Nell’antica Roma c’erano persone dalla pelle scura ed i contadini erano perennemente “abbronzati”.

Gli abitanti dell’impero romano avevano la pelle scura, in alcuni casi per ragioni etniche, in altri perché trascorrevano molte ore dell’anno, lavorando sotto il sole.

Qualche anno fa, su un libro di storia per bambini è apparsa un immagine in cui era raffigurato un soldato romano con la pelle scura, e questo ha fato scaturire la rabbia e indignazione di molti, soprattutto “puristi della razza”.

Quell’immagine è sbagliata perché i romani erano bianchi? Quell’immagine è giusta?

Per rispondere a queste domande in modo storico, e non di pancia, bisogna soffermarci su due elementi, ovvero distribuzione demografica della popolazione dell’Impero e condizioni di vita degli abitanti dell’Impero.

Prima di inoltrarci nell’analisi del fenomeno e cercare di fare luce sulla questione, vi anticipo che, voglio mostrarvi questa immagine precedente il primo secolo dopo Cristo, identificata come “Medicina dello Stivale e dell’Età Romana: Enea curato da Japige” che è stata ritrovata negli scavi di Pompei.

Notate qualcosa di strano nel colore della pelle di Enea e del medico che lo sta curando?

La pelle di Enea e del medico è molto scura, questo e non è un effetto dovuto all’invecchiamento del pigmento, anche perché nella stessa immagine ci sono altre persone con una tonalità della pelle molto più chiara, e dunque, anche se l’immagine con il tempo si è scurita, ciò non toglie che, chi ha realizzato questo affresco, aveva bene in mente che, la pelle di Enea dovesse essere più scura rispetto a quella di altri soggetti della stessa immagine.

Distribuzione demografica in età romana

Per quanto riguarda la distribuzione demografica, va detto che l’Impero romano si estendeva dalla spagna al medio oriente, dalle isole britanniche al deserto del Sahara, controllava l’intero bacino del mediterraneo, e, entro i suoi confini, nei secoli, sono confluite centinaia di popolazioni diverse e lontane tra loro, sia sul piano culturale che etnico.

Entro i confini dell’impero c’era anche il nord africa, un’area che andava dall’Egitto al Marocco, e che costituiva il “granaio” dell’impero, ovvero una regione prevalentemente agricola e molto fertile, in cui venivano prodotte gran parte delle scorte di grano per tutto l’impero.

Fatta eccezione per le “grandi” città come Roma, l’area del nord africa, era tra le più popolose dell’impero, perché abitata da tanti contadini che lavoravano negli immensi e sterminati campi che producevano e fornivano grano a tutto l’impero.

Gli abitanti di quella regione, per ragioni etniche e per condizioni di vita, avevano la pelle molto scura.

Ora, se la parte più popolosa dell’impero è abitata da persone dalla pelle scura, va da se che… già questo è sufficiente a dire che, non solo, nell’impero c’erano persone con la pelle scura, ma anche che questi era una fetta importante dell’intera popolazione romana.
A questo bisogna aggiungere che, la maggior parte degli abitanti dell’impero e dell’Europa nelle epoche successive, dalle isole britanniche all’Egitto, erano contadini e pescatori.

Cosa c’entra il lavoro con la colorazione della pelle?

Parliamo di un epoca preindustriale in cui il lavoro nei campi era svolto prevalentemente sotto la luce diretta del sole, si lavorava la terra tutto l’anno, giorno dopo giorno, sotto il sole, un epoca in cui ci si sposta a piedi o al massimo al cavallo, e anche l’, si è esposti alla luce del sole, di conseguenza, queste lunghissime ore di esposizione alla luce solare, ai raggi ultravioletti che innescano il processo di abbronzatura, rende la pelle di quelle persone molto scura, mediamente molto più scura di quella di un impiegato odierno che prende il sole 2/3 settimane all’anno, durante weekend estivi e vacanze di ferragosto.

Possiamo dire che gli antichi, e per antichi intendiamo gli abitanti dell’Europa e dai tempi di Roma, fino almeno alla seconda metà del XX secolo, erano perennemente abbronzati.

Beati loro, se non fosse che la loro pelle era letteralmente cotta e rovinata, usurata dal sole e da ogni sorta di malattia della pelle.
Per secoli il colore della pelle ha costituito un elemento di distinzione tra ceti sociali, perché, mentre i contadini, ma anche soldati, pescatori e lavoratori in generale, trascorrevano gran parte della propria esistenza sotto il sole, i nobili, gli aristocratici ed i ceti più agiati, erano molto meno esposti al sole, di conseguenza , fatte rare eccezioni, la loro pelle era mediamente più chiara e liscia, rispetto a quella dei contadini.

Nobili ed aristocratici, per aspetto, erano molto più simili a noi, ma, non dimentichiamoci che nobili ed aristocratici erano una frazione ridotta della popolazione europea.

Questo distinguo basato su colore e stato della pelle è venuto a mancare, parzialmente, con la rivoluzione industriale, al seguito della diffusione di illuminazione elettrica, fabbriche e treni, elementi che hanno spostato gran parte del processo produttivo in Europa al chiuso, limitando quindi l’esposizione al sole e cambiando le abitudini di lavoro.

Si lavora al chiuso, ci si abbronza di meno, quindi l’abbronzatura fa il giro e passa dall’essere indicativa di lavori poveri e manuali, ad essere indicativa dell’appartenenza ad una cerchia sociale più elevata che, nella seconda metà del XX secolo, conduce una vita più agiata… può andare in vacanza.

Questo tipo di abbronzatura limitata nel tempo, si traduce in pelle leggermente più scura, ma comunque liscia, diversa da quella dei contadini, molto più scura e increspata e rovinata, non curata.

Va anche detto che, nel secondo dopoguerra, negli anni 50 del novecento, quando Ernesto de Martino e prima di lui Carlo Levi, durante i propri viaggi e studi, si sono recati nell’Italia meridionale, e sono entrati in contatto con le popolazioni rurali del mezzogiorno, si sono imbattuti in uomini e donne che ancora portavano sul proprio volto il segno del lavoro nei campi, parliamo di uomini e donne con la pelle scura, cotta dal sole in lunghe ore di lavoro nei campi.

Rispondere quindi con un “no secco” quando si chiede se nel mondo antico, in Europa, ci fossero persone con la pelle scura, oltre ad essere stupido è anche anti-storco, perché si guarda a quel mondo, a quell’epoca, non analizzandolo nella propria interezza, ignorando le condizioni di vita della popolazione del tempo e proiettando i nostri ritmi e le nostre abitudini, in un mondo che seguiva ritmi diversi, un mondo il cui tempo era scandito dalla luce del sole e non dalle lancette di un orologio moderno. Un mondo, in cui la pelle delle persone era mediamente più scura, perché, a differenza di noi, viveva e lavorava tutto l’anno sotto il sole, senza crema solare e senza alcun tipo di protezione contro i raggi UV.

Storia romana sui social Network : quando il mito supera la realtà

Nel 1936, più precisamente il 16 agosto 1936, Giorgio Pasquali pubblicò nella “nuova antologia” un saggio intitolato “La grande Roma dei Tarquini” pp. 405-416.

Il saggio del Pasquali, fu per l’epoca estremamente controverso e problematico, soprattutto perché nel 1936 in italia c’era il fascismo che, come sappiamo, aveva mitizzato la storia romana e costruito un culto di roma fondato su una visione parziale e distorta della storia romana. Il saggio del Pasquali nel 1936 segna un punto di rottura con la storiografia tradizionale e ad oggi è considerato un momento epocale per la ricerca riguardante soprattutto la Roma del VI secolo a.c., ovvero la Roma delle origini, una Roma in piena età monarchica.

Come è facile immaginare, la visione e l’interpretazione proposte dal Pasquali suscitarono grande scalpore, tra le altre ragioni perché le sue teorie minavano le origini del mito di Roma costruito dal fascismo.

La cosa interessante è che le teorie del Pasquali, nonostante l’epoca, furono largamente accettate e apprezzate dal mondo accademico e ci furono molti meno oppositori di quanto si possa immaginare, questo grande favore era legato soprattutto all’ampio progresso di conoscenze legate alle scoperte archeologiche e confermate dalla tradizione storico-letteraria.

Il modello di ricerca elaborato dal Pasquali è ancora oggi un modello solido e valido, e la sua interpretazione della Roma del VI secolo è largamente accettata, anche se continua ad essere al centro di un intenso dibattito storiografico sulle origini della civiltà romana e più precisamente sulle origini di “Romolo”.

Il motivo per cui oggi ho deciso di fare questo post riguardante le ricerche del Pasquali è perché uno dei capisaldi della sua metodologia di ricerca era la comparazione di diverse fonti storiografiche, ponendo sullo stesso piano sia fonti documentarie che archeologiche, e soprattutto prendeva in esame fonti contrastanti provenienti da epoche differenti e dalla cui comparazione era possibile individuare ed estrapolare gli elementi comuni che, nell’ottica del Pasquali erano i soli elementi di verità accettabili.

Questa modalità di ricerca rompeva la tendenza di alcuni storici dell’epoca di “ascoltare una sola campana” e professarla come verità assoluta ed è il motivo per cui oggi ho deciso di parlarne.

Il mondo accademico, per quanto riguarda la ricerca storiografica, ha ormai ampiamente assorbito questa modalità di studio e di ricerca, di fatto la comparazione di fonti differenti, provenienti da momenti diversi e la comparazione di diverse chiave interpretative, oggi sono alla base della ricerca storiografica.
Diversamente, sul web non funziona così, e molti “colleghi divulgatori” che si occupano di storia, tendono a non accettare e non accoglie questo modello di pensiero, non voglio stare a sindacalizzare sul modello di pensiero, ognuno è libero di approcciarsi alla storiografia nel modo che ritiene opportuno, ma focalizzarsi su una visione univoca della storia ed accettare solo “fonti favorevoli” alla propria visione, tacciando le fonti contrastanti come inesatte o inappropriate è estremamente deleterio, perché la tendenza è quella di divulgare “il mito di roma” e non la storia romana.

Sinceramente mi sono stancato di vedere community sui vari social network, anche molto ampie, di “appassionati” di storia, e soprattutto di storia romana che, invece di fare storia, invece di parlare di storia e di confrontarsi con la ricerca storiografica, tendono a propinare una storiografia parziale e accuratamente selezionata per confermare una visione distorta e inesatta della storiografia e sopratutto della storia romana.

La storia di Roma è una storia molto lunga, molto complessa e molto variegata, e questo perché è la storia di un popolo che ha inglobato nella propria civiltà innumerevoli popolazioni e civiltà contemporanee, di fatto la storia romana non è solo la storia di roma, ma è la storia di tutti i popoli del mediterraneo e in larga parte d’europa tra il secondo secolo avanti cristo e quinto secolo dopo cristo, è una storia pullulante di scontri politici interni e di crisi politiche interne oltre che di guerre con l’esterno, ma la maggior parte dei miei “colleghi” tende a puntare lo sguardo solo sulla storia gloriosa, sui successi di roma, dimenticando, forse troppo facilmente i periodi più cupi della storia romana, i momenti più dolorosi e soprattutto dimenticando che Roma non ha vinto ogni battaglia che ha combattuto.

Quando si parla di storia romana sui social network bisogna stare attenti ad un grande rischio.
Bisogna stare attenti a non confondere il Mito di Roma con la Storia di Roma, perché il mito è bello, è affascinante, è glorioso, ma la storia romana, come la storia di qualsiasi altra epoca, è fatta di alti e di bassi e se si crede che Roma non abbia mai perso una battaglia allora, forse è meglio fare qualche passo indietro e riaprire qualche vecchio e polveroso manuale di storia romana.

Ho scritto questo post perché sono stanco di vedere il mito di Roma sovrapporsi alla storia Romana.

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