Partenope: Breve storia della città da Partenope a Napoli

Napoli e Partenope sono la stessa città o sono città diverse? Nell’epoca dei social non è difficile imbattersi in post che parlano di Napoli e Partenope come se fossero città e realtà diverse, anche se vicine e in un certo senso legate tra loro, così come non è difficile imbattersi in post in cui i due nomi fanno riferimento alla stessa città in momenti differenti, ma qual è la verità? Napoli e Partenope sono la stessa cosa o sono città diverse ma molto vicine tra loro che col tempo si sono fuse insieme?

Per cercare di rispondere a questa andremo alla riscoperta delle origini di Napoli tra archeologia, storia, miti e leggende, e prometto che cercherò di essere il più breve possibile.

Le origini mitiche di Napoli

Come molte città antiche, anche l’origine di Napoli si perde nel mito e tra le tante versioni che si sono susseguite nei secoli in merito alla fondazione di Napoli, il mito di Partenope è forse uno dei più affascinanti che è giunto a noi in varie versioni.

Secondo la tradizione popolare Partenope era una sirena, raffigurata secondo i canoni della mitologia greca, un ibrido con il corpo di uccello e la testa di donna, dal canto melodioso. Molto simile esteticamente alle arpie, ma con caratteristiche differenti, nella mitologia greca infatti le arpie sono più violente e punitive, mentre le sirene sono creature seducenti. Per quanto riguarda Sirene e Arpie nella mitologia greca, va detto che ci sono diverse teorie secondo cui sarebbero la stessa creatura in momenti diversi.

Tornando alla sirena Partenope, secondo la leggenda questa fu la sirena che tentò di ammaliare Ulisse con il proprio canto, tuttavia, l’eroe, avvertito dalla maga Circe, si era fatto legare all’albero maestro della nave così da resistere al canto delle sirene. Secondo la leggenda napoletana, la sirena Partenope, non riuscendo nel proprio intento, si gettò in mare e il suo corpo fu trasportato dalle onde fino all’isolotto di Megaride, dove oggi sorge il Castel dell’Ovo dando origine alla città di Napoli.

La cosa più interessante di questo mito è che se si immagina la sirena moderna, creatura marina per metà donna e per metà pesce, non ha alcun senso, tuttavia, se si considera la sirena greca, per metà donna e per metà uccello, tutto cambia.

Questa versione prende le battute dalla tradizione omerica e dall’odissea ed è la versione più conosciuta del mito di partenope, soprattutto fuori da Napoli, vi sono tuttavia altre versioni del mito, proprie della tradizione locale.

Una di queste versioni, molto presente nella tradizione popolare napoletana, racconta di una sirena Partenope, che viveva nel golfo di Napoli, innamorata del centauro Vesuvio. Il loro amore è tuttavia ostacolato da Zeus, a sua volta invaghito di Partenope, decise di separarli per sempre. Vesuvio venne così trasformato in un vulcano e Partenope nella città di Napoli. I due amanti sono così condannati ad un supplizio, un amore eterno e impossibile, con il Vesuvio condannato a vegliare costantemente sulla città senza poterla mai raggiungere. La cosa interessante di questo mito è che non sappiamo a quando risalga, e nella tradizione popolare Partenope è generalmente descritta come una sirena “moderna” metà donna e metà pesce, elemento che potrebbe suggerire un origine medievale del mito, probabilmente derivato da un mito più antico.

Ultima versione del mito di Partenope che voglio riportare, ci arriva attraverso la raccolta “Le leggende napoletane” di Matilde Serao, ed è una versione molto particolare, molto legata alla fondazione della città e poco legata al “mito”. In questa leggenda infatti Partenope non è una creatura mitica ma una giovane donna greca innamora dell’eroe ateniese Cimone. Tuttavia, il padre di Partenope avendo promesso sua figlia in sposa ad un altro uomo, cercherà di ostacolare il loro amore. Cimone e Partenope decidono quindi di lasciare la Grecia e dopo un lungo viaggio approdano sulle coste del golfo di Napoli, qui costruiranno il proprio nido d’amore, e la loro discendenza darà vita al popolo napoletano. In questa versione del mito Partenope è sostanzialmente un antica colonizzatrice e madre mitica del popolo napoletano.

Ciò che questi tre miti hanno in comune, ma che in realtà lega insieme tutti i miti della fondazione di Napoli legati a Partenope, è il fatto che Partenope incarna l’essenza stessa di Napoli. La sua bellezza ammaliante, il suo fascino seducente, il suo legame indissolubile con il mare e la sua storia travagliata e appassionata, e solleva una domanda, ci fu davvero una “Partenope” nella storia di Napoli? E la risposta a questa domanda è si.

Cosa sappiamo sulla fondazione di Napoli

Mettendo da parte il mito e rivolgendo lo sguardo verso l’archeologia, noi oggi sappiamo che intorno all’VIII secolo coloni greci arrivarono nel golfo di Napoli, all’epoca chiamato kratèr, e fondarono un importante colonia con il nome di Kýmē (odierna Cuma) legata alla storia e al mito delle origini di Roma. Cuma divenne immediatamente un importante snodo commerciale per altre sub-colonie nella regione, tra cui la colonia mineraria di Πιθηκοῦσσαι (Pithecusa oggi Ischia) e una colonia commerciale tra Vesuvio e Campi flegrei, chiamata Παρθενόπη, ovvero Partenope.

Se Cuma sorge come avamposto, Partenope viene fondata per una ragione differente, la sua posizione strategica sul colle di Pizzofalcone offre il un ampio controllo litoraneo e del traffico marittimo nel golfo. E vista la sua posizione strategica fondamentale verrebbe da chiedersi, perché i greci si insediarono prima a Cuma e solo in seguito nel golfo di Napoli con la fondazione di Partenope?

Non abbiamo una risposta certa a questa domanda, ciò che sappiamo è che nell’area dell’attuale basilica di Santa Maria degli Agnelli a Pizzofalcone, dove sappiamo sorgeva l’acropoli della città greca di Partenope, sono stati rinvenute tracce di insediamenti risalenti al Neolitico e soprattutto all’Età del Bronzo. Questi reperti ci suggeriscono che l’area fosse già occupata prima della colonizzazione greca.

Nei secoli successivi, per almeno due o tre secoli, il nome della città greca che controlla il golfo di Krater (il golfo di Napoli) è Partenope, ed è un avamposto Cumano, estremamente importante per il controllo della regione e che tale espansione non fu esente da conflitti e scontri con gli altri popoli italici, in particolare latini ed etruschi. A tale proposito sappiamo che nel VI secolo, si ipotizza intorno al 524 a.c. le rivalità tra cumani ed etruschi culminarono nella battaglia di Cuma, che vide la sconfitta dei cumani e segnò l’inizio del declino della città di Partenope. In quello stesso periodo, tra Partenope e Cuma , esuli di Samo fondarono l’insediamento di Pozzuoli. Il declino di Partenope che durò circa mezzo secolo e approssimativamente intorno al 474 a.c. ci fu un nuovo scontro navale tra la flotta etrusca e quella cumana guidati da Ierone I di Siracusa. La coalizione delle colonie greche riuscì a sbaragliare le forze etrusche, permettendo alla città di Partenope di risorgere.

Secondo la tradizione il 21 dicembre 475 a.c. (data presumibilmente scelta in maniera simbolica) Partenope venne rifondata sore una Neapolis, adiacente alla Palepolis, ovvero una città nuova accanto alla città vecchia. In cui, il vecchio sito di Partenope rappresentava la Palepolis, mentre la nuova area urbanizzata divenne la Neapolis.

Da fonti del V secolo sappiamo che il nuovo insediamento di Neapolis, che inglobava la vecchia Partenope, non era considerato all’epoca una vera e propria espansione di Partenope, quanto più una nuova città, che sorgeva in qualche modo dalle ceneri di Partenope, motivo per cui la tradizione ci riporta come data di fondazione della città, la “rifondazione” del V secolo, con un nuovo nome, mentre il vecchio nome di Partenope è progressivamente abbandonato.

Perché Napoli ha cambiato nome ed ha abbandonato quello di Partenope?

A questo punto la domanda sorge spontanea, sappiamo che Napoli ha un forte legame con la tradizione e con il mito di Partenope, e sappiamo che i suoi abitanti non hanno mai ufficialmente dismesso il nome di “partenopei” sentendosi in qualche modo discendenti di Partenope. Partenope ancora oggi, lo vediamo nella narrazione di Matilde Serao, è considerata la Madre mitica di Napoli e dei suoi abitanti, ma allora perché Napoli non si chiama più Partenope?

Se avessimo una risposta chiara a questa domanda, sapremmo molte più cose sul nostro passato di quante non ne sappiamo effettivamente, perché purtroppo, una risposta chiara e netta non l’abbiamo, sappiamo che il nome cambia a seguito di una serie di scontri durati più di mezzo secolo, ma non sappiamo se tra la prima e la seconda battaglia di Cuma, la città di Partenope venne abbandonata o meno.

Secondo alcuni storici il motivo per cui il nome Partenope venne dismesso in favore di Neapolis è perché dopo la prima battaglia di Cuma la città di Partenope cadde completamente e solo dopo la vittoria cumana nella seconda battaglia di Cuma, la città venne effettivamente rifondata. Secondo altri il cambio di nome indica un a trasformazione, un cambio al vertice. Partenope era una colonia Cumana, Neapolis esiste grazie all’aiuto dei siracusani. Ma queste sono solo due delle innumerevoli ipotesi e leggende sul perché, nel V secolo Partenope si trasformò in Napoli, mentre i suoi abitanti continuarono a considerarsi “figli di Partenope”.

Se l’articolo è stato interessante ti invito a condividerlo. Facci sapere se vuoi approfondire la storia della fondazione di Cuma e il suo legame con la storia e i miti delle origini di Roma.

Per approfondire

Napoli nella storia. Duemilacinquecento anni, dalle origini greche al secondo millennio
Napoli prima di Napoli. Mito e fondazioni della città di Partenope
Storia di Napoli

Fonti

Parthenope: drie mythen over de oermoeder van de stad Napels | Archeologie Online
Partenope, Palepolis, Neapolis : origini e fondazione della città di Napoli
Comune di Napoli – Cultura – Cenni Storici sulla città

La dinastia dei Tarquini: un secolo di monarchia etrusca a Roma | CM

Cenni cronologici

Una delle fasi più antiche e caratteristiche della Roma dei primordi è certamente caratterizzata dalle storie semi-leggendarie riguardo i sette re delle origini (Romolo, Numa Pompilio, Anco Marzio, Tullio Ostilio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo), dalla fondazione di Roma da parte di Romolo (753 a.C.) fino alla cacciata dall’Urbe di Tarquinio il Superbo (509 a.C.). Il numero sette, che definisce appunto i sovrani della monarchia romana, ricorre quasi simbolicamente anche per quanto riguarda i noti sette colli romani (Aventino, Celio, Quirinale, Campidoglio, Esquilino, Palatino e Viminale), sedi fondamentali del potere politico romano e fulcri di splendore artistico.

Tra questi celebri sette sovrani che regnarono a Roma a cavallo tra il 753 a.C. (anno della fondazione di Roma da parte di Romolo, “ab Urbe condita“, ovvero “dalla fondazione dell’Urbe”) e il 509 a.C., spiccano tre diversi re che si susseguirono reciprocamente e cronologicamente nell’arco dell’ultimo secolo della monarchia romana: Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. Essi regnarono infatti per circa un secolo, dal 616 a.C. al 509 a.C., distinguendosi rispetto agli altri monarchi soprattutto per quanto riguarda la loro discendenza, unico tratto insolito e singolare che potesse in qualche modo accomunarli: i tre sovrani erano infatti etruschi.

Considerando l’“etruscità” come un tratto distintivo e originario del popolo romano, è possibile intravedere in questi ultimi tre re etruschi tuttò ciò che sarà il “lascito” della civiltà etrusca per la civiltà romana. Gli etruschi, così come tutti gli altri popoli italici gradualmente conquistati e inglobati dai romani, vedranno la loro autonomia e indipendenza definitivamente cancellata nel 90 a.C., quando otterranno la cittadinanza romana. Il popolo etrusco viene infatti considerato come il principale antenato di quello romano, non solo per la vicinanza geografica con il luogo d’origine, ma anche per molteplici aspetti sociali e culturali che verranno tramandati nei secoli, tra cui:
1. SELLA CURULIS = Uno sgabello simbolo del potere giudiziario, riservato inizialmente soltanto ai sovrani e successivamente anche ai magistrati.
2. TOGA PURPUREA = Simbolo di potere che nella Roma antica veniva indossata dall’imperatore.
3. FASCI LITTORI = Rappresentano un simbolo di giustizia e autorità per i magistrati.

Tarquinio Prisco (616-579 a.C.)

Discendente diretto della famiglia dei Pachidi, che aveva dominato a Corinto tramite vasti commerci e attività artigianali (tra le quali la produzione di molte ceramiche), è noto per essere il figlio maggiore di Demarato, il quale fu costretto a fuggire da Corinto a causa delle incombenti rivalità in atto tra la sua famiglia e quella dei Cipselidi, che ora regnavano sulla città (Cipselo era infatti il nuovo tiranno). Demarato allora, per cercare soprattutto nuovi commerci e mercati, si trasferì a Tarquinia nel 657 a.C., dove sposò una nobile del luogo, da cui avrà due figli: Lucumone (Tarquinio Prisco), il maggiore dei due, e Arunte (morto poco prima del padre).

Tarquinio Prisco è infatti conosciuto con il nome originario etrusco di Lucumone, termine che successivamente verrà utilizzato per indicare un’importante carica politica di principe o capo dell’aristocrazia (ancora più avanti diventerà anche una carica magistratuale). Egli infatti, dopo essersi trasferito a Roma con la moglie, cambierà nome in Lucio Tarquinio Prisco (Lucius Tarquinius Priscus), per segnare l’evidente vicinanza geografica e familiare con la fiorente città etrusca di Tarquinia. Come il padre infatti sposerà anch’egli una ricca aristocratica tarquinese di nome Tanaquilla, esperta indovina che lo convinse a lasciare Tarquinia per sistemarsi definitivamente a Roma.

Noto soprattutto per essere stato il primo re di origine etrusca e il quinto re (stando alle fonti di Tito Livio) nella successione dei sette sovrani che regnarono su Roma a partire da Romolo, possiamo descrivere la sua ascesa al trono come lineare e non troppo travagliata. Egli infatti riuscì a distinguersi sul territorio romano per la sua grande generosità e per le sue svariate doti, tanto che l’attuale monarca in carica, Anco Marzio (678-616 a.C.), volle insistentemente conoscerlo. I due così diventarono presto molto amici, tanto che il sovrano lo nominò come suo principale consigliere, decidendo infine di adottarlo, affidandogli anche il prezioso compito di proteggere e sorvegliare i suoi figli. E’ probabile che ricoprì anche la prestigiosa carica di magister populi. Alla morte di Anco Marzio infatti, Tarquinio Prisco riuscì facilmente a farsi eleggere come sovrano successore per diretta eredità famigliare, sfruttando proprio l’adozione da parte del precedente sovrano e la benevolenza dimostrata dal popolo romano nei suoi confronti. Avrà così inizio proprio con lui la “grande Roma dei Tarquini”.

La sua storia e la sua presa di potere vengono narrate dettagliatamente dallo storico Tito Livio; si tratta di racconti ampiamente tratteggiati da vari caratteri mitistorici e leggendari, che s’intrecciano con la realtà storica, archeologica ed epigrafica degli eventi. Con lui Roma diventerà una delle città più grandi di tutto il Mediterraneo, attraverso una vastissima serie di riforme sociali, politiche ed economiche, oltrechè a un intenso programma di restaurazioni e costruzioni architettoniche sparse per tutta l’Urbe. Operò infatti una radicale ristrutturazione urbanistica di Roma, conferendole così un aspetto più maestoso e monumentale attraverso la costruzione di importanti infrastrutture, tra le quali possiamo citare:
1. CLOACA MASSIMA = Uno dei più antichi e imponenti condotti fognari della storia. Venne costruita inizialmente per assorbire le acque del Tevere all’interno dei suoi collettori quando straripava, poichè si trattava di un fenomeno piuttosto frequente e pericoloso per l’intera città.
2. CIRCO MASSIMO = Destinato come sede permanente per le corse dei cavalli; vennero così istituiti i ludi romani.
3. TEMPIO DI GIOVE OTTIMO MASSIMO = Sempre a Tarquinio Prisco si deve anche l’inizio dei lavori per la costruzione del tempio di Giove Capitolino, collocato sul colle del Campidoglio.
4. MURA SERVIANE = Decise inoltre di dotare Roma di nuove fortificazioni murarie, iniziando anche a far erigere una nuova e imponente cinta muraria difensiva come non si era mai vista prima d’ora.

Per quanto riguarda invece le riforme che operò in campo politico e giudiziario, troviamo svariate testimonianze, soprattutto per quanto riguarda la politica militare e l’ordinamento interno della città. Egli infatti, a livello militare, riuscì abilmente a destreggiarsi in molteplici conflitti, dove i romani ebbero sempre la meglio, e tra i vari popoli che affrontò troviamo:
1. SABINI = In occasione di questo scontro fu aumentato il numero di cavalieri che ognuna delle tre tribù romane doveva obbligatoriamente fornire all’esercito romano.
2. LATINI = Una fitta coalizione di città etrusche (Arezzo, Chiusi, Volterra, Roselle e Vetulonia) corse in soccorso dei latini in due durissimi scontri campali contro la città di Roma.
3. ETRUSCHI = In seguito a una coalizione di etruschi e sabini, dove questi ultimi vennero sconfitti e furono costretti a concordare una pace, gli etruschi invece non si arresero mai, e i conflitti combattuti sulle città di Caere e Veio durarono per ben sette anni di scontri campali.

Operò inoltre una significativa riforma sulla classe degli equites (i “cavalieri”), aumentandone il numero, e decise poi di raddoppiare anche il numero delle centurie e di aumentare i membri dell’assemblea centuriata e dei senatori. Morì assassinato in seguito a una congiura organizzata dal maggiore dei figli di Anco Marzio, desideroso di ottenere il trono che riteneva usurpato da uno straniero. Tuttavia la moglie Tanaquilla, astuta e abile manipolatrice, riuscì a far eleggere dal popolo come sovrano Servio Tullio (suo genero), grazie a uno stratagemma. A Tarquinio Prisco si deve, oltre a essere stato il primo monarca etrusco, l’introduzione di gran parte delle usanze etrusche da parte dei romani.

Servio Tullio (579-535 a.C.)

Si tratta di una figura complessa e centrale per la storia arcaica, sia per quanto riguarda il mondo etrusco/italico, sia per quanto riguarda il mondo romano del VI secolo a.C.. Egli rappresenta infatti un personaggio polimorfo e non facile da inquadrare, noto per essere stato il successore di Tarquinio Prisco, deve la sua fortuna e salita al potere alla moglie di quest’ultimo la quale, colta, ambiziosa ed estremamente abile in “fatti” religiosi come indovina, riuscì a predirne la grandezza e, alla morte del marito, gli diede in sposa la figlia e fece in modo che salisse al trono come sesto re di Roma. Tanaquilla riuscì infatti a nascondere al popolo romano la morte del marito, ordita dai figli di Anco Marzio, affermando che Tarquinio Prisco fosse in realtà solamente rimasto ferito e che avesse designato Servio Tullio come reggente temporaneo. In questo modo, quando si ristabilì la calma a Roma e venne annunciata la morte del precedente sovrano, egli venne accettato come legittimo re senza alcuna opposizione dal popolo romano.

Le fonti su questo personaggio risultano spesso ambigue e discordanti, ed è possibile parlare di una duplice tradizione nei suoi confronti. Da una parte possediamo infatti le testimonianze di Tito Livio e di vari altri storici romani, che si rifanno appunto alla tradizione romana, mentre dall’altra possiamo trovare la tradizione etrusca, legata a storie e leggende di storici etruschi e tramandata soprattutto attraverso l’imperatore Claudio, con la Tabula di Lione, un discorso effettuato dall’imperatore a Lione (in Gallia) nei confronti del senato locale o di uomini politici del posto. Egli era infatti molto appassionato di storia etrusca, di cui scrisse varie altre opere, oggi andate perdute.

Per quanto riguarda la tradizione romana ci viene riportato dagli storici, e soprattutto da Tito Livio, che egli fosse un uomo di umili origini nato da una prigioniera di guerra, probabilmente nobile nella sua città natale (nota come Ocrisia), ridotta in servitù presso il focolare domestico di Tarquinio Prisco. Da questo fatto deriverebbe infatti l’etimologia del suo nome e della sua condizione sociale, ovvero “Servio”, inteso appunto come figlio di una serva. A differenza del suo predecessore e del suo successore sarebbe infatti un homo novus. Le fonti ci riportano inoltre un’intensa attività politica, economica e militare. Egli infatti fu un grandissimo riformatore sia in campo politico che in quello militare, operando alcuni degli interventi più importanti e significativi per la storia di Roma, tra cui:
1. RIFORMA SERVIANA = Si tratta della più importante modifica dell’esercito operata in epoca pre-repubblicana. Divise la popolazione in classi, e da lui in avanti la cittadinanza sarebbe stata basata sul censo. Si trattava infatti di una riforma censitaria secondo cui i cittadini romani sarebbero dovuti essere dei possidenti terrieri per poter intervenire nelle assemblee e per essere reclutati nell’esercito; proprio in questo periodo nacque anche un esercito basato su centurie e gerarchie. Egli comprese per primo che Roma necessitava di un esercito molto più numeroso per mantenere le sue conquiste ed espandersi (prima c’era una sola legione di circa tremila uomini, detto “esercito romuleo”). Iniziarono dunque a essere reclutati anche strati inferiori della società (plebei), fino ad allora severamente esclusi, evento che destò scandalo e disapprovazione tra i patrizi romani, i quali vedevano minacciati i loro privilegi. Modificò inoltre la tradizionale divisione in tribù del popolo romano, non tenendo più conto delle origini, ma considerando come criterio principale il luogo di residenza. Infine fu il primo sovrano a condurre un censimento generale (il primo nella storia).
2. RIORGANIZZAZIONE URBANISTICA = Per quanto riguarda le modifiche cittadine, aggiunse a Roma i tre colli più orientali (Viminale, Quirinale ed Esquilino), ampliò il pomerium (confine sacro della città), fece costruire sull’Aventino il tempio di Diana e ampliò ulteriormente le Mura Serviane già iniziate dal suo predecessore.
3. POLITICA MILITARE = In campo militare proseguì l’ormai inarrestabile politica di espansione territoriale romana a danno dei sabini e delle città etrusche di Veio, Caere e Tarquinia, le quali, considerandolo un usurpatore, si ribellarono non volendo più accettare gli accordi stipulati con Tarquinio Prisco.

Per quanto riguarda invece la tradizione tramandata dalle fonti etrusche, la situazione diventa più complessa, dal momento che si tratta principalmente di miti e leggende. Come precedentemente citato, la Tabula di Lione riporterebbe le vicende di un certo Mastarna (nome etrusco che identifica Servio Tullio), il quale sarebbe stato aiutato a prendere il potere con la forza da due fratelli e condottieri etruschi, Celio e Aulo Vibenna (scena rappresentata sulle pareti della tomba etrusca Francois). Tale tradizione potrebbe anche risultare parzialmente veritiera, dal momento che il nome Mastarna non presenta prenome e gentilizio (tipica formula binominale), e dunque non apparterrebbe a una figura nobile. Inoltre tale nominativo sarebbe posto in relazione al termine magister, carica che più avanti identificherà un capo militare romano del periodo più recente.

Servio Tullio sarebbe stato poi ucciso da Lucio Tarquinio, detto poi “il Superbo” una volta salito al trono. Egli infatti, complice con la figlia di Servio Tullio, Tullia Minore, sposa di Arunte (nobile, fratello di Tarquinio il Superbo), avrebbe spinto il sovrano dalle scale della curia in seguito a una sua provocazione. Quest’ultimo, ferito ma non ancora deceduto, mentre tentava di scappare dal foro, sarebbe stato ucciso da un cocchio trainato da cavalli, guidato dalla figlia Tullia. La plebe, da lui per molto tempo estremamente protetta e aiutata nella conquista di una maggiore autonomia e indipendenza, lo pianse molto e a lungo.

Tarquinio il Superbo (535-509 a.C.)

Conosciuto con il nome di Lucio Tarquinio (come il padre) e successivamente appellato come “il Superbo” per i suoi comportamenti efferati, fu il settimo e ultimo sovrano di Roma, oltrechè l’ultimo monarca della dinastia etrusca di sovrani che regnarono su Roma prima dell’imposizione politica della repubblica nel 509 a.C.. Fu il figlio maggiore di Lucio Tarquinio Prisco e fratello di Arunte Tarquinio, nobile a cui sarebbe successivamente spettata l’ascesa al trono. Inizialmente sposato con Tullia Maggiore, figlia di Servio Tullio, la fece poi uccidere per sposare Tullia Minore, l’altra figlia di Servio Tullio e sposa del fratello Arunte, da cui ebbe tre figli: Arrunte, Tito e Sesto.

Anche per questo sovrano, le maggiori fonti a disposizione dipendono dallo storico Tito Livio, il quale ci riporta soprattutto i dettagli della congiura ordita nei confronti del suocero, Servio Tullio. Tarquinio infatti, come precedentemente citato, si sarebbe fatto aiutare nell’organizzazione dell’omicidio dai tre figli e dalla seconda moglie Tullia Minore, autoproclamandosi sovrano rivendicando il trono tutto per sè, dopo esservisi seduto di fronte al senato. Questo fatto scandaloso avrebbe infatti attirato Servio Tullio in fretta e furia nella curia dove, in seguito a un’accesa disputa verbale, i due sarebbero poi passati a uno scontro fisico che vide Servio Tullio spinto dalla scalinata della curia e travolto dal carro trainato da cavalli e guidato dalla figlia Tullia, come precedentemente citato.

Intorno all’anno 535-534 a.C. circa, assunse dunque il legittimo titolo di monarca, in quanto maggiore tra i figli di Tarquinio Prisco e marito della figlia del precedente sovrano. Inoltre il luogo in cui era stato brutalmente assassinato Servio Tullio ricevette il titolo di vicus sceleratus, in ricordo dell’efferato gesto. Tuttavia Lucio Tarquinio riuscì a inimicarsi ben presto l’intero popolo romano, a partire dalla netta negazione nei confronti della sepoltura di Servio Tullio. In breve tempo gli venne infatti attribuito l’epiteto di “il Superbo”, non solo per la violenza con cui eliminò il precedente sovrano, ma anche per l’arroganza e la tirannia con cui prese il potere a Roma come monarca, senza rispettare una legittima elezione da parte del popolo né l’approvazione del senato romano. L’uso sistematico della violenza rimase infatti una costante per tutta la durata del suo regno. Egli per di più istituì anche un personale gruppo di guardie armate, mantenendo il controllo su tutto il territorio in maniera tirannica ed estremamente autoritaria. La società romana era infatti riuscita a costruire e rinsaldare in un brevissimo tempo una struttura fortemente fondata su una solida base democratica, la quale venne altrettanto rapidamente annientata dall’aggressività e dagli efferati costumi di Tarquinio il Superbo. Un’ulteriore novità nel regno di questo sovrano sta nel fatto che egli per la prima volta unì contro di sè l’odio comune non solo dei plebei che si vedevano oppressi e schiacciati dalla sua figura, ma anche dei patrizi, che temevano per una drastica riduzione dei loro privilegi.

Per quanto riguarda il regno di Tarquinio il Superbo, egli viene principalmente ricordato per quanto tirannico ed efferato fu il controllo che operò sul territorio romano, e soprattutto per come la violenza, a cui spesso e volentieri ricorreva, fosse una delle principali cause che lo portarono a inimicarsi l’intero popolo romano. Tuttavia, se si mettono da parte questi eventi che contribuirono maggiormente a rendere famoso il suo personaggio, egli operò anche numerose attività in ambito politico, economico e urbanistico, tra le quali:
1. POLITICA = Nonostante l’estrema arroganza politica riportata dalle fonti per quanto riguarda la presa di potere e il controllo del regno, egli poteva tuttavia vantare di grandi abilità strategiche e militari. A lui si deve infatti l’inizio della centenaria lotta tra romani e volsci. Inoltre, venne conquistata la città di Gabii tramite un astuto stratagemma elaborato insieme al figlio Sesto Tarquinio, il quale finse di volersi far accogliere e proteggere da tale cittadina per scampare alla tirannia del padre; tuttavia, una volta accolto all’interno delle mura, il suo unico compito fu quello di recare discordia e inimicizia all’interno della città, e vi riuscì così bene che a Roma non si combattè neanche una singola battaglia. Infine, sempre in questo periodo, Tarquinio il Superbo proseguì una spietata campagna espansionistica del territorio romano ai danni di numerosi territori circostanti, anche tramite la fondazione di varie colonie romane.
2. ECONOMIA = Sebbene Tarquinio il Superbo non sia quasi mai ricordato per le sue doti da economo, la Roma (“etrusca”) dei Tarquini deve proprio a lui la trasformazione in una delle massime sedi commerciali di tutto il Mediterraneo. Ella infatti aveva contatti e scambi commerciali con numerose altre potenze provenienti da tutto il mondo allora conosciuto.
3. URBANISTICA = Tarquinio il Superbo, pur non partecipando attivamente alla costruzione urbanistica di Roma come fecero i suoi predecessori, Tarquinio Prisco soprattutto e Servio Tullio, contribuì nell’ultimare ufficialmente la costruzione di importanti edifici pubblici come il tempio di Giove Ottimo Massimo e la Cloaca Massima.

Tuttavia, a decretare la fine di questo regno dispotico, contribuì un atto scandaloso direttamente commesso dal figlio Sesto Tarquinio, il quale, invaghitosi della giovane Lucrezia, sposa di Tarquinio Collatino (pronipote di Tarquinio il Superbo), abbandonò l’assedio di Ardea, nel quale era stato mandato dal padre, per far ritorno a Roma e violentare Lucrezia. La ragazza, sconvolta per l’accaduto, raggiunse rapidamente il marito ad Ardea e, in preda al dolore, si suicidò. Mosso da una rabbia furente il marito Tarquinio Collatino e Lucio Giunio Bruto (politico romano inviato da Tarquinio il Superbo in una spedizione al seguito di un oracolo del re, dove apprese che sarebbe stato lui a governare dopo il monarca) giurarono solennemente di non arrendersi fino a quanto i Tarquini non sarebbero stati tutti cacciati dalla città, per vendicare la morte di Lucrezia. I due riuscirono nell’intento, portando il cadavere della giovane nel foro di Roma e pronunciando un solenne elogio funebre che spinse il popolo romano a deporre e cacciare il sovrano dall’Urbe. Una volta esiliato però Tarquinio il Superbo si appoggiò a Porsenna, il tiranno della città di Chiusi, detentore di un forte potere militare; tuttavia l’assedio ordito dai due su Roma fallì, e Tarquinio morì in esilio nel 495 a.C. circa a Cuma, in Campania.

La fine della monarchia su Roma rappresenta un evento fondamentale per la politica dell’Urbe poichè nel 509 a.C., anno della cacciata di Tarquinio il Superbo, venne istituita la repubblica, un sistema di governo compreso nel periodo tra il 509 a.C. e il 27 a.C.. Il cambiamento fu radicale poichè a governare non era più un sovrano assoluto, bensì un’oligarchia aristocratica repubblicana, fondata sul governo di due consoli assistiti nelle decisioni politiche dai senatori. I primi consoli furono proprio Tarquinio Collatino e Lucio Giunio Bruto; essi avevano grandi poteri politici, economici, amministrativi e militari, ma la vera rivoluzione fu la totale estirpazione di un potere regio e tirannico.

Le Metamorfosi: Apuleio e la favola di Amore e Psiche | CM

L’autore: Apuleio

Lucio Apuleio Madaurense, nato nel 125 d.C. a Madaura e morto tra il 170 e il 180 d.C. a Cartagine, è stato un noto scrittore, filosofo e retore latino di origini nordafricane. Deve la sua notorietà soprattutto alla sua opera di maggiore successo, Le Metamorfosi (Metamorphoseon libri XI), anche conosciuta come L’asino d’oro (Asinus aureus).

Come spesso accade per gli autori classici greci e latini, la maggior parte delle informazioni su questo autore sono ricavabili proprio da egli stesso e soprattutto dalle sue opere, caratterizzate da una spiccata vena esibizionistica ed egocentrica; tratti propri del suo narcisismo. Provenendo da una famiglia piuttosto agiata potè permettersi un buon livello d’istruzione e viaggi in vari Paesi, tra cui Cartagine dove studiò retorica e grammatica, Atene dove si dedicò alla filosofia platonica, e infine Roma, ove fu conferenziere in età più avanzata.

Il personaggio di Apuleio è inoltre connotato da una fervente nota di fascino e mistero, dovuta al suo spiccato interesse per i culti misterici tipici dell’Oriente che lo portarono a occuparsi anche di magia, pratica che gli costò l’accusa di plagio e cattiva influenza per aver sposato una donna molto più ricca e vecchia di lui, madre del suo compagno di studi Ponziano. L’accusa avrebbe anche riguardato l’omicidio del suo amico, esponendo così Apuleio al rischio della pena capitale. Tuttavia egli ricorse alle sue abili doti di retore, e grazie a una celebre orazione fu assolto.

Non abbiamo molte notizie riguardo gli ultimi anni di vita dello scrittore; si sa per certo che si stabilì definitivamente a Cartagine ottenendo un incarico sacerdotale nei confronti del dio curatore Asclepio. Non avendo ulteriori informazioni sulla sua vita dopo il 170 d.C., la morte è collocabile intorno al 180 d.C. circa.

L’opera: Le Metamorfosi

L’opera che maggiormente giovò alla fama di Apuleio fu proprio Le Metamorfosi (titolo latino Metamorphoseon libri XI), anche nota come L’asino d’oro (Asinus aureus), collocabile intorno al II secolo d.C.. Si tratta dell’unico romanzo latino a noi pervenuto, allo stesso modo del Satyricon, a differenza del quale ci è però giunto interamente.

Le Metamorfosi rappresentano un vero e proprio “giallo letterario” per la narrativa latina, tanto che sono ancora attivi numerosi studi e ricerche per operare una corretta catalogazione del’opera, motivo per cui il genere bibliografico risulta ancora incerto e non del tutto classificabile. Molti sostengono che si tratti di una rielaborazione del testo greco pseudolucianeo (opera spuria di Luciano di Samosata) Lucio o l’asino, dal quale avrebbe differenti alcuni elementi minimi come l’estensione della narrazione e l’introduzione alle novelle.

Si tratta di un’opera piuttosto corposa, suddivisa in undici libri, narrante le diverse peripezie di un certo Lucio che verrà anche trasformato in un asino durante le sue numerose prove e avventure. Tuttavia quella dell’asino è solo una delle molteplici peripezie che il giovane sarà costretto ad affrontare prima di raggiungere il tanto sperato lieto fine, per riacquisire infine le fattezze umane grazie a un culto misterico in onore della dea Iside; la presenza della magia e dei riti misterici rappresentano infatti una costante all’interno degli scritti di Apuleio.

Quella di Lucio rappresenta però solamente la novella principale, da cui prenderanno origine numerose altre avventure, fabule e personaggi secondari che andranno a costituire digressioni e deviazioni dalla trama originale, tra le quali possiamo citare la celebre favola di Amore e Psiche. Si tratta infatti di una fiaba a tutti gli effetti, nonchè diretta debitrice della rinomata fabula milesia, una raccolta di novelle perdute a sfondo erotico scritte da Aristide di Mileto, autore greco. Sono infatti evidenti anche i numerosi riferimenti letterari relativi alla cultura greco-latina, come i vasti paesaggi bucolici, e le tipiche caratteristiche orali che rimandano al genere fiabesco.

L’opera estenderà il suo successo non solo alla contemporaneità dell’autore, ma andrà a influenzare numerosi scritti medievali, come il Decameron (specialmente per l’utilizzo dello schema narrativo “a cornice”), e i romanzi barocchi, tipici del ‘700. Tale favola inoltre, per il suo successo e la sua vena amorosa, influenzerà moltissimo anche il mondo dell’arte e della scultura moderna.

La fiaba: Amore e Psiche

Protagonista dell’intera favola, Psiche rappresenta la più giovane, nonchè più bella, delle tre figlie di un re e una regina che vivevano in una città non ben definita. La vicenda della fanciulla ruota intorno al tema della sua straordinaria bellezza, ammirata da tutti e invidiata persino da Venere in persona, la quale incarica il figlio Cupido di far infatuare la ragazza del più abietto degli uomini. L’incarico non riesce però al dio dell’amore il quale, perdutamente innamorato della bellezza della giovane, la rapisce rinchiudendola in un palazzo incantato e passando con lei solamente le notti, impedendole così di vederlo in volto.

Tuttavia la lontananza della fanciulla dalla sua casa si trasforma rapidamente in nostalgia e Cupido, mosso dall’amore per lei, acconsente a farla incontrare con le sue due sorelle che, invidiose del suo sposo misterioso e del magnifico luogo in cui vive, iniziano a tramare contro di lei convincendola persino a uccidere con un coltello il suo sposo mentre dorme. Psiche, ormai persuasa del fatto che si tratti di un orribile mostro, mette in atto il suo piano; ma quando si rende conto che si tratta proprio del dio dell’amore, sconvolta da tale vista, si punge erroneamente con una delle sue frecce, cadendo in un amore folle e disperato per lui.

A quel punto il dio, deluso dalle intenzioni della ragazza, vola via, trascinando Psiche in una incolmabile tristezza per la perdita del suo amato, che ritorna dalla madre Venere la quale, venuta a conoscenza dell’intera vicenda, s’infuria a tal punto da iniziare a cercare Psiche in ogni luogo possibile. Quando la fanciulla raggiunge infine la dimora di Venere, quest’ultima la tortura senza sosta, sottoponendola a terribili prove dalle quali non si sarebbe mai potuta salvare. Tuttavia Psiche riesce a superare ogni ostacolo grazie a un costante aiuto divino che l’accompagna in ogni prova, e a ricongiungersi infine con il suo amato Cupido, da cui nascerà una bambina chiamata Voluttà.

I personaggi: caratteristiche

PSICHE: Se da un lato la giovane fanciulla incarna l’ingenuità, il candore e l’innocenza, dall’altro Psiche dimostra anche una grande personalità e un enorme coraggio, mosso principalmente dal sentimento amoroso per Cupido; infatti attraverso il loro matrimonio, che inizialmente viene vissuto come una tremenda prigionia, Psiche impara ad amare il suo sposo misterioso, grazie a un sentimento vero e sincero, basato sulla fiducia creatasi tra i due amanti. Psiche è inoltre una duplice vittima, poichè se da una parte sarà corrotta dalle cattiverie delle sue sorelle, dall’altra dovrà sopportare le terribili crudeltà che le saranno inflitte da Venere, sua principale nemica. Tuttavia il riscatto della protagonista è assicurato, e la fanciulla riuscirà a dimostrare il suo valore e a ricongiungersi con il suo amato.

“E fu così che l’ignara Psiche, ferendosi di proposito con la freccia divina, s’innamorò di Amore.”

Le Metamorfosi (libro V, 23)

CUPIDO: Sebbene a primo impatto il giovane dio possa sembrare quasi un ragazzino dai tumultuosi desideri lussuriosi, quello che prova per Psiche è un sentimento sincero, tanto che nell’ultima delle prove affrontate dalla giovane, arriverà addirittura a salvarla, mettendo da parte la delusione che provava nei suoi confronti e riscattandosi da tutte quelle accuse mosse verso di lui da parte dell’adirata madre e delle altre divinità. Tuttavia egli (come in ogni fiaba) dovrebbe incarnare il ruolo del giovane eroe mosso dal sentimento amoroso per la fanciulla; tale ruolo viene completamente ribaltato nel momento in cui sarà la stessa Psiche a superare delle prove difficoltose per il suo amato, indossando così delle “vesti” tipicamente maschili.

“Così Psiche divenne sposa legittima di Cupido; e quando giunge il momento del parto nasce una bambina che noi chiamiamo Voluttà.”

Le Metamorfosi (libro VI, 24)

VENERE: Antagonista principale della vicenda, la dea incarna pienamente il sentimento dell’invidia, trasformatasi poi in una rabbia furente. Venere non riesce infatti ad accettare la bellezza della giovane e, non approvando in nessun modo di dover competere con una mortale, cerca con ogni mezzo possibile di eliminarla. Nonostante le divinità vengano spesso rappresentate come benigne e favorevoli verso gli uomini, altrettante volte esse vengono mosse da sentimenti bassi e riprovevoli, al pari degli esseri umani, come avviene in questo caso. Venere infatti non appare mai caratterizzata da sentimenti amabili e gentili; al contrario la sua cattiveria si evolve in un climax, un crescendo di rabbia e odio verso la protagonista.

“Ma davvero si è innamorato della mia rivale in bellezza, di quella che vorrebbe usurpare il mio nome?”

Le Metamorfosi (libro V, 28)

LE DUE SORELLE: Invidiose e meschine, nonostante occupino un ruolo decisamente marginale all’interno della vicenda, le due sorelle di Psiche (i cui nomi sono sconosciuti) intervengono nella fiaba con una notevole influenza, specialmente nei confronti della protagonista. Esse infatti sono quasi da intendersi come le “sorellastre cattive” invidiose della sorella più piccola, più bella e soprattutto più privilegiata. Saranno infatti proprio le loro malelingue a smuovere l’iniziale stato idilliaco della vicenda, influenzando le idee di Psiche, trascinandola verso il baratro e portando Cupido lontano da lei. Tuttavia il lieto fine, come in ogni favola, trionfa, e le due sorelle avranno la fine che meritano.

“L’ordine fu eseguito all’istante: ma nel viaggio di ritorno le care sorelline, rose dal fiele dell’invidia, cominciarono a parlottare fra loro e a sputare veleno sulla sorella minore.”

Le Metamorfosi (libro V, 9)

Papa Formoso: il pontefice “cadaverico” | CM

Inizi della carriera ecclesiastica

Nato a Roma in pieno Alto Medioevo, all’incirca nell’anno 816, da padre Leone e madre sconosciuta, Formoso intraprese fin da subito una formazione strettamente legata al mondo ecclesiastico nel luogo dove nacque e visse per tutta la sua vita. Sappiamo con certezza, grazie all’attestazione di vari documenti, che intorno all’846 fu canonico regolare, e più precisamente venne consacrato vescovo di Porto dal pontefice del tempo, Niccolò I Magno, per poi ricevere la nomina cardinalizia. Il suo stile di vita intransigente e rigoroso gli garantì fin dai primi anni della sua carriera ecclesiastica l’approvazione sia di Niccolò I che di Adriano II, suo successore nella carica pontificia. Era inoltre una figura ammirata e di spicco nel mondo ecclesiastico per le sue numerose doti intellettuali; essendo infatti un grande studioso conosceva sia il greco che il latino.

Noto anche per le sue numerose missioni diplomatiche, Formoso viene ricordato soprattutto per aver persuaso Carlo il Calvo a farsi incoronare sovrano di Francia dal papa tra l’869 e l’872; inoltre il re Boris I fu talmente soddisfatto dell’intervento ecclesiastico di Formoso in Bulgaria tra l’866 e l’867 da richiedere a ben due papi, Niccolò I e Adriano II poi, di nominarlo arcivescovo metropolita della Bulgaria, cosa che entrambi i papi non poterono fare essendo proibito il trasferimento di un vescovo in una sede diversa dalla propria. Tale negazione da parte dei pontefici inasprì notevolmente i rapporti apostolici con la Chiesa bulgara, spingendo Boris I a riportarla sotto l’autorità del Patriarca di Costantinopoli, com’era in passato, distruggendo così tutto l’impegno e il duro lavoro di Formoso per riavvicinare la Chiesa bulgara a quella romana.

Il pontificato

Già parecchi anni prima la sua elezione pontificia ufficiale, Formoso era stato candidato per il soglio pontificio al seguito della morte di Adriano II nell’872; sebbene i suoi sostenitori fossero molteplici, si preferì però optare per l’arcidiacono Giovanni VIII, uno dei massimi esponenti della corrente “filo-francese” e dunque favorevole ai Carolingi occidentali (tra cui Carlo il Calvo e Carlo il Grosso). Formoso rappresentava invece l’opposizione, ovvero il partito “filo-germanico” (a favore dei Carolingi orientali), che gli costò l’accusa di congiura contro lo Stato costringendolo alla fuga da Roma con alcuni sostenitori nell’876. Tuttavia poco dopo Giovanni convocò un concilio nel Pantheon, obbligando Formoso al ritorno nella capitale con la minaccia di scomunica, che fu attuata solo più avanti in un secondo concilio contro di lui e contro tutti coloro che erano con lui. Fu solamente grazie al successore di Giovanni, Marino I, pontefice dall’animo pacificatore e anch’egli “filo-germanico”, che la scomunica venne sciolta a Formoso e a tutti i membri accusati con lui della congiura. Gli venne inoltre riconfermata anche la carica di vescovo di Porto nell’883.

Alla morte del suo predecessore papa Stefano V, protagonista del forte disagio politico che si generò a causa della deposizione di Carlo il Grosso aprendo così la strada al dominio delle grandi famiglie patrizie su Roma, avvenuta nell’891 per cause naturali, poco tempo dopo (precisamente il 6 Ottobre) Formoso venne eletto come 111° papa della Chiesa di Roma all’unanimità del clero. A favorire tale elezione non partecipò solo la clemenza di Marino I, ma anche la fede “filo-germanica” dei suoi subitanei successori, Adriano III e Stefano V. Ciononostante il sostegno non venne solo dalla fazione ecclesiastica; anche Arnolfo di Carinzia, sovrano della parte orientale dei franchi (germanica), e il suo protetto Berengario, marchese del Friuli, appoggiavano Formoso ed erano anche in ottimi rapporti epistolari con lui.

Tuttavia stiamo parlando di un’epoca molto travagliata, in cui l’elezione papale non rappresentava esclusivamente un “rituale” tra cardinali, bensì andava a incarnare una vera e propria battaglia per la spartizione del territorio della Chiesa nello Stato Vaticano. Pertanto tutti coloro che avevano l’appoggio del papa, che stava ormai acquisendo e consolidando con costanza l’universalità dei suoi poteri su tutti i sovrani d’Europa grazie a un lungo e graduale processo (che durerà ancora secoli), potevano contare sull’enorme sostegno morale e spirituale dalla parte ecclesiastica, oltre che su un grande appoggio bellico e politico insieme a una consistente forza di persuasione che egli poteva esercitare su tutti i propri nemici. Tutto questo era possibile solo grazie all’immenso potere che il pontefice stava consolidando mediante un capillare sistema di tassazione, concessioni imperiali, privilegi e diritti territoriali su cui rivendicava un’autorità indiscussa.

La precaria situazione italiana

Fu proprio all’interno degli eventi burrascosi di questo tumultuoso periodo storico che rimase coinvolto anche lo stesso papa Formoso. L’Impero era infatti “spaccato” tra i “filo-germanici” e i “filo-francesi”, e questi ultimi, nonostante fossero stati messi in disparte grazie alla maggioranza “filo-germanica” che sosteneva il pontefice, non avevano intenzione di arrendersi tollerando la fazione vincitrice al potere. Tuttavia le condizioni della Chiesa di Roma erano assai precarie e instabili, poiché per la lontananza dal territorio romano del sovrano Arnolfo e del suo protetto Berengario (che si trovavano in Germania), massimi sostenitori del papa, Formoso fu costretto ad affidare tutta la sua sicurezza esclusivamente nelle mani del duca di Spoleto. La situazione degenerò quando, all’incirca nell’893, il pontefice si ritrovò costretto a rinnovare l’incoronazione imperiale di Guido II di Spoleto. Tale evento fu drammatico per i territori della Chiesa poiché Guido, ormai possessore assoluto del potere imperiale, sfruttava la sua autorità in modo eccessivo, razziando e saccheggiando impunito i territori ecclesiastici.

Roma era così caduta in un quadro d’incertezza, e la guerra civile era inevitabilmente alle porte poiché tali disordini non sarebbero stati tollerati ancora a lungo. Formoso, costretto a ricorrere a misure estreme pur d’intervenire, verso la fine dell’893 mandò dei messaggeri alla corte di Arnolfo supplicandolo, in quanto solo e unico imperatore legittimo, di liberare l’Italia dai cosiddetti “cattivi cristiani” che la stavano distruggendo. Neanche un anno dopo, all’inizio dell’894, Arnolfo varcò le Alpi e, sebbene sembrasse pronto per un attacco diretto contro gli spoletini, la sua fu solo una grande “entrata in scena” (una sorte di “azione dimostrativa”) per guadagnarsi il rispettoso e sottomesso omaggio dei principi dell’Italia centro-settentrionale. Convinto che tutto ciò potesse essere sufficiente a sedare le rivolte, Arnolfo fece allora ritorno in patria, lasciando così che Guido tornasse a compiere tutte le ingiustizie che aveva cominciato.

Tuttavia, verso la fine dell’anno 894, Guido morì colpito da un malessere improvviso, lasciando il figlio Lamberto II solo con la madre Ageltrude, acerrima nemica della fazione “filo-germanica”. Ovviamente Lamberto reclamò subito la corona imperiale del padre, e volle essere incoronato imperatore a Roma con i massimi onori. Nonostante i numerosi tentativi di papa Formoso per prendere più tempo possibile ed evitare così l’inevitabile evento, alla fine si ritrovò costretto dalle circostanze e procedette all’incoronazione. Pochi mesi dopo però, nell’895, Arnolfo varcò nuovamente le Alpi, questa volta deciso a riprendersi il suo legittimo titolo di re d’Italia, spingendo così gli spoletini a giurare odio eterno al papa per il suo tradimento, e incarcerandolo a Castel Sant’Angelo dopo aver strategicamente aizzato la plebe romana contro il pontefice.

In un insostenibile clima di rivolta Lamberto si barricò a Spoleto pronto a combattere, nell’attesa dell’imminente arrivo di Arnolfo, mentre la madre Ageltrude continuava a fomentare il popolo e soprattutto gli spoletini verso la rivolta ormai prossima. Ella si ritrovò però costretta alla resa, poiché le truppe di Arnolfo ebbero la meglio, e dovette tornare a Spoleto per nascondersi. Papa Formoso venne così liberato grazie ad Arnolfo, che iniziò subito una decisa marcia verso Spoleto, pronto ad affrontare Lamberto e la madre nello scontro decisivo. Tuttavia il suo viaggio fu breve; Arnolfo, poco dopo essere stato incoronato nuovamente imperatore da Formoso, venne colpito da una grave paralisi che lo costrinse a un rapido ritorno in Germania, dove morì poco dopo (nell’899) lasciando “campo libero” al suo avversario Lamberto per solo un anno, quando anch’egli morì improvvisamente rompendosi il collo per una brutta caduta da cavallo durante una battuta di caccia.

La morte e il “sinodo del cadavere”

Formoso, ormai ultraottantenne, morì pochi anni prima della fine di tali eventi bellici che colpirono l’Italia in quel periodo, il 4 Aprile dell’896. Appare dunque quasi scontato affermare che la morte lo salvò dalle altrimenti inevitabili rappresaglie dei suoi avversari. Non sappiamo però se si tratti di una morte naturale, probabilmente dovuta all’età avanzata, o di un avvelenamento premeditato da parte dei suoi numerosi nemici. Venne infine sepolto nel recinto del Vaticano, dove vi rimase per neanche un anno (solamente 9 mesi) prima che venisse riesumato e sottoposto a un duro processo post-mortem.

Quello che accadde dopo al cadavere di papa Formoso ha dell’incredibile; circa un anno dopo la sua morte, nell’897, la casata spoletina, che continuava a fomentare un fortissimo odio verso il pontefice per essere stata rinnegata dal papa e per aver chiamato in Italia un sovrano straniero con tutto il suo esercito al seguito, impose al nuovo pontefice da loro eletto, Stefano VI (ovviamente non “filo-germanico”), di istituire un elaborato processo post-mortem verso Formoso, affinché tutti i membri ecclesiastici romani lo condannassero come unico traditore della patria. Tale processo prenderà il nome di “sinodo del cadavere” o “concilio cadaverico”.

Pertanto il cadavere di Formoso venne riesumato dalla sua tomba in Vaticano, vestito e adornato con tutti i tipici ornamenti pontifici e posto sul regale trono papale nella Basilica Lateranense. Il processo poi si svolse come si sarebbe svolto un qualsiasi processo dell’epoca, e vennero mosse varie accuse contro l’ormai defunto pontefice, il quale avrebbe dovuto rispondere all’attuale papa Stefano che svolgeva il ruolo di accusatore. In difesa di Formoso venne anche posto un diacono, assai spaventato dall’occasione e con una funzione inutile all’interno del processo ormai già prestabilito. Non potendo ovviamente Formoso rispondere alle accuse, alcune delle quali risalivano addirittura a quelle mosse anni e anni prima da Giovanni VIII, tale processo si rivelò essere più un “macabro teatrino” che un concreto atto giudiziario. Il verdetto finale stabilì infine che il defunto papa fosse stato indegno di rivestire la carica pontificia, e pertanto venne deposto secondo l’usanza ufficiale che si sarebbe usata per qualcuno in vita; inoltre, tutto ciò che aveva legiferato in vita e tutti i suoi atti ed emendamenti furono dichiarati nulli e invalidi.

“Perché, uomo ambizioso, hai tu usurpato la cattedra apostolica di Roma, tu che eri già vescovo di Porto?”

Stefano V al cadavere di papa Formoso durante il “concilio cadaverico”

L’unicità di Formoso

Il cadavere non venne mai riseppellito, gli vennero strappati di dosso tutti i paramenti tipici, gli furono recise le tre dita che usava per compiere le benedizioni e tra le grida generali di una folla in preda al puro delirio, il cadavere venne gettato nel Tevere, dove vi rimase per circa tre giorni prima di arenarsi nei pressi di Ostia, dove fu trovato da un monaco e nascosto fino a quando Stefano VI fu vivo e in carica. Venne poi riconsegnato al nuovo pontefice, Romano, verso la fine dell’897, e posto tra le tombe degli apostoli con l’accompagnamento di una grande e solenne cerimonia in suo onore. Il processo contro di lui venne infine annullato e tutte le decisioni prese da Formoso in vita vennero nuovamente poste in vigore.

Quello di Formoso è un caso unico in tutta la storia medievale e, sebbene si volle applicare lo stesso trattamento anche al cadavere di papa Bonifacio VIII, a causa della sua pessima condotta, il suo resta il solo e unico evento documentato di un vero e proprio “concilio cadaverico”. Nonostante la validità del processo sia ovviamente da classificarsi come nulla, esso ebbe comunque un grande impatto sugli eventi dell’epoca, soprattutto per coloro che scelsero di compierlo e organizzarlo. Le reazioni verso tale episodio furono comunque assai contrastanti, poiché se da una parte molti erano a favore proclamando un forte odio verso Formoso, un’altra buona parte provò un grande orrore nei confronti di questa lugubre esecuzione. In conclusione, possiamo dunque dire che questo fu un “processo horror” in pieno Alto Medioevo, e una vera e propria vendetta compiuta in Vaticano.

Nell’antica Roma c’erano persone dalla pelle scura ed i contadini erano perennemente “abbronzati”.

Gli abitanti dell’impero romano avevano la pelle scura, in alcuni casi per ragioni etniche, in altri perché trascorrevano molte ore dell’anno, lavorando sotto il sole.

Qualche anno fa, su un libro di storia per bambini è apparsa un immagine in cui era raffigurato un soldato romano con la pelle scura, e questo ha fato scaturire la rabbia e indignazione di molti, soprattutto “puristi della razza”.

Quell’immagine è sbagliata perché i romani erano bianchi? Quell’immagine è giusta?

Per rispondere a queste domande in modo storico, e non di pancia, bisogna soffermarci su due elementi, ovvero distribuzione demografica della popolazione dell’Impero e condizioni di vita degli abitanti dell’Impero.

Prima di inoltrarci nell’analisi del fenomeno e cercare di fare luce sulla questione, vi anticipo che, voglio mostrarvi questa immagine precedente il primo secolo dopo Cristo, identificata come “Medicina dello Stivale e dell’Età Romana: Enea curato da Japige” che è stata ritrovata negli scavi di Pompei.

Notate qualcosa di strano nel colore della pelle di Enea e del medico che lo sta curando?

La pelle di Enea e del medico è molto scura, questo e non è un effetto dovuto all’invecchiamento del pigmento, anche perché nella stessa immagine ci sono altre persone con una tonalità della pelle molto più chiara, e dunque, anche se l’immagine con il tempo si è scurita, ciò non toglie che, chi ha realizzato questo affresco, aveva bene in mente che, la pelle di Enea dovesse essere più scura rispetto a quella di altri soggetti della stessa immagine.

Distribuzione demografica in età romana

Per quanto riguarda la distribuzione demografica, va detto che l’Impero romano si estendeva dalla spagna al medio oriente, dalle isole britanniche al deserto del Sahara, controllava l’intero bacino del mediterraneo, e, entro i suoi confini, nei secoli, sono confluite centinaia di popolazioni diverse e lontane tra loro, sia sul piano culturale che etnico.

Entro i confini dell’impero c’era anche il nord africa, un’area che andava dall’Egitto al Marocco, e che costituiva il “granaio” dell’impero, ovvero una regione prevalentemente agricola e molto fertile, in cui venivano prodotte gran parte delle scorte di grano per tutto l’impero.

Fatta eccezione per le “grandi” città come Roma, l’area del nord africa, era tra le più popolose dell’impero, perché abitata da tanti contadini che lavoravano negli immensi e sterminati campi che producevano e fornivano grano a tutto l’impero.

Gli abitanti di quella regione, per ragioni etniche e per condizioni di vita, avevano la pelle molto scura.

Ora, se la parte più popolosa dell’impero è abitata da persone dalla pelle scura, va da se che… già questo è sufficiente a dire che, non solo, nell’impero c’erano persone con la pelle scura, ma anche che questi era una fetta importante dell’intera popolazione romana.
A questo bisogna aggiungere che, la maggior parte degli abitanti dell’impero e dell’Europa nelle epoche successive, dalle isole britanniche all’Egitto, erano contadini e pescatori.

Cosa c’entra il lavoro con la colorazione della pelle?

Parliamo di un epoca preindustriale in cui il lavoro nei campi era svolto prevalentemente sotto la luce diretta del sole, si lavorava la terra tutto l’anno, giorno dopo giorno, sotto il sole, un epoca in cui ci si sposta a piedi o al massimo al cavallo, e anche l’, si è esposti alla luce del sole, di conseguenza, queste lunghissime ore di esposizione alla luce solare, ai raggi ultravioletti che innescano il processo di abbronzatura, rende la pelle di quelle persone molto scura, mediamente molto più scura di quella di un impiegato odierno che prende il sole 2/3 settimane all’anno, durante weekend estivi e vacanze di ferragosto.

Possiamo dire che gli antichi, e per antichi intendiamo gli abitanti dell’Europa e dai tempi di Roma, fino almeno alla seconda metà del XX secolo, erano perennemente abbronzati.

Beati loro, se non fosse che la loro pelle era letteralmente cotta e rovinata, usurata dal sole e da ogni sorta di malattia della pelle.
Per secoli il colore della pelle ha costituito un elemento di distinzione tra ceti sociali, perché, mentre i contadini, ma anche soldati, pescatori e lavoratori in generale, trascorrevano gran parte della propria esistenza sotto il sole, i nobili, gli aristocratici ed i ceti più agiati, erano molto meno esposti al sole, di conseguenza , fatte rare eccezioni, la loro pelle era mediamente più chiara e liscia, rispetto a quella dei contadini.

Nobili ed aristocratici, per aspetto, erano molto più simili a noi, ma, non dimentichiamoci che nobili ed aristocratici erano una frazione ridotta della popolazione europea.

Questo distinguo basato su colore e stato della pelle è venuto a mancare, parzialmente, con la rivoluzione industriale, al seguito della diffusione di illuminazione elettrica, fabbriche e treni, elementi che hanno spostato gran parte del processo produttivo in Europa al chiuso, limitando quindi l’esposizione al sole e cambiando le abitudini di lavoro.

Si lavora al chiuso, ci si abbronza di meno, quindi l’abbronzatura fa il giro e passa dall’essere indicativa di lavori poveri e manuali, ad essere indicativa dell’appartenenza ad una cerchia sociale più elevata che, nella seconda metà del XX secolo, conduce una vita più agiata… può andare in vacanza.

Questo tipo di abbronzatura limitata nel tempo, si traduce in pelle leggermente più scura, ma comunque liscia, diversa da quella dei contadini, molto più scura e increspata e rovinata, non curata.

Va anche detto che, nel secondo dopoguerra, negli anni 50 del novecento, quando Ernesto de Martino e prima di lui Carlo Levi, durante i propri viaggi e studi, si sono recati nell’Italia meridionale, e sono entrati in contatto con le popolazioni rurali del mezzogiorno, si sono imbattuti in uomini e donne che ancora portavano sul proprio volto il segno del lavoro nei campi, parliamo di uomini e donne con la pelle scura, cotta dal sole in lunghe ore di lavoro nei campi.

Rispondere quindi con un “no secco” quando si chiede se nel mondo antico, in Europa, ci fossero persone con la pelle scura, oltre ad essere stupido è anche anti-storco, perché si guarda a quel mondo, a quell’epoca, non analizzandolo nella propria interezza, ignorando le condizioni di vita della popolazione del tempo e proiettando i nostri ritmi e le nostre abitudini, in un mondo che seguiva ritmi diversi, un mondo il cui tempo era scandito dalla luce del sole e non dalle lancette di un orologio moderno. Un mondo, in cui la pelle delle persone era mediamente più scura, perché, a differenza di noi, viveva e lavorava tutto l’anno sotto il sole, senza crema solare e senza alcun tipo di protezione contro i raggi UV.

L’ascesa politica di Cesare: da miles a dictator | CM

L’Impero romano nel I secolo a.C.

Durante il corso del I secolo a.C. l’Impero romano era sulla via di un successo senza precedenti, in quanto reduce dagli immensi trionfi ottenuti grazie alle vittorie conseguite durante le tre guerre puniche, le quali Roma poterono garantire a Roma un’ingente quantità di oro e ricchezze. Tuttavia l’Urbs, nonostante l’evidente condizione di splendore e ricchezza in cui si trovava, era all’epoca teatro di innumerevoli giochi di potere per il controllo del quadro politico della Repubblica e, sempre in questi anni, assisteva tacita alla lotta intestina tra due importanti ceti sociali: gli optimates, fazione più conservatrice e favorevole all’aristocrazia, e i populares, sostenitori delle istanze popolari nonchè “base” dell’autorità dei Tribuni della Plebe. Pertanto continue tensioni sociali e violenti scontri armati erano all’ordine del giorno, come il celebre conflitto tra Clodio (fazione dei populares) e Milone (fazione degli optimates).

In questo clima estremo di avversità, rivolte e scandali, a Roma spicca un uomo che avrà un ruolo tutt’altro che indifferente negli equilibri politici e sociali dell’Urbe. Tale personaggio era, come il padre, un accanito sostenitore del celebre condottiero Gaio Mario (157-86 a.C.), militare e politico romano, eletto per sette volte consecutive console della Repubblica, nonchè abile riformatore per quanto riguarda la leva militare e l’esercito, oltrechè Tribuno della Plebe. Apparteneva infatti anch’egli alla fazione dei populares e rappresenterà uno dei massimi esempi da seguire per il protagonista di questa vicenda, destinato a ribaltare per sempre la scena storica e politica di quello che sarà il più glorioso impero che il mondo antico abbia mai conosciuto. Quest’uomo compie una delle sue prime apparizioni in una piccola casa popolare nella Suburra romana, uno dei quartieri più malfamati di tutta Roma.

L’entrata cesariana in politica

Gaio Giulio Cesare nasce il 12 Luglio del 100 a.C., figlio del pretore e senatore Gaio Giulio Cesare e della nota matrona appartenente alla gens Aurelii, Aurelia Cotta. Egli pertanto apparteneva per discendenza all’illustrissima gens Julia, così chiamata perchè direttamente originata da Julo, il figlio di Enea e, stando a quanto viene riportato da miti e leggende, della dea Venere. Apparteneva dunque a una genealogia che potremmo definire “divina”. Cesare divenne fin da subito un personaggio molto popolare a Roma, schierandosi come lo zio Gaio Mario al fianco della factiones dei populares, nonostante provenisse da una nobile famiglia, e crebbe in una situazione di tensioni e fazioni contrapposte. Tutti questi elementi contribuirono con ottime probabilità a sviluppare il suo carisma e la sua marcata intraprendenza non solo in campo politico, ma anche militare.

Cesare infatti trascorse la sua gioventù sotto la spietata dittatura esercitata da Silla (colui che aveva precedentemente sconfitto Gaio Mario), il quale non perdeva occasioni per lanciare “frecciatine” al ragazzo sulla sua eccessiva effeminatezza. Per queste ragioni egli non si sentiva al sicuro nel rimanere a Roma, e decise pertanto di partire volontario verso l’Asia dove, sotto al comando del propretore Marco Minucio Termo, partecipò direttamente nella guerra contro Mitridate VI del Ponto, insorto ancora una volta contro Roma. Questa fu probabilmente una delle prime vicende che permisero a Cesare si distinguersi militarmente. Egli infatti nell’assedio di Mitilene ottenne anche la corona civica, una delle ricompense militari più importanti, concessa come premio solamente a chi salvava cittadini romani in battaglia.

Tuttavia, ciò che maggiormente gravava sullo status di Cesare, erano gli ingenti debiti nei quali si ritrovava da tempo. Infatti, sebbene la sua famiglia avesse origini aristocratiche di un certo livello, non era affatto ricca per gli standard della nobiltà romana, e questo certamente lo motivò ad avvicinarsi rapidamente a illustri e abbienti personaggi che potessero aiutarlo, come Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso (entrambi consoli nel 70 a.C.). Egli riuscì infatti ad avviare la sua celebre carriera politica grazie al sostegno di questi due rinomati cittadini e uomini politici. Schierato appunto con i populares e dotato di un eccelso carisma, riuscì rapidamente a convincere la Repubblica riguardo l’urgente bisogno di riforme radicali, che per essere realizzate necessitavano di un forte potere pubblico al comando, capace di superare le ricchezze e il grande potere degli ottimati.

Il suo percorso politico-militare inizia, come precedentemente citato, in Asia, dove prese parte alla guerra contro Mitridate VI del Ponto, combattendo nella provincia orientale e arruolando navi e milizie ausiliarie. Nel 73 a.C., mentre si trovava ancora a Oriente, venne eletto nel collegio dei pontefici. Una volta tornato a Roma, nel 72 a.C., Cesare fu anche eletto tribuno militare, risultando persino il primo degli eletti. I suoi rapporti erano particolarmente stretti con Crasso, il quale lo aiutò più volte a finanziare le sue campagne elettorali e a estinguere i suoi numerosi debiti, fino a quando venne non eletto questore nel 69 a.C., un anno dopo il consolato di Pompeo e Crasso. Un ulteriore evento particolarmente significativo fu la sua elezione, nel 65 a.C., a edile curule, carica che lo portò a diventare in modo più che definitivo come il nuovo e massimo leader del movimento popolare.

Tuttavia l’apice della sua carriera politica è da ricollegarsi a un celebre evento che toccò profondamente la storia di Roma del I secolo a.C., ovvero il primo triumvirato. Nel 60 a.C. Cesare infatti stipulò, di comune accordo insieme a Crasso e Pompeo (i maggiori capi politici del tempo), un accordo privato e segreto che, pur non trattandosi di una vera e propria magistratura ma per la notevole influenza dei firmatari, ebbe poi grandissime ripercussioni sulla vita politica e sociale dell’epoca, dettandone gli sviluppi per quasi dieci anni. Gli accordi nati da tale alleanza, fissati a Lucca, prevedevano il proconsolato di Cesare in Gallia e nell’Illirico con il relativo comando di quattro legioni, l’affidamento di Africa e Spagna a Pompeo e infine la provincia di Siria e l’ambita campagna contro i Parti per Crasso che, non avendo ancora conseguito glorie militari, mirava a eguagliare il successo dei compagni. Spartiti i territori e affidati i relativi comandi, Cesare era pronto a lasciare la Repubblica.

Cesare in Gallia: l’ascesa militare

Nel 59 a.C., a un anno dalla stipulazione del triumvirato, Cesare avrebbe dovuto ottenere il consolato, una delle più alte cariche del cursus honorum romano, carica che riuscì a raggiungere grazie all’appoggio di Pompeo e al cospicuo finanziamento di Crasso. Per consolidare ulteriormente questa triplice alleanza, nello stesso anno Pompeo sposò Giulia, la figlia di Cesare. Pertanto, grazie alla lex Vatinia, nel 58 a.C. Cesare era finalmente partito, dopo aver ottenuto il proconsolato dell’Illirico (si trattava di una regione dislocata, in cui Cesare si sarebbe voluto recare per accrescere il suo successo militare direttamente sul campo di battaglia) e della Gallia Narbonense (a seguito della morte del precedente proconsole morto all’improvviso, Quinto Cecilio Metello Celere) e Cisalpina per ben cinque anni. Sebbene si trattasse di province nettamente inferiori rispetto alle eccelse conquiste orientali dell’Impero, riuscì ugualmente a operare una serie interminabile di sconfitte tra le popolazioni celtiche, compresi Elvezi, Aquitani, Veneti, Belgi e Svevi.

Tuttavia, più aumentava il potere di Cesare e più cresceva l’inevitabile timore di Pompeo a Roma, per il fatidico momento in cui il suo ormai temuto avversario delle Gallie sarebbe dovuto rientrare in patria. Cesare sarebbe infatti stato certamente acclamato dai numerosi populares di cui era a capo per i suoi molteplici successi militari e per aver inoltre portato il numero delle sue legioni a dieci, un dato non indifferente, simbolo del nuovo potere e prestigio che stava acquisendo. Nel frattempo il triumvirato si stava lentamente sgretolando e, intorno al 53 a.C. Crasso, privo di adeguate esperienze militari, era stato sconfitto nella battaglia di Carre, aveva perso le insegne romane (immane disonore per un comandante romano) ed era stato ucciso dai Parti. Cesare e Pompeo erano ora dunque i padroni indiscussi della scena politica romana.

Intorno all’anno 50-49 a.C., il carismatico condottiero Gaio Giulio Cesare aveva infatti ormai conquistato quasi tutta la Gallia (territorio comprendente oggi Francia e particolari zone di confine tra Svizzera, Belgio, Paesi Bassi e nord Italia. Compì inoltre numerose incursioni in Britannia e in Germania) ed era di ritorno da una campagna militare durata quasi dieci anni che lo aveva visto coinvolto in numerose vittorie, come la battaglia di Alesia, e indiscutibili successi, tra cui la sconfitta del grande condottiero Vercingetorige. Tuttavia, le imprese svoltesi in Gallia non furono affatto una passeggiata per Cesare e le sue truppe, poiché i galli opposero una strenua resistenza, sconfiggendo anche i romani in molteplici occasioni; si trattava di popolazioni fiere e bellicose, che difficilmente accettarono una resa pacifica. La lotta contro i galli rappresentò infatti un’enorme sfida militare, che rese evidente il motivo per cui l’esercito romano fu il più potente ed efficace dell’antichità.

Le ricchezze, la gloria e la fiducia di un esercito che lo ammirava e rispettava per il suo grande carisma, erano solo alcuni dei principali obbiettivi che Cesare si era prefissato per poter contrastare a Roma il crescente potere politico di Pompeo. La sua inimitabile leadership fu certamente una delle chiavi del trionfo romano in Gallia, poichè lo stesso Cesare riuscì a spingere più volte il suo esercito a compiere imprese che per altri generali sarebbero state inaccettabili, come le due spedizioni dirette verso l’Isola della Britannia. Inoltre Cesare sapeva che il risultato finale delle sue campagne dipendeva in primo luogo dalle sue truppe, per questo motivo questo s’impose come un eccellente motivatore, capace di far sì che i suoi uomini si dedicassero interamente a qualsiasi impegno. A contribuire ad accrescere il suo enorme successo militare furono anche l’aggressività e la velocità con cui condusse le sue numerose campagne.

La “tensione” politica a Roma: Pompeo e il senato

Tuttavia Crasso era ormai uscito dalla scena politica, determinando così il definitivo scioglimento del triumvirato, e Pompeo, nettamente più avanti con gli anni rispetto al giovane conquistatore delle Gallie, aveva ottime ragioni per temere il crescente successo e carisma di Cesare a Roma. Pompeo infatti, sebbene avesse da poco ottenuto la carica di proconsole in Spagna, si trovava ancora a Roma e, nel 52 a.C., venne eletto dal senato consule sine collega (ovvero “console senza collega”). Tuttavia Cesare possedeva un grande numero di legioni a lui ciecamente fedeli, le quali a loro volta non facevano altro che accrescere la sua già elevatissima ambizione bellica e politica. La situazione a Roma era pertanto molto tesa e la guerra civile quasi inevitabile; il casus belli infatti non tardò molto ad arrivare.

Il senato infatti era estremamente preoccupato per gli innumerevoli successi conseguiti da Cesare, il cui mandato in Gallia stava ormai per giungere al termine. Pompeo e il senato infatti, da tempo alleati contro l’imminente pericolo, stavano dunque disperatamente tentando di tenere le redini di un contesto politico in pieno fermento, quando giunse la notizia che Cesare avrebbe voluto, una volta rientrato in patria, candidarsi per il consolato. Tale carica era infatti tra le più ambite del cursus honorum romano, poiché garantiva l’immunità e, dato il crescente numero di sostenitori cesariani, sarebbe quasi certamente riuscito a ottenerla. Tuttavia Pompeo, per colpirlo nel vivo, in piena alleanza con il senato che temeva anch’esso la sua ascesa, promulgò una legge che non gli avrebbe permesso di candidarsi, se non da privato cittadino. Questo avrebbe significato per lui entrare a Roma senza l’esercito al seguito, in balia di un uomo che aveva il pieno potere sulla Repubblica e il completo appoggio dei senatori romani.

La trappola escogitata con l’aiuto dei senatori si sarebbe dunque inevitabilmente conclusa con l’arresto di Cesare e la sua definitiva eliminazione dalla scena politica, garantendo così l’esclusivo consolato a Pompeo, che si sarebbe poi tradotto in una dittatura. Cesare accettò dunque di tornare nell’Urbe senza le sue truppe, a patto che Pompeo accettasse di sciogliere il suo di esercito e tutte le sue truppe. Data la precarietà e la pericolosità della situazione, poichè Cesare pur senza l’appoggio delle sue truppe avrebbe comunque avuto un enorme sostegno popolare (l’opinione pubblica era molto importante, poichè costituiva la stragrande maggioranza della popolazione, e le rivolte erano all’ordine del giorno), Pompeo e il senato non accettarono in nessuna maniera possibile l’ultimatum del generale.

Tuttavia il senato, con la scusa di dover proteggere la Siria dai continui attacchi dei Parti, richiese che fossero aggiunte due legioni alla provincia orientale; Pompeo a questo punto non esitò a richiedere a Cesare le due legioni che, nel 53 a.C., gli aveva concesso in prestito per la sua impresa in Gallia. Cesare pertanto fu costretto a piegarsi a tali richieste, rinunciando così a due delle sue legioni. Fu solo a questo punto che il generale delle Gallie si rese conto che il conflitto era inevitabile e si recò allora con la XIII legione a Ravenna dove fu da quest’ultima acclamato imperator. A questo punto Cesare era completamente esposto e sul punto di diventare ufficialmente un nemico della res publica.

L’attraversamento del Rubicone e la guerra civile romana

La situazione, già gravemente incerta prima, si trovava ora a un bivio: Cesare avrebbe infatti potuto congedare l’esercito, scelta di per sè estremamente pericolosa essendo lui pienamente consapevole delle forze politiche e militari che possedevano Pompeo e il senato, o ribellarsi completamente alle imposizioni di Pompeo e senatori, preparando così le legioni in modo da poter oltrepassare il più importante confine politico della penisola italica, il fiume Rubicone. Tale fiume, pur non vantando notevoli dimensioni, rappresentava un limite inviolabile e attraversarlo in armi significava per i generali romani una vera e propria violazione delle leggi, oltrechè una sfacciata sfida posta nei confronti l’Urbe. Il Rubicone infatti segnò per un breve periodo (tra il 59 a.C. e il 42 a.C.) il “sacro” confine tra l’Italia, considerata come una parte integrante del territorio di Roma, e la provincia non da molto annessa della Gallia Cisalpina. Risultava pertanto severamente vietato a tutti i generali romani attraversarlo con l’esercito in armi.

Ma l’ambizione e la salda tenacia di Cesare non si sarebbero arrestate, infatti l’ultimo disperato tentativo del senato (il 7 Gennaio) di arrestare la sua avanzata, si tradusse in un estremo ultimatum che gli intimava severamente di restituire l’intero comando militare, ultimatum a cui Cesare non cedette mai. Pochi giorni dopo infatti, il 10 Gennaio del 49 a.C., prese una decisione che avrebbe cambiato per sempre il corso degli eventi storici, politici e sociali di Roma e, armate le truppe, scelse di attraversare il fiume presentandosi nella città armato e prossimo a sfidare Pompeo in una guerra civile che si sarebbe inevitabilmente scatenata da tale gesto. Cesare riuscì a entrare a Roma senza incontrare alcun tipo di resistenza, e tale guerra (49-45 a.C.) non tardò ad arrivare. Pompeo venne colto totalmente alla sprovvista, e si ritrovò costretto a fuggire il più rapidamente possibile da Roma, rifugiandosi in Macedonia, dove sperava di radunare un vasto esercito da contrapporre a Cesare.

La guerra civile romana vede Cesare come protagonista indiscusso accrescere senza fine il suo potere politico e militare in pochissimo tempo. Lo stesso anno infatti, sempre nel 49 a.C., Cesare riuscì a conquistare interamente la penisola italiana e a sbaragliare in Spagna tutte le legioni ancora fedeli a Pompeo. Un anno dopo poi, nel 48 a.C., ottenne la nomina di console e partì verso la Grecia, dove, in Tessaglia, precisamente a Farsalo, sconfisse clamorosamente l’esercito di Pompeo, che si rifugiò in Egitto presso il faraone Tolomeo XIII, fratello di Cleopatra, il quale lo fece assassinare a tradimento. Figli e seguaci di Pompero proseguirono ancora per qualche anno il conflitto contro Cesare fino a quando, nel 45 a.C., i pompeiani supersiti guidati da Sesto Pompeo (comandante militare e figlio di Pompeo) vennero sbaragliati definitivamente a Munda, in territorio spagnolo.

Pertanto, il termine della guerra civile romana rappresenta un momento fondamentale sia per la storia romana che per la carriera politica e militare di Cesare. Egli a questo punto potè infatti ritornare a Roma indisturbato e praticamente privo di nemici che tentassero di ostacolare le sue ambizioni, ottenendo così la carica di dictator vitae (ovvero “dittatore a vita”). Tale carica rappresentava una figura caratteristica dell’assetto della costituzione della Repubblica romana, poichè garantiva un potere assoluto e non poteva essere controllato da nessuna istituzione o magistratura. Poteva inoltre sospendere tutti gli altri magistrati forniti di imperium o conservarli nel loro ufficio, ma essi sarebbero stati sempre e comunque subordinati a lui. In origine veniva scelto unicamente dai patrizi e, solo a partire dal 356 a.C., la dittatura fu accessibile anche ai plebei. In conclusione, quella di Cesare potrebbe essere riassunta come una vera e propria ascesa politica, poichè egli, partito come semplice miles (il miles nell’antica Roma era il soldato semplice, colui che non possedendo un cavallo doveva spostarsi unicamente a piedi), riuscì in poco tempo a raggiungere la più alta e riconosciuta carica di tutta la Repubblica, quella appunto di dictator.

Chi era Cola di Rienzo?

Verso la metà del XIV secolo, Cola di Rienzo, sostenuto dal popolo romano, dichiarò guerra all’aristocrazia romana, per poi scontrarsi con papato, impero, e lo stesso popolo romano che lo aveva sostenuto, in nome di un idea, di un sogno, di un utopia, un italia unita con dignità imperiale e Roma sede del potere imperiale.

Da Tribuno della liberà a nemico di Roma, questa è la sua storia.

Intorno alla metà del XIV secolo, un uomo, noto oggi con il nome di Cola di Rienzo, mise in moto una serie di avvenimenti che avrebbero potuto portare alla nascita di uno stato italiano prima ancora della fine stessa del medioevo, tuttavia, le sue ambizioni e, secondo alcuni, i suoi deliri di onnipotenza lo portarono allo scontro aperto con la nobiltà romana, il papato e l’impero, trasformandolo da eroe del popolo romano, in nemico di roma. La sua fu un ascesa fulminea ed altrettanto rapida fu la sua parabola discendente che in meno di una decade lo portò prima all’apice del potere romano, con il titolo di Tribuno della Libertà, e successivamente alla scomunica, un primo arresto, un evasione, un secondo arresto, poi al titolo di Senatore romano e in fine, alla sua violenta e drammatica dipartita, decapitato e appeso a testa in giù da una folla rimana inbestialita.

Questa è la storia di Cola di Rienzo, un uomo che sognò l’Italia e provò (in vano) ad unificarla, con cinque secoli di anticipo.

Il contesto storico

Ci troviamo nel XIV secolo, l’italia politicamente non esiste, è estremamente frammentaria tra comuni autonomi, repubbliche, principati, signorie e possedimenti imperiali, ci troviamo in anni in cui, persino il papato era spaccato e la sede del potere ecclesiastico era stato trasferito ad Avignone. Parlare di Italia in quegli anni era pura utopia, la sola Italia che esisteva era l’Italia della cultura, dell’arte e della letteratura in lingua italica, che ormai matura, iniziava a prendere forma e viaggiare tra le innumerevoli corti della penisola.

L’allontanamento della curia romana, trasferita ad avignone, aveva portato fame e miseria nella città eterna, e questo sia all’interno delle mura Aureliane, sia nel contado, nelle terre esterne alle mura, popolate da contadini e disperati soggiogati dal crescente potere dei baroni locali. Uomini di potere che, in assenza della curia, avevano assunto e rafforzato il proprio potere sulla città.

Le famiglie ColonnaOrsiniSavelliContiAnnibaldi erano le vere e sole padrone di Roma, e a turno, tra alleanze e scontri, avrebbero ricoperto sempre più incarichi di potere, sia in termini imperiali che papali.

In questa situazione, in questo contesto storico, oggi estremamente chiaro, ma all’epoca estremamente caotico e ambiguo, è facile immaginare quali potessero essere le massime ambizioni dei notabili che controllavano Roma. Controllare la città e ripartire da Roma per ricostruire quella che nel mondo antico fu la più grande nazione della storia, ricostruire l’impero, o meglio, riportare la corona imperiale a Roma.

In quegli anni roma aveva apparentemente un ruolo centrale nelle dinamiche imperiali, e gli imperatori del sacro romano impero erano ancora tenuti a recarsi a Roma per essere consacrati imperatori, per acquisire dignità imperiale, tuttavia, la discesa a Roma degli imperatori era una pratica formale che nulla aveva a che fare con il potere reale e Roma, ormai privata del pontefice, era completamente posta al limite ai margini dell’impero.

In quel mondo, in quel tempo, in quell’Italia, come già detto, parlare di Italia era un utopia, ma qualcuno osò farlo, qualcuno ebbe una visione, qualcuno osò immaginare un Italia unita, e progettò di compiere in quella penisola, i cui confini naturali sono estremamente definiti e secondi, forse, solo ai confini della Gran Bretagna, qualuno, in quel frangente ipotizzò e provò a ridare all’Italia la sua antica dignità imperiale e di rendere nuovamente la città dei cesari (Roma) sede effettiva e reale del potere imperiale.

Se la storia avesse proseguito su questa strada, probabilmente nel XIV secolo, anche l’Italia, come Francia, Spagna e Regno Unito, avrebbe compiuto la propria unificazione nazionale prima della fine del Medioevo, e il volto dell’età moderna, dell’europa e del mondo, probabilmente sarebbe mutato notevolmente. Ma ciò non accadde.

Qualcuno tuttavia, provò a mettere in moto questo procedimento, anche se, col senno di poi, sappiamo che fallì miseramente e l’italia sarebbe stata unificata soltanto cinque secoli più tardi.

Ci troviamo intorno alla metà del XIV secolo, più precisamente alla vigilia della pentecoste (19 maggio) del 1347, nella piazza del Campidoglio, ebbe inizio una congiura popolare volta a scalzare le milizie comunali romane, controllate dai notabili, padroni di Roma.

L’ascesa di Cola di Rienzo

A capo dei congiurati che diedero il via a questa insurrezione “popolare” (termine anacronistico, me ne rendo conto) vi era un tale al secolo Nicola di Lorenzo Gabrini, in romanesco medievale “Cola di Rienzi” e noto oggi alla storia col nome di Cola di Rienzo. Costui, il 20 maggio, dopo aver trascorso la notte in preghiera nella chiesa di Sant’Angelo in Pescheria, partì, alla testa di un corteo armato, in direzione del palazzo senatorio, sovrastante la piazza del campidoglio e giunto nella piazza, “affabulò la folla”, come ci ricordano i cronisti, con le sue capacità oratorie degne di Cicerone, Tito Livio, Seneca e Tulio e Valerio Massimo, ottenendo l’approvazione del proprio programma politico da parte dell’assemblea comunale, ottenendo pieni poteri politici e militari e successivamente, il 24 maggio, ricevendo il titolo di Tribuno della libertà, della pace e della giustizia, liberatore della Santa Repubblica romana.

Questo episodio, potrebbe a qualcuno ricordare l’ascesa di Cesare o l’ascesa di Ottaviano Augusto o anche la nascita della repubblica romana del 1848, episodio quest’ultimo con cui in effetti ci sono molte affinità, anche perché come per la repubblica romana, la Santa Repubblica romana del 1347 ebbe vita breve.

L’obiettivo di Cola di Rienzo chiaro e noto ai suoi contemporanei, egli ambiva a rendere Roma ancora una volta, sede reale del potere imperiale e per farlo era necessario compiere alcuni passaggi fondamentali, il primo di questi era l’allontanamento dei baroni che spradoneggiavano su una terra in tumulto.

Già il 20 maggio Cola di Rienzo aveva ottenuto di limitare il potere dei signori rionali, imponendo loro di rimuovere i vessilli esposti sulle dimore dei signori che controllavano i rioni della città. Successivamente Cola propose un progetto di unificazione dell’Italia, estendendo la cittadinanza romana a tutti gli abitanti della penisola italica, fatto questo che gli innimicò l’amicizia papale. Alcuni cronisti inoltre riportano un rapido e progressivo allontanamento di Cola di Rienzo dalla realtà, raccontando che, dopo una messa al Laterano, il tribuno si mise a dormire nel vasca battesimale della cattedrale, gesto che venne riportato come un tentativo di emulare una presunta immersione di Costantino e, al suo risveglio, si fece consacrare dal vescovo, Cavaliere dello Spirito Santo.

Il declino di Cola di Rienzo

Di episodi fuori dal comune e ben oltre il limite della follia, ne sono piene le cronache riguardanti Cola di Rienzo, ma non è chiaro se si trattasse di effettiva follia, di episodi di aperto scontro con le istituzioni tradizionali e imperiali che vennero poi strumentalizzate politicamente per screditare la figura di Cola di Rienzo, un po’ come accadde anche nel primo secolo dopo cristo a Caligola, la cui “guerra” al senato, portò i cronisti, di tradizione senatoria, a dipingere l’imperatore romano come un folle.

Ad ogni modo, sul finire di novembre del 1347, alcuni esponenti di nobili famiglie romane, tra cui Stefano Colonna e alcuni esponenti di casa Orsini che, in precedenza lo avevano sostenuto, vennero arrestati e il 20 novembre, le milizie comunali, controllate da Cola di Rienzo, inflissero alle milizie dei notabili un importante, quanto effimera, sconfitta, nella battaglia di Porta di San Lorenzo.

Per motivi a noi oggi ancora ignoti, i nemici sconfitti vennero lasciati fuggire, così che questi potessero rifugiarsi nei castelli delle campagne romane, per riorganizzarsi e riarmarsi. Probabilmente Cola di Rienzo ipotizzava che questi, una volta sconfitti non avrebbero più minacciato roma e non avrebbero fatto ritorno, ma così non fù, e la sua indolenza e, secondo i cronisti, inadeguatezza, segò l’inizio del declino politico del tribuno, le cui straordinarie capacità oratorie sembra non essersi tradotte in un effettiva capacità amministrativa e alla fine, Cola di Rienzo venne scomunicato da un legato papale costringendolo alla fuga.

Inizialmente Cola di Rienzo trovò rifugio a Napoli, successivamente tornò a Roma ormai nuovamente sotto il controllo dei Orsini e Colonna e, proprio gli Orsini, che più di tutti si erano sentiti traditi dalle azioni di Cola di Rienzo, ne ordinarono l’arresto costringendolo alla prigionia nelle celle di castel Sant’Angelo, dove rimase per circa un anno prima di riuscire a fugire in modo estremamente rocambolesco e trovare rifugio presso l’eremo dei fratelli spirituali sulla Majella (in Abruzzo).

Lì Cola di Rienzo si convinse che il solo uomo in grado di riportare ordine e pace sulla terra fosse l’imperatore, così partì alla volta di Praga dove, nonostante la scomunica, riuscì ad essere ricevuto dall’allora “re dei romani” e successivamente (a partire dal 1355) imperatore, Carlo IV di Lussemburgo.

Nel loro incontro Cola di Rienzo chiese al futuro imperatore di mettersi alla testa di un esercito marciare verso roma e contro il papato. La risposta dell’imperatore fu un nuovo arresto di Cola di Rienzo, arresto che fu molto gradito all’allora pontefice Clemente VI.

Nonostante la prigionia Cola di Rienzo riuscì, grazie ai suoi contatti romani, ad ottenere un trasferimento, nel 1352, presso il palazzo dei papi ad avignone dove, ancora una volta grazie alle proprie capacità oratorie, riuscì ad ottenere la simpatia e l’amicizia del cardinale Guy de Boulogne e del nuovo pontefice, Innocenzo VI, asceso al soglio pontificio nel 1352, il quale, intenzionato a riassumere il controllo di Roma, revocò tutte le accuse mosse nei confronti dell’ex tribuno romano, liberandolo e inviandolo a Roma, scortato dal legato pontificio Egidio Albornoz.

Cola di Rienzo entrò trionfale a Roma, accolto dalla folla il 1 Agosto 1354, dove fu rapidamente bollato come un uomo del pontefice e lasciato praticamente solo, dai suoi ex sostenitori e alleati, nello scontro contro i Colonna che in breve portò la città di roma sotto assedio.

Lo scontro per il controllo di Roma terminò l’8 ottobre 1354 e con esso si sarebbe spenta, almeno per qualche secolo, il sogno di un italia unita politicamente.

L’epilogo di Cola di Rienzo

La notte dell’8 ottobre Cola di Rienzo fu costretto a barricarsi presso il palazzo senatorio, al seguito di un insurrezione popolare, probabilmente fomentata da Colonna, Orsini e Savelli, tuttavia le mura dell’edificio non riuscirono a proteggerlo e la folla inferocita per le tasse eccessive incendiò il palazzo.

Così finisce la storia di Cola di Rienzo, un uomo che sognò l’Italia innimicandosi notabili, pontefici, imperatori e masse popolari. La sua morte però non avvenne tra le fiamme del palazzo senatorio. Secondo i cronisti del tempo infatti, Cola di Rienzo riuscì a fuggire, travestito da plebeo e cercando rifugio tra la folla, dove, tuttavia, qualcuno riuscì comunque a riconoscerlo dai suoi ingenti bracciali d’oro e così l’uomo un tempo eroe acclamato dal popolo romano, venne preso, colpito e linciato dalla folla che successivamente avrebbe esposto il cadavere decapitato, appeso a testa in giù di fronte la chiesa di San Marcello in via Lata, non lontano dal palazzo dei colonna e dopo due giorni, il cadavere ormai in putrefazione, venne bruciato, non lontano dal Mausoleo di Augusto.

Bibliografia e Fonti

R.Bordoni, G.Sergi, Dieci secoli di Medioevo, Einaudi editore
C.Frascati, Cola di Rienzo. Roma, 1347. La folle vita del rivoluzionario che inventò l'Italia, Mursia editore
Cola di Rienzo, Epistolario di Cola di Rienzo, Torino, Bottega d'Erasmo, 1966.
A.Collins, Greater than Emperor: Cola di Rienzo (ca. 1313–1354) and the World of Fourteenth-Century Rome, University of Michigan Press, 2002. DOI: 
10.1017 / S0038713400000324

Le origini della civiltà romana

Roma è uno dei rari casi nella storia in cui di una città si conosce il giorno di fondazione (il 21 Aprile) ma non se ne conosce l’anno.
Ci sono molte teorie riguardanti le origini di Roma, sia per quanto riguarda l’anno di fondazione che per quanto riguarda il gruppo “etnico” di appartenenza.
Secondo la tradizione roma è stata fondata nel 753 a.c. e questo significa che l’età monarchica sia durata circa 250 anni, che sono decisamente troppi per l’epoca, soprattutto se si considera che ci sono stati soltanto sette re. Secondo altre teorie, molto più verosimili, la fondazione di roma risalirebbe alla seconda metà del VII secolo, approssimativamente tra il 635 ed il 600 a.c., e questo è molto più probabile.

Per quanto riguarda l’origine “etnica” invece, qui le teorie sono tra le più disparate, la teoria più accreditata e maggiormente accettata è quella secondo cui Romolo, il mitico fondatore della città, fosse di origini Latine, altri sostengono che le origini di Romolo siano Sabine, secondo altre tesi le origini di Romolo sarebbero Etrusche e qualcuno azzarda l’ipotesi che Romolo fosse di origini Greche, e la cosa interessante è che, ognuna di queste teorie è supportata da una diversa variante del mito delle origini e della fondazione di Roma, ma, qual è la verità dietro Romolo la fondazione di Roma? che rapporto c’era tra i romani e le vicine popolazioni di sangue latino ?

Storia romana sui social Network : quando il mito supera la realtà

Nel 1936, più precisamente il 16 agosto 1936, Giorgio Pasquali pubblicò nella “nuova antologia” un saggio intitolato “La grande Roma dei Tarquini” pp. 405-416.

Il saggio del Pasquali, fu per l’epoca estremamente controverso e problematico, soprattutto perché nel 1936 in italia c’era il fascismo che, come sappiamo, aveva mitizzato la storia romana e costruito un culto di roma fondato su una visione parziale e distorta della storia romana. Il saggio del Pasquali nel 1936 segna un punto di rottura con la storiografia tradizionale e ad oggi è considerato un momento epocale per la ricerca riguardante soprattutto la Roma del VI secolo a.c., ovvero la Roma delle origini, una Roma in piena età monarchica.

Come è facile immaginare, la visione e l’interpretazione proposte dal Pasquali suscitarono grande scalpore, tra le altre ragioni perché le sue teorie minavano le origini del mito di Roma costruito dal fascismo.

La cosa interessante è che le teorie del Pasquali, nonostante l’epoca, furono largamente accettate e apprezzate dal mondo accademico e ci furono molti meno oppositori di quanto si possa immaginare, questo grande favore era legato soprattutto all’ampio progresso di conoscenze legate alle scoperte archeologiche e confermate dalla tradizione storico-letteraria.

Il modello di ricerca elaborato dal Pasquali è ancora oggi un modello solido e valido, e la sua interpretazione della Roma del VI secolo è largamente accettata, anche se continua ad essere al centro di un intenso dibattito storiografico sulle origini della civiltà romana e più precisamente sulle origini di “Romolo”.

Il motivo per cui oggi ho deciso di fare questo post riguardante le ricerche del Pasquali è perché uno dei capisaldi della sua metodologia di ricerca era la comparazione di diverse fonti storiografiche, ponendo sullo stesso piano sia fonti documentarie che archeologiche, e soprattutto prendeva in esame fonti contrastanti provenienti da epoche differenti e dalla cui comparazione era possibile individuare ed estrapolare gli elementi comuni che, nell’ottica del Pasquali erano i soli elementi di verità accettabili.

Questa modalità di ricerca rompeva la tendenza di alcuni storici dell’epoca di “ascoltare una sola campana” e professarla come verità assoluta ed è il motivo per cui oggi ho deciso di parlarne.

Il mondo accademico, per quanto riguarda la ricerca storiografica, ha ormai ampiamente assorbito questa modalità di studio e di ricerca, di fatto la comparazione di fonti differenti, provenienti da momenti diversi e la comparazione di diverse chiave interpretative, oggi sono alla base della ricerca storiografica.
Diversamente, sul web non funziona così, e molti “colleghi divulgatori” che si occupano di storia, tendono a non accettare e non accoglie questo modello di pensiero, non voglio stare a sindacalizzare sul modello di pensiero, ognuno è libero di approcciarsi alla storiografia nel modo che ritiene opportuno, ma focalizzarsi su una visione univoca della storia ed accettare solo “fonti favorevoli” alla propria visione, tacciando le fonti contrastanti come inesatte o inappropriate è estremamente deleterio, perché la tendenza è quella di divulgare “il mito di roma” e non la storia romana.

Sinceramente mi sono stancato di vedere community sui vari social network, anche molto ampie, di “appassionati” di storia, e soprattutto di storia romana che, invece di fare storia, invece di parlare di storia e di confrontarsi con la ricerca storiografica, tendono a propinare una storiografia parziale e accuratamente selezionata per confermare una visione distorta e inesatta della storiografia e sopratutto della storia romana.

La storia di Roma è una storia molto lunga, molto complessa e molto variegata, e questo perché è la storia di un popolo che ha inglobato nella propria civiltà innumerevoli popolazioni e civiltà contemporanee, di fatto la storia romana non è solo la storia di roma, ma è la storia di tutti i popoli del mediterraneo e in larga parte d’europa tra il secondo secolo avanti cristo e quinto secolo dopo cristo, è una storia pullulante di scontri politici interni e di crisi politiche interne oltre che di guerre con l’esterno, ma la maggior parte dei miei “colleghi” tende a puntare lo sguardo solo sulla storia gloriosa, sui successi di roma, dimenticando, forse troppo facilmente i periodi più cupi della storia romana, i momenti più dolorosi e soprattutto dimenticando che Roma non ha vinto ogni battaglia che ha combattuto.

Quando si parla di storia romana sui social network bisogna stare attenti ad un grande rischio.
Bisogna stare attenti a non confondere il Mito di Roma con la Storia di Roma, perché il mito è bello, è affascinante, è glorioso, ma la storia romana, come la storia di qualsiasi altra epoca, è fatta di alti e di bassi e se si crede che Roma non abbia mai perso una battaglia allora, forse è meglio fare qualche passo indietro e riaprire qualche vecchio e polveroso manuale di storia romana.

Ho scritto questo post perché sono stanco di vedere il mito di Roma sovrapporsi alla storia Romana.

L’uso strategico dell’urbanistica in età Romana

Tra le tante, infinite, meraviglie storiche che il nostro tempo ha ereditato dalla civiltà romana, la posizione di alcune importanti città europee è forse l’eredità più grande perché la loro fondazione ha determinato l’evolversi stesso delle civiltà europee e mediterranee, ma perché i romani scelsero di fondare le proprie città proprio in quei luoghi invece che in altri?

Perché se guardiamo una mappa delle città fondate dai romani, notiamo una serie di agglomerati urbani nelle regioni più esterne dei territori imperiali e nell’entroterra invece, al sicuro da invasioni barbariche e scorribande troviamo solo poche città sparse e molto lontane le une dalle altre?

Guardando questa carta che mostra la moderna disposizione di città romane, una domanda sorge spontanea, perché ci sono così tante città di romane ai confini dell’impero così poche nell’entroterra francese o ispanico ?

Non dovrebbero esserci più città nelle regioni “sicure” e meno in quelle più “pericolose”?

La risposta più immediata è , “certamente si” chiunque dotato di buonsenso andrebbe a costruire le proprie città in regioni sicure e non sulla linea del fronte ad un passo dalle barbariche tribù germaniche, e pure, Roma non agì in questo modo e fondò molte più città in territori pericolosi.

Guardando questa carta più attentamente possiamo notare che le città in area germanica non sono città sparse, ma anzi, sono molto vicine tra loro, sono così vicine che è quasi difficile capire dove finisce una città e dove inizia la successiva, sembra quasi che formino una linea continua, sembra quasi una barriera urbana, una muraglia di città posta lì, per qualche motivo, una muraglia urbana situata al confine estremo dell’’impero, costruita proprio sotto il naso delle vicine tribù germaniche con cui Roma era in guerra.

Deve esserci una ragione di qualche tipo, e di teorie sul perché Roma abbia fondato così tante città al confine delle regioni belligeranti ce ne sono effettivamente tantissime. In questo articolo non andrò ad esporle tutte ma mi soffermerò sulla combinazione di teorie che personalmente ho sempre trovato più interessante e prenderò le battute da due delle teorie più interessanti e maggiormente accreditate, che riguardano l’economia militare e la strategia militare.

Per quanto riguarda la teoria dell’economia militare questa prende in considerazione soprattutto l’età imperiale e l’ultimo secolo della repubblica, ovvero il periodo che va dalla riforma dell’esercito di Mario in avanti.
La riforma dell’ordinamento militare di Mario come sappiamo, aveva reso l’esercito professionistico e non più volontario e questo significava che i soldati romani vivevano per anni in accampamenti “al fronte” impegnati a pattugliare i confini dell’impero ed impedire eventuali invasioni barbariche.

La presenza di terre oltre i confini romani ad oriente e l’oceano ad occidente può aiutarci a comprendere perché nelle regioni occidentali Roma investì meno sulle frontiere, limitandosi a pattugliare le coste e allo stesso tempo ci da un importante indizio sul perché il fronte orientale fosse decisamente più militarizzato.
Iniziamo col dire che l’oceano rappresentava di per sé un importante difesa naturale per l’impero, mentre dall’altra parte, la presenza di terre significava anche la presenza di altri popoli non sempre amichevoli o pacifici e proprio la presenza delle belligeranti popolazioni germaniche ad oriente ci aiuta a fare chiarezza.

Un impero che teme i propri nemici tende ad allontanare le proprie città dai confini, o meglio, tende ad espandere i propri confini creando un cuscinetto di terre disabitate tra il confine dove sono stanziati i soldati e le proprie città, questo è il motivo per cui vengono costruite fortificazioni e si sceglie di fondare città dove è presente una minima difesa naturale, la stessa Roma non è da meno e nella sua prima fase espansionistica, soprattutto nella prima età repubblicana, si è comportata esattamente in questo modo. Roma per secoli ha vissuto protetta da delle mura e da un fiume, tuttavia, l’espansione di Roma e l’assorbimento di numerose civiltà molto avanzate, in alcuni casi persino più avanzate della stessa civiltà romana, e il sempre maggiore allontanamento dei confini permise all’impero romano di compiere un enorme balzo in avanti sul piano urbanistico, tecnologico e militare. Non a caso la maggior parte delle città interne, fondate in età imperiale, è sprovvista di mura e fortificazioni, questo perché de facto si era creata un enorme disparità di forza tra l’esercito romano ed i primitivi eserciti delle tribù che per un motivo o per un altro, non erano state inglobate nell’impero, e soprattutto perché si erano messi molti chilometri tra quelle città ed i potenziali nemici, ma allora, ancora una volta, perché ci sono così tante città vicino i territori popolati dalle tribù germaniche?

Cerchiamo di inquadrare la situazione e osservare i rapporti di forza tra Roma e le popolazioni germaniche. La dinamica militare che incontriamo è quella “classica” della guerra asimmetrica, in cui una delle due fazioni è tecnologicamente più avanzata dell’altra ed è dotata di un esercito più grande, meglio addestrato e meglio armato. In questo contesto la logica ci suggerisce che l’esercito “migliore” sia quello romano e che, di conseguenza, con più semplicità avrebbe ottenuto la vittoria in uno scontro diretto. Tuttavia, come sappiamo, dinamiche di questo tipo sono le più imprevedibili e molto spesso, l’esercito più piccolo e disorganizzato riesce ad avere la meglio su quello più imponente evitando lo scontro diretto ed utilizzando strategie alternative che, come sappiamo, permisero alle tribù germaniche di resistere per secoli nello scontro con Roma e a conferma di questo, come sappiamo, Roma non riuscì mai a sconfiggere totalmente le tribù germaniche.

Se bene l’esercito romano fosse militarmente superiore sotto ogni punto di vista alle milizie germaniche, le tribù germaniche riuscirono a resistere grazie a strategie e tecniche che oggi chiameremmo anacronisticamente “di guerriglia” (termine introdotto soltanto nel XIX secolo) compiendo raid improvvisi, assalti, sabotaggi ecc ecc ecc.

Nella guerra contro le tribù germaniche Roma era impegnata a combattere contro un nemico invisibile e letale, un nemico che era in grado di colpire e sparire prima ancora che Roma si accorgesse dell’attacco e per fronteggiare questo nemico Roma utilizzò quella che molti indicano come una strategia “psicologica”. Roma combatté contro le popolazioni germaniche mostrando al nemico di non temerlo, e per farlo, unì insieme economia militare e strategia.

Ai confini dell’impero i tantissimi soldati che lo proteggevano vivevano in accampamenti militari e fortini che gli permettevano di presidiare il confine. Oltre la linea di frontiera, al di la dei fortini, delle barricate e delle trincee, solitamente vi era un ampia area in cui i romani avevano abbattuto ogni albero per centinaia di metri, permettendo così ai soldati di sorvegliare un area estremamente vasta.
Sul fronte interno invece, vennero sviluppati numerosi villaggi, inizialmente con funzioni ausiliarie alle attività militari, in cui vi erano prevalentemente fabbri, artigiani, locandieri e prostitute e la vita economica di questi villaggi dipendeva quasi esclusivamente dalla presenza del vicino accampamento militare. Col passare del tempo questi villaggi iniziarono a svilupparsi autonomamente, con la creazione di fattorie e distillerie in cui venivano allevati maiali e si produceva prevalentemente più grano e birra.

Questi primitivi nuclei urbani, in cui grazie ai soldati romani circolava molto denaro, attiravano sempre più lavoratori, soprattutto contadini, mercanti e prostitute, ed i villaggi si espandevano sempre di più fino a diventare delle vere e proprie città, in cui, molto spesso, l’imperatore preferiva risiedere per stare vicino alle armate ma senza rinunciare alle comodità urbane che nella vita da campo gli erano negate.

Queste città nate in conseguenza alla presenza dei vicini accampamenti permanenti dei militari, vennero utilizzate sul piano strategico, in primo luogo dando al nemico l’idea che Roma non temesse minimamente le scorribande barbariche, poiché appunto, aveva costruito delle città ai confini, e queste città erano protette soltanto dalla presenza del vicino accampamento militare. In secondo luogo, queste città mostravano al nemico i comfort della vita urbana e le comodità che la civiltà romana aveva da offrire. Più o meno come quando durante la guerra fredda ai confini con l’Unione Sovietica venivano innalzati ripetitori radio e televisivi che permettevano nell’est europa di ascoltare e vedere i programmi TV e le serie televisive europee e americane, che davano l’idea di un occidente da sogno in cui vivere, ma questo è un altro discorso.
Tornando a Roma, questi elementi messi insieme davano al nemico un idea di invincibilità romana che molto spesso e per molti anni, fu sufficiente ad impedire tentativi di invasione e in alcuni casi spinse gli abitanti di villaggi germanici a passare il confine per vivere nei più sicuri e civilizzati territori romani.
L’efficacia della strategia urbana venne meno soltanto negli ultimi decenni dell’impero, quando la ricchezza e la grandezza di Roma era ormai soltanto un lontano ricordo e in molte città di frontiera le elité fuggirono via lasciandosi contadini, artigiani, soldati e prostitute alle spalle.

OBELISCHI EGIZI A ROMA

Le principali piazze di Roma sono decorate da alti obelischi: alcuni sono egiziani, altri risalgono all’epoca romana. Il primo imperatore a portare gli obelischi in città fu Augusto, avendo posto egli stesso l’Egitto sotto il controllo romano, rendendolo una provincia dell’impero; il suo esempio è stato seguito da numerosi imperatori dopo di lui.

In epoca imperiale essi non avevano una funzione decorativa, bensì avevano un significato politico e religioso: erano bottino di guerra, segno della potenza e della capacità dell’impero; erano collocati nei templi egizi (numerosi a Roma in quel periodo), in aree consacrate al dio Sole, davanti a monumenti funerari. Si trovavano, quindi, in luoghi diversi da quelli in cui si trovano oggi. Con l’avvento delle invasioni barbariche, andarono incontro al crollo o finirono smarriti, senza lasciare traccia.
Furono i papi a far poi reinnalzare queste enormi steli sacre, facendole trasportare nelle piazze della Roma rinascimentale e barocca: il primo fu papa Sisto V Peretti (1585-1590) il quale, grazie alla collaborazione dell’architetto Domenico Fontana, ha trasformato l’aspetto della città: fece costruire grandi strade rettilinee per collegare le basiliche che ogni buon pellegrino doveva visitare (il famoso “giro delle sette chiese”) e per aiutare ad orientarsi tra i palazzi usò come punti di riferimento proprio gli obelischi. Fece trasportare e collocare quattro di essi: quello di Piazza San Pietro, dell’Esquilino, di San Giovanni in Laterano e di Piazza del Popolo.

Oggi ci sono 13 obelischi antichi in città, ma in origine erano di più, almeno 17. Nel XVIII secolo un obelisco è stato portato a Firenze, nel Giardino di Boboli a Palazzo Pitti; due sono stati portati ad Urbino, davanti alla chiesa di San Domenico. Un altro obelisco si trovava sull’isola tiberina: è crollato a terra nel XVI secolo e alcuni frammenti sono conservati tra il Museo Nazionale di Napoli e Monaco di Baviera.
La nostra capitale possedeva anche un obelisco axumita, proveniente appunto da Axum, la città sacra dell’antico imperio etiope, esso era alto più di 23 metri e contava 150 tonnellate di peso; gli italiani ne entrarono in possesso durante la guerra di Etiopia alla fine del 1935, lo rinvennero frantumato in tre tronconi, lo sezionarono ulteriormente e con due mesi di fatiche fu trascinato fino al porto, giunse a Napoli nel 1937 e poi, da lì, a Roma. I soldati italiano lo avevano prelevato come bottino di guerra, ma si offrirono di restituirlo già dal 1947: fu un percorso travagliato e dopo vari tentennamenti e perplessità il primo frammento della stele partì per tornare a casa solo nell’aprile del 2005. Il suo ripristino finale fu ufficialmente celebrato nel settembre del 2008, con la presenza di migliaia di persone, tra cui la delegazione italiana.
Ma torniamo agli obelischi egiziani attualmente in piedi nella capitale:

 

Obelisco lateranense ©Foto di Federica Ruggiero

L’obelisco lateranense è il più antico, nonché il più alto: 32,185m, basamento escluso. In granito rosso, era situato a Tebe dinnanzi al tempio di Amon a Karnak ed era dedicato al grande faraone Thutmosis III, oggi spicca al centro della piazza dinnanzi all’entrata posteriore della basilica di San Giovanni in Laterano. Ma come giunse a Roma? Fu l’imperatore Costanzo II a volerlo in città, nel 357 fu fatto innalzare nel circo massimo. Fu poi abbandonato e ritrovato sepolto e spezzato in tre parti nel 1587; venne restaurato dall’architetto Domenico Fontana su ordine di papa Sisto V e posizionato nella sua attuale sede. Ha un gemello, attualmente situato nella piazza Sultanhamet nel cuore di Istanbul.

 

 

Obelisco vaticano ©Foto di Federica Ruggiero

Al centro di piazza San Pietro troneggia fiero l’obelisco vaticano, l’unico sempre rimasto in piedi: monolito a fasce lisce, nessun geroglifico, alto più di 25 metri, basamento ovviamente escluso. Fu eretto dal faraone Nencoreo III (nome inventato da Plinio, Nemcoreo III è oggi identificato in Amenemhat II) ad Heliopolis ed è in porfido. Nel 37 d.C. l’imperatore Caligola lo volle a Roma: l’obelisco abbandonò la sua sede ad Heliopolis e finì a decorare il circo di Nerone. Nel 1586 papa Sisto V lo fece collocare dov’è ora da Domenico Fontana; le decorazioni poste tra la base e la cima sono riconducibili alla famiglia Chigi, alla famiglia Conti ed, ovviamente, a Sisto V. In cima, prima di ospitare le reliquie della santa croce, pare ci fosse una palla di bronzo che, secondo tradizione, conteneva le ceneri di Giulio Cesare, donate poi da Sisto V al comune di Roma.

 

Obelisco Flaminio ©Foto di Federica Ruggiero

Innalzato ad Heliopolis da Seti I e Ramesse II, l’obelisco Flaminio fu tra i primi a traslocare a Roma per volere di Augusto: quasi 24 metri senza contare il basamento, nuova casa fu il Circo Massimo. “Il cielo degli dei è soddisfatto per quello che fece il figlio del Sole Seti I dagli spiriti di Eliopoli amato come il sole”, questa la traduzione dei geroglifici incisi lungo la stele. Sisto V lo fece spostare alla sua attuale sede in piazza del popolo nel 1589. Il basamento, su ogni lato, riporta un’iscrizione diversa: il lato rivolto verso il pincio è riferito alla chiesa di Santa Maria del Popolo, dal lato opposto la dedica va proprio a Sisto V, dalla parte rivolta verso la porta del popolo viene rievocata la vittoria di Augusto sull’Egitto ed, infine, l’ultimo lato è purtroppo danneggiato.

 

Obelisco di Montecitorio ©Foto di Federica Ruggiero

L’obelisco di montecitorio, insieme a quello vaticano, fu l’unico ad aver svolto funzioni di indicatore solare. Alto quasi 22 metri, nato ad Heliopolis per merito di Psammetico II, si trova a Roma per volere di Augusto dal 10 a.C. e inizialmente si trovava in campo Marzio, fu poi reinnalzato su ordine di papa Benedetto XIV e spostato a Montecitorio,dopo averlo fatto restaurare con frammenti di granito rosso della colonna antonina. In cima gli collocarono una sfera forata da cui a mezzogiorno sarebbe dovuto passare un raggio di sole.

 

 

Obelisco di Dogali ©Foto di Federica Ruggiero

L’obelisco di Dogali è stata restaurata ed utilizzata per il monumento commemorativo dei 548 caduti in Etiopia durante la battaglia di dogali del 1887; alto poco più di 6 metri, fu innalzato sul “monumento più malinconico che ci sia sotto il cielo di Roma” (cit.) che si trovava dinnanzi alla stazione di Roma termini e nel 1925 fu spostato nella sua attuale sede, il giardinetto delle terme di Diocleziano. Anch’esso nativo di Heliopolis, costruito durante il regno di Ramsete II, fu trovato nel 1883 nell’antico tempio romano dedicato alla dea Iside. Dopo la conquista d’Etiopia fu arricchito con un leone di Giuda in bronzo ma post fascismo esso fu restituito al Negus etiope Hailè Selassiè.

 

 

Obelisco del pantheon ©Foto di Federica Ruggiero

Anche l’obelisco del pantheon è opera di Ramsete II, sito in Heliopolis, non si sa con precisione quando arrivò a Roma ma si sa che abbelliva il tempio di Iside e serapide in campo Marzio; alto poco più di sei metri, in granito rosso, arrivò in piazza del pantheon per mano di Papa Clemente XI Albani, dopo esser passato per piazza san Macuto (Sant’Ignazio) nel 1374. Fu Filippo Barigioni l’architetto che si occupò dell’inserimento della stele nella splendida fontana cinquecentesca scolpita da Giacomo della Porta, riuscendo a legare armoniosamente i due monumenti. Non fu un’impresa facile, ma oggi abbiamo un’opera splendida da ammirare.

 

Obelisco della Minerva ©Foto di Federica Ruggiero

Appena cinque metri di altezza per l’obelisco di piazza della Minerva, ma è di una bellezza unica: nel 1667 fu dotato di un curioso basamento disegnato da Gian Lorenzo Bernini e realizzato da Ercole Ferrata, un elefantino. La stele poggia sul dorso dell’animale, fu voluto da papa Alessandro VII Chigi, il quale volle anche un’incisione filosofica, oltre che storica, sul basamento, ovvero (tradotta): “Chiunque tu sia, puoi qui vedere che le figure del sapiente Egitto scolpite sull’obelisco sono sostenute da un elefante, il più forte degli animali: capisci l’ammonimento, che è proprio di una robusta mente sostenere un solida sapienza”. I geroglifici sulla stele, invece, sono stati cosi tradotti: ” La protezione di Osiride contro la violenza del nemico Tifone deve essere attirata secondo i riti appropriati e le cerimonie con sacrifici e mediante l’appello al Genio tutelare del triplice mondo, per assicurare il godimento della prosperità tradizionalmente concessa dal Nilo contro la violenza del nemico Tifone”.
Eretto per la prima volta in Egitto dal faraone Aprie (589-570 a.C.), fu trovato in ottimo stato di conservazione, è in granito rosa con geroglifici sulle 4 facciate. Il progetto iniziale del Bernini fu bocciato e ci furono numerose divergenze tra lui, un frate domenicano che voleva vedersi affidare il progetto ed il papa, la posizione dell’elefantino sarebbe la prova delle divergenze che ebbero.

Obelisco Mattei – celimontana ©Foto di Federica Ruggiero

Il più difficile da localizzare e trovare, l’obelisco di villa celimontana è ubicato all’interno dei giardini della residenza, sede attuale della società geografica italiana, giardini che sono divenuti parco pubblico nel 1925: la villa era antica residenza della famiglia Mattei. È il pù piccolo tra gli obelischi di cui abbiamo parlato, misura appena due metri, ma è stato dotato di una “piccola aggiunta” di circa 10 metri, di colore diverso, a fasce lisce e priva di geroglifici. Tra i vari nomi, ha anche quello di “obelisco Mattei” ed “obelisco capitolino”, quest’ultimo perché in epoca imperiale fu trasportato a Roma e posto nel tempio di Iside capitolina; fino al 1952 era situato in campidoglio. Fu donato al duca Ciriaco Mattei nel 1528 dal senato di Roma, il quale lo fece smontare subito dal cimitero dove si trovava. Si narra che un operaio che stava lavorando alla collocazione dell’obelisco sulla base attuale vi perse le mani e parte delle braccia a causa della rottura di una fune.

Bibliografia :

http://www.turismoroma.it/cosa-fare/gli-obelischi
http://www.angolohermes.com/Luoghi/Lazio/Roma/Obelischi/obelischi_1.html
Munoz A.- Gli obelischi egiziani di Roma 1953
Cipriani G.B.-Su i dodici obelischi egizi che adornano la città di Roma 1823
Farina G,- L’obelisco domizianeo nel Circo Agonale 1908
Gnoli D.- Disegni di Bernini per l’obelisco della Minerva in Roma 1888
Grassi G.- Gli obelischi di Roma
Bastico S –Obelischi egiziani a Roma. In Romana Gens 1956
Briganti Colonna G.-Avventure di obelischi 1937

©Tutte le foto sono state scattate e post-prodotte da Federica Ruggiero, autrice dell’articolo

Storia Roma, Crescita e Declino di un impero millenario

La storia romana è una storia millenaria fatta di uomini giusti e tiranni, che vede protagonista la più longeva civiltà della storia dell’uomo, è stata modello e fonte di ispirazione per qualunque altro popolo vissuto dopo la sua fine.

Nella sua fase primordiale fu una monarchia, che divenne una repubblica unica nella sua forma, e poi, si trasformò in un impero che avrebbe condizionato l’evoluzione politica dell’intera europa per oltre duemila anni.

Romolo, Numa, Tullio Ostilio, Anco Marcio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo, ultimo re, che secondo la tradizione fu esiliato dalla città, e dopo di lui Roma avrebbe giurato che mai più sarebbe stata governata da un monarca, portando così, alla nascita della più grande repubblica mai conosciuta.

La particolarità della Repubblica romana sta nel suo equilibrio di forze determinata da Senato, Consoli e Magistrati, i quali, rappresentavano la perfetta combinazione delle tre forme di governo preesistenti, ovvero l’oligarchia, di cui era impregnato il senato, la monarchia, di cui i due consoli erano un espressione, e la democrazia, manifestata dalla pubblica elezione dei magistrati.
Questo equilibrio però era tutt’altro che stabile, e le lotte di potere tra l’una o l’altra carica non mancarono di turbare questo equilibrio, “fortunatamente” l’ascesa al potere di numerosi uomini giusti (ma anche aspiranti tiranni) portò ad un sempre maggiore equilibrio, puntando sempre di più verso la parità sociale di tutte le classi di censo, dai più ricchi ai più poveri, includendo anche chi non possedeva altro che se stesso.

Roma in questo senso si dimostrerà molto elastica dal punto di vista sociale, alimentando il sogno di un ascesa sociale (che oggi banalmente chiameremmo, il “sogno americano”) dove un uomo, di umili origini, che non possiede altro che se stesso, può arricchirsi fino a diventare l’uomo più potente dell'”impero” più potente dello stesso imperatore. E di “uomini nuovi” esterni alla tradizione politica che riuscirono a scalare le vette del potere, la storia politica e militare di Roma ne sarà piena, e tra i tanti, un nome risuona su tutti, quello del nipote di un esattore, e figlio di un usuraio, che divenne Tribuno Laticalvo (la seconda carica più alta di una Legione) poi Questore di Creta e Cirene, Pretore in Germania Magna ed in fine Imperatore, in seguito al trionfo nella guerra civile che esplose dopo l’assassinio di Caligola, ed il suo nome era ovviamente Tito Flavio Vespasiano.

Ma Vespasiano non fu l’unico protagonista della storia romana ad avere “umili origini” , e stare qui ad elencarli tutti richiederebbe più tempo del dovuto. Ma va sicuramente menzionato il ruolo centrale che i Liberti dell’imperatore Claudio, ebbero nell’amministrazione della “burocrazia” imperiale, ricordando che i liberti erano schiavi liberati, e quindi degli ex schiavi, che dal non possedere nulla, neanche se stessi, si ritrovarono ad amministrare per Claudio, l’Impero, ricoprendo alcune delle cariche più prestigiose del loro tempo, de facto, degli ex schiavi erano tra gli uomini più potenti dell’impero.

La grande mobilità sociale, caratteristica dell’età repubblicana subì un ulteriore accelerazione in età imperiale, con la progressiva estensione della cittadinanza latina e successivamente romana, a tutti gli abitanti dell’impero, alimentando parallelamente la crisi sociale ed economica, iniziata con la riforma mariana dell’esercito nel primo secolo avanti cristo, che trasformava l’esercito da volontario in mercenario, e che, se in fase di conquista era autosufficiente e perfettamente in grado di auto-alimentarsi, in tempi di pace o comunque durante le fasi statiche o difensive della storia territoriale di Roma, la sua natura mastodontica, dovuta alla presenza tra le fila di roma di migliaia di soldati ai quali l’impero doveva fornire cibo, acqua, vino ed un compenso, si dimostrò sul lungo periodo un peso più che una risorsa, conducendo all’inevitabile collasso di un sistema semi millenario.

Il declino di roma a questo punto ci appare come inevitabile, serviva solo un capro espiatorio che dichiarasse la fine dell’impero, ormai attraversato da secoli di stanziante deterioramento, e questo annuncio avvenne per mano di Odoacre che, conquistando e saccheggiando Roma, poté dichiarare ufficialmente la fine dell’impero Occidentale.

Dal quarto secolo infatti l’impero era stato diviso tra occidente ed oriente, e se bene i due “imperi” rappresentassero un unica entità statale, in pratica seguirono realtà evolutive diverse, sia sul piano politico militare che sul piano culturale, e così, mentre ad oriente un nuovo impero prendeva forma vestendo i tradizionali colori di Roma, Roma sprofondava su se stessa, divorata da un evoluzione fuori controllo che l’avrebbe portata a superare i confini politici impregnando culture e popolazioni diverse che in quegli anni iniziavano a definirsi, segnando così l’inizio del Medioevo e con esso, dei processi formativi dei futuri stati nazionali.

Exit mobile version