Nell’antica Roma c’erano persone dalla pelle scura ed i contadini erano perennemente “abbronzati”.

Gli abitanti dell’impero romano avevano la pelle scura, in alcuni casi per ragioni etniche, in altri perché trascorrevano molte ore dell’anno, lavorando sotto il sole.

Qualche anno fa, su un libro di storia per bambini è apparsa un immagine in cui era raffigurato un soldato romano con la pelle scura, e questo ha fato scaturire la rabbia e indignazione di molti, soprattutto “puristi della razza”.

Quell’immagine è sbagliata perché i romani erano bianchi? Quell’immagine è giusta?

Per rispondere a queste domande in modo storico, e non di pancia, bisogna soffermarci su due elementi, ovvero distribuzione demografica della popolazione dell’Impero e condizioni di vita degli abitanti dell’Impero.

Prima di inoltrarci nell’analisi del fenomeno e cercare di fare luce sulla questione, vi anticipo che, voglio mostrarvi questa immagine precedente il primo secolo dopo Cristo, identificata come “Medicina dello Stivale e dell’Età Romana: Enea curato da Japige” che è stata ritrovata negli scavi di Pompei.

Notate qualcosa di strano nel colore della pelle di Enea e del medico che lo sta curando?

La pelle di Enea e del medico è molto scura, questo e non è un effetto dovuto all’invecchiamento del pigmento, anche perché nella stessa immagine ci sono altre persone con una tonalità della pelle molto più chiara, e dunque, anche se l’immagine con il tempo si è scurita, ciò non toglie che, chi ha realizzato questo affresco, aveva bene in mente che, la pelle di Enea dovesse essere più scura rispetto a quella di altri soggetti della stessa immagine.

Distribuzione demografica in età romana

Per quanto riguarda la distribuzione demografica, va detto che l’Impero romano si estendeva dalla spagna al medio oriente, dalle isole britanniche al deserto del Sahara, controllava l’intero bacino del mediterraneo, e, entro i suoi confini, nei secoli, sono confluite centinaia di popolazioni diverse e lontane tra loro, sia sul piano culturale che etnico.

Entro i confini dell’impero c’era anche il nord africa, un’area che andava dall’Egitto al Marocco, e che costituiva il “granaio” dell’impero, ovvero una regione prevalentemente agricola e molto fertile, in cui venivano prodotte gran parte delle scorte di grano per tutto l’impero.

Fatta eccezione per le “grandi” città come Roma, l’area del nord africa, era tra le più popolose dell’impero, perché abitata da tanti contadini che lavoravano negli immensi e sterminati campi che producevano e fornivano grano a tutto l’impero.

Gli abitanti di quella regione, per ragioni etniche e per condizioni di vita, avevano la pelle molto scura.

Ora, se la parte più popolosa dell’impero è abitata da persone dalla pelle scura, va da se che… già questo è sufficiente a dire che, non solo, nell’impero c’erano persone con la pelle scura, ma anche che questi era una fetta importante dell’intera popolazione romana.
A questo bisogna aggiungere che, la maggior parte degli abitanti dell’impero e dell’Europa nelle epoche successive, dalle isole britanniche all’Egitto, erano contadini e pescatori.

Cosa c’entra il lavoro con la colorazione della pelle?

Parliamo di un epoca preindustriale in cui il lavoro nei campi era svolto prevalentemente sotto la luce diretta del sole, si lavorava la terra tutto l’anno, giorno dopo giorno, sotto il sole, un epoca in cui ci si sposta a piedi o al massimo al cavallo, e anche l’, si è esposti alla luce del sole, di conseguenza, queste lunghissime ore di esposizione alla luce solare, ai raggi ultravioletti che innescano il processo di abbronzatura, rende la pelle di quelle persone molto scura, mediamente molto più scura di quella di un impiegato odierno che prende il sole 2/3 settimane all’anno, durante weekend estivi e vacanze di ferragosto.

Possiamo dire che gli antichi, e per antichi intendiamo gli abitanti dell’Europa e dai tempi di Roma, fino almeno alla seconda metà del XX secolo, erano perennemente abbronzati.

Beati loro, se non fosse che la loro pelle era letteralmente cotta e rovinata, usurata dal sole e da ogni sorta di malattia della pelle.
Per secoli il colore della pelle ha costituito un elemento di distinzione tra ceti sociali, perché, mentre i contadini, ma anche soldati, pescatori e lavoratori in generale, trascorrevano gran parte della propria esistenza sotto il sole, i nobili, gli aristocratici ed i ceti più agiati, erano molto meno esposti al sole, di conseguenza , fatte rare eccezioni, la loro pelle era mediamente più chiara e liscia, rispetto a quella dei contadini.

Nobili ed aristocratici, per aspetto, erano molto più simili a noi, ma, non dimentichiamoci che nobili ed aristocratici erano una frazione ridotta della popolazione europea.

Questo distinguo basato su colore e stato della pelle è venuto a mancare, parzialmente, con la rivoluzione industriale, al seguito della diffusione di illuminazione elettrica, fabbriche e treni, elementi che hanno spostato gran parte del processo produttivo in Europa al chiuso, limitando quindi l’esposizione al sole e cambiando le abitudini di lavoro.

Si lavora al chiuso, ci si abbronza di meno, quindi l’abbronzatura fa il giro e passa dall’essere indicativa di lavori poveri e manuali, ad essere indicativa dell’appartenenza ad una cerchia sociale più elevata che, nella seconda metà del XX secolo, conduce una vita più agiata… può andare in vacanza.

Questo tipo di abbronzatura limitata nel tempo, si traduce in pelle leggermente più scura, ma comunque liscia, diversa da quella dei contadini, molto più scura e increspata e rovinata, non curata.

Va anche detto che, nel secondo dopoguerra, negli anni 50 del novecento, quando Ernesto de Martino e prima di lui Carlo Levi, durante i propri viaggi e studi, si sono recati nell’Italia meridionale, e sono entrati in contatto con le popolazioni rurali del mezzogiorno, si sono imbattuti in uomini e donne che ancora portavano sul proprio volto il segno del lavoro nei campi, parliamo di uomini e donne con la pelle scura, cotta dal sole in lunghe ore di lavoro nei campi.

Rispondere quindi con un “no secco” quando si chiede se nel mondo antico, in Europa, ci fossero persone con la pelle scura, oltre ad essere stupido è anche anti-storco, perché si guarda a quel mondo, a quell’epoca, non analizzandolo nella propria interezza, ignorando le condizioni di vita della popolazione del tempo e proiettando i nostri ritmi e le nostre abitudini, in un mondo che seguiva ritmi diversi, un mondo il cui tempo era scandito dalla luce del sole e non dalle lancette di un orologio moderno. Un mondo, in cui la pelle delle persone era mediamente più scura, perché, a differenza di noi, viveva e lavorava tutto l’anno sotto il sole, senza crema solare e senza alcun tipo di protezione contro i raggi UV.

Ernesto de Martino || L’opera a cui lavoro

Approccio critico e documentario della Spedizione etnologica in lucania, a cura di C.Gallini, argo, Lecce 1996 pp.11-8

Credo che per illustrare e chiarire il significato culturale dell’opera a cui lavoto e i suoi rapporti con la vita d’oggi, sia opportuno dare alla mia esposizione un andamento quasi autobiografico, narrando le fasi attraverso le quali quel significato culturale e quei rapporti mi si sono venuti faticosamente chiarendo fino al grado di consapevolezza che oggi ho raggiunto. Ho pensato che questa forma espositiva era da preferirsi, perché solo così non sarebbe andata smarrita quella drammatica tensione fra pensiero e vita a cui la mia generazione si è trovata esposta e che ha logorato la nostra giovinezza; e perché solo così lasciava il dramma ancora aperto, con la congiunta possibilità di nuovi sviluppi.

Mi permetterò pertanto di rifarmi all’ambiente storico in cui cominciò a fermentare il primo disegno della mia opera. Si era negli anni fra la guerra di Spagna e la seconda guerra mondiale, quando noi giovani della piccola borghesia meridionale trovavamo nelle cospirazioni di tipo mazziniano e nei giuramenti da Giovane Italia la prima forma concreta per testimoniare a favore della libertà. In quegli anni Carlo Levi scopriva Cristo fermo ad Eboli, mente noi a Bari rendevamo visita al vecchio Croce neella villa Laterza sulla via di Carbonara. Eppure proprio in quegli anni in cui si era maturata in me la tenace avversione aii fascismi europei, cominciarono anche le prime riserve e insoddisfazioni verso il mondo col quale il gruppo liberale-mazziniano di Villa Laterza faceva la diagnosi della crisi della nostra civiltà. Mi sebrava che qualche cosa sfuggisse a quel modo di valutazione, ma dovetti percorrere un lungo e avventuroso cammino prima di chiarire a me stesso quali ne fossero propriamente i limiti. Un primo passo innanzi lo feci quando mi resi conto che il filo che mancava all’ordito era il filo del “mondo primitivo”. In naturalismo e storicismo nell’etnologia, uscito nel 1941, ma pensato appunto in quegli anni, si legge, p.12:

La nostra civiltà è in criso: un mondo acena ad andare in pezzi, un altro si annunzia. Naturalmente, come accade nelle epoche di crisi, variamente si atteggiano le speranze e variamente si configura il “quid maius” che sta per nascere. Tuttavia una cosa è certa: ciascuno deve scegliere il proprio posto di combattimento, e assumere le proprie responsabilità. Potrà essere lecito agire male: non operare, non è lecito. Ciò posto, quale è il compito dello storico ? Tale compito è sempre stato, ed ora più che mai deve essere, l’allargamento dell’autocoscienza per rischiare l’azione”.

Il mio interesse per l’etnologia nacque dunque come un aspetto dell’interesse che provavo per la mia stessa civiltà, come un tentativo di dominare nella prospettiva storiografica stati d’animo e modi di sentire arcaici ancora immediatamente operosi nel moderno, e presenti nella nostra vita politica e morale, così come nella letteratura e nelle scienze. Mi sembrò a quel tempo che il “lato oscuro” distendesse la sua ombra sul mondo luminoso della ragione e della storia, impegnando variamente il nostro orbe culturale: la psicanalisi nella scienza, l’attivismo nella filosofia, il decadentismo nella letteratura e nel costume, il misticismo razzismo nella politica mi apparivano i documenti più appariscenti di questo impegno sinistro, e altresì la prova che mancava, per entro la nostra civiltà, una vera coscienza storiografica dell’arcaico. Lo storicismo crociano, alla cui scuola ero stato educato, confermava nel fatto questo limite del nostro umanesimo, perché se copiosi erano stati i frutti della nuova storiografia italiana in tanti domini culturali, il dominio delle civiltà primitive e dei loro istituti restava escluso da qualsiasi influenza storicistica. L’opera alla quale mi accingevo, mi si configurava pertanto, non solo come liberazione della civiltà moderna dal “lato oscuro dell’anima” (liberazione da effettuarsi mercé la storia delle civiltà primitive), ma altresì come incremento e come sviluppo della stessa metodologia crociana della storia, e quindi come allargamento, del limite umanistico, che avvertivo nella “filosofia dello spirito”.

p.14 Naturalismo…

Invitiamo gli Schrifthistoriker e i metodologi della storia a riflettere sul fatto che la metodologia crociana, nata da una vivacissima esperienza della storia, raccomanda la sua vitalità e il suo incremento al continuo commercio con nuovi problemi storici”.

Per rendere concreto il mio proposito, dovevo anzitutto saggiare la consistenza metodologica della storiografia tradizionale, e questo feci nella raccolta di saggi che porta il titolo Naturalismo e storicismo nell’etnologia.

Ciascuno di questi saggi mi dava occasione di battere in breccia un aspetto saliente del naturalismo etnologico. Il saggio critico sul prelogismo di Lévy-Bruhl costituisce una polemica contro l’irrazionalismo e il misticismo nella considerazione dell’arcaico: l’incomprensione storiografica degli istituti primitivi si rivela qui nel modo più crudo, e veniva in un certo senso codificato attraverso l’ipotesi di una mentalità prelogica, incomprensibile per definizione e che al più si poteva rivivere dopo essere stata convenientemente “suggerita”.

Il saggio sulla “prima forma di religione” mi dette occasione di valutare criticamente un mal posto problema del naturalismo etnologico, e cioè la pretesa di farci assistere all’ingresso dell’uomo nella storia: invece di tentare la ricostruzione delle civiltà primitive per entro le categorie del giudizio storico, il naturalismo etnologico pretendeva di farci assistere alla nascita in tempo di queste stesse categorie, cioè pretendeva assurdamente di uscire dallo stesso pensiero storiografico giudicante, e di toglierlo ad oggetto di ricerca. Era proprio il caso del Barone di Münchhausen che voleva sollevarsi dallo stagno nel quale era caduto tirandosi il codino della capigliatura! Infine il saggio sulla scuola storico-culturale mi dette occasione di sottolineare il fatto che l’aggettivo “storico” era qui usurpato, perché ordinare la massa confusa dei fatti etnologici in cicli culturali con una certa diffusione nello spazio, con una certa successione nel tempo, e con rapporti casuali definiti, costituisce “filologia” non “storia”, stimolo per l’anamnesi ma non ancora anamnesi storiografica in atto. Come il criterio stilometrico di Lutoslawski per l’ordinamento dei dialoghi platonici non è certo la storia del pensiero di Platone, così la tecnica empirica suggerita da Graebner, dal Pinard, dallo Schmidt per ordinaare spazialmente e cronologicamente le civiltà primitive non è ancora storia di quueste civiltà. Infine il saggio sulla scuola storico-culturale mi offrì l’occasione per fare giustizia di un’altra aberrazione del naturalismo etnologico, e cioè la pretesa di una storia che fosse al riparo da qualunque opzione filosofica. La identità di filosofia e storia e la risoluzione della filosofia nel momento metodologioco della storiografia furono fatte valere nel settore etnologico, dimostrando che la pretesa di scrivere una storia delle civiltà primitive senza opzioni filosofiche si risolveva di fatto nell’accettare la più scorretta filosofia del senso comune, il più crasso, più ingenuo e più dogmatico realismo.

Dopo il prologo metodologico di Naturalismo e storicismo nell’etnologia mi restava di esercitare lo storicismo in media res, cioè nella ricerca storiografica effettiva. L’analisi di una serie di istituti magici mi portò a scoprire che la mafia poteva essere interpretata come un sistema di guarentigie volte a difendere la presenza da rischio di non esserci nel mondo. Nacque così il Mondo Magico, nel quale si prendeva coscienza della limitazione umanistica che aveva fin’ora impedito la memoria storica del maghismo: l’unità della presenza era stata sempre concepita dalla civiltà moderna come un dato ontologico, normale, valido per tutti i tempi e tutti i luoghi, e che fove veniva meno, in questo o quell’individuo, aveva soltanto un significato meramente psicologico, o addirittura di deviazione patologica dalla norma. Sfuggiva alla civiltà moderna la possibilità di una storia della presenza, la possibilità di istituti storici definiti nati per combattere la labilità della presenza, e indirizzata a salvare la presenza nella storia. Successivamente venni in chiaro che dalla presenza storicamente non integrata, che non resiste al divenire e che rischia di esserne travolta in una coinonia indiscriminata, in una caos senza compenso, procedendo anche tutti i temi culturali propri della vita religiosa: solo che mentre nella magia la presenza labile cercava di istituire una serie di guarentigie per esserci in qualche modo nel mondo storico, nella religione la presenza si votava al paradossale tentativo di salvarsi dalla storia, di esinguere il ritmo del divenire.

Questo corso di pensieri, che ebbe la sua espressione nel Mondo magico, proseguì il suo svolgimento sotto la spinta di altre esperienze. Cominciò lentamente a reagire sulla mia vicenda mentale la considerazione del mondo contadino meridionale. Impegnato nel processo di emancipazione realedi quel mondo, le esperienze che ne traevo non potevano alla lunga restare senza effetto profondo sulla mia opera di studiioso, non potevano non invitarmi a unificare in me l’intellettuale e l’uomo politico. Del mondo contadino meridionale fu accreditata un’immagine che lo voleva rassegnato e dolente nella sua storica immobilità. Ricordate come si apre Cristo si è farmato a Eboli di Carlo Levi ?

P1…

Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare la Storia. Spinto qua e là alla ventura, non ho potuto finora mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini, di tornare fra loro, e non so davvero se e quando potrò mai mantenerla. Ma, chiuuso in una stanza, e in un mondo chiuso, mi è grato riandare con la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Statom eternamente paziente; a quella mia terra senzaconforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte”.

Per Levi la Lucania contadina è essenzialmente il paese del mito, il paese che vive da sempre esperienze che sono al riparo dalle grandi correnti della storia, esperienze che si collegano agli spiriti che sono nell’aria, alle potenze che si celano nelle bestie e negli uomini. Riflettendo sulle pagine di Levi mi resi conto che la sua interpretazione del mmondo contadino era sostanzialmente errata.

Anzitutto se la “civiltà cristiana” ha così poco permeato di sé il Mezzogiorno contadino, se Cristo si è fermato a Eboli, ciò costituisce un fatto storico che deve trovare la sua spiegazione in un limite interno all’umanesimo cristiano. In secondo luogo, come ho mostrato in Note lucane, il Mezzogiorno contadino, almeno nei suoi sstrati più avanzati, aspira a vincere il limite umanistico della civiltà cristiana, il mondo che vive oltre Eboli è impegnato a superare il cippo condinario piantato dalla civiltà di Cristo – come si potrebbe dire capovolgendo l’immagine di Levi. In terzo luogo 8e fu questo lo spunto critico più ricco di conseguenze) proprio quelle esperienze contadine che sembrano fuori dal tempo, e quasi al riparo dalla storia, rinviano in realtà a drammi sociali storici concreti, da cui procedono istituti umani definiti.

Levi, p68, a proposito di un becchino, banditore comunale e incantatore di lupo:

Una notte, non molto tempo prima, qualche mese o qualche anno, non potei farglielo precisare, poiché le misure del tempo erano, per lvecchioincantatore, indeterminate, egli tornava da Gaglianello, la frazione, e, giunto su un poggio, che è di fronte alla chiesa, il Timbone della Madonna degli Angeli, aveva sentito in tutto il corpo una strana stanchezza, e aveva dovuto sedersi in terra, sul gradino di una cappelletta. Gli era stato poi impossibile alzarsi e proseguire: qualcuno llo impediva. La notte era nera, e il vecchio non poteva discernere nulla nel buio: ma dal burrone una voce bestiale lo chiamava per nome. Era un diavolo, installato lò tra i morti, che gi vietava il passaggio. Il vecchio si fece il segno della croce, e il demonio cominciò a digrignare i denti e a urlare di spasimo. Nell’ombra il vecchio distinse per un momento una capra sulle rovine della chiesa saltare spaventosa, e scomparire. Il diavolo fuggì nel precipizio, ululando. – Uh! Uh! – gridava dileguandosi: e il vecchio si sentì ad un tratto libero e riposato, e in pochi passo tornò in paese”.

Mondo Magico, p 91 …

“In un’area di diffusione che compprende (almeno in base agli accertamenti finora eseguiti) la siberia artica e subartica, il Nord-America e la Melanesia, è stato osservato una singolare condizione psicologica in cui molto spesso cadono gli indigni, quasi vi fossero naturalmente disposti. Questa cndizione, chiamata Latah dai Malesiami, Olon dai Tungusi, Irkunii dagli Yukagiri, Amurak dagli Yakuti, Menkeiti dai Koriaki, Imu dagli Ainu è stata osservata e descritta da parecchi autori. Nello stato latah, così ocome è descritto da Sir Huge Clifford, l’indigeno pere per periodo più o meno lunghi, e in grado variabile, l’unità della propria persona e ll’autonomia dell’io, e quindi il controllo dei suoi atti. In questa condizione, che subentra in occasione di una emozione o anche soltanto di qualche cosa che sorprende, il soggetto è esposto a tutte le suggestioni possibili”.

Levi, p.137 esperienze del manovale Carmelo Coiro

Levi racconta il suo incontro con un “monachicco” in una grotta durante i lavori di un cantiere edile. I “monachichi” sono spiritelli bizzarri che tormentano le persone con scherzi e stranezze”.

Mondo magico, p.110…

“[Secondo i gruppi tungusi, gli spiriti vengono dallo sciamano durante il periodo oscuro della giornata, e alcuni spiriti non possono essere addotti e non si piò trattare con essi durante il giorno. Questo vale non solo per gli sciamani ma anche per gli altri]. Presso i Manciù lo sciamanizzare è effettuato durante le ore della notte : [È ben noto agli studiosi di maghismo sciamanistico che la esigenza delle tenebre trova talora espressione nella costruzione ufficiale di luoghi scuri ad hoc per le pratiche sciamanistiche, o anche la utilizzazione di recessi oscuri esistenti]”.

Questo paeallelismo dei documenti, che rinviavano a un modello storico idealmente identico pur nella loro distanza spaziale e nella varietà delle situazioni culturali, dette in me l’avvio a tutta una serie di pensieri.

In primo luogo si imponeva il riconoscimento che il mondo storico dei miei contadini, per ciò che esso presenta di arcaico e di “arretrato”, è lo stesso dei popoli primitive delle civiltà etnologiche. Nell’uno e nell’altro appare la stessa situazione esistenziale, la stessa disintegrazione della presenza rispetto alla storia, e pertanto gli stessi drammi culturali magico-religiosi. Nell’uno e nell’altro caso appare la stessa condizione di soggezione rispetto alla natura, la stessa mancanza di un piano umano per dominare l’ordine naturale. E nell’uno e nell’altro appare la stessa soggezione sociale rispetto alla civiltà cristiana, che ora mi rivela il suo limite interno per la sua qualità di civiltà borghese: che i portatori più qualificati di questa soggezione fossero i questori o i prefetto, come accade per il mezzogiorno contadino, o i funzionari e gli amminstratori di coloniali come accadde per le popolazioni etnologiche, è una differenza irrilevante che non altera la sostanziale identità.

In secondo luogo il dramma esistenziale magico che che avevo narrato nel Mondo Magico mi apparve necessariamente legato a una condizione subalterna di esistenza, onde religione e magia nascevano come riflessi di questa condizione: proprio perché questi uomini non erano di fatto cittadini della storia, la loro presenza era storicamente non integrata, e culturalmente erano impegnati a esserci in qualche modo nella storia attraverso la magia o a salvarsi dalla storia attraverso la religione. In tal modo, attraverso queste esperienze vive, in parte politiche e in parte culturali, entravano nella prospettiva marxzista della storia, o almeno in un suo aspetto fondamentale.

In terzo luogo il naturalismo dell’etnologia e del folklore tradizionale mi si dichiararono come espressione del limite umanistico interno della “civiltà borghese”: proprio perché i popoli coloniali e semicoloniali e gli stati subalterni dei paesi colonizzati non vivevano per entro la coscienza culturale borghese come mondo di uomini ma piuttosto come mondo di cose, come natura padronneggiabile e sfruttabile, non poteva mancare una etnologia storicistica borghese.

In quarto luogo mi si chiarì che la esigenza di una etnologia e un folklore storicistici eea nata in me come momento rischiaratore del processo di emancipazione reale che, su scala mondiale, portava il mondo che vive oltre Eboli a varcare il cippo condinario della civiltà di Cristo. Restava intatta la persuasione espressa in Naturalismo e storicismo che il compito dello storico nell’odierna crisi della civiltà è quello di allargare l’autocoscienza storiografica per rischiarare l’azione. Ma l’azione era diventata ora la trasformazione della società borghese in quella socialista, la partecipazione attiva alla emancipazione della sicietà borghese in quella socialista, la partecipazione attiva alla emancipazione reale di centinaia di migliaia di uomini su scala ecumeenica, e l’allargamento dell’autocoscienza significava appunto che la memoria storica del mondo primitivo si accendeva nel momento stesso in cui quel mondo diventava per entro la coscienza culturale moderna un problema per l’azione emancipatrice.

Il problema arcaico della salvezza della presenza nella storia o dalla storia acquistava rilievo storiografico nel momento stesso in cui un grande movimento ecumenico di emancipazione reale degli oppressi era immpegnato a sradicare le condizioni di esistenza che per così lungo corso di evi avevvano alimentato quel problema. La situazione ierogonica, da cui rampollano necessariamente magie e religioni, si distendeva nella dimensione della comprensione dtoriiografica nel momento stesso in cui la situazione ierogonica come tale diventava oggetto di una prassi destinata a sopprimerla, integrando gli uomini, tutti gli uomini, nella storia umana. Così ho unificato un una superiore unità i miei interessi scientifici e quelli pratico-politici: e l’opera a cui lavoro la sento ora legata au n grande movimento ecumenico che stringe insieme tutto il mondo che vive oltre Eboli.

Mi piace per chiudere questa mia conversazione leggendo una poesia di un poeta dilettante molisano, Eugenio Cirese.

Eugenio cirese (Fossalto, 1884 – Rieti, 1955) è stato anche studioso di Folklore e raccoglitore di caanti popolari. Il suo lavoro ha avuto una notevole influenza sul figlio Alberto Mario Cirese, che sarà uno dei fondatori della antropologia post-bellica. Non è stato possibile risalire alla poesia a cui fa riferimento de Martino.

Attualmente ho in animo di organizzare soedizioni in équipe.

Per quel che mi concerne da queste spedizioni dovrebbero risultare una parte del materiale documentario per un’opera sulll’angoscia della storia, cioè sulle forme di vita culturale che nascono da questa angoscia.

 

Bibliografia

Sud e Magia, ernesto de Martino, Edizione speciale con le fotografie di F.Pinna, A,Gilardi e A.Martin e con l’aggiunta di altri testi e documenti del cantiiere etnologico lucano. A cura di Fabio Dei e Antonio Fanelli, Donzelli 2015, pp 170-176

Idoli e fanatismi digitali. Dogmi, riti e miti nel mondo di internet

Il termine idolo ha molte applicazioni e soprattutto diverse definizioni, che se pur affini tra loro, differiscono in diversi punti.

Tra le varie definizioni di Idolo presenti nel dizionario italiano, la sua definizione estesa è sicuramente quella più interessante, un idolo non è altro che un oggetto o un entità che gode di un’ammirazione e/o di una dedizione gelosa o fanatica.
La definizione di idolo dunque va di pari passo con quella di fanatico e di fanatismo, di fatto il fanatico è una persona dominata dal fanatismo (sempre secondo il dizionario della lingua italiana) ed il fanatismo non è altro che una forma di “Intollerante, esclusiva e acritica sottomissione a una fede religiosa o politica, spesso causa d’intolleranza, e talvolta di violenza, nei confronti di chi ne professa una diversa.”

In entrambe le definizioni siamo inseriti all’interno della sfera religiosa o politica e in questo mio ragionamento voglio proporre un estensione, se così la si può chiamare, del paradigma politico, andando a lavorare sulla figura dell’idolo e del fanatismo digitale.
Per sviluppare il mio ragionamento farò largo uso delle argomentazioni e delle osservazioni di due importanti antropologi europei, da una parte Rudolph Otto, storico delle religioni autore del monumentale Das Heilige (il sacro) pubblicato nel 1917 e dall’altra Ernesto de Martino, antropologo, o per meglio dire etnologo italiano, padre dell’antropologia ed etnologia italiana, autore di Sud e Magia, un saggio antropologico incentrato sullo studio della tradizione magica in Lucania, terra che l’etnologo napoletano avrebbe studiato per gran parte della sua vita, ma mettiamo ora da parte Ernesto de Martino e torniamo al soggetto di questo mio intervento, ovvero l’idolo Digitale.

Iniziamo col definire cosa intendo esattamente con idolo digitale, e perché si è resa necessaria questa premessa con riferimenti a due importanti antropologi del secolo scorso.

L’elemento cardine di questa discussione è l’ampliamento degli elementi identificativi dell’idolo e se al tempo di de Martino e Otto questi elementi erano legati unicamente alle sfere della religione e della politica, oggi esulano da questi ambiti per dilagare in altri lidi quali possono essere il mondo delle arti, dello spettacolo dello sport e come nel nostro caso, nel mondo digitale.

L’idolo digitale al pari dell’idolo religioso e ancora di più dell’idolo politico, è di fatto un individuo o un portale che “gode di un’ammirazione e/o di una dedizione gelosa o fanatica” e non è affatto un caso se sul web abbiamo a che fare soprattutto con “fandom” ovvero comunità di Fan, termine che ricordiamo derivare dall’inglese Fanatic ovvero Fanatico. Il cerchio dunque potrebbe chiudersi qui, l’idolo digitale non è altro che una nuova espressione del fanatismo, già conosciuto nel mondo dello spettacolo in gran parte del secondo ventesimo, esportato in nuovi contesti.

C’è però una differenza sostanziale tra gli “idoli canori e televisivi degli anni sessanta, settanta, ottanta e novanta” ed i nuovi idoli digitali, che va oltre le opinabili capacità artistiche di uno o l’altro personaggio più o meno popolare, attorno a cui può radunarsi o meno una comunità di fan, e questa differenza è dovuta al fatto che, sempre più spesso, i nuovi idoli in maniera più o meno volontaria, finiscono con l’imporsi come modello di riferimento in un determinato settore e ciò va oltre la persona arrivando a coinvolgere anche elementi totalmente impersonali.

Caso esemplare quello di Wikipedia, l’enciclopedia libera, uno dei simboli del web e dell’informazione accessibile a chiunque, uno strumento sicuramente molto prezioso ma allo stesso tempo labile e di dubbia affidabilità, in un altro articolo qui su Historicaleye il nostro collaboratore Aramis ha dimostrato in maniera esemplare la fallacità di Wikipedia, mostrando come il lettore possa essere tratto in inganno da eventuali informazioni errate, ma ben argomentate.

È stato proprio questo articolo di Aramis e soprattutto la reazione di numerosi lettori casuali, a spingermi a ragionare sulla natura degli idoli digitali.

Nell’articolo di Aramis viene evidenziata una falla enorme nel sistema di wikipedia che per quanto possa essere uno strumento utilissimo, si presta, per sua natura, alla libera manipolazione da parte degli utenti e allo stesso tempo si presenta come portatrice di verità.

Il lettore medio, non attento alla verifica dell’informazione è portato automaticamente a prendere per vero e in maniera quasi dogmatica ciò che legge su Wikipedia (o altri portali, compreso questo) anche quando quel qualcosa di vero non ha assolutamente nulla, rassicurato dal fatto che quel portale sia “affidabile”, e quell’affidabilità è determinata dalla reputazione del portale più che dalle informazioni effettivamente riportate.

Ma cosa succede se se quell’affidabilità viene messa in discussione ? e  cosa succede se qualcuno prova a sollevare un dubbio sulla sua affidabilità ?

Le reazioni riscontrate in risposta all’articolo di Aramis e del mio video “Chi corregge Wikipedia ?” sono state particolarmente aggressive e violente, arrivando ad additarci, per mantenere un parallelismo col mondo religioso, di blasfemia ed eretismo. Sembrava di essere improvvisamente ritornati nelle aule del tribunale dell’inquisizione, quasi costretti a scegliere tra l’Abiura ed il Rogo.
Mi rendo conto che questo parallelismo con tempi cupi e oscuri a qualcuno potrà sembrare eccessivo, di fatto si tratta di un esagerazione volta a sottolineare un qualcosa che per me è fin troppo evidente.

Il web e alcuni dei suoi prodotti hanno sostituito il misticismo e la magia, andando a fornire una nuova, più tecnologica, soluzione a quella che Ernesto de Martino definiva la crisi della presenza, tema appena accennato in Sud e Magia e trattato in maniera estremamente più articolata e completa in opere come “Il mondo magico: prolegomeni a una storia del magismo”.

 

La presenza è intesa da Ernesto de Martino come la capacità di conservare nella coscienza le memorie e le esperienze necessarie per rispondere in modo adeguato ad una determinata situazione, partecipandovi attivamente attraverso l’iniziativa personale e andandovi oltre attraverso l’azione.
La presenza demartiniana significa dunque “esserci” nel senso heideggeriano del termine e in questa sua lettura, l’uomo ha bisogno di un aiuto per superare una sorta di “crisi della presenza” nei confronti della natura e per fare ciò, per superare insomma questo senso di inferiorità nei confronti del mondo circostante, l’uomo demartiniano si rifugia nel rito e nel sacro, secondo le definizioni fornite da Rudolph Otto nel suo Das Heilege.

I riti offrono rassicuranti modello da seguire andando a costruire quella che de Martino definisce come tradizione, ma nell’era digitale, fatta di informazioni sempre più immediate, dove ognuno può fingersi esperto  e dire la sua su tutto ciò che la sua mente è in grado di afferrare, l’uomo apparentemente più consapevole del complicato universo che lo circonda è sempre meno incline ad appoggiarsi a definizioni religiose ed ha quindi bisogno di un nuovo rifugio, di una nuova ritualità e di una nuova tradizione.

Questa nuova ritualità al pari della ritualità nel mondo antico, ha bisogno punti fissi, ancore nel caotico mare digitale in continuo movimento e perenne rinnovamento e questa stabilità può essere ritrovata in vecchi paradigmi adattati al mondo digitale.

Si vengono quindi a creare nuove verità dogmatiche non opinabili, alle quali si può solo scegliere se credere o non credere, senza possibilità d’appello e senza possibilità di discussione.

Nascono così gli idoli digitali, figure, simboli, personaggi e portali, la cui voce è sacra e inopinabile. Inizia qui, nell’epoca di internet, un nuovo medioevo, una nuova era di transizione fatta di fede cieca in moderni miti, mentre le verità non vere, scoppiano spargendosi d’intorno.

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