Nell’antica Roma c’erano persone dalla pelle scura ed i contadini erano perennemente “abbronzati”.

Gli abitanti dell’impero romano avevano la pelle scura, in alcuni casi per ragioni etniche, in altri perché trascorrevano molte ore dell’anno, lavorando sotto il sole.

Qualche anno fa, su un libro di storia per bambini è apparsa un immagine in cui era raffigurato un soldato romano con la pelle scura, e questo ha fato scaturire la rabbia e indignazione di molti, soprattutto “puristi della razza”.

Quell’immagine è sbagliata perché i romani erano bianchi? Quell’immagine è giusta?

Per rispondere a queste domande in modo storico, e non di pancia, bisogna soffermarci su due elementi, ovvero distribuzione demografica della popolazione dell’Impero e condizioni di vita degli abitanti dell’Impero.

Prima di inoltrarci nell’analisi del fenomeno e cercare di fare luce sulla questione, vi anticipo che, voglio mostrarvi questa immagine precedente il primo secolo dopo Cristo, identificata come “Medicina dello Stivale e dell’Età Romana: Enea curato da Japige” che è stata ritrovata negli scavi di Pompei.

Notate qualcosa di strano nel colore della pelle di Enea e del medico che lo sta curando?

La pelle di Enea e del medico è molto scura, questo e non è un effetto dovuto all’invecchiamento del pigmento, anche perché nella stessa immagine ci sono altre persone con una tonalità della pelle molto più chiara, e dunque, anche se l’immagine con il tempo si è scurita, ciò non toglie che, chi ha realizzato questo affresco, aveva bene in mente che, la pelle di Enea dovesse essere più scura rispetto a quella di altri soggetti della stessa immagine.

Distribuzione demografica in età romana

Per quanto riguarda la distribuzione demografica, va detto che l’Impero romano si estendeva dalla spagna al medio oriente, dalle isole britanniche al deserto del Sahara, controllava l’intero bacino del mediterraneo, e, entro i suoi confini, nei secoli, sono confluite centinaia di popolazioni diverse e lontane tra loro, sia sul piano culturale che etnico.

Entro i confini dell’impero c’era anche il nord africa, un’area che andava dall’Egitto al Marocco, e che costituiva il “granaio” dell’impero, ovvero una regione prevalentemente agricola e molto fertile, in cui venivano prodotte gran parte delle scorte di grano per tutto l’impero.

Fatta eccezione per le “grandi” città come Roma, l’area del nord africa, era tra le più popolose dell’impero, perché abitata da tanti contadini che lavoravano negli immensi e sterminati campi che producevano e fornivano grano a tutto l’impero.

Gli abitanti di quella regione, per ragioni etniche e per condizioni di vita, avevano la pelle molto scura.

Ora, se la parte più popolosa dell’impero è abitata da persone dalla pelle scura, va da se che… già questo è sufficiente a dire che, non solo, nell’impero c’erano persone con la pelle scura, ma anche che questi era una fetta importante dell’intera popolazione romana.
A questo bisogna aggiungere che, la maggior parte degli abitanti dell’impero e dell’Europa nelle epoche successive, dalle isole britanniche all’Egitto, erano contadini e pescatori.

Cosa c’entra il lavoro con la colorazione della pelle?

Parliamo di un epoca preindustriale in cui il lavoro nei campi era svolto prevalentemente sotto la luce diretta del sole, si lavorava la terra tutto l’anno, giorno dopo giorno, sotto il sole, un epoca in cui ci si sposta a piedi o al massimo al cavallo, e anche l’, si è esposti alla luce del sole, di conseguenza, queste lunghissime ore di esposizione alla luce solare, ai raggi ultravioletti che innescano il processo di abbronzatura, rende la pelle di quelle persone molto scura, mediamente molto più scura di quella di un impiegato odierno che prende il sole 2/3 settimane all’anno, durante weekend estivi e vacanze di ferragosto.

Possiamo dire che gli antichi, e per antichi intendiamo gli abitanti dell’Europa e dai tempi di Roma, fino almeno alla seconda metà del XX secolo, erano perennemente abbronzati.

Beati loro, se non fosse che la loro pelle era letteralmente cotta e rovinata, usurata dal sole e da ogni sorta di malattia della pelle.
Per secoli il colore della pelle ha costituito un elemento di distinzione tra ceti sociali, perché, mentre i contadini, ma anche soldati, pescatori e lavoratori in generale, trascorrevano gran parte della propria esistenza sotto il sole, i nobili, gli aristocratici ed i ceti più agiati, erano molto meno esposti al sole, di conseguenza , fatte rare eccezioni, la loro pelle era mediamente più chiara e liscia, rispetto a quella dei contadini.

Nobili ed aristocratici, per aspetto, erano molto più simili a noi, ma, non dimentichiamoci che nobili ed aristocratici erano una frazione ridotta della popolazione europea.

Questo distinguo basato su colore e stato della pelle è venuto a mancare, parzialmente, con la rivoluzione industriale, al seguito della diffusione di illuminazione elettrica, fabbriche e treni, elementi che hanno spostato gran parte del processo produttivo in Europa al chiuso, limitando quindi l’esposizione al sole e cambiando le abitudini di lavoro.

Si lavora al chiuso, ci si abbronza di meno, quindi l’abbronzatura fa il giro e passa dall’essere indicativa di lavori poveri e manuali, ad essere indicativa dell’appartenenza ad una cerchia sociale più elevata che, nella seconda metà del XX secolo, conduce una vita più agiata… può andare in vacanza.

Questo tipo di abbronzatura limitata nel tempo, si traduce in pelle leggermente più scura, ma comunque liscia, diversa da quella dei contadini, molto più scura e increspata e rovinata, non curata.

Va anche detto che, nel secondo dopoguerra, negli anni 50 del novecento, quando Ernesto de Martino e prima di lui Carlo Levi, durante i propri viaggi e studi, si sono recati nell’Italia meridionale, e sono entrati in contatto con le popolazioni rurali del mezzogiorno, si sono imbattuti in uomini e donne che ancora portavano sul proprio volto il segno del lavoro nei campi, parliamo di uomini e donne con la pelle scura, cotta dal sole in lunghe ore di lavoro nei campi.

Rispondere quindi con un “no secco” quando si chiede se nel mondo antico, in Europa, ci fossero persone con la pelle scura, oltre ad essere stupido è anche anti-storco, perché si guarda a quel mondo, a quell’epoca, non analizzandolo nella propria interezza, ignorando le condizioni di vita della popolazione del tempo e proiettando i nostri ritmi e le nostre abitudini, in un mondo che seguiva ritmi diversi, un mondo il cui tempo era scandito dalla luce del sole e non dalle lancette di un orologio moderno. Un mondo, in cui la pelle delle persone era mediamente più scura, perché, a differenza di noi, viveva e lavorava tutto l’anno sotto il sole, senza crema solare e senza alcun tipo di protezione contro i raggi UV.

L’economia del Dono – Il saggio sul dono di Marcel Mauss

Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés archaïques , meglio noocome “Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche” di Marcel Mauss, è un saggio Etnologico considerato uno dei grandi classici della scuola francese e più precisamente, un testo intramontabile sull’economia del Dono.

In questo saggio Mauss propone una “teoria del dono” che avrebbe avuto grande rilievo nella storia dell’antropologia francese (etnologia), questa teoria è il frutto della comparazione di varie ricerche etnologiche compiute sul campo da studiosi come Boas, Malinowski ed altri, che avrebbero fornito a Mauss un ampia gamma di documenti , e soprattutto tanti esempi differenti di una pratica economica molto diffusa sia tra le società arcaiche che tra quelle dotate di un economia più sviluppata e complessa.

L’intero studio è focalizzato sullo scambio di beni il cui valore intrinseco non è considerato un dato rilevante, e , secondo la teoria di Mauss, questo scambio avrebbe avuto un ruolo centrale nella creazione di relazioni sia tra uomini che tra uomini e divinità, e in questo caso un esempio di dono capace di gettare un ponte tra l’uomo e il divino, è rappresentato dal sacrificio rituale, attraverso il cui le società omane, offrono un dono ad una o più divinità.

Secondo Mauss, il dono rappresenta “fatto sociale totale”, vale a dire un che esso è un elemento specifico di una cultura, che pone un individuo in relazione con tutti gli altri appartenenti alla stessa cultura e pertanto, attraverso l’analisi di questo meccanismo, è possibile leggere per estensione le diverse componenti di una data società.

Come dicevamo poco sopra, il meccanismo del dono è diverso da una qualsiasi altra economia basata sul valore dell’oggetto e nel suo saggio Mauss scompone la pratica del dono in tre distinti momenti che si basano su quello che l’autore avrebbe definito un principio della reciprocità”.

Questi tre momenti rappresentano tre azioni, che sono il Dare, ovvero l’atto pratico di eseguire il dono, offrendo un bene, servizio o altro ad un altro individuo, divinità o comunità, nella seconda fase, quella del Ricevere, l’oggetto donato deve essere accettato da chi sta ricevendo il dono e l’accettazione del dono conduce alla terza fase, ovvero quella del Ricambiare, una fase particolare che rappresenta il vero momento di distacco tra l’economia del dono ed un qualsiasi altro tipo di economia basato sull’equivalenza del valore dei beni scambiati

L’obbligo “contrattuale” del ricambiare il dono ricevuto è in realtà un semplice obbligo morale, non vincolante, non perseguibile ne sanzionabile, significa che una volta accettato il dono, nulla vieta al ricevente di non ricambiare, ed è proprio in questo “atto di fiducia verso gli altri” che, secondo Mauss, è possibile rintracciare il vero valore della pratica del dono, ovvero nell’assenza di garanzie per il donatore.

Per evidenziare questa assenza di garanzie Mauss propone nel saggio alcuni interessanti eempi di economia del dono, come il potlatch, osservato e documentato da Boas, esso è una pratica cerimoniale che all’epoca si svolgeva tra alcune tribù di Nativi Americani della costa nordoccidentale del Pacifico, come gli Haida, i Tlingit, i Tsimshian, i Salish, i Nuu-chah-nulth e i Kwakiutl. Durante la cerimonia del Potlatch, individui appartenenti allo stesso status sociale procedono con la distribuzione o la distruzione di beni di grande valore, in questo modo possono affermare pubblicamente il proprio rango o riacquistarlo in caso lo abbiano perso.

Un altro esempio di economia del dono presentato nel saggio è la pratica del Kula, osservata e documentata da Malinowski ed esposta nel saggio Argonauti del Pacifico Occidentale. Il Kula è praticato tra gli abitanti delle isole Trobriand nel pacifico, e la pratica consiste in un apparentemente semplice scambio di collane di conchiglie rosse (soulava), per effettuare questi scambi gli abitanti delle isole Trobriand si imbarcavano in lunghi e pericolosi viaggi in canoa che permettevano loro di giungere in villaggi distanti molti chilometri, senza alcuna garanzia di ritorno o che il loro dono sarebbe stato ricambiato.

[give_form id=”2669″ show_title=”true” show_goal=”true”]

 

Saredegna e Mediterraneo in età matriarcale

Le origini del nostro matriarcato vanno ricercate in Sardegna, culla della più antica civiltà italiana. La crearono alcuni “popoli del mare” pelasgici provenienti dall’Asia, dall’area egeo-cretese, dal Tassili africano, dall’Iberia e dalla Celtia. Essi furono costretti ad emigrare dai vari epicentri territoriali per varie cause, ormai accertate dalle ricerche scientifiche e dalle rilevazioni satellitari: disastri naturali (tra cui il biblico diluvio universale, generato dall’onda d’urto di un asteroide che si abbattè sulla terra, il terremoto/maremoto che sconvolse l’area minoica, e la desertificazione sahariana) e le aggressioni delle prime orde patriarcali indoeuropee. Si tratta di quei mitici “giganti” (la parola viene dal greco e significa “figli della Madre Terra) che si dispersero nel Mediterraneo diffondendovi il culto della terra e delle acque, il megalitismo, la metallurgia e la cultura matrilineare. “Due popoli, discendenti degli antichi giganti, vennero ad occupare in epoche diverse le regioni fertili, ospitali e ancora poco abitate della penisola italiana: i Sardi e poi gli Etruschi“. La grandezza (1900 km. di coste), la centralità e la difendibilità della Sardegna ne fecero in epoca post-diluviana un rifugio privilegiato. Dalla miscela etnica sarda si sviluppò una civiltà propulsiva, tutt’altro che chiusa:

“dall’isola salparono navi che, per prime, crearono una rete di comunicazioni con la penisola, portandovi tecniche avanzate, arti, conoscenze e una visione magica e metafisica della vita”.

La civiltà matriarcale ha avuto in terra sarda uno sviluppo e una persistenza eccezionali, ancora scarsamente conosciuti. I ritrovamenti archeologici, relativamente recenti, ne hanno messa in evidenza la sorprendente dimensione soprattutto nel Neolitico e nell’Eneolitico (6.000 – 1.500 a.C). Tuttavia la sacralità del principio femminile si è conservata anche nei periodi successivi. Durante l’età fenicia si è intrecciata al culto della dea Tanit e, durante la colonizzazione punico-romana, al culto di Demetra/Cerere. Inoltre, malgrado le persecuzioni dell’integralismo cristiano, è stata tramandata fino alle soglie dell’età cosiddetta moderna da una magica rete di donni di fuora che, soprattutto nelle zone interne, hanno contribuito al fenomeno antropologico del “matriarcato barbaricino”.

Ne ho ripercorso le tracce insieme a Petra Bialas, che da anni si ispira nelle sue ceramiche e sculture alle raffigurazioni delle dee pre-patriarcali; e che è stata una compagna ideale in un suggestivo viaggio-pellegrinaggio tra mare e monti, villaggi neolitici abbandonati, remoti santuari, musei, pozzi sacri, necropoli, nuraghi e luoghi carichi di energie psicofisiche. Queste tracce, del resto, non sono difficili da trovare: sono quasi ovunque, numerosissime e abbastanza intatte. I siti preistorici anteriori alla fase nuragica sinora scoperti sono oltre 120 e si condensano prevalentemente sul lato ovest e nel centro dell’isola, tranne quelli di Orgosolo, Oliena, Dorgali, Baunei e San Vito, ubicati a est. Sono caratterizzati dal megalitismo: dolmen, circoli di grandi pietre, betili e menhir con i seni, con dee graffite, con doppie spirali. Ma anche da insediamenti in superficie o necropoli ipogeiche scavati nella roccia calcarea: le domus de Janas, o “case delle fate”. Esse variano dalle piccole domus isolate, simili aille cavità naturali dei “tafoni” scolpiti dal vento, alle decine di ambienti decorati delle necropoli di Su Crucifissu Mannu, S.Andrea Priu di Bonorva (III millennio a.C.), o Anghelu Ruju presso Alghero. I rilievi planimetrici degli ipogei mostrano che essi hanno una forma a utero, a uovo o a corpo di dea.

La parola Jana è comune in tutto il Mediterraneo; è la dea Jaune nei paesi Baschi, l’etrusca Uni, le romane Juno e Diana, la cretese Iune, la Ioni asiatica. In molte domus de Janas del V e IV millennio a.C., ma anche altrove, sono state trovate in grandi quantità statuine di divinità femminili in argilla, alabastro, calcarenite, caolinite, marmo, osso o arenaria quarzosa. Le più antiche sono quelle tondeggianti della cultura di Bonu Ighinu (Mara), di Su Cungiau de Marcu (Decimoputzu), Cuccurru S’Arriu (Cabras), Su Anzu (Narbolia) e Polu (Meana Sardo). La statuetta stetopigia di S’Adde (Macomer) è simile agli idoli ritrovati in Anatolia e nel nord Europa. Nella cultura di Ozieri del IV millennio a.C. le figure diventano piatte e stilizzate in forma di T, con la parte inferiore a cono. Tra le dee soprannominate “cicladiche” per la loro impressionante somiglianza con altre rinvenute nelle isole Cicladi, spicca la grande immagine della “Signora Bianca” di Turrigu, Senorbì. Suggestiva e poetica è la semplicità delle dee “a traforo”, ricavate da sottili lastrine marmoree. Moltissime le dee con le braccia aperte a croce, fino alla minuscola dea-uccello di mezzo centimetro recuperata a Ploaghe, esposta nel Museo Sanna di Sassari dietro ad una grossa lente di ingrandimento. Le affinità con analoghi reperti in altri luoghi distanti migliaia di chilometri dimostrano che la cultura matriarcale era basata su un linguaggio omogeneo diffuso in tutto il mondo, come ha affermato l’archeologa Marija Gimbutas.

La manifattura di queste dee prosegue per tutta l’età del rame, su preziose lamine dorate. E continuerà nell’espressione simbolica, sia pure de-contestualizzata, attraverso i secoli. In filo diretto con il Neolitico, esistono ancora oggi persone, in Barbagia, che mettono nella bara dei congiunti morti sa pipiedda o sa pizzinedda, una piccola dea confezionata con la tela bianca o con la cera. Oppure, anche in altre zone, è abituale l’usanza di intrecciare con striscioline di foglie di palma sa mura, ovvero la Moira, la dea che decreta il destino, per regalarla durante la Domenica delle Palme.

Il culto della Grande Madre è protagonista anche in un singolare episodio del megalitismo sardo: il santuario preistorico di Monte d’Accoddi presso Porto Torres (2.700 a.C.), una piramide a ziggurath che avvalora in modo inequivocabile l’ipotesi della matrice etnica orientale. Altri sorprendenti risultati della “strana barbarie sarda” (Deledda) sono le Tombe dei Giganti, costruite con enormi lastre di pietra disposte a semicerchio secondo un preciso schema di riferimento astronomico, e collegate con un lungo corpo a galleria retrostante. Bio-architetture con un isolamento a intercapedine, erano orientate verso la Croce del Sud (allora visibile anche dall’emisfero boreale) ed erette in corrispondenza di falde acquifere e di forti flussi magnetici; la stele verticale d’ingresso è conficcata nel punto di maggiore potenza. Venivano utilizzate a scopo terapeutico con il procedimento dell’incubazione: chi era afflitto da epilessia, disturbi del sistema nervoso e traumi psichici vi dormiva per cinque giorni e guariva con una vera e propria cura del sonno, indotto dalle sacerdotesse con particolari sostanze soporifere e con sistemi ipnotici.

Affascinanti produzioni dell’architettura megalitica sono i pozzi sacri, come quello di Santa Cristina a Paulilatino (Oristano) del primo millennio avanti Cristo, tagliato con inaudita precisione nella pietra basaltica. Si entra in contatto con il potere taumaturgico delle acque sotterranee scendendo una scala triangolare di 25 gradini che porta al pozzo circolare. Qui una camera alta 7 metri è sovrastata da un oculo attraverso il quale la luce della luna magnetizza lo specchio d’acqua. Ogni 18 anni e sei mesi (l’ultima volta il 24 dicembre 1988) la luna scende esattamente in perpendicolare nel suo tempio; ma vi torna in modo meno evidente ogni anno durante il plenilunio invernale, rendendo così possibile la misurazione del mese lunare. Il triangolo dell’ingresso è circondato da un recinto interno a forma di toppa di chiave (un triangolo accostato a un cerchio, che è anche il simbolo della dea Tanit), e da un altro recinto esterno ellittico. Si tratta di un organismo a stretto contatto con la natura, concepito come un orologio solare e lunare insieme, che segnalava i solstizi e gli equinozi mediante la scala e l’oculo del pozzo. Ai margini di esso, sono ubicate capanne circolari abitabili e un grande ambiente collettivo di riunione a cerchio, con una panca continua per sedersi addossata alle pareti di pietre incastrate a secco.

I nuraghi sono una presenza costante nel panorama sardo. Ne sono stati inventariati oltre settemila, costruiti dal 1.800 al 500 a.C. Probabilmente il loro nome deriva dall’antico sumeronur-aghs, fiamma ardente: sulle loro sommità si accendeva il fuoco per fini rituali, ma anche a scopo di segnalazione. Da ogni nuraghe se ne vedevano almeno altri due, il che assicurava una efficacissima rete di comunicazione visiva e sonora, basata sulla triplicità. Alcuni, come quelli del complesso Su Nuraxi di Barumini (1.500 a.C.), sono integrati da un pozzo e circondati da abitazioni circolari. Prima di diventare le fortezze dei guerrieri Shardana, furono i templi astronomici di popolazioni pacifiche: nel solstizio d’estate il sole illumina la cella interna formando un potente cerchio di luce. La loro imponente struttura, a camere sovrapposte o laterali, accentrava energie magnetiche dal sottosuolo, ed era anch’essa un luogo di pratiche sacre e terapeutiche. Presso i nuraghi ci si riuniva, si giurava, si facevano oracoli, si celebrava la luna e si dormiva per curarsi, come nelle Tombe dei Giganti. E nei villaggi nuragici, come quello di Serra Orrios con le sue settanta capanne, la presenza sacrale dell’acqua, insieme all’energia del fuoco, è una costante. A Barumini una donna ci ha raccontato una curiosa leggenda riguardante Eleonora d’Arborea, la sovrana legislatrice che nel 1392 compilò la Carta de Logu (un codice di giustizia che, tra l’altro, prevedeva sanzioni durissime per gli stupratori). Sembra che Eleonora, percorrendo un passaggio segreto sotterraneo, si recasse spesso nell’antica zona sacra di Su Nuraxi, che allora era interamente nascosta dalla terra, e dove si svolgeva la trebbiatura del grano.

I fenici arrivarono sulle coste sarde intorno al 1.000 a.C. e si stabilirono soprattutto lungo il versante occidentale. Fondarono i loro primi insediamenti permanenti (Cagliari, Nora, Sulci, Tharros, Bithia) tra la fine del IX e l’VIII secolo a.C., e in seguito si integrarono nella colonizzazione cartaginese (510 a.C.). Alla Tanit fenicia, la “nutrix“, erano dedicati i “tophet“, siti a cielo aperto recintati con muretti dove si seppellivano i bambini nati morti oppure deceduti entro sei mesi dalla nascita, insieme a piccoli animali. Sono luoghi commoventi, che i Romani invasori, e conquistatori dal 238 a.C. al 476 d.C., cercarono di infangare nello stesso modo in cui screditarono i druidi celtici, cioè inventando la menzogna di sanguinosi sacrifici infantili alla dea – smentita dalla presenza di embrioni. Nel “tophet” di Monte Sirai presso Carbonia (IV-II sec. a.C.), sono affiorate stele di dee che stringono al petto un fiore di loto, e un’altra con Tanit-Astarte che indossa la maschera contro gli spiriti maligni e il tamburello per le danze funebri; un motivo che si ritrova anche in parecchie statuine bruciaincensi di piccole dimensioni. A Nora venne costruito un grande tempio di Tanit (IV-II secolo a.C.). Ma il ritrovamento forse più singolare della fase fenicio-punica è quello del santuario di Bithia (Domusolemaria): decine di figurine votive in argilla che indicano la parte del corpo malata, plasmate durante l’ipnosi terapeutica indotta dalle bithiae (letteralmente: donne con le pupille doppie), le sacerdotesse-sciamane del tempio.

Infine risalgono all’epoca romana – che costruisce radi insediamenti sparsi su tutta l’isola, in funzione di controllo – numerose statuine di Demetra/Cerere a schema cruciforme, oppure con fiaccola e porcellino. Sono generalmente bruciaincensi in argilla, prodotti con un’iconografia molto simile sin dalla fase punica (di cultura greca), dal 500 a.C. al 100 a.C..

Le tradizioni sarde e le sue leggende, che furono studiate con attenzione dalla grande scrittrice Grazia Deledda, sono strettamente legate alle radici matriarcali. Gioca in esse un ruolo fondamentale lo sciamanesimo femminile risalente al periodo neolitico. Fino alla prima metà del Novecento, le deinas continuarono ad essere “veggenti stimate e temute allo stesso tempo“. Chiamate anche videmortos per la loro capacità di comunicare con i defunti, si iscrivono nella genealogia delle janas , le sacerdotesse che non potevano appartenere ai comuni mortali, ma solo a se stesse. Si racconta che quando las fadas (le fate) del Monte Oe scendevano a mezzanotte a ballare nella piazza del paese, se qualche uomo cercava di toccarle veniva schiacciato da una maledizione: Ancu ti tocchet sa musca maghedda! (“Che tu sia punto dalla mosca maghedda!”, un insetto letale). Il loro corredo magico comprendeva lo specchio, il setaccio o vaglio, il velo, gli arnesi da tessitura; e naturalmente le erbe, gli unguenti e le sostanze che favorivano la trance, tra cui il giusquiamo, la belladonna, la datura, l’olio di ginepro, l’ Orrosa ‘e cogas (Rosa delle streghe), la peonia e il fungo Amanita muscaria (in dialetto, “allucinato” si dice tuttora muscau). I loro poteri erano il dominio del fuoco, il contatto con gli spiriti, l’oracolo, la capacità di visione a distanza e di guarigione, l’estasi e la trance (andare in calazonis), il volo magico. Queste pratiche, esercitate apertamente ancora nei primi secoli del cristianesimo, non cessarono mai del tutto e sopravvissero sotterraneamente anche ai 767 processi intentati dell’Inquisizione tra il 1562 e il 1688, l’80% dei quali riguardavano “fattucchiere e sortileghe”. Le più perseguitate furono le streghe di Castel Aragonese (oggi Castelsardo); gli inquisitori individuarono come luogo del sabba la misteriosa località della piana del Coghinas, dove attualmente si trovano le terme di Casteldoria.

Alla repressione cristiana resistè tenacemente anche l’antichissimo culto lunare di Diana, di cui si trovano vistose tracce nella toponomastica dell’isola (Lunamatrona, Nuraghe Luna, Cala Luna, Monte Luna, Monte Diana, etc.). Nel mondo romano Diana Lucina fu ufficialmente onorata fino al IV secolo dopo Cristo con la solenne processione notturna del 13 agosto, fatta da donne che tenevano in mano una torcia. Durante il medioevo, la venerazione della dea venne ripetutamente investita dagli anatemi della chiesa e demonizzata. Ma Artemide-Diana, in realtà, era una figura protettrice:

“puniva coloro che violentavano le vergini e si macchiavano di ogni altra sopraffazione, così come puniva coloro che esercitavano la caccia in modo selvaggio, effettuando una distruzione senza limiti. Anche i cuccioli, al pari dei bambini, erano sotto la sua protezione e dovevano essere risparmiati”

La dea assisteva le partorienti e le balie, presiedeva alla crescita di ogni genere. Veniva invocata fino a una cinquantina di anni fa in filastrocche che si ripetevano quasi invariate in numerosi paesi della Sardegna centrale. Le ragazze le recitavano sedute in cerchio e battendo le mani, oppure in girotondo ad occhi chiusi, dopo aver guardato la luna: Luna luna, paraluna, paristella / ses sa bella de muntanna… Luna luna, porchedda luna / porchedda ispana, sette funtanas / sette chilivros, appiccamilos / sutta sa mesa, luna Teresa, / Teresa luna, dammi fortuna. E tuttora, nella Bassa Gallura, si saluta la luna nuova con l’esclamazione: Luna miraculosa, dammi la grazia di l’anima.

Tra le donni di fuora che appartengono alle leggende popolari c’è la gioviana, un genio tutelare femminile che si presenta nelle case la notte del giovedì quando le donne si attardano a filare, per aiutarle; la vampiresca coga o sùrbile, frutto della criminalizzazione cristiana, ma percepita anche come una Nemesi che impone la giustizia; le panas o pantamas, spiriti di donne morte di parto che durante la notte si recano lungo i corsi d’acqua; la Saggia Sibilla che abita con altre janas nella grotta del Carmelo presso Ozieri, e alla quale la tradizione orale attribuisce il segreto della lievitazione del pane e l’invenzione dei fermenti lattici; le fadas che vivono nei nuraghi e tessono la buona e la cattiva sorte con un telaio d’oro. Ma, al di là dei racconti leggendari, le ultime depositarie di un sapere antichissimo hanno costituito sino a pochi decenni fa una presenza e una realtà molto diffusa tra la popolazione sarda. Non accettavano denaro, solo prodotti in natura. Abili erboriste, le orassionarjas guarivano anche con formule magiche dette verbos e usavano tre grani di sale per scacciare il malocchio. Le anziane accabadòras (dal fenicio “hacab”, mettere fine) accompagnavano nel trapasso della morte e abbreviavano le dolorose agonie, oppure dopo le esequie si recavano al cimitero per “chiudere la casa”, girando tre volte la punta di una grossa chiave sulla tomba. Tre donne (una giovanissima, una matura e una vecchia) svolgevano insieme un rituale terapeutico contro le febbri perniciose recandosi ad un trivio, togliendosi una pianella e tracciando a terra con essa cerchi e croci. E anche attualmente esistono deinas che praticano la cosiddetta “medicina dello spavento” a chi è oppresso da incubi o ossessioni, oppure adottano la gestualità lustrale dell’acqua gettata dietro le spalle.

Passata dagli antichi splendori ad un destino di “eterna colonia” sfruttata e maltrattata, la Sardegna ha mantenuto il suo profumo, emanato coralmente dalla vegetazione dell’isola che ancora sopravvive alla criminale violenza degli incendi, e pazientemente si ricrea: mirto, cisto, tamerici, zafferano, euforbia, fiordaliso spinoso, fichi d’india, peonie selvagge, gigli di sabbia, rosmarino, fillirea, ginepro, oleandro, boschi di querce da sughero, lentischi, eucalipti, pini, corbezzoli, ulivi e olivastri. Non sono svanite neanche la fierezza e la forza delle donne che la abitano, così come non sono state cancellate nel quotidiano contemporaneo le immagini delle dee, ancora riprodotte con naturalezza e orgoglio nelle manifatture di oreficeria o sull’etichetta di un vino. Non a caso, in questa regione le cooperative femminili in qualsiasi settore sono una realtà diffusissima e abituale: la presenza degli uomini nel lavoro, mi ha spiegato concisamente una ragazza con un fermo sguardo da jana, non è indispensabile.

Bibliografia consigliata :

Giovanni Feo, Prima degli Etruschi – I miti della Grande Dea e dei Giganti alle origini della civiltà in Italia, Stampa Alternativa, Viterbo 2001.
Marija Gimbutas, The Language of the Goddess,in italiano Il linguaggio della dea – Mito e culto della Dea Madre nell’Europa neolitica, Longanesi, Milano 1990.
Dolores Turchi, Lo sciamanesimo in Sardegna, Newton Compton, Roma 2001.

 

Articolo originale : Viaggio nella Sardegna matriarcale. dee, deinas, janas, fadas, donni di fuora, di Rosanna Fiocchetto : 
http://www.universitadelledonne.it/sardegna.htm

PROSTITUZIONE è davvero il mestiere più antico del mondo ?

Si dice che la prostituzione sia il mestiere più antico del mondo. Ma è davvero così?

Probabilmente no, poiché questo mestiere, per esistere, necessita della conoscenza e della percezione del valore, ha bisogno di strutture economiche di tipo “avanzato” in cui esistono beni non necessariamente primari, insomma, la prostituzione non può svilupparsi in una civiltà che pratica un economia di sussistenza, ma necessita di un economia in grado di produrre beni e servizi superflui.

Nelle prime comunità umane, quelle più primitive per intenderci, la prostituzione non avrebbe avuto alcuna ragione d’esistere, dato che in quelle comunità, nei primi villaggi, nelle prime tribù, nei primi insediamenti, il ritmo della vita era scandito dalle stagioni e dalle migrazioni di animali, mentre il sesso era qualcosa di puramente istintivo, violento, e in alcuni casi non particolarmente piacevole per le donne, di certo non era un lavoro poiché ci si accoppiava in preda all’istinto e ad accoppiarsi erano solo i più forti, qualcuno potrebbe obiettare all’utilizzo del termine accoppiare, suggerendo che, più che accoppiamento si trattava di stupro, e rispondo a questa obiezione dicendo che non avrebbe alcun senso usare etichette e classificazioni moderne un mondo primitivo estremamente lontano e diverso dal nostro.

La prostituzione esisteva in quelle epoche ? come è facile intuire, la risposta a questa domanda è no, nel mondo primitivo, esistevano altri mestieri, come il mestiere del cacciatore, dell’artigiano, del conciatore, ma non il mestiere della prostituta, di questa professione abbiamo sporadiche tracce soltanto a partire dall’epoca storica classificata come “età dei metalli“, iniziata tra l’8 e il 5 mila avanti cristo e si chiude con la fine dell’età del ferro, e la nascita delle polis in grecia, almeno per quanto riguarda l’età del ferro nel mediterraneo, mentre a seconda delle varie civiltà e delle aree geografiche del pianeta, questa data cambia, in alcuni casi di diversi secoli o addirittura millenni.
Si ipotizza tuttavia che nell’ultima fase dell’età della pietra si iniziasse già a praticare la prostituzione ma non si hanno prove concrete a sostegno di questa tesi e come dice sempre il buon Alberto Angela, probabilmente non lo sapremo mai, quello che però sappiamo è che la prostituzione implica la conoscenza, se pur primitiva, del valore, questo mestiere a differenza dei sopracitati cacciatore, allevatore, coltivatore ecc, non è un mestiere direttamente connesso alla propria sopravvivenza, nel senso che non produce nulla di utile alla sopravvivenza, ma implica l’esistenza di primitivi scambi commerciali. Io mi accoppio con te, tu dai a me del cibo o delle pelli.

Nel primordiale e primitivo mondo precedente l’età dei metalli, come abbiamo già detto, il sesso non rappresentava una merce di scambio, dunque, un mestiere come la prostituzione non avrebbe avuto alcuna ragione di esistere.

Va detto però che , prima di giungere all’età dei metalli, l’umanità era già entrata in una dimensione commerciale che potremmo definire “avanzata“, imparando a lavorare l’argilla per produrre vasellame e altri oggetti, soprattutto ornamentali. In quel dato momento della storia, l’uomo ha iniziato a concepire il valore, producendo non più soltanto beni necessari alla sussistenza fisica per se e la propria comunità, ma anche beni “superflui” volti a riempire le giornate e decorare le abitazioni, ed è in quel momento, e solo in quel momento, che il mestiere della prostituzione può iniziare ad esistere.

Può iniziare ad esistere perché iniziano ad esistere scambi commerciali fine a se stessi, il piacere diventa una merce di scambio, il bello diventa una merce di scambio, l’inutile acquisisce valore, e con esso il sesso.

Quindi no, la prostituzione non è affatto il mestiere più antico del mondo, ma la sua invenzione, molto probabilmente, coincide con l’invenzione dell’economia che avrebbe permesso alle civiltà umane di compiere enormi passi in avanti, l’invenzione della prostituzione implica l’esistenza di un economia “moderna” e di un pensiero articolato e complesso che fino a quel momento non era esistito. In questo senso, l’invenzione della produzione coincide con un passaggio importantissimo nella definizione delle civiltà umane.

 

Bibliografia 
M.Foucault, Storia della sessualità Vol 1
M.Foucault, Storia della sessualità Vol 2
M.Foucault, Storia della sessualità Vol 3

Ernesto de Martino || L’opera a cui lavoro

Approccio critico e documentario della Spedizione etnologica in lucania, a cura di C.Gallini, argo, Lecce 1996 pp.11-8

Credo che per illustrare e chiarire il significato culturale dell’opera a cui lavoto e i suoi rapporti con la vita d’oggi, sia opportuno dare alla mia esposizione un andamento quasi autobiografico, narrando le fasi attraverso le quali quel significato culturale e quei rapporti mi si sono venuti faticosamente chiarendo fino al grado di consapevolezza che oggi ho raggiunto. Ho pensato che questa forma espositiva era da preferirsi, perché solo così non sarebbe andata smarrita quella drammatica tensione fra pensiero e vita a cui la mia generazione si è trovata esposta e che ha logorato la nostra giovinezza; e perché solo così lasciava il dramma ancora aperto, con la congiunta possibilità di nuovi sviluppi.

Mi permetterò pertanto di rifarmi all’ambiente storico in cui cominciò a fermentare il primo disegno della mia opera. Si era negli anni fra la guerra di Spagna e la seconda guerra mondiale, quando noi giovani della piccola borghesia meridionale trovavamo nelle cospirazioni di tipo mazziniano e nei giuramenti da Giovane Italia la prima forma concreta per testimoniare a favore della libertà. In quegli anni Carlo Levi scopriva Cristo fermo ad Eboli, mente noi a Bari rendevamo visita al vecchio Croce neella villa Laterza sulla via di Carbonara. Eppure proprio in quegli anni in cui si era maturata in me la tenace avversione aii fascismi europei, cominciarono anche le prime riserve e insoddisfazioni verso il mondo col quale il gruppo liberale-mazziniano di Villa Laterza faceva la diagnosi della crisi della nostra civiltà. Mi sebrava che qualche cosa sfuggisse a quel modo di valutazione, ma dovetti percorrere un lungo e avventuroso cammino prima di chiarire a me stesso quali ne fossero propriamente i limiti. Un primo passo innanzi lo feci quando mi resi conto che il filo che mancava all’ordito era il filo del “mondo primitivo”. In naturalismo e storicismo nell’etnologia, uscito nel 1941, ma pensato appunto in quegli anni, si legge, p.12:

La nostra civiltà è in criso: un mondo acena ad andare in pezzi, un altro si annunzia. Naturalmente, come accade nelle epoche di crisi, variamente si atteggiano le speranze e variamente si configura il “quid maius” che sta per nascere. Tuttavia una cosa è certa: ciascuno deve scegliere il proprio posto di combattimento, e assumere le proprie responsabilità. Potrà essere lecito agire male: non operare, non è lecito. Ciò posto, quale è il compito dello storico ? Tale compito è sempre stato, ed ora più che mai deve essere, l’allargamento dell’autocoscienza per rischiare l’azione”.

Il mio interesse per l’etnologia nacque dunque come un aspetto dell’interesse che provavo per la mia stessa civiltà, come un tentativo di dominare nella prospettiva storiografica stati d’animo e modi di sentire arcaici ancora immediatamente operosi nel moderno, e presenti nella nostra vita politica e morale, così come nella letteratura e nelle scienze. Mi sembrò a quel tempo che il “lato oscuro” distendesse la sua ombra sul mondo luminoso della ragione e della storia, impegnando variamente il nostro orbe culturale: la psicanalisi nella scienza, l’attivismo nella filosofia, il decadentismo nella letteratura e nel costume, il misticismo razzismo nella politica mi apparivano i documenti più appariscenti di questo impegno sinistro, e altresì la prova che mancava, per entro la nostra civiltà, una vera coscienza storiografica dell’arcaico. Lo storicismo crociano, alla cui scuola ero stato educato, confermava nel fatto questo limite del nostro umanesimo, perché se copiosi erano stati i frutti della nuova storiografia italiana in tanti domini culturali, il dominio delle civiltà primitive e dei loro istituti restava escluso da qualsiasi influenza storicistica. L’opera alla quale mi accingevo, mi si configurava pertanto, non solo come liberazione della civiltà moderna dal “lato oscuro dell’anima” (liberazione da effettuarsi mercé la storia delle civiltà primitive), ma altresì come incremento e come sviluppo della stessa metodologia crociana della storia, e quindi come allargamento, del limite umanistico, che avvertivo nella “filosofia dello spirito”.

p.14 Naturalismo…

Invitiamo gli Schrifthistoriker e i metodologi della storia a riflettere sul fatto che la metodologia crociana, nata da una vivacissima esperienza della storia, raccomanda la sua vitalità e il suo incremento al continuo commercio con nuovi problemi storici”.

Per rendere concreto il mio proposito, dovevo anzitutto saggiare la consistenza metodologica della storiografia tradizionale, e questo feci nella raccolta di saggi che porta il titolo Naturalismo e storicismo nell’etnologia.

Ciascuno di questi saggi mi dava occasione di battere in breccia un aspetto saliente del naturalismo etnologico. Il saggio critico sul prelogismo di Lévy-Bruhl costituisce una polemica contro l’irrazionalismo e il misticismo nella considerazione dell’arcaico: l’incomprensione storiografica degli istituti primitivi si rivela qui nel modo più crudo, e veniva in un certo senso codificato attraverso l’ipotesi di una mentalità prelogica, incomprensibile per definizione e che al più si poteva rivivere dopo essere stata convenientemente “suggerita”.

Il saggio sulla “prima forma di religione” mi dette occasione di valutare criticamente un mal posto problema del naturalismo etnologico, e cioè la pretesa di farci assistere all’ingresso dell’uomo nella storia: invece di tentare la ricostruzione delle civiltà primitive per entro le categorie del giudizio storico, il naturalismo etnologico pretendeva di farci assistere alla nascita in tempo di queste stesse categorie, cioè pretendeva assurdamente di uscire dallo stesso pensiero storiografico giudicante, e di toglierlo ad oggetto di ricerca. Era proprio il caso del Barone di Münchhausen che voleva sollevarsi dallo stagno nel quale era caduto tirandosi il codino della capigliatura! Infine il saggio sulla scuola storico-culturale mi dette occasione di sottolineare il fatto che l’aggettivo “storico” era qui usurpato, perché ordinare la massa confusa dei fatti etnologici in cicli culturali con una certa diffusione nello spazio, con una certa successione nel tempo, e con rapporti casuali definiti, costituisce “filologia” non “storia”, stimolo per l’anamnesi ma non ancora anamnesi storiografica in atto. Come il criterio stilometrico di Lutoslawski per l’ordinamento dei dialoghi platonici non è certo la storia del pensiero di Platone, così la tecnica empirica suggerita da Graebner, dal Pinard, dallo Schmidt per ordinaare spazialmente e cronologicamente le civiltà primitive non è ancora storia di quueste civiltà. Infine il saggio sulla scuola storico-culturale mi offrì l’occasione per fare giustizia di un’altra aberrazione del naturalismo etnologico, e cioè la pretesa di una storia che fosse al riparo da qualunque opzione filosofica. La identità di filosofia e storia e la risoluzione della filosofia nel momento metodologioco della storiografia furono fatte valere nel settore etnologico, dimostrando che la pretesa di scrivere una storia delle civiltà primitive senza opzioni filosofiche si risolveva di fatto nell’accettare la più scorretta filosofia del senso comune, il più crasso, più ingenuo e più dogmatico realismo.

Dopo il prologo metodologico di Naturalismo e storicismo nell’etnologia mi restava di esercitare lo storicismo in media res, cioè nella ricerca storiografica effettiva. L’analisi di una serie di istituti magici mi portò a scoprire che la mafia poteva essere interpretata come un sistema di guarentigie volte a difendere la presenza da rischio di non esserci nel mondo. Nacque così il Mondo Magico, nel quale si prendeva coscienza della limitazione umanistica che aveva fin’ora impedito la memoria storica del maghismo: l’unità della presenza era stata sempre concepita dalla civiltà moderna come un dato ontologico, normale, valido per tutti i tempi e tutti i luoghi, e che fove veniva meno, in questo o quell’individuo, aveva soltanto un significato meramente psicologico, o addirittura di deviazione patologica dalla norma. Sfuggiva alla civiltà moderna la possibilità di una storia della presenza, la possibilità di istituti storici definiti nati per combattere la labilità della presenza, e indirizzata a salvare la presenza nella storia. Successivamente venni in chiaro che dalla presenza storicamente non integrata, che non resiste al divenire e che rischia di esserne travolta in una coinonia indiscriminata, in una caos senza compenso, procedendo anche tutti i temi culturali propri della vita religiosa: solo che mentre nella magia la presenza labile cercava di istituire una serie di guarentigie per esserci in qualche modo nel mondo storico, nella religione la presenza si votava al paradossale tentativo di salvarsi dalla storia, di esinguere il ritmo del divenire.

Questo corso di pensieri, che ebbe la sua espressione nel Mondo magico, proseguì il suo svolgimento sotto la spinta di altre esperienze. Cominciò lentamente a reagire sulla mia vicenda mentale la considerazione del mondo contadino meridionale. Impegnato nel processo di emancipazione realedi quel mondo, le esperienze che ne traevo non potevano alla lunga restare senza effetto profondo sulla mia opera di studiioso, non potevano non invitarmi a unificare in me l’intellettuale e l’uomo politico. Del mondo contadino meridionale fu accreditata un’immagine che lo voleva rassegnato e dolente nella sua storica immobilità. Ricordate come si apre Cristo si è farmato a Eboli di Carlo Levi ?

P1…

Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare la Storia. Spinto qua e là alla ventura, non ho potuto finora mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini, di tornare fra loro, e non so davvero se e quando potrò mai mantenerla. Ma, chiuuso in una stanza, e in un mondo chiuso, mi è grato riandare con la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Statom eternamente paziente; a quella mia terra senzaconforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte”.

Per Levi la Lucania contadina è essenzialmente il paese del mito, il paese che vive da sempre esperienze che sono al riparo dalle grandi correnti della storia, esperienze che si collegano agli spiriti che sono nell’aria, alle potenze che si celano nelle bestie e negli uomini. Riflettendo sulle pagine di Levi mi resi conto che la sua interpretazione del mmondo contadino era sostanzialmente errata.

Anzitutto se la “civiltà cristiana” ha così poco permeato di sé il Mezzogiorno contadino, se Cristo si è fermato a Eboli, ciò costituisce un fatto storico che deve trovare la sua spiegazione in un limite interno all’umanesimo cristiano. In secondo luogo, come ho mostrato in Note lucane, il Mezzogiorno contadino, almeno nei suoi sstrati più avanzati, aspira a vincere il limite umanistico della civiltà cristiana, il mondo che vive oltre Eboli è impegnato a superare il cippo condinario piantato dalla civiltà di Cristo – come si potrebbe dire capovolgendo l’immagine di Levi. In terzo luogo 8e fu questo lo spunto critico più ricco di conseguenze) proprio quelle esperienze contadine che sembrano fuori dal tempo, e quasi al riparo dalla storia, rinviano in realtà a drammi sociali storici concreti, da cui procedono istituti umani definiti.

Levi, p68, a proposito di un becchino, banditore comunale e incantatore di lupo:

Una notte, non molto tempo prima, qualche mese o qualche anno, non potei farglielo precisare, poiché le misure del tempo erano, per lvecchioincantatore, indeterminate, egli tornava da Gaglianello, la frazione, e, giunto su un poggio, che è di fronte alla chiesa, il Timbone della Madonna degli Angeli, aveva sentito in tutto il corpo una strana stanchezza, e aveva dovuto sedersi in terra, sul gradino di una cappelletta. Gli era stato poi impossibile alzarsi e proseguire: qualcuno llo impediva. La notte era nera, e il vecchio non poteva discernere nulla nel buio: ma dal burrone una voce bestiale lo chiamava per nome. Era un diavolo, installato lò tra i morti, che gi vietava il passaggio. Il vecchio si fece il segno della croce, e il demonio cominciò a digrignare i denti e a urlare di spasimo. Nell’ombra il vecchio distinse per un momento una capra sulle rovine della chiesa saltare spaventosa, e scomparire. Il diavolo fuggì nel precipizio, ululando. – Uh! Uh! – gridava dileguandosi: e il vecchio si sentì ad un tratto libero e riposato, e in pochi passo tornò in paese”.

Mondo Magico, p 91 …

“In un’area di diffusione che compprende (almeno in base agli accertamenti finora eseguiti) la siberia artica e subartica, il Nord-America e la Melanesia, è stato osservato una singolare condizione psicologica in cui molto spesso cadono gli indigni, quasi vi fossero naturalmente disposti. Questa cndizione, chiamata Latah dai Malesiami, Olon dai Tungusi, Irkunii dagli Yukagiri, Amurak dagli Yakuti, Menkeiti dai Koriaki, Imu dagli Ainu è stata osservata e descritta da parecchi autori. Nello stato latah, così ocome è descritto da Sir Huge Clifford, l’indigeno pere per periodo più o meno lunghi, e in grado variabile, l’unità della propria persona e ll’autonomia dell’io, e quindi il controllo dei suoi atti. In questa condizione, che subentra in occasione di una emozione o anche soltanto di qualche cosa che sorprende, il soggetto è esposto a tutte le suggestioni possibili”.

Levi, p.137 esperienze del manovale Carmelo Coiro

Levi racconta il suo incontro con un “monachicco” in una grotta durante i lavori di un cantiere edile. I “monachichi” sono spiritelli bizzarri che tormentano le persone con scherzi e stranezze”.

Mondo magico, p.110…

“[Secondo i gruppi tungusi, gli spiriti vengono dallo sciamano durante il periodo oscuro della giornata, e alcuni spiriti non possono essere addotti e non si piò trattare con essi durante il giorno. Questo vale non solo per gli sciamani ma anche per gli altri]. Presso i Manciù lo sciamanizzare è effettuato durante le ore della notte : [È ben noto agli studiosi di maghismo sciamanistico che la esigenza delle tenebre trova talora espressione nella costruzione ufficiale di luoghi scuri ad hoc per le pratiche sciamanistiche, o anche la utilizzazione di recessi oscuri esistenti]”.

Questo paeallelismo dei documenti, che rinviavano a un modello storico idealmente identico pur nella loro distanza spaziale e nella varietà delle situazioni culturali, dette in me l’avvio a tutta una serie di pensieri.

In primo luogo si imponeva il riconoscimento che il mondo storico dei miei contadini, per ciò che esso presenta di arcaico e di “arretrato”, è lo stesso dei popoli primitive delle civiltà etnologiche. Nell’uno e nell’altro appare la stessa situazione esistenziale, la stessa disintegrazione della presenza rispetto alla storia, e pertanto gli stessi drammi culturali magico-religiosi. Nell’uno e nell’altro caso appare la stessa condizione di soggezione rispetto alla natura, la stessa mancanza di un piano umano per dominare l’ordine naturale. E nell’uno e nell’altro appare la stessa soggezione sociale rispetto alla civiltà cristiana, che ora mi rivela il suo limite interno per la sua qualità di civiltà borghese: che i portatori più qualificati di questa soggezione fossero i questori o i prefetto, come accade per il mezzogiorno contadino, o i funzionari e gli amminstratori di coloniali come accadde per le popolazioni etnologiche, è una differenza irrilevante che non altera la sostanziale identità.

In secondo luogo il dramma esistenziale magico che che avevo narrato nel Mondo Magico mi apparve necessariamente legato a una condizione subalterna di esistenza, onde religione e magia nascevano come riflessi di questa condizione: proprio perché questi uomini non erano di fatto cittadini della storia, la loro presenza era storicamente non integrata, e culturalmente erano impegnati a esserci in qualche modo nella storia attraverso la magia o a salvarsi dalla storia attraverso la religione. In tal modo, attraverso queste esperienze vive, in parte politiche e in parte culturali, entravano nella prospettiva marxzista della storia, o almeno in un suo aspetto fondamentale.

In terzo luogo il naturalismo dell’etnologia e del folklore tradizionale mi si dichiararono come espressione del limite umanistico interno della “civiltà borghese”: proprio perché i popoli coloniali e semicoloniali e gli stati subalterni dei paesi colonizzati non vivevano per entro la coscienza culturale borghese come mondo di uomini ma piuttosto come mondo di cose, come natura padronneggiabile e sfruttabile, non poteva mancare una etnologia storicistica borghese.

In quarto luogo mi si chiarì che la esigenza di una etnologia e un folklore storicistici eea nata in me come momento rischiaratore del processo di emancipazione reale che, su scala mondiale, portava il mondo che vive oltre Eboli a varcare il cippo condinario della civiltà di Cristo. Restava intatta la persuasione espressa in Naturalismo e storicismo che il compito dello storico nell’odierna crisi della civiltà è quello di allargare l’autocoscienza storiografica per rischiarare l’azione. Ma l’azione era diventata ora la trasformazione della società borghese in quella socialista, la partecipazione attiva alla emancipazione della sicietà borghese in quella socialista, la partecipazione attiva alla emancipazione reale di centinaia di migliaia di uomini su scala ecumeenica, e l’allargamento dell’autocoscienza significava appunto che la memoria storica del mondo primitivo si accendeva nel momento stesso in cui quel mondo diventava per entro la coscienza culturale moderna un problema per l’azione emancipatrice.

Il problema arcaico della salvezza della presenza nella storia o dalla storia acquistava rilievo storiografico nel momento stesso in cui un grande movimento ecumenico di emancipazione reale degli oppressi era immpegnato a sradicare le condizioni di esistenza che per così lungo corso di evi avevvano alimentato quel problema. La situazione ierogonica, da cui rampollano necessariamente magie e religioni, si distendeva nella dimensione della comprensione dtoriiografica nel momento stesso in cui la situazione ierogonica come tale diventava oggetto di una prassi destinata a sopprimerla, integrando gli uomini, tutti gli uomini, nella storia umana. Così ho unificato un una superiore unità i miei interessi scientifici e quelli pratico-politici: e l’opera a cui lavoro la sento ora legata au n grande movimento ecumenico che stringe insieme tutto il mondo che vive oltre Eboli.

Mi piace per chiudere questa mia conversazione leggendo una poesia di un poeta dilettante molisano, Eugenio Cirese.

Eugenio cirese (Fossalto, 1884 – Rieti, 1955) è stato anche studioso di Folklore e raccoglitore di caanti popolari. Il suo lavoro ha avuto una notevole influenza sul figlio Alberto Mario Cirese, che sarà uno dei fondatori della antropologia post-bellica. Non è stato possibile risalire alla poesia a cui fa riferimento de Martino.

Attualmente ho in animo di organizzare soedizioni in équipe.

Per quel che mi concerne da queste spedizioni dovrebbero risultare una parte del materiale documentario per un’opera sulll’angoscia della storia, cioè sulle forme di vita culturale che nascono da questa angoscia.

 

Bibliografia

Sud e Magia, ernesto de Martino, Edizione speciale con le fotografie di F.Pinna, A,Gilardi e A.Martin e con l’aggiunta di altri testi e documenti del cantiiere etnologico lucano. A cura di Fabio Dei e Antonio Fanelli, Donzelli 2015, pp 170-176

Religione, una storia che va dalla magia alla scienza

“Storia ed evoluzione della religione e del mondo spirituale, dalle prime preistoriche forme di magia, passando per i politeismi antichi fino a raggiungere la divisione tra il mondo spirituale ed il mondo scientifico, e la nascita di monoteismi, scienza e filosofia.”

La storia delle religioni è una disciplina che viaggia parallelamente all’antropologia e permette di osservare l’evoluzione del mondo e delle strutture umane da un punto di vista differente.

Ad un certo punto della storia, la religione si trasforma, passando dall’essere un qualcosa di pubblico e condiviso, da vivere collettivamente in gruppo attraverso giochi, feste e banchetti, per diventare qualcosa di più intimo e riservato, da vivere nel privato, in un clima più familiare, questo cambiamento strutturale si lega al cambiamento di rotta nell’inseguimento degli obbiettivi fondamentali, o meglio nei compiti propri della ricerca religiosa e spirituale.

Compito della magia e dei politeismi è quello di spiegare l’inconoscibile, la magia in particolare aveva il compito di rendere accessibili all’uomo quei fenomeni di cui non se ne comprendeva totalmente la natura ed i meccanismi, e di cui tuttavia aveva una conoscenza empirica degli effetti e di conseguenza quei fenomeno sono considerati magici.

Agire in un determinato modo, compiere una determinata azione produce una reazione, la magia è quindi la larva da cui sarebbero nate il mondo della fisica, l’embrione potremmo dire del terzo principio della dinamica, e allo stesso tempo delle religioni, procedendo con una prima divisione netta tra tutto ciò che poteva essere controllato dall’uomo, e ciò che al contrario era totalmente incontrollabile e quindi inconoscibile. Ciò che può essere controllato esce dal mondo magico per entrare a far parte del mondo tecnico e scientifico, tutto il resto necessita di una spiegazione, e a questo scopo nascono divinità e le mitologia.

La mitologia riesce a spiegare con le i suoi racconti ed i suoi personaggi dotati di poteri straordinari, tutto quanto accadeva al di fuori del controllo umano, per ogni fenomeno geologico o cosmologico esiste una divinità che con il suo lavoro possa giustificarlo, e in caso di anomalie la natura “umana” delle divinità funge da ancora di salvataggio, così fenomeni rari o imprevedibili quali possono essere una eclissi, un terremoto, o una pioggia di meteore, sono spiegate con capricci e litigi e guerre tra queste divinità create allo scopo di decidono e regolare le sorti del mondo.

Il mondo mitologico è un mondo statico e stagnante, che tende alla non evoluzione, e in caso di nuove scoperte semplicemente si munisce di una nuova divinità per assolvere al nuovo compito, al contrario il mondo fisico delle scienze è in continua evoluzione e mutamento, teorie e concetti sono continuamente rielaborate e ridisegnate, e lo stesso accade per la strumentazione in uso, gli attrezzi da lavoro e di osservazione del ricercatore, dello scienziato, sono in continua evoluzione, diventando sempre più accurati e precisi e permettendo di diversificare sempre di più la ricerca, e le ricerche, permettendo quindi lo studio di fenomeni che prima erano considerati incomprensibili la cui comprensione era affidata alla mitologia.

Gli scienziati puntando i propri strumenti e facendo luce sul lavoro degli dei, rendono quel tipo di mitologia, statica, obsoleta, sostituendosi ad essa, e rilegando la religione e lo spiritualismo al ruolo di guida etica e morale.

La religione in questo modo cambia la sua natura trasformandosi da pubblica a privata, ed incentrando la sua ricerca non più sul funzionamento del mondo e dell’uomo, ma sull’uomo in quanto essere senziente, lavorando parallelamente alla ricerca filosofica, con però un’eredità sociale, che rende la religione un fenomeno culturale da vivere privatamente, e nella sua componente originale di strumento di semplificazione, basato sull’accettazione di dettami e dogmi precostituiti, risulta accessibile a chiunque.

Potremmo dunque dire che da una parte le scienze cercano di capire come funziona l’universo e l’uomo, mentre le varie religioni e filosofie cercano di comprenderne il perché, nel tentativo di rispondere alla domanda fondamentale … chi è l’uomo ?

 

 

Bibliografiai :

James George Frazer, The Golden Bough: A Study in Magic and Religion, 1915

Ernesto de Martino, Il mondo magico: prolegomeni a una storia del magismo , 1948

Exit mobile version