La dinastia dei Tarquini: un secolo di monarchia etrusca a Roma | CM

Cenni cronologici

Una delle fasi più antiche e caratteristiche della Roma dei primordi è certamente caratterizzata dalle storie semi-leggendarie riguardo i sette re delle origini (Romolo, Numa Pompilio, Anco Marzio, Tullio Ostilio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo), dalla fondazione di Roma da parte di Romolo (753 a.C.) fino alla cacciata dall’Urbe di Tarquinio il Superbo (509 a.C.). Il numero sette, che definisce appunto i sovrani della monarchia romana, ricorre quasi simbolicamente anche per quanto riguarda i noti sette colli romani (Aventino, Celio, Quirinale, Campidoglio, Esquilino, Palatino e Viminale), sedi fondamentali del potere politico romano e fulcri di splendore artistico.

Tra questi celebri sette sovrani che regnarono a Roma a cavallo tra il 753 a.C. (anno della fondazione di Roma da parte di Romolo, “ab Urbe condita“, ovvero “dalla fondazione dell’Urbe”) e il 509 a.C., spiccano tre diversi re che si susseguirono reciprocamente e cronologicamente nell’arco dell’ultimo secolo della monarchia romana: Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. Essi regnarono infatti per circa un secolo, dal 616 a.C. al 509 a.C., distinguendosi rispetto agli altri monarchi soprattutto per quanto riguarda la loro discendenza, unico tratto insolito e singolare che potesse in qualche modo accomunarli: i tre sovrani erano infatti etruschi.

Considerando l’“etruscità” come un tratto distintivo e originario del popolo romano, è possibile intravedere in questi ultimi tre re etruschi tuttò ciò che sarà il “lascito” della civiltà etrusca per la civiltà romana. Gli etruschi, così come tutti gli altri popoli italici gradualmente conquistati e inglobati dai romani, vedranno la loro autonomia e indipendenza definitivamente cancellata nel 90 a.C., quando otterranno la cittadinanza romana. Il popolo etrusco viene infatti considerato come il principale antenato di quello romano, non solo per la vicinanza geografica con il luogo d’origine, ma anche per molteplici aspetti sociali e culturali che verranno tramandati nei secoli, tra cui:
1. SELLA CURULIS = Uno sgabello simbolo del potere giudiziario, riservato inizialmente soltanto ai sovrani e successivamente anche ai magistrati.
2. TOGA PURPUREA = Simbolo di potere che nella Roma antica veniva indossata dall’imperatore.
3. FASCI LITTORI = Rappresentano un simbolo di giustizia e autorità per i magistrati.

Tarquinio Prisco (616-579 a.C.)

Discendente diretto della famiglia dei Pachidi, che aveva dominato a Corinto tramite vasti commerci e attività artigianali (tra le quali la produzione di molte ceramiche), è noto per essere il figlio maggiore di Demarato, il quale fu costretto a fuggire da Corinto a causa delle incombenti rivalità in atto tra la sua famiglia e quella dei Cipselidi, che ora regnavano sulla città (Cipselo era infatti il nuovo tiranno). Demarato allora, per cercare soprattutto nuovi commerci e mercati, si trasferì a Tarquinia nel 657 a.C., dove sposò una nobile del luogo, da cui avrà due figli: Lucumone (Tarquinio Prisco), il maggiore dei due, e Arunte (morto poco prima del padre).

Tarquinio Prisco è infatti conosciuto con il nome originario etrusco di Lucumone, termine che successivamente verrà utilizzato per indicare un’importante carica politica di principe o capo dell’aristocrazia (ancora più avanti diventerà anche una carica magistratuale). Egli infatti, dopo essersi trasferito a Roma con la moglie, cambierà nome in Lucio Tarquinio Prisco (Lucius Tarquinius Priscus), per segnare l’evidente vicinanza geografica e familiare con la fiorente città etrusca di Tarquinia. Come il padre infatti sposerà anch’egli una ricca aristocratica tarquinese di nome Tanaquilla, esperta indovina che lo convinse a lasciare Tarquinia per sistemarsi definitivamente a Roma.

Noto soprattutto per essere stato il primo re di origine etrusca e il quinto re (stando alle fonti di Tito Livio) nella successione dei sette sovrani che regnarono su Roma a partire da Romolo, possiamo descrivere la sua ascesa al trono come lineare e non troppo travagliata. Egli infatti riuscì a distinguersi sul territorio romano per la sua grande generosità e per le sue svariate doti, tanto che l’attuale monarca in carica, Anco Marzio (678-616 a.C.), volle insistentemente conoscerlo. I due così diventarono presto molto amici, tanto che il sovrano lo nominò come suo principale consigliere, decidendo infine di adottarlo, affidandogli anche il prezioso compito di proteggere e sorvegliare i suoi figli. E’ probabile che ricoprì anche la prestigiosa carica di magister populi. Alla morte di Anco Marzio infatti, Tarquinio Prisco riuscì facilmente a farsi eleggere come sovrano successore per diretta eredità famigliare, sfruttando proprio l’adozione da parte del precedente sovrano e la benevolenza dimostrata dal popolo romano nei suoi confronti. Avrà così inizio proprio con lui la “grande Roma dei Tarquini”.

La sua storia e la sua presa di potere vengono narrate dettagliatamente dallo storico Tito Livio; si tratta di racconti ampiamente tratteggiati da vari caratteri mitistorici e leggendari, che s’intrecciano con la realtà storica, archeologica ed epigrafica degli eventi. Con lui Roma diventerà una delle città più grandi di tutto il Mediterraneo, attraverso una vastissima serie di riforme sociali, politiche ed economiche, oltrechè a un intenso programma di restaurazioni e costruzioni architettoniche sparse per tutta l’Urbe. Operò infatti una radicale ristrutturazione urbanistica di Roma, conferendole così un aspetto più maestoso e monumentale attraverso la costruzione di importanti infrastrutture, tra le quali possiamo citare:
1. CLOACA MASSIMA = Uno dei più antichi e imponenti condotti fognari della storia. Venne costruita inizialmente per assorbire le acque del Tevere all’interno dei suoi collettori quando straripava, poichè si trattava di un fenomeno piuttosto frequente e pericoloso per l’intera città.
2. CIRCO MASSIMO = Destinato come sede permanente per le corse dei cavalli; vennero così istituiti i ludi romani.
3. TEMPIO DI GIOVE OTTIMO MASSIMO = Sempre a Tarquinio Prisco si deve anche l’inizio dei lavori per la costruzione del tempio di Giove Capitolino, collocato sul colle del Campidoglio.
4. MURA SERVIANE = Decise inoltre di dotare Roma di nuove fortificazioni murarie, iniziando anche a far erigere una nuova e imponente cinta muraria difensiva come non si era mai vista prima d’ora.

Per quanto riguarda invece le riforme che operò in campo politico e giudiziario, troviamo svariate testimonianze, soprattutto per quanto riguarda la politica militare e l’ordinamento interno della città. Egli infatti, a livello militare, riuscì abilmente a destreggiarsi in molteplici conflitti, dove i romani ebbero sempre la meglio, e tra i vari popoli che affrontò troviamo:
1. SABINI = In occasione di questo scontro fu aumentato il numero di cavalieri che ognuna delle tre tribù romane doveva obbligatoriamente fornire all’esercito romano.
2. LATINI = Una fitta coalizione di città etrusche (Arezzo, Chiusi, Volterra, Roselle e Vetulonia) corse in soccorso dei latini in due durissimi scontri campali contro la città di Roma.
3. ETRUSCHI = In seguito a una coalizione di etruschi e sabini, dove questi ultimi vennero sconfitti e furono costretti a concordare una pace, gli etruschi invece non si arresero mai, e i conflitti combattuti sulle città di Caere e Veio durarono per ben sette anni di scontri campali.

Operò inoltre una significativa riforma sulla classe degli equites (i “cavalieri”), aumentandone il numero, e decise poi di raddoppiare anche il numero delle centurie e di aumentare i membri dell’assemblea centuriata e dei senatori. Morì assassinato in seguito a una congiura organizzata dal maggiore dei figli di Anco Marzio, desideroso di ottenere il trono che riteneva usurpato da uno straniero. Tuttavia la moglie Tanaquilla, astuta e abile manipolatrice, riuscì a far eleggere dal popolo come sovrano Servio Tullio (suo genero), grazie a uno stratagemma. A Tarquinio Prisco si deve, oltre a essere stato il primo monarca etrusco, l’introduzione di gran parte delle usanze etrusche da parte dei romani.

Servio Tullio (579-535 a.C.)

Si tratta di una figura complessa e centrale per la storia arcaica, sia per quanto riguarda il mondo etrusco/italico, sia per quanto riguarda il mondo romano del VI secolo a.C.. Egli rappresenta infatti un personaggio polimorfo e non facile da inquadrare, noto per essere stato il successore di Tarquinio Prisco, deve la sua fortuna e salita al potere alla moglie di quest’ultimo la quale, colta, ambiziosa ed estremamente abile in “fatti” religiosi come indovina, riuscì a predirne la grandezza e, alla morte del marito, gli diede in sposa la figlia e fece in modo che salisse al trono come sesto re di Roma. Tanaquilla riuscì infatti a nascondere al popolo romano la morte del marito, ordita dai figli di Anco Marzio, affermando che Tarquinio Prisco fosse in realtà solamente rimasto ferito e che avesse designato Servio Tullio come reggente temporaneo. In questo modo, quando si ristabilì la calma a Roma e venne annunciata la morte del precedente sovrano, egli venne accettato come legittimo re senza alcuna opposizione dal popolo romano.

Le fonti su questo personaggio risultano spesso ambigue e discordanti, ed è possibile parlare di una duplice tradizione nei suoi confronti. Da una parte possediamo infatti le testimonianze di Tito Livio e di vari altri storici romani, che si rifanno appunto alla tradizione romana, mentre dall’altra possiamo trovare la tradizione etrusca, legata a storie e leggende di storici etruschi e tramandata soprattutto attraverso l’imperatore Claudio, con la Tabula di Lione, un discorso effettuato dall’imperatore a Lione (in Gallia) nei confronti del senato locale o di uomini politici del posto. Egli era infatti molto appassionato di storia etrusca, di cui scrisse varie altre opere, oggi andate perdute.

Per quanto riguarda la tradizione romana ci viene riportato dagli storici, e soprattutto da Tito Livio, che egli fosse un uomo di umili origini nato da una prigioniera di guerra, probabilmente nobile nella sua città natale (nota come Ocrisia), ridotta in servitù presso il focolare domestico di Tarquinio Prisco. Da questo fatto deriverebbe infatti l’etimologia del suo nome e della sua condizione sociale, ovvero “Servio”, inteso appunto come figlio di una serva. A differenza del suo predecessore e del suo successore sarebbe infatti un homo novus. Le fonti ci riportano inoltre un’intensa attività politica, economica e militare. Egli infatti fu un grandissimo riformatore sia in campo politico che in quello militare, operando alcuni degli interventi più importanti e significativi per la storia di Roma, tra cui:
1. RIFORMA SERVIANA = Si tratta della più importante modifica dell’esercito operata in epoca pre-repubblicana. Divise la popolazione in classi, e da lui in avanti la cittadinanza sarebbe stata basata sul censo. Si trattava infatti di una riforma censitaria secondo cui i cittadini romani sarebbero dovuti essere dei possidenti terrieri per poter intervenire nelle assemblee e per essere reclutati nell’esercito; proprio in questo periodo nacque anche un esercito basato su centurie e gerarchie. Egli comprese per primo che Roma necessitava di un esercito molto più numeroso per mantenere le sue conquiste ed espandersi (prima c’era una sola legione di circa tremila uomini, detto “esercito romuleo”). Iniziarono dunque a essere reclutati anche strati inferiori della società (plebei), fino ad allora severamente esclusi, evento che destò scandalo e disapprovazione tra i patrizi romani, i quali vedevano minacciati i loro privilegi. Modificò inoltre la tradizionale divisione in tribù del popolo romano, non tenendo più conto delle origini, ma considerando come criterio principale il luogo di residenza. Infine fu il primo sovrano a condurre un censimento generale (il primo nella storia).
2. RIORGANIZZAZIONE URBANISTICA = Per quanto riguarda le modifiche cittadine, aggiunse a Roma i tre colli più orientali (Viminale, Quirinale ed Esquilino), ampliò il pomerium (confine sacro della città), fece costruire sull’Aventino il tempio di Diana e ampliò ulteriormente le Mura Serviane già iniziate dal suo predecessore.
3. POLITICA MILITARE = In campo militare proseguì l’ormai inarrestabile politica di espansione territoriale romana a danno dei sabini e delle città etrusche di Veio, Caere e Tarquinia, le quali, considerandolo un usurpatore, si ribellarono non volendo più accettare gli accordi stipulati con Tarquinio Prisco.

Per quanto riguarda invece la tradizione tramandata dalle fonti etrusche, la situazione diventa più complessa, dal momento che si tratta principalmente di miti e leggende. Come precedentemente citato, la Tabula di Lione riporterebbe le vicende di un certo Mastarna (nome etrusco che identifica Servio Tullio), il quale sarebbe stato aiutato a prendere il potere con la forza da due fratelli e condottieri etruschi, Celio e Aulo Vibenna (scena rappresentata sulle pareti della tomba etrusca Francois). Tale tradizione potrebbe anche risultare parzialmente veritiera, dal momento che il nome Mastarna non presenta prenome e gentilizio (tipica formula binominale), e dunque non apparterrebbe a una figura nobile. Inoltre tale nominativo sarebbe posto in relazione al termine magister, carica che più avanti identificherà un capo militare romano del periodo più recente.

Servio Tullio sarebbe stato poi ucciso da Lucio Tarquinio, detto poi “il Superbo” una volta salito al trono. Egli infatti, complice con la figlia di Servio Tullio, Tullia Minore, sposa di Arunte (nobile, fratello di Tarquinio il Superbo), avrebbe spinto il sovrano dalle scale della curia in seguito a una sua provocazione. Quest’ultimo, ferito ma non ancora deceduto, mentre tentava di scappare dal foro, sarebbe stato ucciso da un cocchio trainato da cavalli, guidato dalla figlia Tullia. La plebe, da lui per molto tempo estremamente protetta e aiutata nella conquista di una maggiore autonomia e indipendenza, lo pianse molto e a lungo.

Tarquinio il Superbo (535-509 a.C.)

Conosciuto con il nome di Lucio Tarquinio (come il padre) e successivamente appellato come “il Superbo” per i suoi comportamenti efferati, fu il settimo e ultimo sovrano di Roma, oltrechè l’ultimo monarca della dinastia etrusca di sovrani che regnarono su Roma prima dell’imposizione politica della repubblica nel 509 a.C.. Fu il figlio maggiore di Lucio Tarquinio Prisco e fratello di Arunte Tarquinio, nobile a cui sarebbe successivamente spettata l’ascesa al trono. Inizialmente sposato con Tullia Maggiore, figlia di Servio Tullio, la fece poi uccidere per sposare Tullia Minore, l’altra figlia di Servio Tullio e sposa del fratello Arunte, da cui ebbe tre figli: Arrunte, Tito e Sesto.

Anche per questo sovrano, le maggiori fonti a disposizione dipendono dallo storico Tito Livio, il quale ci riporta soprattutto i dettagli della congiura ordita nei confronti del suocero, Servio Tullio. Tarquinio infatti, come precedentemente citato, si sarebbe fatto aiutare nell’organizzazione dell’omicidio dai tre figli e dalla seconda moglie Tullia Minore, autoproclamandosi sovrano rivendicando il trono tutto per sè, dopo esservisi seduto di fronte al senato. Questo fatto scandaloso avrebbe infatti attirato Servio Tullio in fretta e furia nella curia dove, in seguito a un’accesa disputa verbale, i due sarebbero poi passati a uno scontro fisico che vide Servio Tullio spinto dalla scalinata della curia e travolto dal carro trainato da cavalli e guidato dalla figlia Tullia, come precedentemente citato.

Intorno all’anno 535-534 a.C. circa, assunse dunque il legittimo titolo di monarca, in quanto maggiore tra i figli di Tarquinio Prisco e marito della figlia del precedente sovrano. Inoltre il luogo in cui era stato brutalmente assassinato Servio Tullio ricevette il titolo di vicus sceleratus, in ricordo dell’efferato gesto. Tuttavia Lucio Tarquinio riuscì a inimicarsi ben presto l’intero popolo romano, a partire dalla netta negazione nei confronti della sepoltura di Servio Tullio. In breve tempo gli venne infatti attribuito l’epiteto di “il Superbo”, non solo per la violenza con cui eliminò il precedente sovrano, ma anche per l’arroganza e la tirannia con cui prese il potere a Roma come monarca, senza rispettare una legittima elezione da parte del popolo né l’approvazione del senato romano. L’uso sistematico della violenza rimase infatti una costante per tutta la durata del suo regno. Egli per di più istituì anche un personale gruppo di guardie armate, mantenendo il controllo su tutto il territorio in maniera tirannica ed estremamente autoritaria. La società romana era infatti riuscita a costruire e rinsaldare in un brevissimo tempo una struttura fortemente fondata su una solida base democratica, la quale venne altrettanto rapidamente annientata dall’aggressività e dagli efferati costumi di Tarquinio il Superbo. Un’ulteriore novità nel regno di questo sovrano sta nel fatto che egli per la prima volta unì contro di sè l’odio comune non solo dei plebei che si vedevano oppressi e schiacciati dalla sua figura, ma anche dei patrizi, che temevano per una drastica riduzione dei loro privilegi.

Per quanto riguarda il regno di Tarquinio il Superbo, egli viene principalmente ricordato per quanto tirannico ed efferato fu il controllo che operò sul territorio romano, e soprattutto per come la violenza, a cui spesso e volentieri ricorreva, fosse una delle principali cause che lo portarono a inimicarsi l’intero popolo romano. Tuttavia, se si mettono da parte questi eventi che contribuirono maggiormente a rendere famoso il suo personaggio, egli operò anche numerose attività in ambito politico, economico e urbanistico, tra le quali:
1. POLITICA = Nonostante l’estrema arroganza politica riportata dalle fonti per quanto riguarda la presa di potere e il controllo del regno, egli poteva tuttavia vantare di grandi abilità strategiche e militari. A lui si deve infatti l’inizio della centenaria lotta tra romani e volsci. Inoltre, venne conquistata la città di Gabii tramite un astuto stratagemma elaborato insieme al figlio Sesto Tarquinio, il quale finse di volersi far accogliere e proteggere da tale cittadina per scampare alla tirannia del padre; tuttavia, una volta accolto all’interno delle mura, il suo unico compito fu quello di recare discordia e inimicizia all’interno della città, e vi riuscì così bene che a Roma non si combattè neanche una singola battaglia. Infine, sempre in questo periodo, Tarquinio il Superbo proseguì una spietata campagna espansionistica del territorio romano ai danni di numerosi territori circostanti, anche tramite la fondazione di varie colonie romane.
2. ECONOMIA = Sebbene Tarquinio il Superbo non sia quasi mai ricordato per le sue doti da economo, la Roma (“etrusca”) dei Tarquini deve proprio a lui la trasformazione in una delle massime sedi commerciali di tutto il Mediterraneo. Ella infatti aveva contatti e scambi commerciali con numerose altre potenze provenienti da tutto il mondo allora conosciuto.
3. URBANISTICA = Tarquinio il Superbo, pur non partecipando attivamente alla costruzione urbanistica di Roma come fecero i suoi predecessori, Tarquinio Prisco soprattutto e Servio Tullio, contribuì nell’ultimare ufficialmente la costruzione di importanti edifici pubblici come il tempio di Giove Ottimo Massimo e la Cloaca Massima.

Tuttavia, a decretare la fine di questo regno dispotico, contribuì un atto scandaloso direttamente commesso dal figlio Sesto Tarquinio, il quale, invaghitosi della giovane Lucrezia, sposa di Tarquinio Collatino (pronipote di Tarquinio il Superbo), abbandonò l’assedio di Ardea, nel quale era stato mandato dal padre, per far ritorno a Roma e violentare Lucrezia. La ragazza, sconvolta per l’accaduto, raggiunse rapidamente il marito ad Ardea e, in preda al dolore, si suicidò. Mosso da una rabbia furente il marito Tarquinio Collatino e Lucio Giunio Bruto (politico romano inviato da Tarquinio il Superbo in una spedizione al seguito di un oracolo del re, dove apprese che sarebbe stato lui a governare dopo il monarca) giurarono solennemente di non arrendersi fino a quanto i Tarquini non sarebbero stati tutti cacciati dalla città, per vendicare la morte di Lucrezia. I due riuscirono nell’intento, portando il cadavere della giovane nel foro di Roma e pronunciando un solenne elogio funebre che spinse il popolo romano a deporre e cacciare il sovrano dall’Urbe. Una volta esiliato però Tarquinio il Superbo si appoggiò a Porsenna, il tiranno della città di Chiusi, detentore di un forte potere militare; tuttavia l’assedio ordito dai due su Roma fallì, e Tarquinio morì in esilio nel 495 a.C. circa a Cuma, in Campania.

La fine della monarchia su Roma rappresenta un evento fondamentale per la politica dell’Urbe poichè nel 509 a.C., anno della cacciata di Tarquinio il Superbo, venne istituita la repubblica, un sistema di governo compreso nel periodo tra il 509 a.C. e il 27 a.C.. Il cambiamento fu radicale poichè a governare non era più un sovrano assoluto, bensì un’oligarchia aristocratica repubblicana, fondata sul governo di due consoli assistiti nelle decisioni politiche dai senatori. I primi consoli furono proprio Tarquinio Collatino e Lucio Giunio Bruto; essi avevano grandi poteri politici, economici, amministrativi e militari, ma la vera rivoluzione fu la totale estirpazione di un potere regio e tirannico.

L’ascesa politica di Cesare: da miles a dictator | CM

L’Impero romano nel I secolo a.C.

Durante il corso del I secolo a.C. l’Impero romano era sulla via di un successo senza precedenti, in quanto reduce dagli immensi trionfi ottenuti grazie alle vittorie conseguite durante le tre guerre puniche, le quali Roma poterono garantire a Roma un’ingente quantità di oro e ricchezze. Tuttavia l’Urbs, nonostante l’evidente condizione di splendore e ricchezza in cui si trovava, era all’epoca teatro di innumerevoli giochi di potere per il controllo del quadro politico della Repubblica e, sempre in questi anni, assisteva tacita alla lotta intestina tra due importanti ceti sociali: gli optimates, fazione più conservatrice e favorevole all’aristocrazia, e i populares, sostenitori delle istanze popolari nonchè “base” dell’autorità dei Tribuni della Plebe. Pertanto continue tensioni sociali e violenti scontri armati erano all’ordine del giorno, come il celebre conflitto tra Clodio (fazione dei populares) e Milone (fazione degli optimates).

In questo clima estremo di avversità, rivolte e scandali, a Roma spicca un uomo che avrà un ruolo tutt’altro che indifferente negli equilibri politici e sociali dell’Urbe. Tale personaggio era, come il padre, un accanito sostenitore del celebre condottiero Gaio Mario (157-86 a.C.), militare e politico romano, eletto per sette volte consecutive console della Repubblica, nonchè abile riformatore per quanto riguarda la leva militare e l’esercito, oltrechè Tribuno della Plebe. Apparteneva infatti anch’egli alla fazione dei populares e rappresenterà uno dei massimi esempi da seguire per il protagonista di questa vicenda, destinato a ribaltare per sempre la scena storica e politica di quello che sarà il più glorioso impero che il mondo antico abbia mai conosciuto. Quest’uomo compie una delle sue prime apparizioni in una piccola casa popolare nella Suburra romana, uno dei quartieri più malfamati di tutta Roma.

L’entrata cesariana in politica

Gaio Giulio Cesare nasce il 12 Luglio del 100 a.C., figlio del pretore e senatore Gaio Giulio Cesare e della nota matrona appartenente alla gens Aurelii, Aurelia Cotta. Egli pertanto apparteneva per discendenza all’illustrissima gens Julia, così chiamata perchè direttamente originata da Julo, il figlio di Enea e, stando a quanto viene riportato da miti e leggende, della dea Venere. Apparteneva dunque a una genealogia che potremmo definire “divina”. Cesare divenne fin da subito un personaggio molto popolare a Roma, schierandosi come lo zio Gaio Mario al fianco della factiones dei populares, nonostante provenisse da una nobile famiglia, e crebbe in una situazione di tensioni e fazioni contrapposte. Tutti questi elementi contribuirono con ottime probabilità a sviluppare il suo carisma e la sua marcata intraprendenza non solo in campo politico, ma anche militare.

Cesare infatti trascorse la sua gioventù sotto la spietata dittatura esercitata da Silla (colui che aveva precedentemente sconfitto Gaio Mario), il quale non perdeva occasioni per lanciare “frecciatine” al ragazzo sulla sua eccessiva effeminatezza. Per queste ragioni egli non si sentiva al sicuro nel rimanere a Roma, e decise pertanto di partire volontario verso l’Asia dove, sotto al comando del propretore Marco Minucio Termo, partecipò direttamente nella guerra contro Mitridate VI del Ponto, insorto ancora una volta contro Roma. Questa fu probabilmente una delle prime vicende che permisero a Cesare si distinguersi militarmente. Egli infatti nell’assedio di Mitilene ottenne anche la corona civica, una delle ricompense militari più importanti, concessa come premio solamente a chi salvava cittadini romani in battaglia.

Tuttavia, ciò che maggiormente gravava sullo status di Cesare, erano gli ingenti debiti nei quali si ritrovava da tempo. Infatti, sebbene la sua famiglia avesse origini aristocratiche di un certo livello, non era affatto ricca per gli standard della nobiltà romana, e questo certamente lo motivò ad avvicinarsi rapidamente a illustri e abbienti personaggi che potessero aiutarlo, come Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso (entrambi consoli nel 70 a.C.). Egli riuscì infatti ad avviare la sua celebre carriera politica grazie al sostegno di questi due rinomati cittadini e uomini politici. Schierato appunto con i populares e dotato di un eccelso carisma, riuscì rapidamente a convincere la Repubblica riguardo l’urgente bisogno di riforme radicali, che per essere realizzate necessitavano di un forte potere pubblico al comando, capace di superare le ricchezze e il grande potere degli ottimati.

Il suo percorso politico-militare inizia, come precedentemente citato, in Asia, dove prese parte alla guerra contro Mitridate VI del Ponto, combattendo nella provincia orientale e arruolando navi e milizie ausiliarie. Nel 73 a.C., mentre si trovava ancora a Oriente, venne eletto nel collegio dei pontefici. Una volta tornato a Roma, nel 72 a.C., Cesare fu anche eletto tribuno militare, risultando persino il primo degli eletti. I suoi rapporti erano particolarmente stretti con Crasso, il quale lo aiutò più volte a finanziare le sue campagne elettorali e a estinguere i suoi numerosi debiti, fino a quando venne non eletto questore nel 69 a.C., un anno dopo il consolato di Pompeo e Crasso. Un ulteriore evento particolarmente significativo fu la sua elezione, nel 65 a.C., a edile curule, carica che lo portò a diventare in modo più che definitivo come il nuovo e massimo leader del movimento popolare.

Tuttavia l’apice della sua carriera politica è da ricollegarsi a un celebre evento che toccò profondamente la storia di Roma del I secolo a.C., ovvero il primo triumvirato. Nel 60 a.C. Cesare infatti stipulò, di comune accordo insieme a Crasso e Pompeo (i maggiori capi politici del tempo), un accordo privato e segreto che, pur non trattandosi di una vera e propria magistratura ma per la notevole influenza dei firmatari, ebbe poi grandissime ripercussioni sulla vita politica e sociale dell’epoca, dettandone gli sviluppi per quasi dieci anni. Gli accordi nati da tale alleanza, fissati a Lucca, prevedevano il proconsolato di Cesare in Gallia e nell’Illirico con il relativo comando di quattro legioni, l’affidamento di Africa e Spagna a Pompeo e infine la provincia di Siria e l’ambita campagna contro i Parti per Crasso che, non avendo ancora conseguito glorie militari, mirava a eguagliare il successo dei compagni. Spartiti i territori e affidati i relativi comandi, Cesare era pronto a lasciare la Repubblica.

Cesare in Gallia: l’ascesa militare

Nel 59 a.C., a un anno dalla stipulazione del triumvirato, Cesare avrebbe dovuto ottenere il consolato, una delle più alte cariche del cursus honorum romano, carica che riuscì a raggiungere grazie all’appoggio di Pompeo e al cospicuo finanziamento di Crasso. Per consolidare ulteriormente questa triplice alleanza, nello stesso anno Pompeo sposò Giulia, la figlia di Cesare. Pertanto, grazie alla lex Vatinia, nel 58 a.C. Cesare era finalmente partito, dopo aver ottenuto il proconsolato dell’Illirico (si trattava di una regione dislocata, in cui Cesare si sarebbe voluto recare per accrescere il suo successo militare direttamente sul campo di battaglia) e della Gallia Narbonense (a seguito della morte del precedente proconsole morto all’improvviso, Quinto Cecilio Metello Celere) e Cisalpina per ben cinque anni. Sebbene si trattasse di province nettamente inferiori rispetto alle eccelse conquiste orientali dell’Impero, riuscì ugualmente a operare una serie interminabile di sconfitte tra le popolazioni celtiche, compresi Elvezi, Aquitani, Veneti, Belgi e Svevi.

Tuttavia, più aumentava il potere di Cesare e più cresceva l’inevitabile timore di Pompeo a Roma, per il fatidico momento in cui il suo ormai temuto avversario delle Gallie sarebbe dovuto rientrare in patria. Cesare sarebbe infatti stato certamente acclamato dai numerosi populares di cui era a capo per i suoi molteplici successi militari e per aver inoltre portato il numero delle sue legioni a dieci, un dato non indifferente, simbolo del nuovo potere e prestigio che stava acquisendo. Nel frattempo il triumvirato si stava lentamente sgretolando e, intorno al 53 a.C. Crasso, privo di adeguate esperienze militari, era stato sconfitto nella battaglia di Carre, aveva perso le insegne romane (immane disonore per un comandante romano) ed era stato ucciso dai Parti. Cesare e Pompeo erano ora dunque i padroni indiscussi della scena politica romana.

Intorno all’anno 50-49 a.C., il carismatico condottiero Gaio Giulio Cesare aveva infatti ormai conquistato quasi tutta la Gallia (territorio comprendente oggi Francia e particolari zone di confine tra Svizzera, Belgio, Paesi Bassi e nord Italia. Compì inoltre numerose incursioni in Britannia e in Germania) ed era di ritorno da una campagna militare durata quasi dieci anni che lo aveva visto coinvolto in numerose vittorie, come la battaglia di Alesia, e indiscutibili successi, tra cui la sconfitta del grande condottiero Vercingetorige. Tuttavia, le imprese svoltesi in Gallia non furono affatto una passeggiata per Cesare e le sue truppe, poiché i galli opposero una strenua resistenza, sconfiggendo anche i romani in molteplici occasioni; si trattava di popolazioni fiere e bellicose, che difficilmente accettarono una resa pacifica. La lotta contro i galli rappresentò infatti un’enorme sfida militare, che rese evidente il motivo per cui l’esercito romano fu il più potente ed efficace dell’antichità.

Le ricchezze, la gloria e la fiducia di un esercito che lo ammirava e rispettava per il suo grande carisma, erano solo alcuni dei principali obbiettivi che Cesare si era prefissato per poter contrastare a Roma il crescente potere politico di Pompeo. La sua inimitabile leadership fu certamente una delle chiavi del trionfo romano in Gallia, poichè lo stesso Cesare riuscì a spingere più volte il suo esercito a compiere imprese che per altri generali sarebbero state inaccettabili, come le due spedizioni dirette verso l’Isola della Britannia. Inoltre Cesare sapeva che il risultato finale delle sue campagne dipendeva in primo luogo dalle sue truppe, per questo motivo questo s’impose come un eccellente motivatore, capace di far sì che i suoi uomini si dedicassero interamente a qualsiasi impegno. A contribuire ad accrescere il suo enorme successo militare furono anche l’aggressività e la velocità con cui condusse le sue numerose campagne.

La “tensione” politica a Roma: Pompeo e il senato

Tuttavia Crasso era ormai uscito dalla scena politica, determinando così il definitivo scioglimento del triumvirato, e Pompeo, nettamente più avanti con gli anni rispetto al giovane conquistatore delle Gallie, aveva ottime ragioni per temere il crescente successo e carisma di Cesare a Roma. Pompeo infatti, sebbene avesse da poco ottenuto la carica di proconsole in Spagna, si trovava ancora a Roma e, nel 52 a.C., venne eletto dal senato consule sine collega (ovvero “console senza collega”). Tuttavia Cesare possedeva un grande numero di legioni a lui ciecamente fedeli, le quali a loro volta non facevano altro che accrescere la sua già elevatissima ambizione bellica e politica. La situazione a Roma era pertanto molto tesa e la guerra civile quasi inevitabile; il casus belli infatti non tardò molto ad arrivare.

Il senato infatti era estremamente preoccupato per gli innumerevoli successi conseguiti da Cesare, il cui mandato in Gallia stava ormai per giungere al termine. Pompeo e il senato infatti, da tempo alleati contro l’imminente pericolo, stavano dunque disperatamente tentando di tenere le redini di un contesto politico in pieno fermento, quando giunse la notizia che Cesare avrebbe voluto, una volta rientrato in patria, candidarsi per il consolato. Tale carica era infatti tra le più ambite del cursus honorum romano, poiché garantiva l’immunità e, dato il crescente numero di sostenitori cesariani, sarebbe quasi certamente riuscito a ottenerla. Tuttavia Pompeo, per colpirlo nel vivo, in piena alleanza con il senato che temeva anch’esso la sua ascesa, promulgò una legge che non gli avrebbe permesso di candidarsi, se non da privato cittadino. Questo avrebbe significato per lui entrare a Roma senza l’esercito al seguito, in balia di un uomo che aveva il pieno potere sulla Repubblica e il completo appoggio dei senatori romani.

La trappola escogitata con l’aiuto dei senatori si sarebbe dunque inevitabilmente conclusa con l’arresto di Cesare e la sua definitiva eliminazione dalla scena politica, garantendo così l’esclusivo consolato a Pompeo, che si sarebbe poi tradotto in una dittatura. Cesare accettò dunque di tornare nell’Urbe senza le sue truppe, a patto che Pompeo accettasse di sciogliere il suo di esercito e tutte le sue truppe. Data la precarietà e la pericolosità della situazione, poichè Cesare pur senza l’appoggio delle sue truppe avrebbe comunque avuto un enorme sostegno popolare (l’opinione pubblica era molto importante, poichè costituiva la stragrande maggioranza della popolazione, e le rivolte erano all’ordine del giorno), Pompeo e il senato non accettarono in nessuna maniera possibile l’ultimatum del generale.

Tuttavia il senato, con la scusa di dover proteggere la Siria dai continui attacchi dei Parti, richiese che fossero aggiunte due legioni alla provincia orientale; Pompeo a questo punto non esitò a richiedere a Cesare le due legioni che, nel 53 a.C., gli aveva concesso in prestito per la sua impresa in Gallia. Cesare pertanto fu costretto a piegarsi a tali richieste, rinunciando così a due delle sue legioni. Fu solo a questo punto che il generale delle Gallie si rese conto che il conflitto era inevitabile e si recò allora con la XIII legione a Ravenna dove fu da quest’ultima acclamato imperator. A questo punto Cesare era completamente esposto e sul punto di diventare ufficialmente un nemico della res publica.

L’attraversamento del Rubicone e la guerra civile romana

La situazione, già gravemente incerta prima, si trovava ora a un bivio: Cesare avrebbe infatti potuto congedare l’esercito, scelta di per sè estremamente pericolosa essendo lui pienamente consapevole delle forze politiche e militari che possedevano Pompeo e il senato, o ribellarsi completamente alle imposizioni di Pompeo e senatori, preparando così le legioni in modo da poter oltrepassare il più importante confine politico della penisola italica, il fiume Rubicone. Tale fiume, pur non vantando notevoli dimensioni, rappresentava un limite inviolabile e attraversarlo in armi significava per i generali romani una vera e propria violazione delle leggi, oltrechè una sfacciata sfida posta nei confronti l’Urbe. Il Rubicone infatti segnò per un breve periodo (tra il 59 a.C. e il 42 a.C.) il “sacro” confine tra l’Italia, considerata come una parte integrante del territorio di Roma, e la provincia non da molto annessa della Gallia Cisalpina. Risultava pertanto severamente vietato a tutti i generali romani attraversarlo con l’esercito in armi.

Ma l’ambizione e la salda tenacia di Cesare non si sarebbero arrestate, infatti l’ultimo disperato tentativo del senato (il 7 Gennaio) di arrestare la sua avanzata, si tradusse in un estremo ultimatum che gli intimava severamente di restituire l’intero comando militare, ultimatum a cui Cesare non cedette mai. Pochi giorni dopo infatti, il 10 Gennaio del 49 a.C., prese una decisione che avrebbe cambiato per sempre il corso degli eventi storici, politici e sociali di Roma e, armate le truppe, scelse di attraversare il fiume presentandosi nella città armato e prossimo a sfidare Pompeo in una guerra civile che si sarebbe inevitabilmente scatenata da tale gesto. Cesare riuscì a entrare a Roma senza incontrare alcun tipo di resistenza, e tale guerra (49-45 a.C.) non tardò ad arrivare. Pompeo venne colto totalmente alla sprovvista, e si ritrovò costretto a fuggire il più rapidamente possibile da Roma, rifugiandosi in Macedonia, dove sperava di radunare un vasto esercito da contrapporre a Cesare.

La guerra civile romana vede Cesare come protagonista indiscusso accrescere senza fine il suo potere politico e militare in pochissimo tempo. Lo stesso anno infatti, sempre nel 49 a.C., Cesare riuscì a conquistare interamente la penisola italiana e a sbaragliare in Spagna tutte le legioni ancora fedeli a Pompeo. Un anno dopo poi, nel 48 a.C., ottenne la nomina di console e partì verso la Grecia, dove, in Tessaglia, precisamente a Farsalo, sconfisse clamorosamente l’esercito di Pompeo, che si rifugiò in Egitto presso il faraone Tolomeo XIII, fratello di Cleopatra, il quale lo fece assassinare a tradimento. Figli e seguaci di Pompero proseguirono ancora per qualche anno il conflitto contro Cesare fino a quando, nel 45 a.C., i pompeiani supersiti guidati da Sesto Pompeo (comandante militare e figlio di Pompeo) vennero sbaragliati definitivamente a Munda, in territorio spagnolo.

Pertanto, il termine della guerra civile romana rappresenta un momento fondamentale sia per la storia romana che per la carriera politica e militare di Cesare. Egli a questo punto potè infatti ritornare a Roma indisturbato e praticamente privo di nemici che tentassero di ostacolare le sue ambizioni, ottenendo così la carica di dictator vitae (ovvero “dittatore a vita”). Tale carica rappresentava una figura caratteristica dell’assetto della costituzione della Repubblica romana, poichè garantiva un potere assoluto e non poteva essere controllato da nessuna istituzione o magistratura. Poteva inoltre sospendere tutti gli altri magistrati forniti di imperium o conservarli nel loro ufficio, ma essi sarebbero stati sempre e comunque subordinati a lui. In origine veniva scelto unicamente dai patrizi e, solo a partire dal 356 a.C., la dittatura fu accessibile anche ai plebei. In conclusione, quella di Cesare potrebbe essere riassunta come una vera e propria ascesa politica, poichè egli, partito come semplice miles (il miles nell’antica Roma era il soldato semplice, colui che non possedendo un cavallo doveva spostarsi unicamente a piedi), riuscì in poco tempo a raggiungere la più alta e riconosciuta carica di tutta la Repubblica, quella appunto di dictator.

La peste di Atene: Tucidide tra scienza e pathos | CM

Introduzione al tema della peste

Ormai da decenni la peste rappresenta nell’immaginario collettivo una terribile visione di morte tipica del periodo tardo-medievale; ma non è sempre stato così. Dipinti, racconti, poesie e persino leggende si sono succeduti per tentare di rappresentare un male considerato spesso divino e quindi inspiegabile agli occhi dell’uomo, un male che in varie epoche non ha mai lasciato scampo e sul quale si sono ripetutamente interrogati i più autorevoli medici, autori, maestri e filosofi del tempo.

Nel corso dei secoli infatti gravi pestilenze si sono abbattute su tutto il vecchio continente, in epoche e luoghi assai differenti. Una delle più disastrose epidemie di peste della storia si è manifestata nell’Atene classica, intorno al V secolo a.C., durante un periodo storico a dir poco travagliato per la storia della Grecia: la Guerra del Peloponneso” (431-404 a.C.).

L’opera tucididea e il conflitto tra Atene e Sparta

Narratore di questi eventi è appunto uno dei più grandi storici dell’epoca, Tucidide, vissuto tra il V ed il IV secolo a.C., fautore di un’opera che porterà con sé fonti ed elementi storici di grandissimo rilievo: “La Guerra del Peloponneso“. La celebre opera, suddivisa in otto libri, offre anche uno spunto essenziale per ricavare accurate riflessioni su quello che oggi definiamo un “metodo storico” scrupoloso, quasi scientifico, basato cioè su fonti certe e attendibili, di cui Tucidide viene considerato padre e fondatore. Su tale base l’autore sceglie di introdurre la narrazione in questo modo:

Giacché gli avvenimenti precedenti alla guerra e quelli ancora più antichi erano
impossibili a investigarsi perfettamente per via del gran tempo trascorso e, a giudicar dalle prove che esaminando molto indietro nel passato mi capita di riconoscere come attendibili, non li considero importanti né dal punto di vista militare né per il resto.

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso“, (1,3, libro I)

Trattandosi di un testo prettamente storico prevalgono ovviamente numerosi riferimenti diretti alla “Guerra del Peloponneso”, tra cui strategie belliche e scelte politiche, per la partecipazione attiva di Tucidide come testimone oculare, il quale combatté in prima persona come stratega venendo poi esiliato a causa di un grave e imperdonabile fallimento. Si tratta di un conflitto senza precedenti, scoppiato tra il 431 e il 404 a.C., rivolto unicamente contro la fiorente città di Atene.

Tra le cause secondarie e il casus belli principale bisogna però considerare la situazione di tutta la Grecia, ormai esausta a per gli ingenti tributi a cui era sottoposta e per le vessazioni imposte dal duro imperialismo egemonico ateniese. Tuttavia, nonostante Atene dominasse il mare con una potentissima flotta, Sparta riuscì a invadere l’Attica con un grande esercito, costringendo gran parte della popolazione a cercare rifugio all’interno delle grandi mura del Pireo, il porto ateniese. Fu proprio in quella tragica situazione di sovraffollamento che scoppiò l’epidemia, aggravata ancor più da un clima torrido e da condizioni igieniche pessime e precarie. Tucidide si sofferma poi su tre celebri discorsi relativi al conflitto tenuti da Pericle, personaggio fondamentale per le vicende storiche e politiche dell’Atene classica, morto anch’egli a causa del morbo.

Per ultimo, ma non per importanza, l’autore all’interno del II libro oltre a narrare le vicende belliche dedica un ampio excursus storico riferito all’epidemia che devastò Atene tra il 430 e il 427 a.C. contemporaneamente alla guerra, già di per sé estremamente rovinosa per le sorti del conflitto e della città. Si tratta pertanto di un’opera completa, storicamente e politicamente, soprattutto per l’attenzione rivolta ai dettagli e l’accuratezza mostrata verso i principali fatti storici narrati. Tuttavia a rendere Tucidide un maestro del “metodo storico” non è solamente un testo basato su indizi sicuri e veridicità storiche (fondate cioè su fatti realmente accaduti), ma la sua acuta capacità di descrizione nei confronti di eventi estranei a vicende storiche degne di nota, come la pestilenza.

La peste dal punto di vista medico, scientifico e umano

Tucidide dedica un lungo paragrafo al tema dell’epidemia ateniese, nel quale sceglie di soffermarsi non sull’evento storico in sé, quanto più sul tema della pestilenza a livello scientifico e umanitario. Scopo principale dell’autore è infatti narrare e documentare, ovvero mettere in guardia il lettore nei confronti di una storia che non è mai totalmente magistra vitae ma piuttosto pessimistica, da cui l’uomo non impara mai veramente e di cui non è l’unico protagonista delle vicende, ma vi partecipa attivamente insieme a epidemie, carestie, eclissi e terremoti; elementi mai trascurati nonostante le narrazioni di Tucidide abbiano un carattere prettamente storico.

La storia di Tucidide andrebbe perciò “ammaestrata” in modo da permettere all’uomo di non ripetere gli stessi errori del passato. Tuttavia tale insegnamento è molto relativo, poiché questi errori vengono con estrema facilità ciclicamente ripetuti, nonostante Tucidide cerchi di trasmettere come combatterli. La peste rappresenta infatti la grande occasione tucididea per attuare il suo “metodo storico”. Essa viene descritta in modo scientifico e razionale per comprenderla e conoscerla al meglio anche dal punto di vista umano, oltre che ovviamente medico. Nel descrivere la tremenda malattia, fino ad allora sconosciuta agli ateniesi, Tucidide si sofferma sul momento iniziale del morbo: le cause, i sintomi, i morti e la reazione dei medici di fronte a un male totalmente ignoto; ed erano proprio i medici a morire per primi, a causa della necessaria vicinanza con i pazienti.

Né i medici erano di aiuto, a causa della loro ignoranza, poiché curavano la malattia per la prima volta, ma anzi loro stessi morivano più di tutti, in quanto più di tutti si
avvicinavano ai malati; né serviva nessun’altra arte umana.”

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso“, (47,4, libro II)


Giunge poi a una descrizione fortemente umanitaria e ricca di pathos, nella quale evidenzia le principali reazioni umane, tra le quali spiccano paura, sgomento, solitudine e scoraggiamento. Uno degli scopi principali dell’autore è inoltre riportarci vari eventi quotidiani, per sottolineare come vennero completamente sconvolti dal morbo, tra i quali troviamo: numerosi furti per lo spopolamento delle case a causa della malattia, non più solenni funerali singoli ma roghi comuni per sbarazzarsi dei cadaveri, sempre più persone ammassate nei templi per riversare lo sgomento generale sulle preghiere e affidarsi agli dei, e infine varie congetture con lo scopo di dare un senso a questo male sconosciuto, come l’accusa verso i peloponnesiaci di aver avvelenato i pozzi.

Nella città di Atene piombò improvvisamente, e i primi abitanti che attaccò furono quelli del Pireo; e così tra essi si disse anche che i Peloponnesiaci avevano gettato veleni nei pozzi: là infatti non c’erano ancora fontane. Poi arrivò anche nella città alta, e da allora i morti aumentarono di molto.”

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso“, (48,2, libro II)

Nonostante il morbo sia stato catalogato per lunghissimo tempo come una vera e propria pestilenza, oggi esperti e studiosi pensano in realtà che si trattasse di un altro tipo di malattia, e che più probabilmente fosse una sorta di vaiolo o di febbre tifoide, per i sintomi violenti e immediati che procurava in un tempo brevissimo (rispetto a come sarebbe stato per una comune epidemia di peste).

Gli altri invece, senza nessuna causa apparente, mentre erano sani improvvisamente
venivano presi da violente vampate di calore alla testa e da arrossamenti e infiammazioni agli occhi, e tra le parti interne la faringe e la lingua erano subito sanguinolente ed emettevano un alito insolito e fetido. Poi, dopo questi sintomi, sopravveniva lo starnuto e la raucedine, e dopo non molto tempo il male scendeva nel petto, ed era accompagnato da una forte tosse. E quando si fissava nello stomaco, lo sconvolgeva, e ne risultavano vomiti di bile di tutti i generi nominati dai medici, e questi erano accompagnati da una grande sofferenza.

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso” (49, 2-3, libro II)

Tuttavia essa ebbe tutte le caratteristiche proprie di qualsiasi epidemia della storia, riuscendo ad abbattere psicologicamente l’umore e la quotidianità delle persone, e provocando migliaia di morti; forse addirittura arrivò a dimezzare la popolazione ateniese, cifre per l’epoca davvero esorbitanti, di cui Tucidide stesso si rese conto, riportando puntualmente lo sgomento che vigeva in quel tempo.

Nessun corpo si dimostrò sufficientemente forte per resistere al male, fosse robusto o
debole, ma esso li portava via tutti, anche quelli che erano curati con ogni genere di dieta. Ma la cosa più terribile di tutte nella malattia era lo scoraggiamento quando uno si accorgeva di essere ammalato (poiché i malati si davano subito alla disperazione, si abbattevano molto di più e non resistevano), e il fatto che per aver preso la malattia uno dall’altro mentre si curavano, morivano come pecore: questo provocava il maggior numero di morti.

Tucidide, “La Guerra del Peloponneso” (51,4, libro II)

L’importanza dei comportamenti umani nel corso della storia

Attraverso una digressione tanto struggente Tucidide dimostra ancora una volta che la storia non è riassumibile in un muto susseguirsi di vicende più o meno rilevanti, ma va invece rappresentata e studiata anche attraverso le reazioni umane. Pertanto assumono un ruolo di assoluto rilievo la psicologia, i comportamenti degli uomini e le azioni quotidiane in relazione a tali fenomeni tanto significativi per lo studio della storia.

Tucidide sceglie di esporre molto dettagliatamente la pestilenza proprio per l’effetto che quest’ultima ebbe sull’animo degli uomini, e non per come influenzò l’andamento degli eventi storici futuri. In una critica situazione di guerra il sopraggiungere di un’epidemia portò gli ateniesi al limite della sopportazione, rendendoli capaci di azioni ignobili e disumane, e questo l’autore lo esprime con una grande cura verso i dettagli.

A regnare è infatti l’“anomia”, ovvero la più totale assenza di leggi, che porterà inevitabilmente a una situazione di disordine e anarchia in cui gli individui cercano disperatamente di sopravvivere aggrappandosi ai propri istinti senza più alcuna inibizione. Attenendosi perciò strettamente al suo ruolo di storico Tucidide si mostra come testimone diretto dell’evento e ce lo riporta privandosi di ogni possibile elemento etico o morale, con il solo e unico scopo di informare e documentare i posteri riguardo l’andamento della storia e di come essa possa interagire con la labile natura umana. E, proprio come scrive l’autore: Atene fu distrutta dalla paura della peste, non dalla peste. Si tratta certo di uno squarcio raccapricciante, incapace di infondere sicurezza e perciò ancor oggi perfettamente in grado di suggestionare qualsiasi lettore moderno.

La peste di ieri e la peste di oggi

Il tema della pestilenza rappresenta ormai da secoli una delle più grandi occasioni per parlare di storia, scienza e medicina allo stesso tempo. Autori, poeti, scrittori e persino pittori e scultori si sono destreggiati su questo tema cercando di mostrare nel miglior modo possibile gli effetti del male, come esso influisce sulla psicologia umana e come viene affrontato in base alle diverse epoche storiche. L’idea di un morbo che esplode all’improvviso scatenando il panico e l’incertezza verso cure e guarigioni introvabili garantisce ancor oggi una fonte tragica sulla quale poter costruire grandi narrazioni storiche ma anche possibili racconti di fantasia.

La tragicità causata da morte e distruzione rappresenta anche un’occasione per evidenziare gli effetti della malattia sul corpo umano, a livello quindi medico/scientifico, ma porta spesso e soprattutto a profonde riflessioni di tipo religioso/divino, poiché l’uomo da sempre necessita di un elemento superiore a cui appoggiarsi in caso di estremo pessimismo. Si tratta pertanto di un tema largamente discusso ancor oggi, in grado di scatenare ferventi discussioni e, ma anche capace di lasciare un enorme fascino nella letteratura e nella storia di tutti i tempi.

La vita quotidiana alla fine del mondo antico di G.Ravegnani

La vita quotidiana alla fine del mondo antico di Giorgio Ravegnani è un saggio storico che racconta in modo semplice, chiaro e appassionante, la vita quotidiana in quell’epoca turbolenta compresa tra il IV e il VI secolo dopo cristo

Se quello che cerchi è un libro che stravolga completamente tutto ciò che sapevi o credevi di sapere sulla quotidianità negli ultimi secoli dell’impero romano, questo libro, non fa al caso tuo. La vita quotidiana alla fine del mondo antico di Giorgio Ravegnani è un saggio storico di carattere divulgativo che, come ogni buon saggio storico, si basa prevalentemente sull’analisi e la comparazione delle fonti classiche, e dipinge un quadro ampio e dettagliato, degli aspetti sociali alla fine del mondo antico, alternando classici della letteratura latina a documenti e atti giuridici.

Il libro

La vita quotidiana alla fine del mondo antico racconta la società e i suoi cambiamenti tra il IV e il VI, cambiamenti che sono legati in parte all’affermazione del cristianesimo nei territori dell’impero romano o ex impero romano, in parte alla divisione definitiva dell’impero tra orientale e occidentale, e la conseguente nascita di una nuova Roma orientale sul Bosforo, Costantinopoli, capitale dell’impero orientale che per la prima volta nella storia romana è pari di Roma, e in parte per la caduta dell’impero romano d’Occidente, che sarebbe stato travolto nei secoli a venire da numerosi invasioni barbariche.

Tutte queste trasformazioni, tutti questi cambiamenti turbolenti, a tratti improvvisi e brutali, hanno impattato sulla società e sulla vita quotidiana dell’epoca, e il libro cerca proprio di capire come e quanto questi avvenimenti hanno contribuito a trasformare la vita quotidiana alla fine del mondo antico.

Questione storiografica

Sapere come vivevano gli antichi è sempre interessante, la storia, ci dice Marc Bloch e la scuola degli annales è anche (e soprattutto) storia di vite quotidiane, e contrariamente a quello che si è pensato per lunghissimo tempo, “le masse popolari” non hanno fatto irruzione nella storia soltanto negli ultimi secoli, ma sono sempre stati parte integrante della storia, per alcuni autori esse rappresentano addirittura il reale motore invisibile della storia, motivo, quest’ultimo che ha portato numerosi storici a rivalutare e dare più spazio e attenzione alla storia delle classi subalterne, preferendo questi aspetti ed equilibri, alla storia dei grandi avvenimenti. Carlo Ginzburg con il suo Il Formaggio e i vermi è un esempio eccellente di questo modo di vedere la storia, così come lo sono gli innumerevoli studi di genere o studi su popoli subalterni o uomini e donne in condizioni subalterne, come ad esempio gli schiavi, le donne, gli omosessuali, gli stranieri in una determinata civiltà, ecc ecc ecc.

In questo immenso ed estremamente affascinante filone storiografico si colloca il saggio di Giorgio Ravegnani, il quale, decide di puntare la propria lente su un determinato momento storico, la fine del mondo antico, gli ultimi anni dell’impero romano e i primi anni dei regni romano barbarici.

Il contesto storico

La vita quotidiana alla fine del mondo antico racconta una forbice temporale estremamente ristretta, ovvero i secoli compresi tra il IV ed il VI secolo dopo cristo, sono gli anni che accompagnano il declino di roma, e che attraverso la crisi politica, militare e sociale che sussegue alla caduta dell’impero romano d’occidente, innescano una serie di trasformazioni radicali nella società.

Il mondo cambia di continuo, la storia è storia di continuo mutamento, ma, in alcuni momenti il cambiamento è più veloce e imprevedibile, ed il periodo individuato da Ravegnani è uno dei periodi di maggiore trasformazione del mondo e della società.

Cambiano i rapporti di forza, gli equilibri sociali, cambiano le dinamiche sociali e la stessa società nel mediterraneo occidentale. Nel mediterraneo orientale la presenza dell’impero romano d’oriente o impero bizantino, garantisce una certa stabilità, le trasformazioni sono relativamente poche o comunque, più contenute rispetto alle trasformazioni che avvengono in Italia e nell’intera Europa occidentale.

La grande frammentazione dell’ormai ex impero romano, porta alla nascita dei regni romano barbarici, realtà politiche in cui le dinamiche della società romana, si intrecciano con le dinamiche politiche e sociali dei nuovi dominatori barbarici, e le diverse culture che, in varie zone d’europa, prenderanno il potere, contribuiranno a gettare le basi per la nascita di quelli che in seguito sarebbero diventati gli stati di Francia, Germania, Spagna, Gran Bretagna, Italia, ecc ecc ecc.

Quello che è il mondo oggi, le differenze e le rivalità tra i vari popoli e le varie culture europee, hanno origine in quel momento, e pure, sul piano politico, le differenze, osserva Ravegnani, sembrano essere minime. Dai regni romano barbarici nasce la società feudale, sistema sociale che avrebbe governato l’europa per oltre mille anni, ed è un sistema comune a popoli franchi, ispanici, germanici e italici.

Osservando però, più nel dettaglio le singole società, puntando la lente sulla quotidianità degli uomini comuni, si possono notare le prime differenze, differenze che vanno dalla lingua parlata, sempre più lontana dal latino, all’alimentazione, che per ovvie ragioni, è in quel momento subordinata alle possibilità offerte dalla terra.

Geografia e lingua influenzano e definiscono le abitudini alimentari e culturali e queste tracciano il profilo delle diverse società.

La vita quotidiana

La vita quotidiana molto spesso la immaginiamo in tanti modi differenti. In realtà la quotidianità nei secoli non è mutata poi troppo, ci sono state ovviamente delle trasformazioni più o meno significative, ed è evidente che la vita quotidiana nel I secolo a.c, durante le guerre civili di Roma, era profondamente diversa dalla vita quotidiana alla fine del mondo antico, così come la vita quotidiana alla fine del mondo antico era profondamente diversa dalla vita rinascimentale o dell’età moderna.

Con questo libro, Giorgio Ravegnani ci mostra che ogni epoca ha la propria storia quotidiana, ogni luogo, ogni tempo, hanno la propria realtà ordinaria, ma allo stesso tempo, nonostante le differenze, molti elementi sono ricorrenti. E se osserviamo la quotidianità alla fine del mondo antico, riducendola ai minimi termini, epurandola quindi delle condizioni economiche e tecnologiche della società dell’epoca, possiamo osservare che il mondo non era poi così diverso da come è oggi.

Le fonti

Raccontare la vita quotidiana non è semplice, principalmente per una certa carenza di fonti dirette. Non ci sono molti autori classici che hanno raccontato e descritto nel dettaglio come funzionava, ad esempio un mercato, ma qualcosa lo abbiamo. Plinio il Vecchio ad esempio, nella sua Naturalis historia ha raccontato nel dettaglio il funzionamento della villa romana e di tutti i suoi equilibri interni, compresi i rapporti familiari e tra padrone, schiavi e dipendenti. Ma il racconto di Plinio sulla domus romana non è sufficiente, da solo, a tracciare un quadro completo e generale, della vita quotidiana nel mondo antico, e di certo, non ci da molte informazioni sul periodo compreso tra IV e VI secolo.

Queste informazioni fondamentali per l’opera, Ravegnani è riuscito a recuperarle grazie ad uno scrupoloso e meticoloso lavoro di ricerca di fonti giuridiche, fiscali e atti notarili, ma anche lettere, registri mercantili e diari. Grazie alle fonti giuridiche che costituiscono il costituiscono il corpo centrale dell’apparato monumentale delle fonti alla base della sua opera, Ravegnani è riuscito a ricostruire in modo abbastanza ampio e completo le dinamiche ed i rapporti economici e sociali, delle varie classi sociali alla fine del mondo antico tra IV e VI secolo. Conoscendo questi rapporti, e grazie anche ai racconti di anonimi e cronisti che nei loro aneddoti hanno descritto eventi alti, e intrecciando il tutto, è stato possibile per lo storico milanese, ricostruire in modo sorprendentemente accurato la vita quotidiana nel mondo antico.

Chi è Giorgio Ravegnani

Per capire a fondo l’opera di Ravegnani e la complessità del sui lavoro, credo sia opportuno aprire una breve parentesi sullo storico.

Giorgio Ravegnani è uno storico italiano, nato a milano nel 1948 , laureato in lettere classiche nel 1972. La sua carriera da docente è iniziata nel 1979, in concomitanza con l’apertura del corso di laurea in storia all‘Università Ca’ Foscari, di cui è diventato docente di Storia Bizantina. Prima della docenza Ravegnani ha svolto attività di ricerca presso l’università di bologna.

Oltre alla cattedra di Storia Bizantina, Ravegnani ha insegnato anche Storia medievale, Storia dell’Italia bizantina e Storia militare del Medioevo.

Vi lascio di seguito un elenco delle sue pubblicazioni fin dal 1976.

Il saggio la vita quotidiana alla fine del mondo antico è stato elaborato tra 2014 e 2015 e pubblicato nel 2015, ed è interessante notare come questo testo sia preceduto da testi come, Gli esarchi d’Italia, Aracne editrice, Roma 2011, un saggio che analizza nel dettaglio e in ogni suo aspetto l’esarcato bizantino in italia, ovvero i territori italici controllati direttamente dall’impero bizantino in quell’epoca a metà tra età antica e medievale, e La caduta dell’impero romano, Il Mulino, Bologna, 2012, un saggio osserva la società italica al tramonto di Roma, inoltre, il primo saggio successivo alla vita quotidiana è l’opera biografica Teodora. La cortigiana che regnò sul trono di Bisanzio, Salerno, Roma, 2016, che racconta ed intreccia, la vita quotidiana di una cortigiana e le dinamiche politiche al vertice della società bizantina.

Quasi certamente il saggio sulla vita quotidiana alla fine del mondo antico ha enormemente beneficiato delle ricerche e degli studi effettuati precedentemente, e allo stesso tempo, ha gettato le basi per la più dettagliata e specifica opera su Teodora.

Possiamo inoltre osservare, leggendo l’intera bibliografia di Ravegnani, che, fatta eccezione per pochissime opere, tra cui anche La vita quotidiana alla fine del mondo antico, la quasi totalità dei suoi scritti ruota attorno a due elementi chiave, ovvero Bisanzio e Venezia. In realtà anche il saggio sulla vita quotidiana è fortemente legato al tema di Bisanzio, tema sul quale Ravegnani è indubbiamente un esperto, in quanto ha dedicato allo studio della storia bizantina, gran parte della propria vita.

Le opere di Giorgio Ravegnani

  • Le biblioteche del Monastero di San Giorgio Maggiore, L. S. Olschki, Firenze 1976
  • Castelli e città fortificate nel VI secolo, Edizioni del girasole, Ravenna 1983
  • La corte di Bisanzio, Essegi, Ravenna 1984; Jouvence, Roma 1989
  • Soldati di Bisanzio in età giustinianea, Jouvence, Roma 1988
  • La corte di Giustiniano, Roma, Jouvence, 1989.
  • Giustiniano, Giunti & Lisciani, Teramo 1993
  • I trattati con Bisanzio 992-1285, (2 voll. con Marco Pozza), Il cardo, Venezia 1993-1996
  • I bizantini e la guerra. L’età di Giustiniano, Jouvence, Roma 2004, 2015
  • La storia di Bisanzio, Jouvence, Roma 2004
  • I Bizantini in Italia, Il Mulino, Bologna 2004, 2019
  • Bisanzio e Venezia, Il Mulino, Bologna 2006 ISBN 978-88-15-10926-2
  • Introduzione alla storia bizantina, Il Mulino, Bologna 2006 (nuova ed. 2008)
  • Imperatori di Bisanzio, Il Mulino, Bologna 2008
  • Soldati e guerre a Bisanzio. Il secolo di Giustiniano, Il Mulino, Bologna 2009
  • Bisanzio e le crociate, Il Mulino, Bologna 2011
  • Gli esarchi d’Italia, Aracne editrice, Roma 2011
  • La caduta dell’impero romano, Il Mulino, Bologna, 2012
  • Il doge di Venezia, Il Mulino, Bologna, 2013
  • La vita quotidiana alla fine del mondo antico, Il Mulino, Bologna, 2015
  • Teodora. La cortigiana che regnò sul trono di Bisanzio, Salerno, Roma, 2016
  • Andare per l’Italia bizantina, Il Mulino, Bologna, 2016
  • G. Ravegnani-Dedo di Francesco, Eleonora d’Aquitania e il suo tempo, Robin, 2017.
  • Il traditore di Venezia. Vita di Marino Falier doge, Laterza, Roma-Bari, 2017
  • Galla Placidia, Il Mulino, Bologna, 2017
  • Medioevo (quasi) inconsueto, Robin, 2017.
  • Donne d’arte, d’intrighi e di guerre. Storie di donne che hanno segnato al storia, Robin, 2018.
  • Ezio. L’ultimo dei Romani, il generale che sconfisse Attila prima della caduta dell’Impero, Roma, Salerno, 2019
  • Bisanzio e l’Occidente medievale, Bologna, Il Mulino, 2019
  • L’età di Giustiniano, Roma, Carocci, 2019

Conclusioni

Veniamo quindi alle conclusioni finali su questo libro. Personalmente l’ho apprezzato molto la vita quotidiana alla fine del mondo antico di Giorgio Ravegnani. Uno dei motivi del mio apprezzamento è il linguaggio, molto scorrevole e leggero, a differenza di Ravegnani non sono un esperto di storia bizantina, anzi, probabilmente il periodo dei regni romano barbarici e la storia bizantina sono ciò che conosco meno in assoluto, si tratta di un mondo che mi ha sempre comunicato e appassionato poco, e pure, questo libro sono riuscito a leggerlo in modo estremamente scorrevole, e non ho avuto alcun tipo di difficoltà durante la lettura. Tutti i concetti sono esposti in modo chiaro, puntuale e completo, nulla è lasciato al caso, nulla è dato per scontato. Questo è certamente dovuto alla natura dell’opera, concepita non per un pubblico di soli addetti ai lavori, ma anzi, costruito per catturare l’interesse e l’attenzione, anche, e soprattutto, di lettori occasionali, curiosi e appassionati di storia.

La vita quotidiana alla fine del mondo antico si rivolge ad un pubblico molto ampio, e variegato, e di conseguenza il testo risulta estremamente coinvolgente, e avvincente, permettendo quasi al lettore di mettersi nei panni di un uomo o una donna del tardo antico, grazie anche e soprattutto alla presenza di numerosi aneddoti e storie di vita quotidiana, di cui l’opera è ricca.

Il libro la vita quotidiana alla fine del mondo antico va preso per ciò che è un saggio storico di carattere divulgativo e va letto per ciò che è, non è un saggio di approfondimento, non è un saggio di ricerca, non promette rivoluzionarie scoperte, al contrario, promette al lettore un viaggio nella vita quotidiana tra il IV e il VI secolo, un epoca certamente turbolenta e movimentata, e la turbolenza di quel mondo emerge in ogni immagine, in ogni storia, in ogni dinamica sociale, in ogni tratto della vita quotidiana degli uomini e delle donne di quel tempo. Si tratta di un saggio divulgativo e a mio avviso Ravegnani riesce perfettamente nell’impresa di fare una buona narrazione storica, senza mai annoiare, ma anzi, mantenendo viva l’attenzione del lettore attraverso storie e scene di vita quotidiana sul finire del mondo antico. Il titolo di quest’opera ci dice già tutto ciò che bisogna sapere sull’opera in se, ci dice di cosa parlerà, ci dice qual è l’intento dell’autore, ci prende per mano e ci accompagna in quel viaggio di poco più di 200 pagine.

Ogni epoca ha la sua storia quotidiana, ogni luogo, ogni tempo, hanno la propria realtà ordinaria, e dei tanti libri sul tema, La vita quotidiana alla fine del mondo antico di Giorgio Ravegnani è forse uno dei pochi che abbia letto con piacere, oltre che con interesse, ed è il piacere che mi ha donato questa lettura il motivo per cui non ho dubbi sul consigliare questo libro.

Civiltà Dorica – Chi erano i Dori?

Chi erano i Dori, il misterioso popolo che si insediò in Grecia in secoli arcaici?
I dori erano popoli di origine europea o orientale? e giunsero in Grecia prima o dopo la caduta dell’impero Miceneo?

Sono molti gli interrogativi sul popolo dorico che ancora oggi non hanno una risposta, a partire dalla domanda fondamentale “Chi erano i Dori?” di loro sappiamo solo che si tratta di un popolo misterioso che in un momento non meglio specificato, si insediò in Grecia, e l’alone di mistero che ruota attorno a questo popolo ha suscitato non poche domande collaterali.

I dori erano di origine europea o orientale?
Giunsero in Grecia prima o dopo la caduta dell’impero Miceneo?

I Dori, così come Achei, Eoli e Ioni erano una delle grandi etnie che nell’antichità si insediarono nella penisola greca dando vita, attraverso un lungo periodo di trasformazione e riorganizzazione delle loro civiltà, villaggi, città, in quelle che noi oggi conosciamo come le Polis Greche. Di questi popoli abbiamo molte informazioni relative alla loro presenza in Grecia, conosciamo la loro cultura, le loro tradizioni, conosciamo la loro storia successiva all’VIII secolo, ma ciò che precede i secoli bui, è ancora oggi avvolto dal mistero e domande essenziali come chi erano esattamente i Dori, da dove venivano e quando giunsero in Grecia? sono ancora oggi senza una risposta certa.

In passato, qui su Historicaleye ci siamo già occupati delle origini della civiltà greca, affrontando la questione in un discorso di carattere generale molto ampio, senza però entrare nel merito delle singole popolazioni e della loro storia e in questo post voglio andare la superficie, scavare più affondo ed ad approfondire il discorso con un focus mirato sul popolo dei Dori, una per ognuna delle quattro grandi etnie del mondo greco.

I dori nella tradizione.

Secondo la tradizione, le origini mitiche del popolo dorico risalirebbero al tempo degli Dei e sarebbero discendenti di Doro, eroe mitico della tradizione arcaica che secondo Apollodoro di Atene, era il figlio primogenito di Elleno, re di Fria una città della Tessaglia, e della ninfa Orseide, fratello maggiore degli dei Eolo e Suto, e padre di Tettamo, Santippe e di tutto il popolo Dorico. Secondo il drammaturgo Euripide invece, Doro era figlio di Suto, a sua volta figlio di Apollo, e fratello di Acheo, il mitico capostipite del popolo degli Achei.

Dal punto di vista storico sappiamo poco sul periodo in cui Doro, o chi per lui, si stabilì in Grecia, poiché l’arrivo del popolo dorico coincide con i secoli bui del medioevo ellenico. Sappiamo che prima di questa fase oscura la civiltà micenea controllava gran parte della penisola finché in seguito alle scorrerie di alcuni popoli orientali noti come i popoli del mare, la civiltà micenea scomparve, le città furono abbandonate e per tre secoli non si seppe più nulla, poi, il sole tornò ad albeggiare sulla Grecia arcaica, i villaggi ricominciarono a prosperare e commerciare tra loro, ritornò in uso la lavorazione del ferro e le produzioni di vasellame, si ricominciò a costruire templi, palazzi e città, dando nuova vita alla Grecia.

Ma chi erano realmente i Dori? Da dove venivano e quando giunsero effettivamente in Grecia?

Vi sono due possibili teorie storiografiche riguardanti le origini della civiltà dorica, da un lato vi è la teoria migrazionista che ipotizza l’insediamento in Grecia di un popolo (quello dorico) proveniente da oriente, e dall’altro la teoria anti-migrazionista che fondamentalmente esclude l’ipotesi di una migrazione di popoli e teorizza la presenza dorica in Grecia già dai temi della civiltà micenea, ma andiamo con ordine.

Secondo la teoria delle grandi migrazioni, quella dorica era una civiltà mista greco-illirica, proveniente dall’area balcanica, più precisamente dalle regioni del medio Danubio, contribuendo alla distruzione della civiltà micenea, per poi espandersi nel Peloponneso e a Creta.


Secondo questa teoria, il popolo dorico era un popolo guerriero, molto primitivo, seguace del culto dei tumuli, dei veri e propri barbari selvaggi, senza storia ne cultura, se paragonati alla più avanzata civiltà micenea, e la loro penetrazione in Grecia rappresentò, secondo questa teoria, l’ultima grande ondata migratoria di tribù selvagge provenienti da nord e da est, che si insediarono nella penisola e nelle isole greche. Questa teoria delle “invasioni barbariche del mondo greco” parte dalla leggenda del ritorno degli Eraclidi, i mitici figli di Eracle.

Questa teoria fu formulata per la prima volta nel XIX secolo, ma per lo storico Martin Bernal, ha un carattere puramente ideologico ed è un tentativo di vincolare la civiltà greca ad una tradizione europea, sostenendo, dal canto suo, che le origini della civiltà Greca andrebbero ricercate in oriente, e nei secoli bui, la Grecia fu colonizzata dagli Egiziani.
Questa teoria molto controversa è stata avanzata per la prima volta nel libro atene nera, le radici afroasiatiche della civiltà classica.

Il punto di partenza della teoria di Bernal sono i numerosi contatti, noti e documentati, della civiltà Micenea con il mondo Egizio da cui, si ipotizza, i Micenei abbiano appreso le prime forme di scrittura e le tecniche di lavorazione del metallo e della ceramica. Dall’altra parte Bernal critica la teoria che vedrebbe i Dori provenire dal cuore dell’europa, perché questa teoria ha un carattere puramente ideologico, e nacque in un contesto storico in cui era in corso un processo di epurazione ed espulsione dalla civiltà greca di ogni riferimento e connessione alle civiltà anatoliche, medio-orientali, fenicio-semite ed egizie, il cui fine era quello di rendere la civiltà greca qualcosa di tipicamente ed esclusivamente europeo, e quindi connessa alla teoria razziale che vedrebbe una connessione diretta tra i popoli del nord europa e il mondo greco. Insomma, una teoria volta ad includere il popolo ariano nella genesi della civiltà greca più che una teoria volta a comprendere realmente le origini della civiltà greca.

Per Bernal questa teoria definita come un “modello ariano” era una teoria astorica, derivata da teorie pseudoscentifiche di carattere razzista, di grande moda tra il XIX e il XX secolo nel mondo accademico.

Ovviamente per mettere in discussione una teoria non è sufficiente criticarla ma è necessario proporre una teoria alternativa, supportata da  prove empiriche e fonti, nel caso di Bernal, lo studioso osservando che la stessa mitologia greca era ricca di riferimenti a fondatori arcaici provenienti da oriente, dalla Fenicia e dall’Egitto, propose una teoria che partiva dal recupero del modello antico, comparando i dati provenienti dalla mitologia ad altre fonti storiche, archeologiche e linguistiche, per tracciare una storia delle origini dei Dori, nelle sue mire Bernal puntava ad escludendo ogni possibile preconcetto di matrice arianocentrica, per dare alla ricerca una reale impronta scientifica. La sua proposta fu accolta dal mondo accademico con non poche riserve e perplessità, e va detto che ancora oggi è fonte di un acceso dibattito storiografico.

Lo studio di Bernal portò alla formulazione di una teoria secondo cui i greci ritenevano che i re Dori fossero di origine micenea e straniera, probabilmente discendenti di matrimoni politici tra notabili micenei e stranieri volti a costruire alleanze politiche e militari, mentre il popolo dorico, volendo accettare l’ipotesi di una origine nordica, provenivano non dall’Europa centrale ma, più probabilmente, dalle regioni a nord-ovest della Grecia, più precisamente da una regione nota come Doride, situata tra l’Etolia e la Locride. A sostegno di questa ipotesi il fatto che, in epoca classica, proprio in questa regione vi erano diverse città doriche (Erineo, Bois, Citinio, Akyptias).

Uno dei punti di forza della teoria di Bernal è che in un certo senso rappresenta un punto di convergenza tra la teoria migrazionista e la teoria ant-migrazionista.

Bibliografia e fonti :

M.Bernal, Atene nera, le radici afroasiatiche della civiltà classicahttps://amzn.to/2OUiwfm
C.Orrieux, P. Schmitt Pantel, Storia Greca, https://amzn.to/2PoAqq7
C.Mossé, A Schnapp Gourbeillon, Storia dei Greci, dalle origini alla conquista romana, https://amzn.to/2z2Ud48

Storia Antica: Petra, la meraviglia scavata nella roccia

Petra, la città scavata nella roccia, un luogo magico e sublime nel bel mezzo del deserto della Giordania, una delle sette meraviglie del mondo e Patrimonio UNESCO dal 6 dicembre 1985.

Citata nei manoscritti di Qumram, con il nome semitico di Reqem o Raqmu (La Variopinta), la città risulta essere stata fondata dagli edomiti, che si insediarono nella regione tra l’VIII e il VII secolo a. C., all’inizio fu confusa con Sela, capitale edomita, che solo più tardi si scoprì essere collocata più a nord rispetto ad essa. Nella Bibbia si racconta che ostacolarono il passaggio di Mosè e degli Istraeliti durante l’Esodo, giacché gli edomiti sono considerati dalla tradizione i discendenti di Esaù, il fratello gemello e nemico di Giacobbe, padre degli Israeliti.

In seguito divenne capitale del Regno dei Nabatei, stanziatisi nella regione intorno al VI secolo a. C., trasformandolo in un florido centro commerciale in contatto con le popolazioni vicine. In seguito alle varie conquiste da parte di popoli invasori, tra cui Assiri, Persiani e Macedoni, la città , col tempo , perse la sua importanza commerciale, specialmente quando la nuova capitale del Regno Nabateo divenne Palmira, che diede molto filo da torcere alle legioni romane sotto il regno della regina Zenobia.

Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, Petra rimase nell’orbita dell’Impero Romano d’Oriente e poi fu travolta dalla Conquista Islamica tra il V e il VI secolo. A seguito di varie catastrofi naturali la città cominciò ad essere abbandonata a partire dal VII secolo, fino a ridursi a semplici cunicoli che i beduini usavano come nascondigli.

La città rimase nell’oblio fino al 1812, quando l’avventuriero svizzero Johann Ludwig Burckhardt la rivelò al mondo.

Il sito archeologico sorge a circa 250 km dalla capitale della Giordania, Amman, in un bacino a est delle montagne del Wadi Araba, la valle che si estende dal Mar Morto al Golfo di Aqaba nel Mar Rosso.

La regione è semidesertica ma con una media di piogge tra 150 e i 250 mm/anno le cui acque venivano raccolte dal popolo dei Nabatei in cisterne a cielo aperto scavate nella roccia per permettere l’irrigazione dei loro campi. Questà particolarità ha permesso lo sviluppo di un centro abitato in una regione abbastanza arida.

Petra conta circa 800 monumenti, tra cui 500 sono tombe. Il più importante e famoso è il Khasneh al Faroun o il Tesoro del Faraone, nome di fantasia dato dai beduini, struttura con la facciata scavata interamente nella roccia, posta in un ampio spiazzo raggiungibile tramite il Siq un lungo corridoio scavato nella roccia che funge anche da ingresso al sito, raggiungibile solo a piedi o a cavallo.

Altri monumenti di rilevante importanza sono La Tomba dell’Obelisco, un monumento funerario rappresentante una figura antropomorfa; il Teatro capace di ospitare circa 8mila persone; La Sacra Sala, di fronte al tesoro, che praticamente aveva funzioni rituali.

Inoltre nei pressi dell’area si trova la famosa Porta di Traiano che segnava il passaggio dalla’area commerciale all’area rituale della città.

History Fact : Petra è stata la location di uno del film di Indiana Jones: L’ultima Crociata.

Che cos’è la preistoria ?

Con il termine preistoria si intende un periodo di circa due milioni di anni che va dalla comparsa della specie umana sulla Terra fino al momento in cui l’uomo inventa la scrittura e inizia a lasciare testimonianze scritte, questo avviene circa cinquemilacinquecento anni fa, in Mesopotamia. Tra i primi ad utilizzare la scrittura come strumento per raccogliere dati furono i sumeri, ma di loro parleremo in un altro post e in un video dedicato.

Quando l’uomo apparve sulla terra il suo aspetto era tutt’altro che “umano” si trattava di una versione molto primitiva della specie umana, più simile alle scimmie (tipo Adriano Celentano) e successivamente, rutto di molteplici incroci e di una lunga e lenta evoluzione, il suo aspetto sarebbe diventato più simile a quello odierno, ma, se bene avessero tratti fisici animaleschi, i primi ominidi erano in grado di reggersi in piedi sui soli arti inferiori lasciando quindi gli arti superiori (le braccia) libere di afferrare e reggere utensili in legno e pietra, secondo alcuni antropologi del secolo scorso, questa capacità sarebbe alle origini dello sviluppo cognitivo della specie umana, detto più semplicemente, l’uomo, imparando a camminare su due gambe, iniziò a sviluppare maggiormente l’intelligenza per trovare nuovi usi agli ormai inutili arti superiori.

Nei due millenni che precedono l’invenzione della scrittura l’uomo modifica progressivamente il proprio aspetto e sviluppa sempre di più le proprie capacità tecniche imparando a controllare e modificare sempre di più l’ambiente in cui viveva, passa così dall’adattarsi al luogo in cui viveva, raccogliendo carni, bacche, frutti ecc per nutrirsi a cacciare e coltivare, passa inoltre dal vivere in caverne al costruire abitazioni sempre più sofisticate, inizialmente utilizzando ciò che la natura forniva, quindi rami, tronchi e pelli di animale, per poi passare a “materiali edili” sempre più sofisticati, come pietra e fango utilizzato come collante o mattoni di argilla essiccati al sole o cotti, cui avrebbero fatto seguito recinzioni e mura per proteggere abitazioni e villaggi.

Il progressivo miglioramento dello stile di vita, e la riduzione della mortalità causata da belve feroci produce un primo significativo aumento della popolazione umana sulla terra che inizia quindi a costruire villaggi e città sempre più grandi in cui risiedevano centinaia di nuclei familiari e di conseguenza, con l’accrescere della popolazione, la struttura organizzativa delle città inizia a cambiare e si inizia a sentire la necessità di uno strumento di comunicazione “testuale/visivo” più complesso del semplice graffito che i loro antenati lasciavano nelle caverne per testimoniare la vicinanza di branchi di animali o corsi d’acqua. Questo bisogno pratico di organizzare e amministrare la vita nelle città sarebbe sfociata nell’invenzione delle prime forme di scritture.

Codice di Hamurabi

Non è quindi un caso se i primi testi scritti di cui abbiamo traccia riguardano codici per la regolamentazione della vita urbana, e progressivamente assistiamo alla nascita e alla crescita di immensi archivi in cui venivano conservate centinaia di migliaia di tavolette d’argilla incise e lasciate a seccare al sole, e successivamente tavolette d’argilla incise e cotte e seguendo l’evoluzione dei supporti per la scrittura, ad un certo punto si arriva all’invenzione della pergamena che avrebbe permesso di concentrare in pochissimo spazio centinaia di migliaia di rotoli scritti, permettendo così l’evoluzione della scrittura che, mentre diventava più complessa, si prestava anche ad altri utilizzi, meno utili per l’organizzazione delle città, ma fondamentali per lo sviluppo di arte e letteratura.

Mentre la scrittura evolve da una parte, anche la tecnologia migliora, e progressivamente si sarebbe passati dall’utilizzo della pietra come materiale principale per la produzione di utensili, all’utilizzo dei primi metalli. L’uomo avrebbe infatti scoperto che alcune rocce, se riscaldate, si trasformavano in liquidi roventi e una volta raffreddati quei liquidi diventavano estremamente duri e resistenti, e se affilati, molto più efficaci della pietra. L’uomo entra così nell’età dei metalli, un epoca iniziata circa ottomila anni fa con la scoperta del rame, uno dei metalli più morbidi e facili da manipolare, successivamente avrebbe scoperto, intorno al terzo millennio a.c., che unendo il rame ad altri metalli, questi avrebbero prodotto delle leghe metalliche molto più resistenti dei singoli metalli di partenza, inizia così l’età delle leghe una delle tre fasi dell’età dei metalli.

La prima lega scoperta dall’uomo fu il bronzo, prodotto dall’unione del rame che aveva caratterizzato l’epoca precedente e lo stagno, un metallo estremamente morbido e malleabile, poco adatto alla produzione di utensili, ma la sua unione con il rame produceva un nuovo materiale diverse volte più resistente del rame. L’ultima fase dell’età dei metalli è detta età del ferro, questa è un epoca estremamente recente, iniziata appena tremila duecento anni fa, intorno al primo millennio avanti cristo. I primi a manipolare il ferro sarebbero stati gli Hittiti, un misterioso popolo di cui su hanno pochissime informazioni, e che scomparve soppiantato dagli Assiri, un popolo di cui abbiamo molte più informazioni.

La quaglia di Alcibiade: gli aneddoti falsificano la storia?

Ambizioso, sregolato, egocentrico. Non aveva rivali nell’arte retorica né in quella militare, ed era capace di disegni politici di ampio respiro per il bene della sua città. Siamo intorno al 420 a.C. e stiamo parlando del capo dei democratici estremisti che, pur di opporsi alla politica conciliatoria di Nicia (divenuto influente dopo la morte di Pericle) rifiutò l’alleanza con Sparta e si adoperò per una coalizione tra Atene, Argo e altri Peloponnesiaci nemici di Sparta.

Ma c’è di più. A quanto pare Alcibiade aveva abitudini abbastanza singolari ai nostri occhi; infatti era solito passeggiare in Atene con una quaglia sotto il braccio. A svelare gli aspetti più intimi della sua vita ci pensa Plutarco, uno storico, moralista e filosofo vissuto tra il I e il II secolo d.C.. La bibliografia su Plutarco è immensa, ed è impossibile renderne conto in questa sede.

Gli studi sul ruolo degli aneddoti tra storia e biografia ripercorrono le direttrici principali delle ricerche sulla sua figura: di solito si ricostruiscono le fonti da cui ha attinto e/o lo si studia come autore affrontando il problema dei rapporti tra i generi letterari (storia, biografia, romanzo) che sembrano intrecciarsi nelle Vite con l’obiettivo di costruire un’etica specifica, quella in voga nel II secolo d.C.. Per chi fosse interessato ad approfondire, per una rapida rassegna rinvio al volume citato al punto (1) delle Fonti.

Oggi vorrei concentrarmi sull’uso degli aneddoti. Più in dettaglio, cos’è un aneddoto e che funzione ha? Cosa può ricavare uno storico dall’uso degli aneddoti nella narrazione? Leggendo le Vite Parallele di Plutarco ci troviamo di fronte a orpelli inutili, curiosità, falsificazioni che rischiano di screditare la figura dello storico? Forse per un lettore moderno questo potrebbe sembrare un problema di second’ordine nel senso che, avendo a che fare con numerose piattaforme, curiosità e aneddoti sono un strumento utilissimo per catalizzare l’attenzione del lettore/fruitore.

Se lasciamo sullo sfondo l’evidente anacronismo implicito nel paragone, ma molto utile per chiarirci le idee, possiamo comprendere che il caso di Plutarco è più complesso. Vorrei mostrare che nelle Vite l’uso degli aneddoti non è solo una strategia letteraria o comunicativa, ma fa parte del modo in cui Plutarco intende la storia. Leggendo la Vita di Alcibiade, in assoluto la più ricca di aneddoti, possiamo farci un’idea precisa del modo in cui lavora lo storico. I primi sedici paragrafi offrono una sequenza continua di storielle giustapposte, anche senza rispettare l’ordine cronologico. Gli aneddoti vengono richiamati in alcuni momenti della vita del protagonista, principalmente nella parte del racconto dedicata al periodo dell’infanzia (anche quando sono riferiti all’età adulta hanno sempre lo stesso scopo). Già questo sembra offrirci qualche suggerimento, poiché è un chiaro indizio dell’attenzione che l’autore riserva alle caratteristiche psicologiche degli uomini di cui ripercorre l’esistenza.

Ma a dimostrare che gli aneddoti sono parte integrante della ricostruzione storica (e certamente non sono falsificazioni o elementi fuorvianti) ci pensa la filologia. Benché in greco classico il termine anekdota non venga mai usato, compaiono altre espressioni (apopthegma, apomnemoneuma, chreia) che ne ricoprono in parte l’area semantica: Plutarco le usa come sinonimi ed è interessante notare che nessuno di questi termini rinvia ad un giudizio di valore sulla forma letteraria usata. Un bel colpo per chi vede in Plutarco solo un moralista o un biografo che cerca di impressionare il pubblico, eh?

È plausibile ritenere che Plutarco si serva degli aneddoti come carburanti della narrazione, svincolandoli da qualunque riflessione o meta-riflessione sui ruoli, obiettivi e valori del racconto storico. Produce in questo modo un effetto realtà senza precedenti, inserendo un evento quotidiano nel contesto storico più generale per rappresentare i comportamenti dell’uomo politico in età classica.

L’unico ritratto certo di Alcibiade pervenutoci (mosaico pavimentale del III-IV secolo d.C., Sparta, Museo Archeologico). Immagine di pubblico dominio.

Resta scontato che gli effetti di queste strategie comunicative vanno ben oltre le intenzioni dell’autore. L’uso massiccio di aneddoti accresce il piacere della lettura, movimenta l’azione conferendole solo accidentalmente un significato morale (e questo depone a sfavore delle letture moraliste delle Vite):ho cercato di collezionare le notizie sfuggite alla maggioranza degli storici, e anche dagli altri riferite incidentalmente, oppure rintracciabili soltanto in antiche iscrizioni votive o in decreti. […] Senza affastellare per questo una documentazione inutile; essa offre anzi una conoscenza più precisa del carattere e del temperamento (ethos e tropos) del personaggio”, (Plutarco, Vita di Nicia, 1,5).

Con l’obiettivo di svelare caratteri e temperamenti, l’aneddoto diventa un istorema, è usato come la più piccola unità di un fatto storico evitando così di pronunciare apertamente un elogio o un biasimo. In questo modo si realizza un sapiente equilibrio tra storia e racconto in cui l’aneddoto non è ridotto a una testimonianza (storica) di seconda classe, ma svela quasi la natura e le cause motrici di alcuni avvenimenti, un po’ come Diogene Laerzio nelle Vite dei Filosofi usa gli aneddoti nella loro valenza morale per incastonarli nella storia della filosofia.

Ma se in filosofia gli aneddoti veicolano un contenuto concettuale facendo dei filosofi individui fuori dal tempo, veicoli di teorie soltanto, nelle Vite di Plutarco fanno parte a tutti gli effetti della cassetta degli attrezzi dello storico e riescono addirittura a calare i personaggi nella trama di usi e costumi in cui vivono, lasciando al lettore la possibilità di giudicare e di chiedersi quale sia il senso dell’anomalia nel complesso della narrazione.

Plutarco attinge da un materiale storico che non è lui ad inventare, e del quale è tributario in tutti gli ambiti, compresa la sfera della descrizione dei modi di vita e dei comportamenti. Quello che gli è peculiare è lo sguardo con cui osserva i suoi personaggi, la riflessione etica che ne ricava, e ovviamente il magistero della scrittura. Senza Plutarco, oggi noi forse non sapremmo che Alcibiade passeggiava in Atene con una quaglia sotto il braccio, e che per compiere un atto di generosità saliva di slancio alla tribuna dell’assemblea. Ma non è stato Plutarco a inventarsi questa storia di un giovane aristocratico ateniese così amato, bensì gli stessi greci coevi di Alcibiade. È quindi un discorso elaborato in età classica che permette allo storico dei nostri giorni di comprendere i diversi aspetti della seduzione greca, e più in generale il legame che intercorre tra costume e politica“, (Pauline Schmitt Pantel, cit., p.158).

Perché allora passeggiava in Atene con una quaglia sotto il braccio? Lascio a voi la lettura delle Vite Parallele.

Fonti:

(1) Pauline Schmitt Pantel, I migliori di Atene. La vita dei potenti nella Grecia Antica, Laterza, 2009.

(2) Plutarco, Vite Parallele vol. 3, UTET.

(3) Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, Laterza.

(4) Plutarco, Vite Parallele. Nicia-Crasso, BUR.

Questioni di genere e politica nell’Atene del V secolo

Negli ultimi tempi si è parlato molto di questioni di genere, gender e teorie del genere non più solo nell’ambito della storia del femminismo (penso ai dibattiti connessi al libro di Judith Butler in cui si sostiene che il il corpo sessuato non è un dato biologico ma una costruzione culturale), ma soprattutto pensando all’educazione e alla relazione con ciò che è altro da noi, diverso.

Ma cosa si intende con genere? Perché dovrebbero esserci questioni di genere? E in che modo i risultati delle scienze sociali possono aiutarci nella comprensione delle dinamiche culturali, civiche e politiche di un’epoca? Con genere si intende una categoria sociale che prende forma in uno specifico contesto storico e istituzionale, le cui conseguenze sul piano della formazione dell’identità e delle relazioni interpersonali non sono assolute ma sempre relative al periodo cui facciamo riferimento.

Lo scopo di ogni ricerca sul genere dovrebbe essere anche questo: isolare i modi in cui si concretizza l’identità individuale per capire in che misura essa interviene nella formazione dell’identità civica e sociale. Questo ci fa capire che il problema delle questioni di genere non può che essere un momento interno al modo in cui isoliamo il genere in un preciso contesto storico.

Oggi ci pare scontato dire che cosa sia “maschile” e cosa invece “femminile”, abbiamo compreso che genere si distingue da sesso e che l’identità di genere è qualcosa che riposa non solo nella nostra costituzione biologica, ma nei nostri costrutti mentali ed interpersonali, nel modo in cui la società ci accoglie, ci riconosce o ci discrimina. Nonostante ciò, esistono ancora molte difficoltà nell’accettare ciò che non si conforma alle nostre etichette, ciò che ordinariamente – o, peggio, secondo alcuni naturalmente – dovrebbe essere maschile e femminile.

Ed è su questo terreno che l’Atene del V secolo non smette di insegnarci qualcosa; laddove infatti la distinzione tra maschile e femminile si fa più sfumata ed è socialmente accettata nella sua natura polimorfica, essa può assumere ruoli e funzioni diverse sia nel tessuto civico della polis (la città) che in quello politico. La costruzione del genere è, a tutti gli effetti, la costruzione di un modo di fare e di vivere la politica. È l’anticamera della filosofia politica in età classica.

§1- Omosessualità ed educazione alla carriera politica

Se prendiamo come esempio Plutarco notiamo subito che nelle Vite di Nicia, Alcibiade, Aristide, Temistocle, Cimone e Pericle i temi connessi a questioni di genere sono moltissimi. E non riguardano solo i rapporti omosessuali, il ruolo dell’eterosessualità e del matrimonio nella costruzione dell’immagine civica dell’individuo, ma soprattutto la definizione di uomo in quanto animale politico (la definizione è di Aristotele).

Nella Vita di Aristide Plutarco ci racconta un episodio di rivalità amorosa che ha opposto il protagonista a Temistocle; questa forma di eros era accettata e considerata lecita come momento essenziale nella formazione non tanto del semplice cittadino quanto del politico. Sono indimenticabili le pagine del Simposio di Platone in cui il giovane Alcibiade racconta della sua passione amorosa per Socrate, del gioco tra amanti in cui Socrate non manca di sottrarsi per spingere il giovane alla contemplazione del vero bene. Il valore pedagogico del rapporto omosessuale che lega un giovane a un maestro più anziano è un tratto caratteristico della paideia (o educazione) greca.

La storia di Alcibiade è una storia di sconfitte e di dissipazioni, è il fallimento della ragione, incapace da sola di modellare una vita, la vita di un uomo straordinario la cui carriera sarebbe diventata leggendaria in Atene. Eros infatti non può che essere inteso come momento interno alla conoscenza, come educazione alla filosofia e tendenza verso il bene che dai bei corpi ci spinge ad abbandonare la sfera sensibile per il bello e il bene in sé. Questo è il messaggio di Platone. La scala amoris che nel Simposio Socrate riferisce di aver sentito da Diotima tende a disinnescare il legame tra l’eros e i corpi per farne solo il momento iniziale di un percorso che, in ultima analisi, è puramente conoscitivo.

Bisogna essere temperanti nella sfera erotica come nella sfera della vita sociale e politica: il legame tra seduzione erotica omosessuale e seduzione politica è un tema caro a Platone e a Plutarco e in entrambi è presente con lo stesso obiettivo. In Platone si tratta di pensare a un insieme di virtù utili nella vita buona e nella vita politica, in Plutarco lo stesso sistema di valori a volte serve come monito, per feroci invettive o giudizi più o meno espliciti sull’operato dei singoli all’interno delle istituzioni.

Le testimonianze antiche ricordate, ad esempio, negli studi di Pauline Schmitt Pantel sembrano mostrare che l’omosessualità in Grecia era un momento essenziale dell’esperienza sociale ed educativa dell’individuo, in quanto parte integrante della costruzione dell’identità del maschio, adulto, depositario dei diritti civici. Ora, cosa resta del matrimonio e delle relazioni eterosessuali?

§2- Eterosessualità ed ordine civico

Plutarco ci racconta che molti uomini illustri in Atene avevano un debole per le donne. Cimone, Temistocle, Alcibiade e Pericle. Le donne descritte appartengono a qualunque status sociale: sono libere, etère, prostitute e spose.

Le strategie matrimoniali erano spesso decise sulla base di considerazioni economiche e di alleanze politiche, ed esisteva una discreta libertà anche per le donne di risposarsi, sempre in accordo con i rispettivi tutori: alle donne era concesso divorziare e prendere nuovamente marito a patto che il kyrios (colui che esercitava l’autorità su di lei) pronunci l’engye e le dia una dote. Il matrimonio era infatti simbolo di ordine, era un istituto in grado di arginare i rischi derivanti dalla promiscuità, e permetteva di mettere al mondo figli legittimi ed era la base per la definizione di cittadinanza. Solo con il matrimonio la polis è potuta diventare un organismo politico, il che è facilmente intuibile se si tiene presente che sfera pubblica e privata non erano ancora nettamente distinte, dunque la vita pubblica da cittadino non doveva stridere con la vita privata e il ruolo di marito. Ma esisteva una forma di eros molto potente, consumata fuori dai vincoli del matrimonio e dalla sicurezza del focolare domestico.

L’amore come agapè, come attaccamento tra Pericle e Aspasia è solo in apparenza un elemento di disordine sociale e civico. Amica dei filosofi, dotata di eccezionale intelligenza, Aspasia di Mileto influenzò in modo determinante le scelte di Pericle (l’affare di Samo e il decreto di Megara, solo per citare gli esempi più noti) e molti ateniesi, compreso Socrate, la frequentavano per imparare le tecniche dell’oratoria e per parlare di filosofia.

Cosa possiamo concludere da questa rapida carrellata? Il genere o la teoria del genere nell’Atene del V secolo era una delle declinazioni possibili della (filosofia) politica. Le relazioni omosessuali, connesse con la definizione del maschile, hanno un ruolo pedagogico e politico determinante nel periodo classico. I rapporti eterossessuali all’interno del matrimonio hanno una funzione sociale rilevante nel mantenere l’ordine e la distribuzione delle ricchezze (spesso nei testamenti si suggerivano possibili pretendenti per le nubili al fine di conservare il più possibile il patrimonio di famiglia). Il femminile ha una collocazione determinante nell’equilibrio e nell’ordine sociale: laddove la donna è moglie, essa agisce nel contesto famigliare, laddove è amante (e l’elemento sessuale prende il sopravvento), essa può fare le veci del maschio sul piano dell’educazione politica. Il ruolo di moglie, di domina della famiglia e spesso degli interessi economici legati a proprietà e schiavi, automaticamente esclude la donna dal ruolo pedagogico in politica.

Aspasia, che educa i giovani come i sofisti, è al tempo stesso una straniera, una concubina, una etèra, una madre, una donna degna dell’amore di un uomo come Pericle appunto perché possiede la saggezza. E in quanto insegnante di retorica è perfettamente in grado di governare la città, è alla pari di qualunque uomo dotato delle medesime capacità. Qui ho tracciato solo una rapida panoramica su un argomento che meriterebbe un’analisi più approfondita. Alla luce degli esempi e della documentazione analizzata nei testi indicati in bibliografia, non posso fare altro che abbracciare la tesi di Pauline Schmitt Pantel: in Atene la costruzione di genere finisce sempre con l’avere a che fare con la politica, soprattutto quando i confini tra maschile e femminile si fanno più sfumati.

Bibliografia:

(1) Violaine Sebillotte Cuchet e Nathalie Ernoult, (cur.), Problèmes du genre en Grèce ancienne, Paris, 2007.

(2) Pauline Schmitt Pantel, Aithra et Pandora. Femmes, Genre et Cité dans la Grèce Classique, Paris, L’Harmattan, Bibliothèque du féminisme, 2009.

(3) Pauline Schmitt Pantel, I migliori di Atene. La vita dei potenti nella Grecia Antica, Laterza, 2009 ► http://amzn.to/2fgDkIa

(4) Werner Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, Bompiani, 2003 ► http://amzn.to/2dykBqO

Sacrifici umani nell’antico Egitto: credenza popolare o realtà?

Molti di voi avranno sentito dire e probabilmente crederanno che i sovrani dell’antico Egitto erano soliti portare con sé nella tomba i propri servitori, con lo scopo d’essere serviti anche nell’aldilà. Ma era realmente così?

Quando l’egittologo ed archeologo britannico Sir William Matthew Flinders Petrie trovò il sepolcro di Aha (faraone della prima dinastia e successore del noto Narmer) ad Abydos, notò delle tombe ad esso annesse ma non approfondì, essendo costruite con il fango le pensò di poca importanza e passarono momentaneamente in secondo piano, paragonate alla scoperta della tomba del noto sovrano. Invece, durante una spedizione archeologica condotta dall’università di New York, Yale e Pennsylvania, furono indagate le oltre 30 sepolture sussidiarie, risultando essere tutti sacrifici umani. Per molti, il privilegio di servire il sovrano in vita diveniva il meno ambito privilegio di servirlo da morto. Erano personaggi di rango differente e le loro morti erano attribuibili a cibo o bevande avvelenati oppure al suicidio, sempre con ausilio di veleno. Come nel caso di Aha, i sacrifici umani furono riscontrati anche con suo figlio Djer (per quest’ultimo, ben 318 sepolture sussidiarie!) ma ugualmente restava un’usanza generalmente non praticata. I sovrani abitualmente venivano accompagnati, sì, ma con delle statuette: durante il terzo millennio presero piede, erano soprattutto di terracotta, e riproducevano i servitori. Venivano poi sepolte con il sovrano, prendevano il nome di Ushabti, cioè “rispondenti”: avrebbero dovuto “animarsi” una volta giunti nell’aldilà e appunto rispondere per lui in tutti i lavori. Potevano essere mummiformi o rappresentare l’immagine di servitori o portatori di offerte, ed essere in legno o altri materiali a seconda della ricchezza del defunto. Molti Ushabti erano doni e, come tali, presentavano al di sotto delle dediche da parte del donatore. Dalla seconda metà del II secolo e per tutto il primo secolo, incise su di esse si iniziò a riportare il sesto capitolo del libro dei morti e non più solo il nome del sovrano. Ad oggi, si possono trovare numerosissimi esemplari di Ushabti online, di ogni genere ed a qualsiasi prezzo, anche se in linea di massima sono quasi tutti molto costosi.

È sfatata da tempo anche la credenza che, al termine della costruzione delle piramidi, gli operai venissero uccisi cosicché non rivelassero ai profanatori di tombe i segreti della stessa, o venissero lasciati al suo interno intrappolati a lavori ultimati, quando veniva chiusa la piramide. La grande piramide di Cheope, ad esempio, presentava un’uscita di sicurezza proprio per evacuare gli operai alla fine dei lavori. E non erano nemmeno gli schiavi, i costruttori di questi enormi e monumentali ipogei: è accertato fossero artigiani ed operai esperti e qualificati, possiamo affermare ciò soprattutto dopo la scoperta delle loro tombe, nei pressi della grande piramide. Essi vivevano in un villaggio poco lontano dalla sede di lavoro, con le loro famiglie, mantenuti come retribuzione per i lavori: la moneta ancora non esisteva, ricevevano dunque vitto, alloggio e cure mediche.

Oltre al quesito dei sacrifici umani, un altro interrogativo sorge sull’argomento cannibalismo: i sovrani egizi erano antropofagi? L’inno cannibale dei testi delle piramidi, trovato nel sepolcro del faraone Unis (ultimo regnante della quinta dinastia) parla chiaro: il sovrano, eroe nonché divinità, si cibò degli dèi (acquisendone i poteri) e, secondo appunto l’inno, si nutrì dei suoi predecessori. Ma sarà vero?

Sono dunque, in conclusione, presenti nella storia egiziana (come in qualsiasi altra) dei casi isolati, sia per quanto riguarda i sacrifici sia per quanto riguarda il cannibalismo ed, in via definitiva, si può affermare che tali pratiche non si diffusero ne mai presero piede durante questa grande e maestosa civiltà.

Bibliografia :

http://guide.supereva.it/egittologia/interventi/2004/04/157630.shtml
http://lastellarossa.blogspot.it/2015/03/linno-cannibale-dalla-piramide-del.html
http://www.storiamito.it/ushabti.asp

Drimaco, l’eroe gentile

I secolo a.C., Roma, periodo repubblicano. Le rivolte servili mettevano alla prova la città ed il suo esercito, ma a scuotere l’Impero ci pensò un solo uomo: Spartaco.

Contadino originario della Tracia, si arruolò nelle milizie romane per estinguere dei debiti; disertò poco dopo, a causa delle condizioni di maltrattamento e razzismo a cui era sottoposto tra le fila romane. Fu presto catturato e reso schiavo, come gladiatore. Nel 73 a.C., insieme ad altri 200 gladiatori con cui condivideva la sorte, si ribellò a Roma dando il via alla terza guerra servile. A lui furono dedicati numerosi film, poemi, libri, serie televisive ma non fu l’’unico capo dei ribelli dell’’età antica; fu senz’altro il più famoso ma abbiamo fonti che attestano di numerose altre rivolte, delle quali abbiamo traccia ma sicuramente anche molte lacune. È assai tangibile l’ipotesi che ci manchino notizie sulla maggior parte delle rivolte.

Un caso degno di nota di cui ci è giunta notizia, ebbe luogo all’incirca nel III secolo a.C. a Chio, un’’isola dell’’Egeo, ove un gruppo di schiavi divenne coeso ed in seguito alla fuga si stabilì su delle colline, dalle quali potevano attaccare facilmente e sistematicamente le case dei padroni. Erano guidati da Drimaco, il quale riuscì a proporre un trattato ai padroni: esso prevedeva che i suoi uomini rubassero solo determinate somme necessarie al sostentamento e che avrebbe arruolato nelle sue file solo schiavi che avevano subìto un trattamento davvero pessimo dai padroni. Una cosa è certa: Drimaco teneva fede alla parola data, gli schiavi fuggirono meno frequentemente.
Nonostante i padroni fossero tacitamente d’’accordo con questa soluzione, offrirono una ricompensa a chi gli avesse consegnato lo schiavo fuggiasco capo dei ribelli, vivo o morto. Nessuno reclamò mai il premio. Non appena Drimaco raggiunse la vecchiaia, incitò il suo amante a decapitarlo ed a riscattare il denaro per la sua testa, così da poter comprare la libertà e far ritorno in patria. Dopo la sua morte i fuggiaschi scatenarono un caos incontrollabile, spesero gran parte del denaro in suo onore e i proprietari terrieri eressero un sacrario a Drimaco, “l’’eroe gentile”… entrambe le parti riconoscevano in lui un benefattore ed erano consapevoli e nostalgici dell’’ordine e della pace che egli aveva portato.

 

Bibliografia:
Spartaco, Theresa Urbainczky

The Elder Lady – La misteriosa ciocca di capelli nella KV62

King’s Valley, Luxor. L’archeologo Howard Carter, dopo anni di ricerca e dopo il sudato ottenimento di un’ultima campagna di scavo, scoprì un gradino: il primo dei sedici gradini di quella che si rivelò la sua più grande scoperta, nonché una delle scoperte più sensazionali dell’archeologia… La tomba di Tutankhamon. Era il 4 Novembre 1922.

Morto all’alba dei diciannove anni, il “faraone bambino” fu sepolto frettolosamente nella tomba di qualcun altro (si suppone fosse per l’alto funzionario Ay) molti furono i tentativi di nasconderla, a causa dell’eresia di suo padre Akhenaton che, insieme alla moglie Nefertiti, abbandonò Tebe ed il culto di Amon, spostandosi ad Amarna e dedicandosi al culto dell’Aton. Proprio grazie al tentativo di cancellare dalla storia la dinastia di faraoni di Amarna, la tomba di “Tut” è giunta a noi praticamente intatta. I tesori trovati al suo interno lasciarono e lasciano tutt’ora senza fiato. Tra di essi, però, un particolare risveglia la curiosità: una ciocca di capelli.

the elder lady

Un ricordo? Una mancanza, un vuoto incolmabile, una parte di cuore portata con sé anche nell’aldilà?

Una ciocca di capelli color rame, non riconducibile a nessuna mummia presente nel suo ipogeo, che però contribuì nella stesura dell’albero genealogico del famoso faraone della XVIII dinastia. Grazie a TAC ed analisi del DNA un sottile filo rosso ha collegato tra loro una serie di personaggi, riordinando i tasselli di un puzzle di cui si era persa memoria più di tremila anni fa.
Bisogna però fare un salto di qualche anno fino al 1898, anno in cui Victor Loret, un professore di egittologia a cui si devono le più grandi scoperte, individuò la KV35: tomba di Amenhotep II, figlio di Thutmosi III, anch’essa come molte altre tombe depredata. La prima bella sorpresa per Victor Loret fu quella di trovare la mummia del padrone all’interno della tomba, nel sarcofago. Però, è evidente che la mummia di Amenhotep II fosse stata ribendata e che il sarcofago non era il suo d’origine.

Nella stanza numero 1 dell’ipogeo, Loret trovò adagiate a terra le mummie di un uomo e due donne: la donna più anziana, “The elder lady“, è stata identificata pressoché subito, analizzandone proprio i capelli! Essa è la regina Tiy (chiamata anche Tiye o Teye), moglie di Amenhotep III e madre di Akhenaton. Tutankhamon, su base di esami del DNA, è risultato essere figlio naturale della donna giovane nella tomba di Amenhotep II, la quale è figlia di Amenhotep III e di Tiy.

Figlia di Yuya e Thuya, descritta da tutti in chiave positiva, regnò al fianco del marito con amore e dedizione fino alla sua morte, momento in cui salì al trono il figlio Amenhotep IV (Akenhaton). Tiy, nonostante l’eresia del figlio, rimase al suo fianco come regina madre, attribuendo le azioni di esso al tentativo di arricchire ed aumentare il potere della corona.

Non si hanno certezze sulla data della sua morte ma si ipotizza possa essere avvenuta attorno al 1338 a.C e che lasciò un grande vuoto. Si dice anche che il regno subì una fase di declino. L’imbalsamazione fu eseguita con grande attenzione, i lineamenti del viso sono riconoscibili e i capelli perfettamente conservati, la donna non aveva neanche un capello grigio. Nella tomba di Tutankhamon erano presenti sarcofagi in miniatura recanti il nome della nonna. Una nonna tanto amata, della quale portò con sé il ricordo nel suo ultimo viaggio.

Bibliografia e Fonti :

http://www.nationalgeographic.it/dal-giornale/2010/09/03/news/tutankhamon_segreti_di_famiglia-96415/?refresh_ce
http://www.egittologia.net
http://www.ancient.eu/tiye/

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