Il Regime e la lingua. Storie dell’autarchia linguistica fascista.

Il 23 dicembre 1940, Il senato e la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, a mezzo delle loro Commissioni legislative, approvarono la legge n. 2042 in materia linguistica, disponendo:
“È vietato l’uso di parole straniere nelle intestazioni delle ditte industriali o commerciali e delle attività’ professionali.   […]           I contravventori alle disposizioni della presente legge sono puniti con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a lire 5000.”
La lotta per l’italianizzazione della lingua affonda le sue radici nell’esordio del governo mussoliniano. Già a partire dal 1923 furono colpite quelle attività le quali utilizzavano un nome straniero di cui però era disponibile il sinonimo italiano. Coiffeur, bar, garage, caddero sotto imposta maggiorata legata proprio all’utilizzo di tali termini nel proprio nome, mentre tram, rhum, the, ne furono esentati.
La viscerale, spesso grottesca, lotta contro l’utilizzo di termini non italiani aveva come fine ultimo quello di rafforzare il primato nazionale anche nella semplice vita quotidiana. L’italiano doveva superare tutto e tutti anche nella lingua parlata.
L’ascesa di Achille Starace alla segreteria del Partito Nazionale Fascista sicuramente segnò l’esasperazione di questa linea di fascistizzazione della vita giornaliera degli italiani. Fu lui a stabilire e rendere obbligatorie alcune delle forme con le quali il fascismo si proponeva di caratterizzare la vita pubblica, e privata, degli italiani.
Una delle più note è la sostituzione della stretta di mano (considerata una «mollezza» anglosassone) col saluto romano, codificato fin nell’angolatura del braccio teso, che doveva ergersi a 170 gradi dal busto, con le dita della mano tesa, unite. Seguirono l’uso del voi al posto del lei nella lingua parlata e scritta e obbligatorietà dell’uso della divisa il sabato durante le celebrazioni settimanali del sabato fascista e alle feste. Fece approvare una direttiva secondo la quale la parola DUCE si doveva scrivere esclusivamente con tutte le lettere maiuscole. Propose anche di istituire l’obbligo di concludere tutte le lettere private con la frase Viva il DUCE, ma Mussolini, ragionevolmente, intuendo quale effetto sarebbe potuto scaturire nel caso di lettere non allegre, per esempio in messaggi di condoglianze, oppure di comunicazioni poco gradevoli, categoricamente lo proibì, malgrado le sue insistenze.

Dietro a questi trovate propagandistiche si cela però la regia di Mussolini. È lui che, in sostanza, impartisce ordini e direttive attraverso la figura di Starace. Il duce ebbe a dire di lui che si, era un cretino, ma era “un cretino obbediente!”.
Mussolini vide in lui il perfetto complice, un’ombra che non gli farà mai ombra, e per questo lo terrà alla Segreteria del Partito per ben otto anni, l’incarico più’ duraturo del ventennio.

Tornando al discorso sulla lingua, Mussolini commissionò alla Reale Accademia d’Italia un Bollettino che “provvede a fornire l’elenco dei forestierismi banditi”, circa 500 termini che vennero banditi dai vocabolari italiani e sostituiti con sinonimi italiani. Gli italiani la mattina mangiavano la brioscia al posto della brioche o il pantosto, beveano sciampagna e non champagne, i più ricchi andavano nelle sale da danza o al caffè concerto mentre la maggioranza guardava le pellicole e non più i film.
Alle campagne del Popolo d’Italia per il purismo della lingua, si affiancò nel 1932 la torinese Gazzetta del Popolo, pubblicando 300 schede quotidiane per ripulire la nostra lingua dalla gramigna delle parole straniere che hanno invaso e guastato ogni campo.
Le sanzioni del 1935 e l’uscita dalla Società delle Nazioni non fece che acuire la persecuzione del Partito contro tutto ciò che non era italiano. L’Autarchia economica divenne anche linguistica, sia sulla Penisola che nel neonato Impero.

Ci fu una tremenda campagna contro l’hotel (nel frattempo diventato albergo) Eden di Roma. Si pretendeva che esso cambiasse nome, in quanto lo condivideva col ministro degli esteri britannico Anthony Eden, e a nulla valsero le spiegazioni della direzione che spiegarono come il termine non avesse nulla a che fare con gli inglesi ma fosse latino.
La lotta all’esterofilia colpì anche la squadra di calcio dell’Internazionale (attuale Inter), la quale richiamava anche elementi del socialismo, a cui fu ordinato di chiamarsi Ambrosiana. Così, nel 1933 la rivista femminile più letta in Italia Lei, che ricordava un francesismo, fu costretta a mutare nome in Annabella.
Il colore bordeaux divenne color barolo, il tessuto principe di Galles fu semplicemente il tessuto principe, e termini come insalata russa e chiave inglese, in quanto evocatori di nazioni nemiche, diventarono insalata tricolore e chiavemorsa. Nel cinema anche allo scopo di censurare ed adattare i film stranieri, se ne ordinò il doppiaggio. Per doppiare i film americani, francesi, tedeschi, furono chiamati attori di teatro, facendo nascere l’occupazione del doppiatore, prima inesistente.

 

Bibliografia:

Romano Bracalini, “Otto milioni di biciclette. La vita degli italiani nel Ventennio” ed. Mondadori

L. Salvatorelli e G. Mira “Storia d’Italia nel periodo fascista” ed. Einaudi

“Me ne frego. Il Fascismo e la lingua italiana” di V. Della Valle ed. Istituto Luce Cinecittà

“Virtute duce comite fortuna”. La triste vicenda del somm. “Galvani”

Il 24 giugno 1940, appena due settimane dopo l’inizio della guerra da parte italiana, veniva affondato dalla corvetta H.M.S. Falmouth e dal cacciatorpediniere H.M.S. Kimberley, il Regio Sommergibile “Luigi Galvani”.

La storia della Regia Marina durante il secondo conflitto mondiale è contraddistinta, più particolarmente delle altre Forze Armate, da quelli che possiamo definire i paradossi della “guerra fascista”. La Marina, difatti, alla data del 10 giugno 1940 era, tra le Armi principali del sistema bellico italiano, quella considerata più moderna è capace di sostenere lo sforzo bellico.

La grande rivista navale compiuta nel Golfo di Napoli per celebrare la visita di Hitler del maggio 1938 (quella di “Una giornata particolare”, per intendersi) mise in mostra lo stato di forma della flotta italiana. Il ministro della propaganda del Reich, Joseph Goebbles, ebbe modo di scrivere sul suo diario:

“La Marina è straordinaria. La flotta, gli idrovolanti, i cacciatorpediniere, settanta sommergibili che si immergono e riemergono di colpo. Manovre di combattimento (…). Tutto eseguito con grande ordine e accuratezza.”

Sulla carta la Regia Marina poteva vantare 6 corazzate, di cui due di tipo moderno da 35.000 tonnellate,7 incrociatori da 10.000 tonnellate, 14 incrociatori leggeri tra le 5.000 e le 8.000 tonnelate., 12 cacciatorpediniere conduttori di flottiglia, 28 moderni cacciatorpediniere, 19 cacciatorpediniere di vecchio modello, 69 torpediniere, 117 sommergibili di vario tonnellaggio. Come numeri questo dislocamento non aveva nulla da invidiare alle principali rivali presenti nel “Mare Nostrum“, Francia e Gran Bretagna.

Il deficit italiano ruotava attorno a due cardini principali. Il primo era che la flotta, per tipo di unità ed addestramento, era poco preparata alla guerra che dovette poi affrontare. La struttura che aveva ricevuto soprattutto durante il biennio 1934-1936 l’aveva impostata principalmente per uno scontro diurno, sfruttando i cannoni, tra corazzate. L’altro era la mancanza di navi portaerei, oltre che una seria intesa con l’Aviazione. Mussolini aveva bocciato l’idea di costituire delle portaerei per la flotta, ritenendo già la penisola italiana una portaerei naturale per un eventuale  sforzo bellico. La deficienza in questo campo, unita alla mancanza di un apparato tecnico-scientifico adatto agli scontri notturni, fu fatale già dai primi scontri con la flotta britannica.

La Regia Marina, nel giugno 1940, era ancora ben lontana dall’aver approntato un qualsiasi tipo di localizzatore radar del nemico, come invece avevano Germania ed Inghilterra, pur avendo dal 1936 allo studio presso i laboratori Istituto Militare delle Trasmissioni un radiotelemetro che doveva sfruttare gli echi delle onde elettromagnetiche riflesse da uno scafo alla superficie del mare. I primi sospetti che tale apparato esistesse e che fosse installato sulle unità della Mediterranean Fleet inglese la Regia Marina li ebbe nel tragico scontro di Matapan (marzo 1941), sconfitta che costò assai cara alla Marina proprio per l’incapacità di manovrare nelle tenebre.

Il Duce però aveva una carta che pensava avrebbe favorita notevolmente la guerra marittima italiana, quella dei sommergibili. I numeri parlavano chiaro, nel giugno del 1940 l’Italia era la nazione che vantava il più alto numero di mezzi per il combattimento sottomarino, vitali per condurre da predatore  la cosiddetta “guerra dei convogli”.

Però  la crescente efficacia dell’arma aerea, che costringeva ad immergersi rapidamente, e la forte difesa antisommergibile, dei convogli e del naviglio di linea, mise in luce delle difficoltà strutturali dei battelli italiani. Questi difatti erano stati sviluppati secondo i principi della guerra sottomarina sviluppati durlante il primo conflitto mondiale, con la previsione di operare spesso in emersione, privilegiando le capacità nautiche di superficie. Per l’attacco, si prevedeva che questo avvenisse quasi sempre in immersione di giorno, quando la visibilità era migliore, applicando la tecnica dell’agguato, in un passaggio o zona definita dove attendere al varco le navi nemiche. Paradossalmente l’Italia si trovò svantaggiata da questa situazione, in quanto deteneva una flotta particolarmente numerosa ma tecnicamente superata dallo sviluppo della guerra. Nonostante ciò va riconosciuta una sostanziale capacità dei nostri marinai e ufficiali imbarcati, i quali riuscirono a portare a termine missioni particolarmente delicate e tenere in scacco la flotta più potente del Vecchio Mondo per circa tre anni.

Le due flotte subacquee dell’Asse, italiana e tedesca, collaborarono operando fianco a fianco sugli scenari atlantici e mediterranei. Le perdite alleate per attacchi di sommergibili furono di 2828 mercantili per 14.687.231 tonnellate di cui 85% in Atlantico, principale luogo di scontro e affondamento mercantile. Nell’Atlantico gli italiani operavano attraverso la base sommergibili di Bordeaux, chiamata in Betasom, in cui furono dislocati, nel triennio di guerra, solamente 32 sommergibili adatti ad operare nell’Atlantico. Lo scenario mediterraneo era più povero di prede mercantili alleate, ma soprattutto più pattugliato e controllato dalle basi di Gibilterra, Malta e Alessandria.

L’Africa Orientale Italiana si trovava in una posizione strategica rispetto al traffico navale tra Mediterraneo e Oceano Indiano: si poteva attaccare il traffico nemico e proteggere il proprio fin nell’oceano. Ma la decisione di entrare in guerra con la Gran Bretagna nel 1940 rendeva intransitabile il Canale di Suez, isolando la colonia senza possibilità di aiuti dalla madrepatria. Il nemico non aveva problemi nel far affluire altre navi, mentre le forze presenti non potevano ricevere rifornimenti freschi.

Le forze navali che avrebbero potuto muoversi fra il Mar Rosso e il Mar Arabico erano limitate, con una nave coloniale, 7 caccia tecnologicamente inefficienti, qualche M.A.S. (il Motoscafo Armato Silurante che ebbe un ruolo primario per la guerra nell’Adriatico durante il 1915-1918), e 8 sommergibili, che teoricamente costituivano l’arma più moderna e temibile. I sommergibili italiani avevano però difficoltà a manovrare in acque così limpide e calde, oltre a problematiche riguardo il sistema refrigerante che sfruttava un gas particolarmente pericoloso e che mise in pericolo la vita stessa degli equipaggi. Nonostante una richiesta del Vicerè, il duca Amedeo d’Aosta, lo Stato Maggiore non aveva voluto aumentare le forze, per non sottrarle al teatro principale mediterraneo. Supermarina, nome in codice del comando supremo della Regia Marina, chiedeva comunque che la flotta “imperiale” cercasse di assumere un ruolo offensivo e insidioso verso il nemico.

In questi contesto s’inserisce la tragica storia del sommergibile “Luigi Galvani” e del suo eroico equipaggio.
Il “Galvani” era uno dei nuovissimi sommergili classe “Brin”, varati tutti nel biennio 1938/1939, i quali erano stati sviluppati proprio per i combattimento oceanico.

Al comando del capitano di corvetta Renato Spano il sommergibile partì il 10 giugno dal porto di Massaua verso la zona d’operazioni. La missione del Galvani avrebbe dovuto durare approssimativamente 28 giorni, con l’obbiettivo di mettere in pericolo il traffico petrolifero proveniente dal Golfo Persico. Il battello arrivò nella zona assegnata il 23 giugno, ma la cattura del sommergibile “Galilei” pochi giorni prima aveva fornito agli inglesi i piani d’operazione della flotta italiana nell’Oceano Indiano.

La sera del 23 giugno, inconsapevole della situazione, il “Galvani” entrò nel golfo scoprendo che l’usuale traffico delle petroliere era completamente assente. Immediatamente il sommergibile fu avvistato dalla corvetta Falmouth. Mentre il battello procedeva lentamente all’immersione la poppa fu colpita da un proiettile. A questo punto, con la carena resistente compromessa il 2° capo silurista Pietro Venuti evacuò la camera lanciasiluri di poppa e chiuse la porta stagno. Sacrificandosi salvò il sommergibile, permettendone l’immersione . Immediatamente dopo, il Falmouth si portò più vicino al sottomarino e scaricò una serie di bombe di profondità che provocarono danni enormi.
Conscio che il battello era perduto, e che parte dell’equipaggio potesse ancora essere salvato, il comandante Spano ordinò l’emersione, operazione questa che fu completata con grandi difficoltà, proprio per la gravità dei danni subiti. Dei cinquantasette uomini dell’equipaggio, 31 furono salvati dai britannici, mentre i rimanenti 26, inclusi tre ufficiali, scomparvero a bordo del Galvani.

Tra questi vi era il guardiamarina Piero Gemignani, nato a Rivarolo (Ge) il 9 agosto 1918. Dopo aver frequentato l’Accademia Navale di Livorno era riuscito ad essere assegnato alla prestigiosa specialità sommergibilista, probabilmente affascinato dall’idea di utilizzare un mezzo tecnico nuovo e potente. Il rischio che della vita a bordo di tali imbarcazioni attraeva per il sapore eroico ed eccezionale che dava. L’audacia doveva però trasformarsi in accuratezza, dedizione, spirito di corpo, in quanto la vita a bordo di questi battelli era particolarmente difficile è necessaria di perfetta organizzazione. Il g.m. Gemignani, durante il primo bombardamenti del “Galvani” era riuscito a sopravvivere e a coadiuvare il c.c. Spano, ma una volta in riemerso, preoccupato dalla necessità di distruggere i cifrari di bordo, decise di tornare a bordo.

Scomparve assieme al sommergibile alle 02.17 del 24 giugno 1940. Alla sua memoria venne concessa la Medaglia d’Argento al Valor Militare il 9 dicembre 1950.

    Busto commemorativo del guardiamarina Piero Gemignani.

L’ultima carica. Storia del 14º reggimento Cavalleggeri di Alessandria


La più celebre carica di cavalleria del secondo conflitto mondiale è sicuramente quella effettuata dal Savoia Cavalleria a Isbuschenskij, nelle steppe russe, il 24 agosto 1942. L’importanza del fatto d’armi ebbe un valore sia psicologico, riuscendo a rompere l’accerchiamento che i russi stavano effettuando attorno alle truppe italiane, che militare, rallentando l’avanzata sovietica scattata con la controffensiva del 20 agosto precedente. In questo senso è l’ultimo fatto d’armi che ha visto una “carica di cavalleria” nel senso classico del termine con effetti così rilevanti contro un esercito formato da truppe regolari. Molti ignorano però che il Regio Esercito Italiano poté vantare l’ultima carica di cavalleria della storia militare moderna con quella che si consumò il 17 ottobre 1942, a Poloj (oggi Sluny), sul confine croato-bosniaco

Carica.di.Isbuscenskij

L’episodio si contestualizza nel periodo di occupazione italo-tedesco della penisola balcanica, teatro di guerra particolarmente sanguinoso e ignorato dalla storiografia italiana. Durante i mesi della guerra partigiana tra combattenti jugoslavi di Tito e le truppe nazi-fasciste supportate dagli Ustascia di Ante Pavelic. Al pari dei serbo-croati e dei nazisti, le truppe regolari italiane si macchiarono di atti violenti contro la popolazione locale, spinti non solo dalla propaganda razzista e anti-comunista, ma da precisi ordini degli alti comandi militari:

“Si sappia bene che eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno mai perseguiti. ”
Dopo l’aggressione dalle forze dell’Asse all’Unione Sovietica (estate 1941) iniziò a farsi sempre più pressante la guerriglia anti-fascista di ispirazione comunista. Questo movimento si organizzò nell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo e col tempo assunse una forza ed un’organizzazione sempre più capillare e decisiva, agendo come una spina nel fianco all’Asse. Sia i tedeschi che gli italiani dovettero impiegare un numero considerevole di reggimenti e divisioni per controllare l’area balcanica, spolpando il fronte sovietico e quello libico.

i Cavalleggeri di Alessandria liberano Trento, 3 novembre 1918

Il 14º Reggimento Cavalleggeri di Alessandria era uno dei reparti italiani presenti nei territori occupati le cui truppe erano prevalentemente a cavallo: il reggimento con la più alta mobilità tra tutti quelli nella zona. Inquadrato nella 1ª Divisione Celere “Eugenio di Savoia, i suoi cavalieri avevano il compito di pattugliare e controllare il territorio croato.
La cavalleria da sempre è stata considerata l’arma nobile per eccellenza, perché solo i più abbienti potevano possedere, mantenere e governare un cavallo, con tutti gli annessi e connessi. Con l’arrivo delle armi da fuoco, l’uso della cavalleria perse gradualmente importanza nella tattica militare, anche se unità di cavalleggeri rimasero inquadrate in tutti gli eserciti, con funzioni appunto di pattugliamento e perlustrazione in virtù delle doti del cavallo.
All’inizio del conflitto l’Italia aveva in organico 17 reggimenti di cavalleria, suddivisi tra cavalleria di linea, lancieri e cavalleggeri. Una numero così ampio di cavalieri era sinonimo anche dello scarso progresso di tecnologia e motorizzazione che il Regio Esercito aveva avuto nel periodo intercorrente fra le due guerre.
Il ciclo di azioni che vide la realizzazione della carica ebbe inizio il 1 ottobre 1942. L’obbiettivo che la 1ª Divisione Celere doveva portare a termine era di “ricacciare davanti a loro le formazioni ribelli segnalate nella zona di Perjasica, quartier generale delle più forti bande partigiane ”. L’operazione si doveva svolgere in tre fasi distinte in modo da spezzare la resistenza nella zona ed eliminare le forze partigiane della “Udarne brigade” (Brigata d’assalto) croata.
Nonostante le difficoltà incontrate durante il periodo di ricognizioni le forze italiane non si trovarono di fronte una resistenza troppo accanita. Le formazioni ribelli, difatti, seguirono da lontano i movimenti della colonna italiana, impegnandola in piccoli scontri e tentando di capirne i piani.
Il 17 ottobre, nel corso di un’ennesima ricognizione nell’area di Korana , la formazione venne colpita fin dal mattino di ripetuti attacchi con armi leggere da parte di forze partigiane. Vista la difficoltà di manovra con i cavalli, ed il pericolo di un nemico forte sia dal punto di vista militare che psicologico, il comandante del reggimento, Col. Antonio Ajmone Cat, valutata la situazione e l’approssimarsi del buio, decise di attestarsi a difesa su alcune modeste alture per conseguire un vantaggio tattico e costringere il nemico a scoprirsi. Il caso volle che alla colonna del col. Cat si fosse aggiunto il gen. Mario Federico Mazza, vicecomandante della Divisione, che, d’accordo con il gen. Cesare Lomaglio, comandante della Divisione, ordinarono di proseguire verso Primislje, nonostante l’operazione apparisse rischiosa a causa dell’oscurità.

Alle 18.30 iniziarono a muoversi, ma dopo pochi chilometri furono attaccati nuovamente da un violento fuoco di armi automatiche e di bombe a mano. Nelle ripetute cariche era andato perso lo stendardo: al mattino seguente il capitano Fabio Martucci comandante dello squadrone mitraglieri con il suo attendente Morgan Ferrari lo ritrova impigliato al ramo di un albero e lo recupera.
Le perdite della giornata furono di 2 ufficiali dispersi, deceduti ma i cui corpi non poterono essere recuperati, 1 ufficiale morto, 5 feriti, 10 morti, 56 feriti e 50 dispersi fra sottufficiali e cavalleggeri. I cavalli perduti furono 109, i feriti 60. Non si hanno notizie precise delle perdite dei partigiani jugoslavi, che però sarebbero ammontate da oltre un centinaio. Il 18 e 19 ottobre il reggimento sostò a Perjasica, a disposizione del comando Divisione “Lombardia”.

Già all’indomani della battaglia c’era, negli alti comandi italiani, la voglia di cancellare l’episodio. Alcuni reduci ricordano il discorso tenuto dal gen. Mario Roatta davanti ai cavalleggeri schierati:

“Al mio superiore vaglio gli ordini impartiti sono risultati illuminati. Si cancelli ogni cosa dalle vostre memorie, rimanga quello che passerà alla storia con il nome di carica di Poloj”.

A quelle parole, però, il comandante del reggimento, il colonnello Antonio Ajmone Cat, esplose:

Che dirò a tante madri? Che un ordine pazzo ha stroncato la vita delle proprie creature?”. Roatta voltò le spalle e tacque.

L’inettitudine dei generali Lomaglio e Mazza venne prontamente taciuta, non tanto per non screditare i due alti ufficiali, ma per non far trapelare quella che era la generale impreparazione di tutto il sistema militare italiano. Ironia della sorte il col. Ajmone Cat venne invece allontanato dal comando e privato di un qualsiasi riconoscimento ufficiale. Il contesto della guerra partigiana e dell’occupazione italiana dei Balcani non aiutarono certo a rendere il giusto merito alla vicenda nel dopoguerra, facendo si che tutta la vicenda venisse pressoché dimenticata.
Il reggimento è stato sciolto il 30 giugno 1979 senza aver mai ricevuto una ricompensa allo stendardo per i fatti dell’ottobre 1942.

 

 

Bibliografia:

Raffaele Arcella, L’ultima carica. Dolnij Poloj 17 ottobre 1942, ed. Bonanno, 2009
Antonio Poma, L’ultima carica della cavalleria italiana, ed. Busseto Palazzolo
Elena A. Rossi, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, ed Il Mulino

Il caso Bellomo, l’unico processo italiano per crimini di guerra nel secondo dopoguerra

La vicenda di cui voglio parlare è stata ignorata a lungo dalla storiografia militare italiana nel secondo dopoguerra.

Sto parlando del caso “Bellomo“, unico processo istruito dagli organi Alleati, all’indomani della Liberazione, contro un alto ufficiale dell’esercito italiano considerato colpevole di crimini di guerra. La torbida vicenda che vide messo alla sbarra il generale di divisione Nicola Bellomo si consumò in un arco di tempo relativamente breve, ma denso di eventi, che influenzeranno più o meno indirettamente il caso ed il relativo processo.

La storia del generale era pressoché quella classica di un qualsiasi ufficiale di carriera del Regio Esercito Italiano.

Nato a Bari il 2 febbraio 1881, dopo il diploma tecnico scelse la via militare conseguendo, presso la scuola d’applicazione di Torino, il grado di tenente d’artiglieria nel 1904. Durante la Grande Guerra dette prova di capacità tecnica e logistica, ottenendo un doppio avanzamento di grado, una medaglia d’argento al valore militare e la croce di cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia. I suoi rapporti col Fascismo furono abbastanza turbolenti. Dopo la Marcia di Roma non dimostrò un eccessivo entusiasmo verso Mussolini, mantenendo un posizione di distacco e di dedizione esclusiva al lavoro. In ragione di questa condotta fu scavalcato continuamente nelle promozioni di grado per anzianità, decidendosi solo nel giugno 1933 a fare formale richiesta per la tessera del partito.

Con legge del 7/6/1933 diveniva infatti necessaria l’iscrizione al P.N.F. dei militari per ottenere qualsiasi promozione e riconoscimento. Nel 1935 la sua promozione ancora languiva, perciò si trovò costretto a far ricorso al Consiglio di Stato che riconobbe la validità delle sue proteste. Ironia della sorte venne posto fuori quadro, cioè fuori dal servizio militare attivo a per ragioni di anzianità. Su di lui pendevano infatti gli attriti che aveva avuto con il generale d’Armata, nonché Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e autore della riforma la quale doveva “fascistizzare” l’esercito, Federico Baistrocchi. La loro disputa era sorta durante i preparativi all’invasione dell’Etiopia, nel 1935. Bellomo, allora capo dell’ufficio Difesa dello Stato Maggiore dell’Esercito, ammetteva la “la difesa contraerei del territorio nazionale, da anni affidata alla Milizia […], era inconsistente[1] nel caso in cui la flotta inglese si fosse mossa contro la Penisola.

Fu richiamato in servizio nei primi mesi del 1941 per esigenze belliche, con il grado di generale di brigata venendo investito dell’incarico di Comandante del Presidio Militare di Bari. Anche in questa ruolo, il generale Bellomo ebbe la possibilità di palesare le sue spiccate doti militari.

L’evento che segno la sua vicenda, e conseguentemente la sua vita, fu la cattura di un gruppo di incursori inglesi che, paracadutatisi nelle campagne nei pressi di Calitri (AV) nella notte tra il 10 e l’11 febbraio 1941, avevano distrutto con cariche esplosive il ponte-canale Tràgino e danneggiato il ponte-canale Ginestra dell’Acquedotto pugliese. Tale azione va contestualizzata in quella che gli inglesi chiamarono “Operazione Colossus”, la prima missione di paracadutisti inglesi sul territorio nemico durante la Seconda Guerra Mondiale. I risultati pratici del raid  furono scarsi, infatti i tecnici dell’Acquedotto Pugliese avendo previsto azioni del genere avevano preparato nei pressi di ogni ponte-canale grosse tubazioni di scorta per poter riparare i danni di un’azione bellica. Il danno fu riparato in due giorni e l’acqua, anche per la presenza di serbatoi nei pressi di tutti gli abitati serviti, mancò alla popolazione pugliese solo per poche ore. Il rifornimento ai porti di Bari, Brindisi, Gallipoli e all’arsenale militare di Taranto e a tutti gli aeroporti pugliesi fu sempre assicurato. Ciò nonostante gli Inglesi affermarono che l’effetto sul morale degli Italiani di un lancio di parà nemici nel cuore della loro terra fosse molto grave.

In tre giorni di ricerche tutti gli uomini del SAS britannico furono catturati, ma il generale decise di incarcerarli piuttosto che procedere alla loro esecuzione sommaria in quanto agenti sabotatori nemici infiltrati nel  territorio di sua competenza. Ciò attirò su di se le critiche dei segretari del partito delle federazioni dove si era svolta l’operazione, in quanto aveva rifiutato l’appoggio dei fascisti locali. Dopo il 25 luglio 1943 rimase al proprio posto di comando e per la fedeltà dimostrata nei confronti della Corona venne nominato capo della commissione di scioglimento della M.V.S.N. con il compito di assorbire nel Regio Esercito quei militi che non si fossero macchiati di gravi colpe. In tale ruolo fu tempestato da lettere anonime e accuse verso gli ex appartenenti alla milizia e agli organi del Partito, con richieste di vendetta verso coloro che avevano rappresentato il Duce nella provincia barese per un ventennio.

Il 9 settembre il generale Bellomo venne fortuitamente a conoscenza della notizia che il generale tedesco Sikenius aveva mandato dei guastatori per distruggere le principali infrastrutture portuali della città pugliese. Bellomo raccolse alcuni nuclei di militari italiani presso la caserma della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e della Guardia di Finanza. A questi si affiancarono i genieri  guidati dal sottotenente Michele Chicchi, e con questo nucleo di uomini attaccò i guastatori tedeschi che avevano già preso posizione nei punti nevralgici della grande struttura. Costretti sulla difensiva, i tedeschi furono obbligati ad una ritirata da due attacchi e infine alla resa. Bellomo partecipò in prima persona agli scontri, venendo anche ferito e . Ritiratisi i tedeschi, gli inglesi poterono successivamente sbarcare a Bari in completa sicurezza, usufruendo di infrastrutture portuali pienamente efficienti utili a proseguire la Campagna d’Italia e supportare l’appoggio dei partigiani greci e jugoslavi.

Il Generale Bellomo mantenne la sua carica fino al 28 gennaio 1944, quando la polizia militare britannica lo arrestò nel suo ufficio “per aver sparato o fatto sparare contro due ufficiali britannici, causando la morte di uno di essi e il ferimento dell’altro”.

Al momento dell’arresto, non esistevano a carico del generale elementi precisi in mano agli inquirenti inglesi. Su Bellomo gravitavano però gli interessi, soprattutto da parte degli ufficiali Generali che erano accorsi dall’Italia meridionale a dichiarare fedeltà a Badoglio e al cosiddetto “Regno del Sud”, di eliminare un personaggio scomodo che non si era colluso col Fascismo e aveva avuto modo di vedere con mano i loschi traffici che si svolgevano negli ambienti militari prima, e durante, la guerra. Inoltre non poté fare a mano di osservare il comportamento dei suoi superiori gen. di C. A. Roberto Lerici e gen. di Div. Giovanni Caruso, i quali avevano mantenuto un profilo dubbio nei giorni dell’Armistizio.

Bellomo venne accusato di aver preso parte “e istigato” l’uccisione del prigioniero cap. G. Playne e la tentata uccisone del tenente R.R. Cooke. I due erano stati catturati in seguito al fallimento dell’operazione del febbraio 1941, ma avevano tentato la fuga dal campo di prigionia il 30 novembre del medesimo anno. Durante una colluttazione un colpo di arma da fuoco uccise Playne e ferì Cooke, il quale sopravvisse.

Solo il 5 giugno 1945, cioè diciotto mesi dopo l’incarcerazione, il tenente, promosso nel frattempo a capitano, Roy Roston Cooke presentò una denuncia scritta e circostanziata contro il generale stesso, il quale, nel frattempo, era stato più volte trasferito tra i campi di concentramento alleati di Grumo Appula, di Padula e di Afragola.

Il 14 luglio 1945 gli fu comunicato il deferimento dinnanzi alla Corte Marziale e accusato di aver sparato con la propria Colt Pocket contro i due ufficiali inglesi. Lo stesso Bellomo ricostruì così gli avvenimenti:

Io ordinai alla scorta di fare fuoco soltanto quando mi accorsi che i due prigionieri si erano fermati per scattare in avanti. Il capitano Playne avanzò per primo, seguito a breve distanza dal tenente Cooke. Allora ebbi la certezza che volessero tentare la fuga. Io non sparai: non perché non avessi la volontà di farlo, ma perché avevo dimenticato di abbassare la sicura e la pistola non funzionò. Comunque lo ripeto ancora una volta: se ci fossero responsabilità, queste sarebbero solo mie perché io ero generale, tutti gli altri erano miei subordinati, ubbidivano soltanto ai miei ordini[2]

La Corte, il 28 luglio 1945, dopo poco più di un’ora di camera di consiglio pronunciò la sentenza di condanna a morte, eseguita mediante fucilazione presso il carcere di Nisida.

La vicenda dimostrò subito la sua difficile comprensione e le macchinazioni che si consumarono dietro di essa. La stessa corte marziale inglese agì in maniera assai poco legale, rifiutando test e documenti che scagionavano l’operato di Bellomo e prendendo invece per vere le testimonianze contraddittorie sia di Cooke che dei militari italiani presenti al fatto. Le testimonianze di questi ultimi personaggi furono assai controverse, contrastanti è più volte ritrattate e modificate. Apparve chiaro che il processo era stato istruito con un esito scontato di condanna del generale, nel tentativo di eliminare una figura scomoda per l’esercito combelligerante del Sud. Gli inglesi furono esecutori materiali del fatto, ma la condanna a morte di Bellomo venne decisa anche nel salotto di Badoglio. I documenti che avrebbero scagionato l’ufficiale, tutti in mano italiano, venne dichiarati non dispersi e non visibili alla Corte Marziale, e le testimonianze di alcuni ufficiali italiani dichiarate nulle o impossibili da prendere in considerazione.

Bellomo fu uno dei pochi ufficiali generali italiani che, di propria iniziativa, si mosse subito dopo la notizia dell’Armistizio contro i tedeschi. A suo malgrado, attraverso la  difesa del porto e della città di Bari, si trovò al centro degli intrighi che avevano portato il re e Badoglio alla fuga nottetempo sul Baionetta alla volta di Brindisi, rappresentando l’altra faccia della medaglia dell’Esercito Italiano nei fatti di quei giorni.

Gli fu riconosciuta una medaglia d’Argento al valor militare per i fatti del settembre 1943, ma ad oggi non è stata ancora realizzata nessun processo riabilitativo verso un ufficiale che pagò  per le colpe dei propri superiori.

 

Bibliografia:

Fiorella Bianco, “Il caso Bellomo” , ed. Mursia
ANPI sez. Brindisi
Ivan Palermo, “Il caso Bellomo”, su Storia illustrata n° 157, Dicembre 1970
[1] Lettere del gen.Bellomo all’Alto Commissario per l’Epurazione Carlo Scorza del 18/08/1944
[2] Testimonianza del gen. Bellomo durante il processo

Exit mobile version