo sviluppo di oligarchie territoriali e con le dinamiche (o lotte) di classe. Ha ragione? Si tratta di una testimonianza attendibile? Per affrontare questo problema dobbiamo fare un passo indietro e ripercorrere le tappe fondamentali della colonizzazione arcaica.

Tra l’VIII e il VI secolo a.C. i Greci si sono spostati in terre abitate da popolazioni “barbare” e vi hanno fondato delle città (o poleis) del tutto simili alle metropoleis di provenienza, ma da esse indipendenti (Finley 1976; Lepore 1978 e 1981). Sappiamo che avevano un termine specifico per connotare questo fenomeno: apoikía, che significa letteralmente lontano da casa. Si può dunque facilmente intuire come la fondazione di una città lontano da casa abbia ben poco in comune, istituzionalmente parlando, con il concetto di colonia (e colonialismo). Con colonialismo si intende la fase moderna della colonizzazione, un fenomeno che conosciamo a partire dal Quindicesimo secolo, e che è connesso alla creazione di un vero e proprio sistema coloniale, del tutto dipendente e in certo modo funzionale a una divisione internazionale del lavoro e allo sfruttamento intensivo delle risorse naturali.

Oggi vorrei fare qualche riflessione sulla colonizzazione arcaica non solo per rimarcarne le differenze rispetto ai movimenti moderni, che in questa sede rimarranno sullo sfondo, ma per rendere esplicita una caratteristica del mondo arcaico o, almeno, del modo di intendere e di vivere l’esportazione di usi, costumi e leggi: il conservatorismo. Cosa si intende per colonizzazione arcaica? Con questo termine si indica lo spostamento, anche non coordinato e non “in massa”, di uno o più ecisti o fondatori (oikistés in greco antico significa fondatore) con l’obiettivo di organizzare una nuova città che doveva avere delle caratteristiche particolari.

Tutte le nuove città erano infatti associate alla città-madre, o metrópolis, nel senso che quest’ultima si occupava dei preparativi della spedizione e della nomina dell’ecista, una figura chiave poiché aveva il compito di organizzare la comunità, di istituire i culti e le leggi, di spartire il territorio organizzando gli spazi cittadini. E non faceva questo di sua iniziativa personale ma utilizzando come modello gli usi, costumi e le leggi della città-madre. La madrepatria restava quindi un punto di riferimento anche per la fondazione delle sub-colonie, ma le relazioni finivano qui: etimologicamente apoikía implica distacco e spesso ai “coloni” era perfino preclusa la possibilità di tornare a casa!

Ad un conservatorismo istituzionale e culturale corrisponde (o sembra corrispondere, dai documenti che abbiamo) un’indipendenza economica solo relativa. Se proprio volessimo trovare delle analogie con qualche esperienza moderna, dovremmo fare appello al sistema coloniale britannico, “l’unico che sviluppò contemporaneamente tutti i tipi di colonizzazione (dalla colonia commerciale a quella di piantagione, fino a quella penale) produsse anche una colonia di insediamento, formata in terra vergine a liberi agricoltori. Questo modello di colonizzazione moderna è l’unico che si possa avvicinare a quello di certe fondazioni greche in territorio non greco, salva restando la ovvia differenza dei rapporti di produzione esportati”, (Federica Cordano, Antiche Fondazioni Greche, p.16).

La colonizzazione greca ha dunque delle caratteristiche peculiari che affondano le radici nei processi di formazione della polis, che la differenziano non solo dalle esperienze europee in epoca moderna, in cui esiste un complesso rapporto di dipendenza istituzionale, sociale, culturale ed economico con la madrepatria, ma anche con le precedenti esperienze vissute nella storia della Grecia arcaica. Sto pensando al passaggio in Asia Minore degli Ioni e degli Eoli e ai contatti micenei stabiliti nel II millennio.

Come sottolinea molto bene Federica Cordano, anche se le fonti antiche definiscono queste esperienze come esempi di colonizzazione, il termine va inteso cum grano salis: questi spostamenti rispondono a tutt’altra logica e appartengono a un periodo in cui la Grecia era teatro di migrazioni, non di spostamenti esplicitamente finalizzati alla fondazione di una polis (che nemmeno esisteva istituzionalmente parlando, visto che la Grecia non era ancora Hellás, ossia un insieme di città-stato in grado di “esportare” le istituzioni politiche tipiche di questa forma di aggregazione sociale).

Le città della Ionia e dell’Eolide, concepite (come abbiamo accennato) comunque come apoikíai, in quanto la tradizione posteriore non ha saputo interpretare gli spostamenti in massa se non in questi termini, nascono dalla dissoluzione del mondo miceneo e il loro sviluppo si deve a presupposti etnici e ad ecisti mitici. Tra queste due esperienze, impropriamente designate con lo stesso termine, si colloca infatti il cosiddetto rinascimento greco, un processo che conduce la Grecia ad uscire da un’età buia e che è ben attestato nelle pagine di Esiodo (e dalla documentazione archeologica tra il IX e l’VIII secolo).

Moses I. Finley ha tracciato uno schema dei tipi di colonie antiche partendo dall’analisi della terminologia coloniale inglese e francese per mettere in guardia dalle facili sovrapposizioni. Ettore Lepore ha ripreso il discorso ampliando l’esame della bibliografia specifica. Egli mette in particolare rilievo come le interpretazioni modernistiche della colonizzazione greca abbiano ‘viziato il dibattito sulle sue cause anche in avvedute e acute analisi’ conducendo alla schematica divisione in colonie agrarie e colonie commerciali, divisione che si trova anche nei fondamentali studi sulla colonizzazione greca di Dunbabin e Bérard e, diversamente rielaborata, di Cl. Mossé. L’aver preso in prestito il vocabolo colonia ha trascinato con sé tutta la terminologia coloniale. […] Questa terminologia non è stata adottata solo per ragioni di comodo, ma perché l’interesse espresso dagli storici moderni per la colonizzazione greca non è mai completamente disgiunto da quello per la colonizzazione moderna ed europea. Questo è avvenuto soprattutto nei secoli passati e nella prima metà del nostro”, (Federica Cordano, Antiche Fondazioni Greche, p.16).

Una principessa micenea.

La colonizzazione in Sicilia: un esempio conservatore? Le fondazioni siciliane sono solo uno dei numerosi esempi che potremmo fare per mostrare come i nuovi insediamenti non erano intesi come luoghi in cui costruire un nuovo modello di società ed eventualmente migliorare le istituzioni vigenti nelle metropoleis, ma erano vissute come “copie” delle poleis da cui provenivano i fondatori. Probabilmente non poteva andare diversamente, visto che si era appena innescato il processo di recupero e revisione delle legislazioni, le strutture familiari e sociali si stavano consolidando e siamo ancora lontani dal periodo classico, da ciò che accadrà tra V e IV secolo. Detto ciò, è interessante riflettere sulle letture filosofiche che vennero date di questo fenomeno proprio nel periodo classico.

L’analisi delle fonti provenienti dalla riflessione filosofica sembra deporre in favore della necessità del processo di colonizzazione e del conservatorismo nella gestione delle nuove città. Nelle Leggi Platone afferma chiaramente che si possono ottenere coloni da fenomeni di sovrappopolazione, ossia in quei casi in cui le terre e le derrate alimentari si rivelano insufficienti per il sostentamento degli abitanti della regione (707e). Precisa, in seguito, che a causa delle lotte civili può accadere che un intero partito sia costretto all’esilio e che, nei casi più estremi, un’intera popolazione sia costretta a spostarsi a causa di rivolgimenti sociali o peggio a causa di una guerra (708b). Il concetto è chiaro: una colonia viene fondata per necessita, non perché dietro vi sia un preciso progetto politico o sociale.

Come ho accennato all’inizio, Aristotele sembra andare addirittura oltre. L’idea platonica viene infatti in qualche misura assolutizzata, se si leggono alcuni passi della Politica in cui si parla dell’esigenza di limitare il numero dei cittadini (1265a e 1326b), di controllare le nascite (1265b, 1266b, 1270b) e di mantenere fisso il numero dei lotti familiari anche tramite le adozioni (1274a-b). Infine, e qui Aristotele è molto chiaro, è proibito alienare la proprietà terriera (1265b-1266b, 1270a, 1319a).

Tutte queste istanze sono evidenti nell’intero processo di colonizzazione, in particolare nelle colonie calcidesi che diedero vita a Zancle (Messina) che fondò Mylai (Milazzo) e Imera per motivi strettamente commerciali, Reggio, Nasso (734), Leontini e Catania (728). La struttura politica delle colonie calcidesi riprende quella della madrepatria: Calcide ed Eretria avevano infatti elaborato un sistema oligarchico fondato su criteri aristocratici e censitari, basato sui privilegi di nascita e ricchezza. Ed è proprio Aristotele a porre in contemporaneità questi regimi con la colonizzazione arcaica e, quindi, ad indicare nelle dinamiche di classe il motore di questo processo, che diventerebbe la via di fuga privilegiata per coloro che non trovavano in patria possibilità di successo. Oligarchia e mobilità economica sembrano quindi i suoi ingredienti essenziali.

Nell’immagine vediamo le colonie in Magna Grecia e in Sicilia. Le fondazioni campane, lucane e della Sicilia nordorientali sono ioniche, quelle pugliesi e della Sicilia meridionale sono invece doriche; le restanti fondazioni sono di coloni greci provenienti dall’Acaia. (CC BY-SA 4.0).

E questo può aiutarci a sfatare qualche mito in merito alle cause della colonizzazione arcaica. È importante a questo punto non farsi fuorviare e non cadere nella trappola del dibattito tra motivazioni commerciali, agricole e o di popolamento. È del tutto legittimo interrogarsi sulle cause della colonizzazione arcaica e sul suo significato; illegittimo è invece usare idee, concetti moderni e trovare una risposta nella loro retroazione acritica.

È naturale che chi si allontana dalla propria patria lo fa anche (e forse soprattutto) per cercare terre fertili e per fare fortuna; ciò rientra nella specificità dell’economia antica che, pur conoscendo le dinamiche introdotte dalle attività commerciali e artigianali, resta essenzialmente legata all’agricoltura. Motivazioni più evidenti sono di natura politico-religiosa, come mostra bene Aristotele. Ragioni demografiche e territoriali, accompagnate da discriminazioni sociali e religiose, portano a uno scontro tra chi non ha il pieno possesso dei diritti politici e le ristrette oligarchie conservatrici.

Concludo con un chiaro esempio di conservatorismo istituzionale. Basti pensare alle legislazioni antiche. Si tratta di una vera e propria “esportazione” di usi, costumi, tradizioni e leggi già in vigore nella madrepatria. Le figure di riferimento sono in bilico tra la storia e il mito: Zaleuco di Locri Epizefiri (il nome significa bianco splendente) secondo la tradizione era monocolo e viene descritto con tutte le caratteristiche tipiche delle divinità solari. Molti sono infatti i dubbi sulla sua reale esistenza (e non ce ne meravigliamo). La legge del taglione e le pene capitali per il furto vengono di solito attribuite a lui o, meglio alle tradizioni diffuse in quel periodo.

Con Caronda di Catania il discorso è simile. Invece a Draconte (il cui nome significa serpente, l’animale sacro ad Atena) si devono le leggi scritte addirittura col sangue. Ma qui il punto importante è che siamo nel 621/620 e che Solone nel 594 conservò la parte relativa agli omicidi, che costituisce un notevole passo avanti verso l’affermazione del potere dello Stato. L’iniziativa dell’azione penale è in capo alla famiglia, ma è il legislatore che stabilisce tempi, modi e limiti della punizione. Distinguendo, poi, tra delitto volontario, preterintenzionale e giustificato si supera l’idea dell’oggettività della colpa e si prende in considerazione la soggettività del colpevole. Poco ci importa dunque se sia stato Draconte o meno; il punto importante è l’atteggiamento conservatore nella fondazione delle “colonie” greche. Il tutto per dire che la testimonianza di Aristotele mi sembra abbastanza attendibile.

Bibliografia e Fonti:
Platone, Le Leggi, BUR.

Aristotele, Politica, Laterza.

F. Cordano, Antiche Fondazioni Greche, Sellerio.

M. I. Finley, Colonies. An Attempt at a Typology, “Transaction of the Royal Historical Society”, 1976/26, pp. 166-188.

E. Lepore, La fioritura delle aristocrazie e la nascita della polis, “Storia e Civiltà dei Greci”, 1978/1, pp. 183-253.

E. Lepore, I Greci in Italia, “Storia della Società Italiana I. Dalla Preistoria all’Espansione di Roma”, 1981/1, pp. 213-268.

C. Mossé, La colonisation das l’antiquité, Paris, 1970.

D. Musti, L’economia in Grecia, Laterza.

C. Bearzot, Manuale di storia greca, Il Mulino.

L. Braccesi, F. Raviola, Guida allo studio della storia greca, Laterza.

D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Laterza.

 

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