Il Sultanato delle donne || Kadinlar saltanati

Con il termine turco “Kadınlar Saltanatı” (Sultanato delle donne), si indica un periodo dell’impero ottomano durato circa 130 anni, tra il sedicesimo ed il diciassettesimo secolo , nel quale le donne del Harem Imperiale del dell’Impero Ottomano esercitato straordinaria influenza politica su questioni di stato, spesso avendo più potere dello stesso imperatore/sultano ottomano.
Molti dei sultani che regnarono in questo periodo erano minorenni e l’amministrazione politica effettiva, fu gestita dalle ed era loro madri, Valide Sultani, o dalle loro mogli, Haseki Sultan.

Nell’immaginario collettivo l’harem, termine derivante dalla parola harim, luogo proibito, era una gabbia dorata dove vi erano segregate donne bellissime alla completa mercé del sultano dell’impero ottomano; un luogo misterioso che nelle leggende veniva descritto come un teatro di lussuria. La realtà era ben diversa, l’harem ottomano, che si trovava fra le stanze del sultano e quello del capo degli eunuchi neri, era una vera e propria corte il cui centro erano gli appartamenti privati della Validé Sultan, la madre del sultano regnante, quella che in occidente viene identificata come la regina madre; l’harem aveva delle regole ben precise che con l’andare del tempo si irrigidirono sempre più.

La storia di questo luogo comincia quando con l’avvento al trono di Maometto il Conquistatore i matrimoni cessarono di essere celebrati e venne creato l’harem imperiale nella quale il sultano poteva scegliere tra le schiave che giungevano da ogni parte del mondo; le giovani arrivate a palazzo venivano educate, alcune di loro divenivano cameriere (kalfa) che servivano la Validè e il sultano altre invece, per la loro bellezza erano messe a disposizione del sovrano. La legge coranica permetteva al re di avere quattro donne (kadin o hatun) oltre che a una favorita e a volte più di una. Coloro che davano un figlio al sultano venivano chiamate Haseki Sultan (Sultan era il titolo che portavano anche le principesse della casa imperiale ottomana come Mihrimah Sultan, figlia di Solimano il Magnifico e della consorte Hürrem Sultan); la legge regolava anche le notti che il sovrano doveva passare con ognuna delle sue consorti ed era severamente vietato che ve ne fossero due nel letto del re; era anche falsa la leggenda che la donna dovesse entrare nel letto dell’uomo strisciando dal fondo; la notizia arriva direttamente dalla parole scritte dalla sultana Hafiza, vedova di Mustafà II:

«L’affermazione che il sultano getta un fazzoletto alla giovane che preferisce è del tutto falsa. Il sultano chiede al capo degli eunuchi neri di chiamare la donna destinata, che le cameriere conducono al bagno, profumano e acconciano elegantemente con abiti adatti alla circostanza. Il sultano manda poi un dono alla ragazza, e poi va nella sua stanza. Non vi è nulla di vero neppure nell’affermazione che la donna va strisciando fino al letto del sultano»

L’harem rimase comunque un simbolo di segregazione delle donne; poteva forse andare meglio a coloro di quelle che erano più vicine al sultano. Vi fu un periodo preciso nella storia dell’impero ottomano in cui le donne furono particolarmente influenti negli affari di stato vuoi perché il sultano era un debosciato o perché ancora minorenne, sta di fatto che per un secolo nel bene e nel male le Haseki e le Validè controllarono il governo di Istanbul. Questo lasso di tempo inspiegabilmente coincise con i regni e le reggenze di Caterina e Maria de Medici in Francia, Maria Stuart, Maria I e Elisabetta II in Inghilterra; viene chiamato il Sultanato delle donne e in genere lo si fa incominciare da quando Alexandra Lisowska passata alla storia come Hürrem Sultan meglio nota come Roxelana riuscì a farsi sposare da Solimano il Magnifico.
Roxelana non fu solo una concubina del sultano, ma fu la donna che riuscì a spezzare la tradizione per cui il sovrano non contraeva matrimonio; divenne moglie di Solimano il Magnifico e lo affiancò negli affari di stato e cercò di preservare il potere in ogni modo possibile; arrivò anche a far giustiziare persone che la ostacolavano tra cui l’amico, cognato del sovrano il gran visir Ibrahim (1536) e Mustafa il primogenito di Solimano che egli ebbe da Mahidevran Sultan, e che sarebbe dovuto essere il successore del padishà.

Hürrem non ebbe mai il totale controllo perché per sua sfortuna ella premorì (1558) al figlio Selim II che successe al padre nel 1566; per questo non ebbe mai il titolo di Validè Sultan. La prima Validè considerata fu la madre di Solimano il Magnifico, Ayse Hafsa Sultan e dopo di lei il titolo passò alla nipote Mihrimah Sultan, figlia di Hürrem e Solimano. Tra il 1566 e il 1578 fu Mihrimah a governare in quanto il fratello ormai sultano si estraniò del tutto dagli affari di stato dedicandosi ai piaceri della vita; nel 1574 Selim II morì e fino al 1578 vi fu una coreggenza di due Validè per il nuovo sultano Murad III. Erano rispettivamente la zia e la madre del giovane sovrano Mihrimah Sultan e Nur Banu Sultan. Ella era verosimilmente un’ebrea e divenne moglie di Selim II quando questi era ancora un principe nel 1545 e diede al marito almeno dieci figli.

Dopo la morte del marito Nur Banu richiamò in fretta il figlio Murad a Istanbul per la successione; era pratica comune nell’impero ottomano che la successione avveniva nominando sultano il membro maschile della famiglia reale più anziano. I sultani per evitare che ciò avvenisse una volta assisi in trono si premuravano di eliminare possibili rivali o pretendenti al trono; in nome della “ragion di stato” il sovrano eliminava tutti i suoi fratelli. E così fece Murad III e subito dopo il figlio Mehmed. A rompere la tradizione come si vedrà sarà Ahmed che risparmierà il suo giovane fratello Mustafa.

Già dal 1565 per Nur Banu si era presentata una rivale, la moglie legale di suo figlio, la giovane Safiyye Sultan con molta probabilità da identificate con la veneziana Cecilia Venier Baffo figlia del prefetto di Corfù, che venne rapita dai tartari per giungere poi nell’harem imperiale.
Nonostante Murad III rimase fedele per molti anni a Safiyye fu costretto per questione dinastica a giacere con altre donne; si dice che alla fine della sua vita il sultano avesse 32 figli.

Dopo la sua morte avvenuta nel 1595 Safiyye tenne nascosta la notizia per qualche giorno per permettere al figlio di raggiungere Istanbul da Manisa dove esercitava la carica di governatore; Mehemed una volta giunto a palazzo fece assassinare i suoi diciannove fratelli e poi diede inizio alle esequie del padre. Nur Banu ormai era morta (1583) e così fu Safiyye Sultan a divenire la nuova Validè; con il figlio adottò la stessa politica che usò con il marito circondandolo di stravizi tanto che il giovane sovrano si disinteressò della politica. I suoi otto anni di regno furono difficili da seguire, ci fu un via vai di nomine e di destituzioni dei ministri a seconda del volere della Validè che si inimicò molte persone. Come suo figlio anche la sua favorita Handan Sultan non ebbe mai alcun potere di sorta; una cambiamento avvenne con la morte di Mehmed III, nel 1603, lasciando il trono al figlio quattordicenne Ahmed I. La prima cosa che fece il giovane sovrano fu quello di ordinare il trasferimento di tutte le donne del padre e della stessa Safiyye nel vecchio palazzo, dove l’anziana sultana morì l’anno successivo; ella non venne compianta, odiata dal popolo, dall’esercito e anche dai Genovesi abitanti in un quartiere di Istanbul, oppressi dalle preferenze per i Veneziani.
Al contrario dei suoi predecessori il nuovo sultano, Ahmed I, non mise a morte il fratello Mustafà, che il padre concepì con un’altra donna, Halime Sultan, in quanto il ragazzo aveva seri problemi psicologici. La nuova Validè, Handan Sultan, fu un personaggio poco significativo, forse anche perché morì presto, nel 1605.

Ahmed I ebbe solo tre consorti: Hadice Mah-firuz, da cui ebbe Osman II, Fatma Haseki, citata in pochissimi documenti e Kösem Mahpeyker, della cui progenie fanno parte i sultani Murad IV e Ibrahim I; viene ricordato come un uomo pio che fece erigere numerosi enti religiosi. Morì a 27 anni nel 1617, e il trono passò al figlio maggiore Osman. Dopo la morte di Handan Sultan il ruolo della Validè rimase vacante fino a quando il nuovo sultano si insediò sul trono; Mah-firuz Sultan non entrò a pieno nel nuovo ruolo in quanto morì nel 1620 poco dopo l’ascesa al trono del figlio Osman II.
La situazione però cambiò prontamente, la favorita del defunto Ahmed I, Kösem Sultan, grazie all’aiuto dei ministri riuscì a detronizzare il figliastro e a porre sul trono il giovane cognato Mustafà I, facendo entrare così in vigore la legge del maggiorascato, ciò l’usanza di eleggere sovrano il membro maschile più anziano della famiglia reale.

Il sultano essendo ancora nella minore età, subì la reggenza della madre Halime Sultan, consorte di Mehemed III e zia di Hadice Mah-firuz; per la prima volta nella storia dell’impero si aveva una reggenza da parte di una donna (naibe-i saltanat).

Madre e figlio impreparati per governare un impero furono manovrati dai funzionari di governo e tre mesi più tardi vennero deposti dal nipote Osman II che rientrò a pieno titolo a governare l’impero. Mustafà e sua madre vennero rinchiusi nel kafes dell’harem; in principio il sultano cercò di accattivarsi i giannizzeri che in un secondo momento fece allontanare da Istanbul; questi prepararono un colpo di stato al palazzo Topkapı e reintegrarono Mustafà I come padishà. La madre Halime rientrò in possesso del titolo di Validè e nominò gran visir Kara Davud Pascià, che catturò Osman II, rinchiusosi in un padiglione di caccia, e lo fece assassinare. Fu il primo sultano turco vittima di una congiura ordita dai suoi sudditi. Il regno di Mustafà anche nel suo secondo mandato fu breve: una anno e sei mesi, dopodiché Kösem Sultan, nel 1623, depose il giovane sovrano e pose sul trono il figlio Murad IV; essendo il figlio ancora minorenne ciò permise a Kösem di esercitare la reggenza per nove anni, fino a quando nel 1632 divenuto maggiorenne Murad cercò di sottrarsi al giogo della madre. Fece rinchiudere i suoi fratelli nel kafes, rapì la moglie di un funzionario per poterlo ricattare e poi quando ritenne di aver raggiunto abbastanza potere cercò di fa fronte alla Validè; questa in seguito cercò di riconciliarsi al figlio, ma nel mentre cominciò a riversare le sue speranze sull’ultimogenito Bayezìd, figlio di Hadice Mah-firuz. Il ragazzo vinse il fratello in un torneo e il sovrano che già lo odiava lo spedì insieme ad un altro fratello, Süleyman al fronte persiano, e qui li fece eliminare. Stessa sorte toccò ad un altro fratello Kasim, assassinato nel 1635; la Validè riuscì a salvare l’ultimo figlio, Ibrahim, che non destò nel sultano alcun tipo di attenzione essendo il ragazzo di indole quieta e semplice.

Murad IV viene ricordato come un grande sultano ma allo stesso tempo un folle, il fatto che tutti i suoi figli erano morti in giovane età, può aver contribuito alla progressiva devianza psichica che si manifestò nel sovrano durante i suoi ultimi anni di vita. Come il padre egli morì a 27 anni nel 1640.
Dopo la morte del figlio Kösem si diresse immediatamente nel kafes dove era tenuto Ibrahim per designarlo nuovo sultano dell’impero ottomano; nei primi anni di regno il giovane si dimostrò buon governante, ma a poco a poco cominciò a manifestare segni di squilibrio e forti depressioni. Ciò probabilmente era anche dovuto al periodo di prigionia nel kafes, la continua paura di attentati e la precaria vita condotta all’ombra dei capricci del fratello, minarono la sua salute mentale.

La Validè si circondò di persone che si arricchirono grazie alle concussioni, ella si preoccupava di accumulare ingenti ricchezze, ma nonostante questo non venne mai giudicata una persona avara: ogni anno visitava le prigioni, pagava le insolvenze dei debitori, regalava corredi di nozze alle ragazze povere che le venivano segnalate e concedeva rendite a orfani e vedove indigenti. Ibrahim I, fu chiamato in seguito il «Pazzo», si disinteressò della politica per dedicarsi ai piaceri e alle follie; nell’harem aveva più consorti: Hatice Turhàn Sultan, madre di Mehemd IV, Sàliha Dilàşùb, madre di Süleyman, Hatice Mu’azzez II, madre di Ahmed, Hümaşah Sultan, detta Telli Haseki, di cui il sultano era talmente innamorato che la sposò legalmente; ciò però non limitava i suoi amplessi, per suo capriccio fece cercare la donna più grassa in Europa, Şivekar Sultan.

Tutto ciò che le sue favorite chiedevano al sultano, egli le accontentava, ma ciò non bastava, le sue consorti credendo che a loro fosse tutto dovuto, giunsero a farsi servire dalle principesse e a rigettare l’obbedienza alla Validè; Kösem Sultan cercò di arginare la negligenza del figlio e per questo fu confinata nella palazzina Iskandar Çelebi a Florya. La situazione andava via via peggiorando, il gran visir Damad Pascià sapeva come tenere sotto il suo giogo il sultano nascondendo la verità sul reale stato del paese e arrivando a legarsi al sovrano attraverso il matrimonio di una delle figlie di questo con il suo favorito Baki Bey. Dopodiché il visir fece firmare a Ibrahim I l’atto per incarcerare il comandante dei giannizzeri; questi in un’assemblea destituirono il sultano che si era rinchiuso nel Palazzo reale minacciando di uccidere i suoi figli.

La Validè venne richiamata dall’esilio, ratificò la destituzione del figlio, ma si rifiutò di dare il suo benestare alla sua esecuzione; il sultano dopo essere stato rinchiuso in un padiglione venne strangolato dai giannizzeri. Dopo la morte di Ibrahim I il suo diretto successore fu il piccolo Mehmed IV figlio di Hatice Turhàn Sultan; di fatto la reggenza venne retta da Kösem Sultan anche se di fatto la Validè era ora la madre del nuovo sultano. La situazione però non migliora, con il passare del tempo all’interno del Palazzo si formano due fazioni alla cui testa vi sono da una parte l’anziana Validè Kösem Mahpeyker e dall’altra la Validè Turhàn Sultan vedova di Ibrahim I; la situazione degenera quando l’anziana reggente decide di destituire il giovane nipote in favore di un altro Süleyman figlio di Sàliha Dilàşùb, un’altra delle consorti di Ibrahim I. Lasciata aperta la porta che collegava gli appartamenti imperiali e il quartiere dei giannizzeri questi si precipitano all’interno per assassinare Mehmet IV, ma la Validè Turhàn avvertita del colpo di stato riuscì ad armare gli eunuchi bianchi piazzati davanti alla camera del sultano.

Dopo il bagno di sangue, gli uomini della giovane Validè hanno la meglio e si precipitano a prendere Kösem che si era rinchiusa in un armadio, ma tradita da un lembo del suo vestito viene trovata, tirata fuori e alla fine dopo molte suppliche all’età di sessantadue anni viene strangolata. Era il 2 settembre 1651; il suo appartamento venne saccheggiato e poi messo a fuoco, il suo corpo trascinato al Vecchio Palazzo rimane esposto per tre giorni per poi essere sepolta vicino al marito il sultano Ahmed I.
Dopo trent’anni di potere di Kösem Sultan, la reggenza passò ufficialmente a Turhàn Sultan; ella era di origine ucraina, nata probabilmente col nome di Nadia, venne rapita dalla propria patria dai tartari e donata alla Validè Kösem che la fece istruire dalla figlia Atike Sultan; venne descritta alta, con occhi azzurri e capelli d’oro. Subito attirò l’attenzione di Ibrahim I da cui subito ebbe un figlio per essere poi mandata insieme a lui nel palazzo di Edirne.

Il periodo di reggenza della nuova Validè non fu sempre agevole dovette affrontare numerose difficoltà causate dal malgoverno degli ultimi anni di reggenza della Validè Kösem; poco a poco Turhàn cominciò a dedicarsi solo alle opere di carità e culturali. Morirà nel 1683 dopo 32 anni nella carica di Validè, il periodo più lungo di tutte le regine madri; si impegnò strenuamente per sistemare i problemi nell’impero ottomano. Il figlio, il sultano Mehmet IV sopravvisse alla madre per dieci anni, venne destituito nel 1687 e si ritirò a Edirne dove morì nel 1693. Dal 1687 al 1695 sul trono ottomano subentrarono altri due figli di Ibrahim I Süleyman III la cui Validè era la madre Sàliha Dilàşùb e Ahmed II la cui madre Hadice Mu’azzez II non fu Validè perché morì nel 1687 prima che il figlio giungesse al trono.

Con la morte di Turhàn Sultan si chiude il periodo denominato “Il Sultanato delle donne”, in cui le donne della famiglia imperiale hanno retto le sorti dell’impero; ci saranno ancora le Validè ma non avranno più voce in capitolo nella vita politica dello stato.

Bibliografia :

Saredegna e Mediterraneo in età matriarcale

Le origini del nostro matriarcato vanno ricercate in Sardegna, culla della più antica civiltà italiana. La crearono alcuni “popoli del mare” pelasgici provenienti dall’Asia, dall’area egeo-cretese, dal Tassili africano, dall’Iberia e dalla Celtia. Essi furono costretti ad emigrare dai vari epicentri territoriali per varie cause, ormai accertate dalle ricerche scientifiche e dalle rilevazioni satellitari: disastri naturali (tra cui il biblico diluvio universale, generato dall’onda d’urto di un asteroide che si abbattè sulla terra, il terremoto/maremoto che sconvolse l’area minoica, e la desertificazione sahariana) e le aggressioni delle prime orde patriarcali indoeuropee. Si tratta di quei mitici “giganti” (la parola viene dal greco e significa “figli della Madre Terra) che si dispersero nel Mediterraneo diffondendovi il culto della terra e delle acque, il megalitismo, la metallurgia e la cultura matrilineare. “Due popoli, discendenti degli antichi giganti, vennero ad occupare in epoche diverse le regioni fertili, ospitali e ancora poco abitate della penisola italiana: i Sardi e poi gli Etruschi“. La grandezza (1900 km. di coste), la centralità e la difendibilità della Sardegna ne fecero in epoca post-diluviana un rifugio privilegiato. Dalla miscela etnica sarda si sviluppò una civiltà propulsiva, tutt’altro che chiusa:

“dall’isola salparono navi che, per prime, crearono una rete di comunicazioni con la penisola, portandovi tecniche avanzate, arti, conoscenze e una visione magica e metafisica della vita”.

La civiltà matriarcale ha avuto in terra sarda uno sviluppo e una persistenza eccezionali, ancora scarsamente conosciuti. I ritrovamenti archeologici, relativamente recenti, ne hanno messa in evidenza la sorprendente dimensione soprattutto nel Neolitico e nell’Eneolitico (6.000 – 1.500 a.C). Tuttavia la sacralità del principio femminile si è conservata anche nei periodi successivi. Durante l’età fenicia si è intrecciata al culto della dea Tanit e, durante la colonizzazione punico-romana, al culto di Demetra/Cerere. Inoltre, malgrado le persecuzioni dell’integralismo cristiano, è stata tramandata fino alle soglie dell’età cosiddetta moderna da una magica rete di donni di fuora che, soprattutto nelle zone interne, hanno contribuito al fenomeno antropologico del “matriarcato barbaricino”.

Ne ho ripercorso le tracce insieme a Petra Bialas, che da anni si ispira nelle sue ceramiche e sculture alle raffigurazioni delle dee pre-patriarcali; e che è stata una compagna ideale in un suggestivo viaggio-pellegrinaggio tra mare e monti, villaggi neolitici abbandonati, remoti santuari, musei, pozzi sacri, necropoli, nuraghi e luoghi carichi di energie psicofisiche. Queste tracce, del resto, non sono difficili da trovare: sono quasi ovunque, numerosissime e abbastanza intatte. I siti preistorici anteriori alla fase nuragica sinora scoperti sono oltre 120 e si condensano prevalentemente sul lato ovest e nel centro dell’isola, tranne quelli di Orgosolo, Oliena, Dorgali, Baunei e San Vito, ubicati a est. Sono caratterizzati dal megalitismo: dolmen, circoli di grandi pietre, betili e menhir con i seni, con dee graffite, con doppie spirali. Ma anche da insediamenti in superficie o necropoli ipogeiche scavati nella roccia calcarea: le domus de Janas, o “case delle fate”. Esse variano dalle piccole domus isolate, simili aille cavità naturali dei “tafoni” scolpiti dal vento, alle decine di ambienti decorati delle necropoli di Su Crucifissu Mannu, S.Andrea Priu di Bonorva (III millennio a.C.), o Anghelu Ruju presso Alghero. I rilievi planimetrici degli ipogei mostrano che essi hanno una forma a utero, a uovo o a corpo di dea.

La parola Jana è comune in tutto il Mediterraneo; è la dea Jaune nei paesi Baschi, l’etrusca Uni, le romane Juno e Diana, la cretese Iune, la Ioni asiatica. In molte domus de Janas del V e IV millennio a.C., ma anche altrove, sono state trovate in grandi quantità statuine di divinità femminili in argilla, alabastro, calcarenite, caolinite, marmo, osso o arenaria quarzosa. Le più antiche sono quelle tondeggianti della cultura di Bonu Ighinu (Mara), di Su Cungiau de Marcu (Decimoputzu), Cuccurru S’Arriu (Cabras), Su Anzu (Narbolia) e Polu (Meana Sardo). La statuetta stetopigia di S’Adde (Macomer) è simile agli idoli ritrovati in Anatolia e nel nord Europa. Nella cultura di Ozieri del IV millennio a.C. le figure diventano piatte e stilizzate in forma di T, con la parte inferiore a cono. Tra le dee soprannominate “cicladiche” per la loro impressionante somiglianza con altre rinvenute nelle isole Cicladi, spicca la grande immagine della “Signora Bianca” di Turrigu, Senorbì. Suggestiva e poetica è la semplicità delle dee “a traforo”, ricavate da sottili lastrine marmoree. Moltissime le dee con le braccia aperte a croce, fino alla minuscola dea-uccello di mezzo centimetro recuperata a Ploaghe, esposta nel Museo Sanna di Sassari dietro ad una grossa lente di ingrandimento. Le affinità con analoghi reperti in altri luoghi distanti migliaia di chilometri dimostrano che la cultura matriarcale era basata su un linguaggio omogeneo diffuso in tutto il mondo, come ha affermato l’archeologa Marija Gimbutas.

La manifattura di queste dee prosegue per tutta l’età del rame, su preziose lamine dorate. E continuerà nell’espressione simbolica, sia pure de-contestualizzata, attraverso i secoli. In filo diretto con il Neolitico, esistono ancora oggi persone, in Barbagia, che mettono nella bara dei congiunti morti sa pipiedda o sa pizzinedda, una piccola dea confezionata con la tela bianca o con la cera. Oppure, anche in altre zone, è abituale l’usanza di intrecciare con striscioline di foglie di palma sa mura, ovvero la Moira, la dea che decreta il destino, per regalarla durante la Domenica delle Palme.

Il culto della Grande Madre è protagonista anche in un singolare episodio del megalitismo sardo: il santuario preistorico di Monte d’Accoddi presso Porto Torres (2.700 a.C.), una piramide a ziggurath che avvalora in modo inequivocabile l’ipotesi della matrice etnica orientale. Altri sorprendenti risultati della “strana barbarie sarda” (Deledda) sono le Tombe dei Giganti, costruite con enormi lastre di pietra disposte a semicerchio secondo un preciso schema di riferimento astronomico, e collegate con un lungo corpo a galleria retrostante. Bio-architetture con un isolamento a intercapedine, erano orientate verso la Croce del Sud (allora visibile anche dall’emisfero boreale) ed erette in corrispondenza di falde acquifere e di forti flussi magnetici; la stele verticale d’ingresso è conficcata nel punto di maggiore potenza. Venivano utilizzate a scopo terapeutico con il procedimento dell’incubazione: chi era afflitto da epilessia, disturbi del sistema nervoso e traumi psichici vi dormiva per cinque giorni e guariva con una vera e propria cura del sonno, indotto dalle sacerdotesse con particolari sostanze soporifere e con sistemi ipnotici.

Affascinanti produzioni dell’architettura megalitica sono i pozzi sacri, come quello di Santa Cristina a Paulilatino (Oristano) del primo millennio avanti Cristo, tagliato con inaudita precisione nella pietra basaltica. Si entra in contatto con il potere taumaturgico delle acque sotterranee scendendo una scala triangolare di 25 gradini che porta al pozzo circolare. Qui una camera alta 7 metri è sovrastata da un oculo attraverso il quale la luce della luna magnetizza lo specchio d’acqua. Ogni 18 anni e sei mesi (l’ultima volta il 24 dicembre 1988) la luna scende esattamente in perpendicolare nel suo tempio; ma vi torna in modo meno evidente ogni anno durante il plenilunio invernale, rendendo così possibile la misurazione del mese lunare. Il triangolo dell’ingresso è circondato da un recinto interno a forma di toppa di chiave (un triangolo accostato a un cerchio, che è anche il simbolo della dea Tanit), e da un altro recinto esterno ellittico. Si tratta di un organismo a stretto contatto con la natura, concepito come un orologio solare e lunare insieme, che segnalava i solstizi e gli equinozi mediante la scala e l’oculo del pozzo. Ai margini di esso, sono ubicate capanne circolari abitabili e un grande ambiente collettivo di riunione a cerchio, con una panca continua per sedersi addossata alle pareti di pietre incastrate a secco.

I nuraghi sono una presenza costante nel panorama sardo. Ne sono stati inventariati oltre settemila, costruiti dal 1.800 al 500 a.C. Probabilmente il loro nome deriva dall’antico sumeronur-aghs, fiamma ardente: sulle loro sommità si accendeva il fuoco per fini rituali, ma anche a scopo di segnalazione. Da ogni nuraghe se ne vedevano almeno altri due, il che assicurava una efficacissima rete di comunicazione visiva e sonora, basata sulla triplicità. Alcuni, come quelli del complesso Su Nuraxi di Barumini (1.500 a.C.), sono integrati da un pozzo e circondati da abitazioni circolari. Prima di diventare le fortezze dei guerrieri Shardana, furono i templi astronomici di popolazioni pacifiche: nel solstizio d’estate il sole illumina la cella interna formando un potente cerchio di luce. La loro imponente struttura, a camere sovrapposte o laterali, accentrava energie magnetiche dal sottosuolo, ed era anch’essa un luogo di pratiche sacre e terapeutiche. Presso i nuraghi ci si riuniva, si giurava, si facevano oracoli, si celebrava la luna e si dormiva per curarsi, come nelle Tombe dei Giganti. E nei villaggi nuragici, come quello di Serra Orrios con le sue settanta capanne, la presenza sacrale dell’acqua, insieme all’energia del fuoco, è una costante. A Barumini una donna ci ha raccontato una curiosa leggenda riguardante Eleonora d’Arborea, la sovrana legislatrice che nel 1392 compilò la Carta de Logu (un codice di giustizia che, tra l’altro, prevedeva sanzioni durissime per gli stupratori). Sembra che Eleonora, percorrendo un passaggio segreto sotterraneo, si recasse spesso nell’antica zona sacra di Su Nuraxi, che allora era interamente nascosta dalla terra, e dove si svolgeva la trebbiatura del grano.

I fenici arrivarono sulle coste sarde intorno al 1.000 a.C. e si stabilirono soprattutto lungo il versante occidentale. Fondarono i loro primi insediamenti permanenti (Cagliari, Nora, Sulci, Tharros, Bithia) tra la fine del IX e l’VIII secolo a.C., e in seguito si integrarono nella colonizzazione cartaginese (510 a.C.). Alla Tanit fenicia, la “nutrix“, erano dedicati i “tophet“, siti a cielo aperto recintati con muretti dove si seppellivano i bambini nati morti oppure deceduti entro sei mesi dalla nascita, insieme a piccoli animali. Sono luoghi commoventi, che i Romani invasori, e conquistatori dal 238 a.C. al 476 d.C., cercarono di infangare nello stesso modo in cui screditarono i druidi celtici, cioè inventando la menzogna di sanguinosi sacrifici infantili alla dea – smentita dalla presenza di embrioni. Nel “tophet” di Monte Sirai presso Carbonia (IV-II sec. a.C.), sono affiorate stele di dee che stringono al petto un fiore di loto, e un’altra con Tanit-Astarte che indossa la maschera contro gli spiriti maligni e il tamburello per le danze funebri; un motivo che si ritrova anche in parecchie statuine bruciaincensi di piccole dimensioni. A Nora venne costruito un grande tempio di Tanit (IV-II secolo a.C.). Ma il ritrovamento forse più singolare della fase fenicio-punica è quello del santuario di Bithia (Domusolemaria): decine di figurine votive in argilla che indicano la parte del corpo malata, plasmate durante l’ipnosi terapeutica indotta dalle bithiae (letteralmente: donne con le pupille doppie), le sacerdotesse-sciamane del tempio.

Infine risalgono all’epoca romana – che costruisce radi insediamenti sparsi su tutta l’isola, in funzione di controllo – numerose statuine di Demetra/Cerere a schema cruciforme, oppure con fiaccola e porcellino. Sono generalmente bruciaincensi in argilla, prodotti con un’iconografia molto simile sin dalla fase punica (di cultura greca), dal 500 a.C. al 100 a.C..

Le tradizioni sarde e le sue leggende, che furono studiate con attenzione dalla grande scrittrice Grazia Deledda, sono strettamente legate alle radici matriarcali. Gioca in esse un ruolo fondamentale lo sciamanesimo femminile risalente al periodo neolitico. Fino alla prima metà del Novecento, le deinas continuarono ad essere “veggenti stimate e temute allo stesso tempo“. Chiamate anche videmortos per la loro capacità di comunicare con i defunti, si iscrivono nella genealogia delle janas , le sacerdotesse che non potevano appartenere ai comuni mortali, ma solo a se stesse. Si racconta che quando las fadas (le fate) del Monte Oe scendevano a mezzanotte a ballare nella piazza del paese, se qualche uomo cercava di toccarle veniva schiacciato da una maledizione: Ancu ti tocchet sa musca maghedda! (“Che tu sia punto dalla mosca maghedda!”, un insetto letale). Il loro corredo magico comprendeva lo specchio, il setaccio o vaglio, il velo, gli arnesi da tessitura; e naturalmente le erbe, gli unguenti e le sostanze che favorivano la trance, tra cui il giusquiamo, la belladonna, la datura, l’olio di ginepro, l’ Orrosa ‘e cogas (Rosa delle streghe), la peonia e il fungo Amanita muscaria (in dialetto, “allucinato” si dice tuttora muscau). I loro poteri erano il dominio del fuoco, il contatto con gli spiriti, l’oracolo, la capacità di visione a distanza e di guarigione, l’estasi e la trance (andare in calazonis), il volo magico. Queste pratiche, esercitate apertamente ancora nei primi secoli del cristianesimo, non cessarono mai del tutto e sopravvissero sotterraneamente anche ai 767 processi intentati dell’Inquisizione tra il 1562 e il 1688, l’80% dei quali riguardavano “fattucchiere e sortileghe”. Le più perseguitate furono le streghe di Castel Aragonese (oggi Castelsardo); gli inquisitori individuarono come luogo del sabba la misteriosa località della piana del Coghinas, dove attualmente si trovano le terme di Casteldoria.

Alla repressione cristiana resistè tenacemente anche l’antichissimo culto lunare di Diana, di cui si trovano vistose tracce nella toponomastica dell’isola (Lunamatrona, Nuraghe Luna, Cala Luna, Monte Luna, Monte Diana, etc.). Nel mondo romano Diana Lucina fu ufficialmente onorata fino al IV secolo dopo Cristo con la solenne processione notturna del 13 agosto, fatta da donne che tenevano in mano una torcia. Durante il medioevo, la venerazione della dea venne ripetutamente investita dagli anatemi della chiesa e demonizzata. Ma Artemide-Diana, in realtà, era una figura protettrice:

“puniva coloro che violentavano le vergini e si macchiavano di ogni altra sopraffazione, così come puniva coloro che esercitavano la caccia in modo selvaggio, effettuando una distruzione senza limiti. Anche i cuccioli, al pari dei bambini, erano sotto la sua protezione e dovevano essere risparmiati”

La dea assisteva le partorienti e le balie, presiedeva alla crescita di ogni genere. Veniva invocata fino a una cinquantina di anni fa in filastrocche che si ripetevano quasi invariate in numerosi paesi della Sardegna centrale. Le ragazze le recitavano sedute in cerchio e battendo le mani, oppure in girotondo ad occhi chiusi, dopo aver guardato la luna: Luna luna, paraluna, paristella / ses sa bella de muntanna… Luna luna, porchedda luna / porchedda ispana, sette funtanas / sette chilivros, appiccamilos / sutta sa mesa, luna Teresa, / Teresa luna, dammi fortuna. E tuttora, nella Bassa Gallura, si saluta la luna nuova con l’esclamazione: Luna miraculosa, dammi la grazia di l’anima.

Tra le donni di fuora che appartengono alle leggende popolari c’è la gioviana, un genio tutelare femminile che si presenta nelle case la notte del giovedì quando le donne si attardano a filare, per aiutarle; la vampiresca coga o sùrbile, frutto della criminalizzazione cristiana, ma percepita anche come una Nemesi che impone la giustizia; le panas o pantamas, spiriti di donne morte di parto che durante la notte si recano lungo i corsi d’acqua; la Saggia Sibilla che abita con altre janas nella grotta del Carmelo presso Ozieri, e alla quale la tradizione orale attribuisce il segreto della lievitazione del pane e l’invenzione dei fermenti lattici; le fadas che vivono nei nuraghi e tessono la buona e la cattiva sorte con un telaio d’oro. Ma, al di là dei racconti leggendari, le ultime depositarie di un sapere antichissimo hanno costituito sino a pochi decenni fa una presenza e una realtà molto diffusa tra la popolazione sarda. Non accettavano denaro, solo prodotti in natura. Abili erboriste, le orassionarjas guarivano anche con formule magiche dette verbos e usavano tre grani di sale per scacciare il malocchio. Le anziane accabadòras (dal fenicio “hacab”, mettere fine) accompagnavano nel trapasso della morte e abbreviavano le dolorose agonie, oppure dopo le esequie si recavano al cimitero per “chiudere la casa”, girando tre volte la punta di una grossa chiave sulla tomba. Tre donne (una giovanissima, una matura e una vecchia) svolgevano insieme un rituale terapeutico contro le febbri perniciose recandosi ad un trivio, togliendosi una pianella e tracciando a terra con essa cerchi e croci. E anche attualmente esistono deinas che praticano la cosiddetta “medicina dello spavento” a chi è oppresso da incubi o ossessioni, oppure adottano la gestualità lustrale dell’acqua gettata dietro le spalle.

Passata dagli antichi splendori ad un destino di “eterna colonia” sfruttata e maltrattata, la Sardegna ha mantenuto il suo profumo, emanato coralmente dalla vegetazione dell’isola che ancora sopravvive alla criminale violenza degli incendi, e pazientemente si ricrea: mirto, cisto, tamerici, zafferano, euforbia, fiordaliso spinoso, fichi d’india, peonie selvagge, gigli di sabbia, rosmarino, fillirea, ginepro, oleandro, boschi di querce da sughero, lentischi, eucalipti, pini, corbezzoli, ulivi e olivastri. Non sono svanite neanche la fierezza e la forza delle donne che la abitano, così come non sono state cancellate nel quotidiano contemporaneo le immagini delle dee, ancora riprodotte con naturalezza e orgoglio nelle manifatture di oreficeria o sull’etichetta di un vino. Non a caso, in questa regione le cooperative femminili in qualsiasi settore sono una realtà diffusissima e abituale: la presenza degli uomini nel lavoro, mi ha spiegato concisamente una ragazza con un fermo sguardo da jana, non è indispensabile.

Bibliografia consigliata :

Giovanni Feo, Prima degli Etruschi – I miti della Grande Dea e dei Giganti alle origini della civiltà in Italia, Stampa Alternativa, Viterbo 2001.
Marija Gimbutas, The Language of the Goddess,in italiano Il linguaggio della dea – Mito e culto della Dea Madre nell’Europa neolitica, Longanesi, Milano 1990.
Dolores Turchi, Lo sciamanesimo in Sardegna, Newton Compton, Roma 2001.

 

Articolo originale : Viaggio nella Sardegna matriarcale. dee, deinas, janas, fadas, donni di fuora, di Rosanna Fiocchetto : 
http://www.universitadelledonne.it/sardegna.htm

Questioni di genere e politica nell’Atene del V secolo

Negli ultimi tempi si è parlato molto di questioni di genere, gender e teorie del genere non più solo nell’ambito della storia del femminismo (penso ai dibattiti connessi al libro di Judith Butler in cui si sostiene che il il corpo sessuato non è un dato biologico ma una costruzione culturale), ma soprattutto pensando all’educazione e alla relazione con ciò che è altro da noi, diverso.

Ma cosa si intende con genere? Perché dovrebbero esserci questioni di genere? E in che modo i risultati delle scienze sociali possono aiutarci nella comprensione delle dinamiche culturali, civiche e politiche di un’epoca? Con genere si intende una categoria sociale che prende forma in uno specifico contesto storico e istituzionale, le cui conseguenze sul piano della formazione dell’identità e delle relazioni interpersonali non sono assolute ma sempre relative al periodo cui facciamo riferimento.

Lo scopo di ogni ricerca sul genere dovrebbe essere anche questo: isolare i modi in cui si concretizza l’identità individuale per capire in che misura essa interviene nella formazione dell’identità civica e sociale. Questo ci fa capire che il problema delle questioni di genere non può che essere un momento interno al modo in cui isoliamo il genere in un preciso contesto storico.

Oggi ci pare scontato dire che cosa sia “maschile” e cosa invece “femminile”, abbiamo compreso che genere si distingue da sesso e che l’identità di genere è qualcosa che riposa non solo nella nostra costituzione biologica, ma nei nostri costrutti mentali ed interpersonali, nel modo in cui la società ci accoglie, ci riconosce o ci discrimina. Nonostante ciò, esistono ancora molte difficoltà nell’accettare ciò che non si conforma alle nostre etichette, ciò che ordinariamente – o, peggio, secondo alcuni naturalmente – dovrebbe essere maschile e femminile.

Ed è su questo terreno che l’Atene del V secolo non smette di insegnarci qualcosa; laddove infatti la distinzione tra maschile e femminile si fa più sfumata ed è socialmente accettata nella sua natura polimorfica, essa può assumere ruoli e funzioni diverse sia nel tessuto civico della polis (la città) che in quello politico. La costruzione del genere è, a tutti gli effetti, la costruzione di un modo di fare e di vivere la politica. È l’anticamera della filosofia politica in età classica.

§1- Omosessualità ed educazione alla carriera politica

Se prendiamo come esempio Plutarco notiamo subito che nelle Vite di Nicia, Alcibiade, Aristide, Temistocle, Cimone e Pericle i temi connessi a questioni di genere sono moltissimi. E non riguardano solo i rapporti omosessuali, il ruolo dell’eterosessualità e del matrimonio nella costruzione dell’immagine civica dell’individuo, ma soprattutto la definizione di uomo in quanto animale politico (la definizione è di Aristotele).

Nella Vita di Aristide Plutarco ci racconta un episodio di rivalità amorosa che ha opposto il protagonista a Temistocle; questa forma di eros era accettata e considerata lecita come momento essenziale nella formazione non tanto del semplice cittadino quanto del politico. Sono indimenticabili le pagine del Simposio di Platone in cui il giovane Alcibiade racconta della sua passione amorosa per Socrate, del gioco tra amanti in cui Socrate non manca di sottrarsi per spingere il giovane alla contemplazione del vero bene. Il valore pedagogico del rapporto omosessuale che lega un giovane a un maestro più anziano è un tratto caratteristico della paideia (o educazione) greca.

La storia di Alcibiade è una storia di sconfitte e di dissipazioni, è il fallimento della ragione, incapace da sola di modellare una vita, la vita di un uomo straordinario la cui carriera sarebbe diventata leggendaria in Atene. Eros infatti non può che essere inteso come momento interno alla conoscenza, come educazione alla filosofia e tendenza verso il bene che dai bei corpi ci spinge ad abbandonare la sfera sensibile per il bello e il bene in sé. Questo è il messaggio di Platone. La scala amoris che nel Simposio Socrate riferisce di aver sentito da Diotima tende a disinnescare il legame tra l’eros e i corpi per farne solo il momento iniziale di un percorso che, in ultima analisi, è puramente conoscitivo.

Bisogna essere temperanti nella sfera erotica come nella sfera della vita sociale e politica: il legame tra seduzione erotica omosessuale e seduzione politica è un tema caro a Platone e a Plutarco e in entrambi è presente con lo stesso obiettivo. In Platone si tratta di pensare a un insieme di virtù utili nella vita buona e nella vita politica, in Plutarco lo stesso sistema di valori a volte serve come monito, per feroci invettive o giudizi più o meno espliciti sull’operato dei singoli all’interno delle istituzioni.

Le testimonianze antiche ricordate, ad esempio, negli studi di Pauline Schmitt Pantel sembrano mostrare che l’omosessualità in Grecia era un momento essenziale dell’esperienza sociale ed educativa dell’individuo, in quanto parte integrante della costruzione dell’identità del maschio, adulto, depositario dei diritti civici. Ora, cosa resta del matrimonio e delle relazioni eterosessuali?

§2- Eterosessualità ed ordine civico

Plutarco ci racconta che molti uomini illustri in Atene avevano un debole per le donne. Cimone, Temistocle, Alcibiade e Pericle. Le donne descritte appartengono a qualunque status sociale: sono libere, etère, prostitute e spose.

Le strategie matrimoniali erano spesso decise sulla base di considerazioni economiche e di alleanze politiche, ed esisteva una discreta libertà anche per le donne di risposarsi, sempre in accordo con i rispettivi tutori: alle donne era concesso divorziare e prendere nuovamente marito a patto che il kyrios (colui che esercitava l’autorità su di lei) pronunci l’engye e le dia una dote. Il matrimonio era infatti simbolo di ordine, era un istituto in grado di arginare i rischi derivanti dalla promiscuità, e permetteva di mettere al mondo figli legittimi ed era la base per la definizione di cittadinanza. Solo con il matrimonio la polis è potuta diventare un organismo politico, il che è facilmente intuibile se si tiene presente che sfera pubblica e privata non erano ancora nettamente distinte, dunque la vita pubblica da cittadino non doveva stridere con la vita privata e il ruolo di marito. Ma esisteva una forma di eros molto potente, consumata fuori dai vincoli del matrimonio e dalla sicurezza del focolare domestico.

L’amore come agapè, come attaccamento tra Pericle e Aspasia è solo in apparenza un elemento di disordine sociale e civico. Amica dei filosofi, dotata di eccezionale intelligenza, Aspasia di Mileto influenzò in modo determinante le scelte di Pericle (l’affare di Samo e il decreto di Megara, solo per citare gli esempi più noti) e molti ateniesi, compreso Socrate, la frequentavano per imparare le tecniche dell’oratoria e per parlare di filosofia.

Cosa possiamo concludere da questa rapida carrellata? Il genere o la teoria del genere nell’Atene del V secolo era una delle declinazioni possibili della (filosofia) politica. Le relazioni omosessuali, connesse con la definizione del maschile, hanno un ruolo pedagogico e politico determinante nel periodo classico. I rapporti eterossessuali all’interno del matrimonio hanno una funzione sociale rilevante nel mantenere l’ordine e la distribuzione delle ricchezze (spesso nei testamenti si suggerivano possibili pretendenti per le nubili al fine di conservare il più possibile il patrimonio di famiglia). Il femminile ha una collocazione determinante nell’equilibrio e nell’ordine sociale: laddove la donna è moglie, essa agisce nel contesto famigliare, laddove è amante (e l’elemento sessuale prende il sopravvento), essa può fare le veci del maschio sul piano dell’educazione politica. Il ruolo di moglie, di domina della famiglia e spesso degli interessi economici legati a proprietà e schiavi, automaticamente esclude la donna dal ruolo pedagogico in politica.

Aspasia, che educa i giovani come i sofisti, è al tempo stesso una straniera, una concubina, una etèra, una madre, una donna degna dell’amore di un uomo come Pericle appunto perché possiede la saggezza. E in quanto insegnante di retorica è perfettamente in grado di governare la città, è alla pari di qualunque uomo dotato delle medesime capacità. Qui ho tracciato solo una rapida panoramica su un argomento che meriterebbe un’analisi più approfondita. Alla luce degli esempi e della documentazione analizzata nei testi indicati in bibliografia, non posso fare altro che abbracciare la tesi di Pauline Schmitt Pantel: in Atene la costruzione di genere finisce sempre con l’avere a che fare con la politica, soprattutto quando i confini tra maschile e femminile si fanno più sfumati.

Bibliografia:

(1) Violaine Sebillotte Cuchet e Nathalie Ernoult, (cur.), Problèmes du genre en Grèce ancienne, Paris, 2007.

(2) Pauline Schmitt Pantel, Aithra et Pandora. Femmes, Genre et Cité dans la Grèce Classique, Paris, L’Harmattan, Bibliothèque du féminisme, 2009.

(3) Pauline Schmitt Pantel, I migliori di Atene. La vita dei potenti nella Grecia Antica, Laterza, 2009 ► http://amzn.to/2fgDkIa

(4) Werner Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, Bompiani, 2003 ► http://amzn.to/2dykBqO

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