Paolo Thaon di Revel, il Duca del Mare della marina militare Italiana

Paolo Thaon di Revel fu un militare e politico italiano. Primo ed unico Grande Ammiraglio nella storia della marina militare italiana

Paolo Thaon di Revel (1859-1948) al secolo Paolo Camillo Margherita Giuseppe Maria Thaon di Revel, è stato uno dei grandi protagonisti della storia militare del regno d’Italia, fu infatti il primo, ed unico, uomo a ricevere, nel maggio del 1924 il titolo di Duca del mare ed è stato anche l’unico ammiraglio, in tutta la storia della marina italiana, monarchica e repubblicana, ad essere promosso al titolo onorifico di Grande Ammiraglio nel novembre del 1924.

Il motivo per cui Paolo Thaon di Revel nel 1924 ottenne queste onorificenze è principalmente politico, l’Italia, più precisamente l’Italia fascista, stava cercando di costruire una propria “mitologia” legata alla prima guerra mondiale, concedendo onorificenze e riconoscimenti a coloro che, durante e dopo il conflitto, si erano distinti in modo particolare, e Paolo Thaon di Revel era, agli occhi dei fascisti, l’eroe che a Parigi si era battuto per il rispetto del patto di Londra, de facto un precursore della teoria della vittoria mutilata, ma a parte questo.

La grande guerra di Thaon di Revel

Quando inizia la grande guerra, nel 1915 Thaon di Revel era capo di stato maggiore, tuttavia, in seguito a diverse controversie con l’allora comandante in capo dell’armata, il vice ammiraglio Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, Duca degli Abruzzi, Thaon di Revel rassegnò le proprie dimissioni al re Vittorio Emanele III al quale sembra si presentò con le seguenti parole

«Maestà devo combattere e guardarmi dagli austriaci, dagli Alleati e dagli ammiragli italiani. Le assicuro che i primi mi danno meno da fare degli altri due».

Non più capo di stato maggiore, Revel ottenne la nomina di comandante in capo del dipartimento militare marittimo di Venezia, dove, con grande lungimiranza, promosse l’utilizzo massiccio di nuove tecnologie belliche, come treni armati e motoscafi armati siluranti, più noti come MAS, praticamente dei mezzi d’incursione marittima, molto agili e veloci. Fu inoltre un grande sostenitore della teoria della supremazia dell’aria, promuovendo il potenziamento dell’aviazione nautica, precursore dell’aereonautica militare italiana.

Questo è un treno armato

Finita la guerra Revel partecipa, insieme al ministro degli esteri Sonnino, in qualità di delegato navale, alla conferenza di Parigi, dove difese i “diritti italiani sulla Dalmazia” e chiese il rispetto del Patto di Londra. La sua battaglia politica a Parigi fu molto apprezzata dai futuri sostenitori della teoria della vittoria mutilata.

Dal ministero della guerra alle controversie con Mussolini

Nel 1922 entrò a far parte del primo governo Mussolini, come Ministro della regia Marina e, insieme al generale Pietro Armando Diaz (Ministro della guerra) e di Giovanni Gronchi, futuro presidente della repubblica, in quel momento, Sottosegretario al Ministero dell’Industria e del Commercio, rappresentava uno degli uomini di fiducia del Re nel “primo governo nazionale”.

Durante il proprio mandato da ministro, Revel promosse la costruzione di due velieri da utilizzare come nave scuola, la Cristoforo Colombo e la Amerigo Vespucci, la prima venne ceduta, dopo la fine della seconda guerra mondiale, all’Unione Sovietica come parte dei pagamenti bellici, la seconda invece è ancora in servizio come nave scuola per la Marina militare italiana.

Revel era uomo di mistica fede monarchica, discendente di un’antica famiglia nobiliare molto vicina alla casa sabauda, e, sul piano politico, la propria fede nella monarchia non cessò mai di esistere, neanche di fronte ai tentativi di persuasione di Mussolini, con il quale, durante il proprio mandato di Ministro della Marina, si scontrò in diverse occasioni, al punto che, nel maggio del 1925, di fronte all’ennesima controversia, non condividendo la riforma dell’ordinamento militare che istituiva un comando supremo di tutte le forze armate, de facto subordinava la Marina all’esercito, Revel, che da tempo chiedeva un sistema di coordinamento delle forze armate, rassegnò nuovamente le proprie dimissioni dal ruolo di capo di stato maggiore.

Revel, un eroe “antifascista” del fascismo.

Durante la seconda guerra mondiale Revel partecipò come uomo di fiducia del Re agli incontri settimanali che si tenevano ogni giovedì al Quirinale, tuttavia sembra che non venne coinvolto direttamente nei negoziati per l’Armistizio probabilmente perché ormai già molto anziano.

Anche se per la propaganda mussoliniana Revel era un “eroe del fascismo” , quando Mussolini, tradì il re e promosse una secessione italiana fondando la RSI, Thaon di Revel rimase fedele alla casa reale rifiutando di aderire alla RSI. La sua inesauribile fede nella monarchia venne “premiata” con la nomina, a presidente del senato e successivamente entrò, in seguito all’abdicazione di Vittorio Emanuele III, entrò a far parte della cerchia ristretta di consiglieri di re Umberto II.

In vista del referendum del giugno del 46, Revel si schierò, per ovvie ragioni, a favore del blocco monarchico, successivamente, con l’avvento della repubblica, Paolo Thaon di Revel si ritirò a vita privata, per poi morire nel 1948 alla veneranda età di 89 anni.

Qualche informazione sulla famiglia Thaon di Revel

La storia di Paolo Thaon di Revel rappresenta solo l’ultimo capitolo della storia di una delle antiche famiglie nobiliari italiane, una famiglia che ha giocato un ruolo importantissimo nella storia italiana, nella storia del regno d’Italia e soprattutto, nella storia della dinastia Sabauda.

Fin dal loro arrivo in Piemonte, avvenuto nel XV secolo, i Thaon, poi Thaon di Revel al seguito della nomina sabauda a signori di Revel, hanno sempre guardato le spalle ai Savoia, furono proprio loro ad elevare i Thaon, da signori della guerra a capo di una compagnia di ventura, al rango nobiliare, prima come signori di Revel e poi come Marchesi, Conti e Duchi.

Per secoli i Revel sono stati dei fedeli servitori e protettori della dinastia sabauda, una piccola ma tenace casa nobiliare italo francese e la loro vicinanza alla casa di Savoia proiettò i Thaon di Revel nel vivo del risorgimento italiano.
Ottavio Thaon di Revel, padre di Paolo Thaon di Revel, fu uno dei più stretti collaboratori e consiglieri di Carlo Alberto di Savoia, fu deputato del regno di sardegna ininterrottamente tra la prima e la sesta legislatura e fu senatore del regno d’Italia, inoltre, nel 1848 fu Ministro delle finanze del regno di Sardegna, sotto i tre governi Bolbo, Alfieri di Sostegno e San Martino che si susseguirono in quell’anno, ma non solo. Sempre nel 1848, Ottavio Thaon di Revel, fu cofirmatario dello Statuto Albertino, la prima “costituzione” italiana, rimasta in vigore fino all’entrata in vigore della costituzione repubblicana.

Bibliografia

Scheda senatore Paolo Thaon di Revel
Grandammiraglio Paolo Thaon di Revel
Patto di Londra su JSTOR

Il primo bombardamento aereo della Storia

1 novembre 1911, l’italia era nel vivo della guerra italo turca, e Giulio Gavotti, un aviatore italiano, in questa data alle prime luci dell’alba partì a bordo del proprio monoplano Etrich Taube, un monoplano di fattura tedesca, ufficialmente per un operazione di ricognizione che, per iniziativa individuale dell’aviatore, si trasformò nel primo bombardamento aereo della storia.

Va detto che, prima del 1911 i dirigibili erano già stati utilizzati per operazioni offensive, e quindi c’erano già stati dei “bombardamenti aerei” tuttavia, nel 1911 , per la prima volta, l’offensiva fu portata a termine da un aereo-plano e non da un dirigibile, ed è proprio l’uso dell’aereo-plano l’elemento di novità che avrebbe cambiato per sempre il volto della guerra, segnando un punto di non ritorno nelle operazioni belliche.

Del bombardamento aereo del 1911 durante la guerra italo turca abbiamo molte informazioni e numerose fonti, una in particolare ci permette di ricostruire quei momenti, attraverso la testimonianza diretta di Giulio Gavotti, all’epoca un semplice aviere che da poco aveva terminato il corso di allievo ufficiale a Torino con il 5º reggimento “Genio Minatori” , dopo questa operazione, la carriera di Gavotti sarebbe decollata portandolo fino al grado di Tenente Colonnello, ma questa è un altra storia.

Il resoconto dettagliato degli avvenimenti del 1 novembre ci viene fornito da Gavotti, oltre che dal rapporto missione ufficiale, anche da una più interessante lettera, indirizzata al padre e che, vista la ricchezza di informazioni sul volo, si presume essere stata scritta nella stessa giornata del 1 novembre 1911. In questa lettera Gavotti scrive.

"Ho deciso di tentare oggi di lanciare delle bombe dall'aeroplano. È la prima volta che si tenta una cosa di questo genere e se riesco sarò contento di essere il primo."

Da queste prime parole possiamo osservare che Gavotti è perfettamente conscio di ciò che sta per fare, il suo obbiettivo è quello di mettersi in mostra con i propri superiori, lui è perfettamente consapevole di ciò che sta per compiere e, a discapito di quello che molti pensano, la sua azione non è stata improvvisata, ma anzi, è stata pianificata, se bene non sia chiarissimo quanti i superiori di Gavotti sapessero effettivamente delle sue intenzioni. Dal rapporto missione emerge una certa ambiguità lessicale, e probabilmente la sua era un operazione clandestina o comunque.

Il testo della lettera comunque continua dicendo che sarebbe quella mattina del 1 novembre era partito alle prime luci dell’alba “Appena è chiaro sono nel campo. Faccio uscire il mio apparecchio.” Aggiunge poi che, nell’abitacolo, se così lo si può chiamare, ha inchiodato un contenitore in cuoio “Vicino al seggiolino ho inchiodato una cassettina di cuoio; la fascio internamente di ovatta e vi adagio sopra le bombe con precauzione.”

Capiamo, da queste parole che è tutto molto amatoriale, forse troppo amatoriale, tuttavia, risulta strano e poco chiaro, come abbia fatto l’aviere Gavotti ad entrare in possesso di quattro bombe Cipelli. “Queste bombette sono sferiche e pesano circa un chilo e mezzo. Nella cassetta ne ho tre; l’altra la metto nella tasca della giubba di cuoio.” in questo passaggio ci viene data un informazione molto significativa sul tipo di ordigni di cui dispone, si tratta, come anticipato, di tre bombe “Cipelli”, uniche bombe in dotazione al regio esercito nel 1911, di forma sferica ad avere il peso di circa 1,5Kg e, il passaggio successivo ci conferma ulteriormente essere bombe Cipelli, poiché ci dice “In un’altra tasca ho una piccola scatoletta di cartone con entro quattro detonatori al fulminato di mercurio” e, le bombe Cipelli, erano attivate da detonatori esterni che andavano combinati alla bomba perché questa potesse essere innescata, diversamente da altre bombe che invece avevano un detonatore integrato.

Gavotti ci fornisce poi una serie di informazioni più o meno dettagliate sulla propria posizione e sul proprio itinerario “…Arrivo fin sopra la “Sicilia” ancorata a ovest di Tripoli dirimpetto all’oasi di Gurgi poi torno indietro passo sopra la “Brin”, la “Saint Bon” la “Filiberto” sui piroscafi ancorati in rada.”, ma l’informazione più interessante riguarda l’altitudine a cui avrebbe volato, “Quando ho raggiunto 700 metri mi dirigo verso l’interno”

Gavotti ci dice di volare ad un altitudine di circa 700 metri, e che prende quota sul mare per poi seguire il proprio itinerario nell’entroterra, oltre le linee nemiche, questi dati sono molto interessanti perché ci dicono molto sul volo e quello che è in qualche modo lo stato d’animo dell’aviatore, ci comunicano infatti eccitazione ma anche determinazione e tensione, oltre che voglia di riuscire nell’impresa e questo desiderio di successo si traduce nella decisione di volare a bassa quota ovvero a circa 700 metri, probabilmente per riuscire a colpire con maggiore precisione i bersagli.

Un monoplano Etrich Taube dell’epoca, stando alle informazioni tecniche della Igo Etrich, poteva volare fino a 2000 metri di altitudine, ma poteva spingersi anche più in alto e per le operazioni di ricognizione, generalmente era previsto un volo a circa 1500 metri, quasi al limite delle possibilità del Taube.

La lettera continua e da qui in avanti, sembra più un rapporto missione che una lettera informale al padre, Gavotti scrive “Oltrepasso la linea dei nostri avamposti situata sul limitare dell’oasi e mi inoltro sul deserto in direzione di Ain Zara altra piccola oasi dove avevo visto nei giorni precedenti gli accampamenti nemici (circa 2000 uomini).”

Arrivati all’altezza dell’oasi Gavotti si prepara all’azione offensiva “Con una mano tengo il volante, coll’altra sciolgo il corregile che tien chiuso il coperchio della scatola; estraggo una bomba la poso sulle ginocchia.” poi “Cambio mano al volante e con quella libera estraggo un detonatore dalla scatoletta e lo metto in bocca. Richiudo la scatoletta;”

L’azione che ci viene descritta è estremamente cinematografica, è una scena che abbiamo visto in centinaia di film, c’è questo giovane aviatore, solo nei cieli sopra i campi del nemico che con una mano pilota il proprio mezzo aereo e con l’altra, estrae il primo ordigno, lo innesca e guardando fuori dall’aereo-plano cerca di individuare un possibile bersaglio “metto il detonatore nella bomba e guardo abbasso. Sono pronto.”

Gavotti è vicinissimo al nemico, ci dice nella lettera, di trovarsi a circa un chilometro dall’oasi e già riesce ad identificare le sagome delle tende tende arabe, “Vedo due accampamenti vicino a una casa quadrata bianca uno di circa 200 uomini e, l’altro di circa 50.”

Queste informazioni sono per alcuni troppo accurate per la distanza che, secondo la lettera, in quel momento lo separava dal campo, non sappiamo se si tratti di una stima e dunque Gavotti abbia visto gli accampamenti e ipotizzato il numero di uomini che, sulla base della propria esperienza, potevano trovarsi nel campo, o se invece si tratti di un espediente narrativo, volta ad enfatizzare il momento, in fondo, si tratta pur sempre di una lettera al padre e non di un vero e proprio rapporto missione. Nel rapporto missione non vi è alcun riferimento a questo passaggio quasi acrobatico.

In ogni caso, la lettera continua “Poco prima di esservi sopra afferro la bomba colla mano destra; coi denti strappo la chiavetta di sicurezza e butto la bomba fuori dall’ala. Riesco a seguirla coll’occhio per pochi secondi poi scompare. Dopo un momento vedo proprio in mezzo al piccolo attendamento una nuvoletta scura.”

L’azione continua ad essere estremamente cinematografica, vediamo questo pilota che strappa la chiavetta di sicurezza dell’ordigno e lancia fuori dall’abitacolo per poi vederlo svanire, a causa delle piccole dimensioni dell’ordigno e della distanza crescente tra l’ordigno e l’aereoplano, ma poi, ecco che si giunge al momento decisivo, l’ordigno tocca il suolo ed esplode, il pilota vede una nuvola di fumo nero alzarsi dal campo, l’esplosione esalta l’aviatore e allo stesso tempo turba l’equilibrio del campo, che certo non immaginava cosa stava accadendo. Prima d’allora non era mai successo nulla di simile, prima d’allora nessun’aereo da ricognizione aveva mai sganciato bombe.

Il racconto di Gavotti continua e ci dà un altre informazioni, ci dice che nonostante il successo in realtà l’obiettivo a cui aveva mirato è stato mancato, ma ciò nonostante è soddisfatto del risultato e decide quindi di ripetere l’esperimento, lanciando altre bombe “Io veramente avevo mirato il grande ma sono stato fortunato lo stesso; ho colpito giusto. Ripasso parecchie volte e lancio altre due bombe di cui però non riesco a constatare l’effetto. Me ne rimane una ancora che lancio più tardi sull’oasi stessa di Tripoli.”

In questo passaggio Gavotti ci ha ha detto qualcosa che in realtà già conoscevamo, questo tipo di azioni si porta dietro molta imprecisione, Gavotti è stato fortunato, molto fortunato, probabilmente la sua conoscenza delle leggi della fisica gli hanno permesso di stimare e calcolare ad occhio il momento esatto in cui lanciare l’ordigno affinché questo potesse avvicinarsi il più possibile al bersaglio.

Conoscendo infatti l’altezza, la velocità e la direzione dell’aereo, per un ingegnere con una formazione da aviatore non doveva essere troppo difficile calcolare la traiettoria del lancio, e il caso volle che Gavotti fosse proprio un ingegnere con una formazione da aviatore e probabilmente questa stessa azione, portata avanti da un qualsiasi altro aviere, non avrebbe avuto lo stesso risultato.

Queste fortuite coincidenze non sappiamo quanto siano fortuite e quanto siano coincidenze, per quanto ne sappiamo, l’intera operazione fu un azione individuale, ma possiamo immaginare che forse, Gavotti fu scelto, proprio per l’insieme delle proprie esperienze, come campione ideale per questo test.

Dalla lettera al padre Gavotti appare molto soddisfatto del successo ottenuto e ansioso di riferire l’esito dell’operazione ai propri superiori “Scendo molto contento del risultato ottenuto. Vado subito alla divisione a riferire e poi dal Governatore gen. Caneva. Tutti si dimostrano assai soddisfatti”

Le ultime parole della lettera sono molto particolare ed interessante, se si trattasse di un iniziativa individuale Gavotti sarebbe colpevole di aver rubato degli ordigni, di aver portato avanti un azione offensiva senza autorizzazione e di aver messo a rischio un aereo del regio esercito, tutti fattori che lo avrebbero portato di fronte alla corte marziale, ma noi sappiamo che Gavotti venne celebrato come eroe di quella guerra e che ricevette, per le proprie azioni, una medaglia d’argento per il valore militare, e questo ci fa supporre che, nonostante non esistano ordini scritti, questa operazione fu autorizzata dall’alto.Album dei Pionieri della Aviazione italiana, Roma 1982 Stampato presso Tipolitografia della Scuola di Applicazione A.M. – FI 1982.

Gli sports meccanici, Roma, 15 maggio 1933;
G. Dicorato, G. Bignozzi, B. Catalanotto, C. Falessi, Storia dell’Aviazione, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1973.
R.G. Grant, (ed. italiana a cura di R. Niccoli), Il volo – 100 anni di aviazione, Novara, DeAgostini, 2003,

I sette migliori generali di Napoleone Bonaparte

Chi furono i sette migliori generali di Napoleone Bonaparte?

Stavo cercando un modo diverso per parlare di Napoleone, ed mi sono detto, quale modo migliore per parlare di Napoleone, senza parlare di Napoleone, se non attraverso gli uomini e le donne che hanno reso grande il minuto generale francese?

Pensando che fosse una buona idea ho cominciato a cercare del materiale sui suoi generali e mi sono imbattuto in una striminzita classifica di quelli che sono i suoi migliori generali, e mi sono detto, perché non partire da lì, da questo elenco di nomi, per raccontare l’esercito di napoleone visto dal dietro le quinte?

I generali che seguirono Napoleone furono tutti eccezionali, la “Grande Armée“, l’esercito napoleonico, a differenza di un qualsiasi altro esercito europeo di inizio XIX secolo, era guidato da generali fuori dal comune, uomini che si erano distinti sul campo di battaglia e che arrivarono alla testa degli eserciti per merito e non per diritto di nascita. Detto molto semplicemente, Napoleone non avrebbe mai affidato il comando dell’esercito al nipote di suo cugino, o al principe ereditario di poggibonsi, come invece facevano , almeno inizialmente, i suoi nemici.

Ad Austerlitz, la Grande Armée ha ragione dei propri nemici, proprio perché, tra le altre cose, i suoi generali erano abili strateghi che si erano formati sul campo di battaglia, mentre, dall’altra parte, ad avere l’ultima parola sulle scelte strategiche da compiere, tra gli altri, c’era il principe Alessandro I di Russia, che, se bene avesse studiato tecniche e strategie e probabilmente aveva una conoscenza teorica di gran lunga superiore a quella degli uomini di Napoleone, all’atto pratico non aveva mai combattuto, non sapeva cosa significasse cavalcare nel fango sotto i colpi d’artiglieria del nemico e non sapeva cosa significasse vedere il proprio compagno morirgli tra le braccia, annegato dal proprio sangue che lentamente gli riempiva i polmoni.

Napoleone, va detto, aveva un rapporto speciale con i propri generali, non propriamente definibile un rapporto di fiducia quanto di stima e di rispetto.

Napoleone sa che non può fidarsi di nessuno, sa perfettamente che i suoi generali lo servono fedelmente e con efficienza soltanto per il ritorno, in termini economici, politici e di prestigio, che ne hanno, e sa perfettamente che se le cose dovessero mettersi male, potrebbe ritrovarseli tutti contro, ma sa anche che quegli uomini sono dei soldati, sa che hanno un codice d’onore e sa che finché lui avrebbe tenuto fede alla parola data, loro, i suoi generali, avrebbero fatto altrettanto.

Nelle prossime sette settimane quindi, partiremo da qui, da questa dimensione di stima e diffidenza, di lealtà ed opportunismo, di carisma e fredde decisione, per guardare più da vicino, i sette migliori generali di napoleone.

Sono sette e non cinque, dieci, quindici o venti, semplicemente per una questione di tempi, e di liste precompilate, come vi anticipavo, partirò da una “classifica” che non ho elaborato io, in cui si parlava dei cinque migliori generali di Napoleone, lista alla quale ho voluto aggiungere di mia iniziativa altri due nomi, che a mio avviso meritano di essere citati.

Questi generali che ora andrò a presentarvi e che approfondiremo nelle prossime settimane, sono i “migliori” non in termini assoluti, anche perché stabilire chi è stato il migliore credo sia impossibile, tuttavia, sono i “migliori” sulla base di una semplice questione statistica, ovvero, sono i generali che hanno conseguito quelle che sono state le più grandi, inaspettate e importanti vittorie della Grand Armée.

Per intenderci, parliamo dei generali di Napoleone che hanno avuto ragione dei propri nemici ad Austerliz, Eylau, Jena, Hamburgo, Ulm, Valencia, Zaragoza, Zurigo, ecc ecc.

Il primo generale da citare è Michel Ney, detto il coraggioso, Ney è uno dei due generali che ho aggiunto io alla lista, perché è uno dei pochissimi generale di Napoleone, ad aver conseguito una vittoria significativa durante la fase di ritirata dalla Russia nel 1812. Mentre gli altri generali si ritiravano causa freddo e fame, Ney, insieme ai suoi uomini assediava e conquistava Smolensk.

Ma di Ney, che fu definito dai contemporanei come il più coraggioso tra i coraggiosi, e di cui Napoleone disse essere “indispensabile” sul campo di battaglia, parleremo la prossima settimana.

Ney guida le truppe alla conquista di Kowno in un dipinto di Denis-Auguste-Marie Raffet conservato al Museo del Louvre

Il secondo generale da citare in questa veloce rassegna di apertura, è Nicolas Jean-de-Dieu Soult che Napoleone definì “il miglior manovriero d’Europa”. Stando ai resoconti, Soult fu determinante nella vittoria bonapartista sia ad Austerlitz che a Jena, e sembra che proprio dopo Austerlitz, sia entrato nelle grazie dell’Imperatore, anche se comunque già in quell’occasione aveva servito come Generale.

Il maresciallo Soult discende, sotto gli occhi di Napoleone Bonaparte, dal colle dello Zurlan per prendere il comando dei suoi uomini all’inizio della battaglia di Austerlitz e guidare l’assalto all’altopiano del Pratzen

Il terzo generale di cui parleremo è Louis Alexandre Berthier, lui è uno dei pochissimi “figli d’arte” che incontriamo tra gli alti ranghi dell’esercito di napoleone. Berthier era figlio del tenente colonnello Jean Baptiste Berthier del corpo degli ingegneri topografici. Luis Alexander va detto che non fu l’unico Berthier a diventare un generale di Napoleone, ben tre dei suoi cinque fratelli infatti ascesero al rango di generale sotto napoleone, e qualcuno potrebbe giustamente mettere in discussione ciò che dicevamo in apertura a proposito della carriera meritocratica nella Grande Armée, se non fosse che i fratelli Berthier avevano dimostrato il proprio valore e le proprie capacità sul campo, durante la rivoluzione e servendo sotto Lunkor e La Fayette, in particolare Louis Alexandre Berthier era stato capo dello stato maggiore di Lunkor e La Fayette, ed aveva combattuto fianco a fianco, spalla a spalla, con il giovane Bonaparte.

Louis Alexandre Berthier e due dei suoi fratelli, durante una battaglia della campagna d’italia, dipinto di Louis-Francois Lejeune

Louis Gabriel Suchet, è l’altro generale che ho inserito io nella lista, lui era un uomo totalmente alieno al mondo militare, era figlio di setaioli ed è l’esempio più iconico di soldato che fa carriera sul campo, fino a diventare generale. Suchet era un volontario nell’armata repubblicana, e nel 1793 venne promosso sul campo, al rango di Tenente Colonnello, da un suo superiore che in quel momento aveva bisogno di un tenente colonnello di cui il 4 battaglione disponeva e quella che fu quasi una promozione fortuita, segnò l’inizio della carriera di un generale che si sarebbe fatto valere soprattutto in spagna, per intenderci Suchet è uno dei comandanti durante l’assedio di Tolone e durante la battaglia di Valencia. Lui è un uomo che passerà l’intera sua vita negli accampamenti e sul campo di battaglia e per questo, purtroppo, di lui ci sono giunti per lo più ritratti a matita di autori anonimi o sconosciuti.

Ritratto a matita di Louis Gabriel Suchet, realizzato sul campo, autore sconosciuto

Andrea Massena è un generale italico che servì napoleone soprattutto in italia, fu notato dal futuro imperatore soprattutto per la sua intraprendenza, elemento che in un armata “tradizionale” lo avrebbe penalizzato e probabilmente sottoposto a numerose punizioni per insubordinazione, ma per Napoleone i suoi successi e la sua fedeltà alla causa bonapartista, furono sufficienti a perdonare le iniziative della testa calda italica. Purtroppo per lui, quella stessa intraprendenza che gli aveva permesso di scalare i ranghi, fu anche la causa della sua caduta, così, dopo un sonoro fallimento in Portogallo nel 1810, la sua carriera militare, finì prematuramente e fu costretto a ritirarsi a vita privata, almeno fino al 1817, anno della sua morte.

Il generale Massena guida le sue truppe alla seconda battaglia di Zurigo, dipinto di François Bouchot .

Jean Lannes come Louis Gabriel Suchet prima di lui, è un eccellente esempio di brillante generale che non aveva nulla a che vedere con la vita militare.
Lannes era figlio di tintori e iniziala propria carriera militare come volontario della Guardia Nazionale francese, e di lui ci sarebbe così tanto, troppo, da dire. In questa sede mi limiterò a citare i suoi soprannomi, “L’Orlando dell’Armata d’Italia” e “L’Achille della Grande Armata“.
Sono due soprannomi importanti, autorevoli, che fanno riferimento alla letteratura classica e l’epica cavalleresca, e non è un caso, ma di questo ne parleremo meglio nel post dedicato a Lannes.

La battaglia di Fombio, di Giuseppe Pietro. Lannes fu uno dei comandanti francesi durante questa battaglia in italia.

Arriviamo a quello che i libri di storia annoverano come il miglior generale di Napoleone Bonaparte, ovvero Louis Nicolas Davout.
Credo che non serva specificare che quest’uomo era un generale infallibile, si dice che non abbia mai perso una battaglia, o comunque che non subì mai una sconfitta troppo dolorosa, e che dove lui combatteva la francia avrebbe trovato una vittoria.
Davout è il generale che intervenne ad Eylau nel 1807 quando ormai sembrava tutto perduto e riuscì a trasformare una certa sconfitta in una sorta di pareggio, che è considerato da molti come un incredibile successo visto l’inizio disastroso dello scontro.

Ritratto di Davout, Pierre Gautherot

Questi sono quelli che i libri di storia ricordano come alcuni dei più grandi e importanti generali di Napoleone Bonaparte, da questa prima, superficiale introduzione, abbiamo già avuto un assaggio di quanto questi uomini siano stati straordinari e come, il loro ruolo nella storia, sconosciuto ai più è stato in realtà determinante per la consacrazione dell’imperatore Francese.
Napoleone probabilmente non sarebbe nulla senza i suoi generali, e come questi stessi generali ci hanno insegnato, loro stessi non sarebbero stati nulla, senza gli uomini che li seguivano, uomini che, nella maggior parte dei casi erano volontari, figli di contadini, mugnai, fabbri, tintori, e che, si erano arruolati nella Grande Armée, spinti dal sogno di libertà e dalla promessa che forse, un giorno, sarebbero diventati grandi e potenti, come alcuni di quei generali, che certo non venivano da nobili famiglie.

Uomini come Davout hanno contribuito a consegnare a Napoleone importanti vittorie, ma allo stesso tempo, uomini come Lannes, hanno contribuito a consegnare a Napoleone un immenso esercito, con cui, Lannes, Davout e lo stesso Napoleone avrebbero potuto conquistare l’Europa.

Ed è importante sottolineare e ricordare che il modello a cui ambivano i volontari di napoleone, l’uomo con cui si immedesimavano, non era l’imperatore che comunque veniva da una buona famiglia, ma erano uomini come Lannes e Suchet, di fatto uomini comuni che avevano raggiunto il potere solo grazie alle proprie capacità.

Marina e ammiragli di Mussolini intervista a Fabio De Ninno

Questa settimana ho deciso di intervistare  Fabio De Ninno,  autore   di un libro uscito da poche settimane Fascisti sul Mare ( Laterza, 2017).

È da qualche anno che non uscivano pubblicazioni sulle forze armate italiane durante il fascismo. Quali nuove fonti lei ha potuto utilizzare?

In Italia, soprattutto per il periodo fascista, spesso si è fatta la storia navale pensando che fosse la storia delle navi, credendo che questa offrisse il livello di comprensione della politica navale. Invece, in entrambi i casi, ho voluto approfondire l’utilizzo di documentazione riferita al livello politico dell’istituzione, quello del ministro/sottosegretario e degli organi ad esso connessi che determinavano la politica navale attraverso i rapporti con il governo fascista, per evidenziarne la profondità, finora poco esplorata, della relazione regime-marina e come determinò lo sviluppo dell’istituzione e quindi la politica navale. In sostanza, oltre all’orginalità delle fonti è stato importante l’approccio metodologico, diverso dai lavori precedenti sulla marina.

La mia ricerca ha fatto riferimento soprattutto alla documentazione riguardante Regia marina custodita presso l’Archivio dell’Ufficio storico della Marina Militare e l’Archivio centrale dello stato di Roma. Si tratta in entrambi i casi di fondi enormi mai del tutto esplorati: l’archivio della Marina Militare è uno dei più vasti del mondo, tra quelli relativi al suo genere, ed è perfettamente conservato, grazie al lavoro dell’istituzione, ma forse poco esplorato da parte della letteratura scientifica.

Di conseguenza, ho utilizzato frequentemente documentazione del gabinetto del ministro, per comprendere i rapporti con le altre istituzioni militari e civili, oltre che col partito fascista. I carteggi tra il ministro, il duce e gli ammiragli per la politica navale. La pianificazione per comprendere le determinanti strategiche che incidevano sulla politica navale. I rapporti dei comandanti di basi e squadre navali per comprendere il livello della preparazione e i problemi della flotta.

Inoltre, mi sono servito di una fonte preziosa di cui non esisteva fino ad ora nemmeno accenno nella pubblicistica sulla marina: la documentazione della biblioteca dell’Accademia navale di Livorno. Anche in questo caso l’istituzione ha preservato ottimamente il materiale, che gli studiosi potranno sfruttare efficacemente. Qui sono custoditi i dattiloscritti inediti dei testi impiegati nell’istituto durante il periodo fascista, una fonte fondamentale per capire l’istituzione e la sua cultura.

Infine, la mia ricerca ha incluso anche archivi stranieri, in particolare i National Archives di Londra e il Service Historique de la defense di Parigi, dove ho avuto accesso alle carte degli osservatori diplomatici e militari che erano presenti in Italia, solitamente persone con una grande conoscenza della Regia marina e con rapporti personali con gli ufficiali italiani, che garantivano un punto di osservazione privilegiato sull’istituzione.

 

Quali erano le motivazioni che portarono al trattato di Washington?   Che limiti imponeva il Trattato di Washington?

 

Per comprendere il Trattato di Washington bisogna innanzitutto capire il ruolo delle marine militari nella politica internazionale, un dato molto spesso sottovalutato dagli studi e dal pubblico italiano: le marine solo il pilastro su un paese costruisce il proprio status di grande potenza globale.

Dalla fine del XIX (e ancora oggi è così) fu un dato acquisito che la capacità di proiezione globale di uno stato (era l’età dell’imperialismo) dipendeva essenzialmente dalla forza della propria marina militare. La Grande guerra fu dovuta, non solo, ma in buona parte, proprio all’esplodere della rivalità navale tra la Gran Bretagna e la Germania e l’intero conflitto fu determinato della dimensione marittima: il blocco britannico degli Imperi centrali fu fondamentale per sconfitta della Germania.

Nel 1918, la fine della guerra ridefinì l’equilibrio delle relazioni internazionali. La scomparsa degli imperi tedesco, russo ed austroungarico e l’ascesa di due grandi potenze extraeuropee, gli Stati Uniti e il Giappone, ridisegnò il panorama geopolitico del pianeta. Subito, il nuovo ordine mondiale alimentò le tensioni tra le grandi potenze superstiti, rischiando di scatenare una nuova competizione nel campo degli armamenti navali. Le difficoltà finanziarie della Gran Bretagna, stremata dalla guerra, l’opposizione dell’opinione pubblica americana a nuove spese per armamenti dopo la fine del conflitto e la consapevolezza del Giappone di non poter competere con gli Stati Uniti nel Pacifico, aprirono la possibilità di trattative relative al disarmo navale.

Il Trattato di Washington (gennaio 1922) fu la conseguenza della volontà di “formalizzare” gli assetti politici globali nati dal conflitto, stabilendo nel contempo una “gerarchia” delle potenze che rifletteva i loro rapporti di forza. Il trattato stabilì la relatività in fatto di navi capitali (navi da battaglia e portaerei) tra le grandi potenze, secondo la formula: 5:5:3:1,75:1,75. Tali coefficienti indicavano la proporizione del tonnellaggio spettante a ciascuna delle grandi potenze: Gran Bretagna e Stati Uniti (5), Giappone (3), Francia e Italia (1,75).

Il trattato in effetti stabilì una “diarchia” angloamericana nei rapporti internazionali, frustrando le ambizioni del Giappone, che mirava ad un rapporto di forze più favorevole nel Pacifico e quelle della Francia, che riteneva la propria posizione nel Mediterraneo minacciata dell’Italia, tantoche a Parigi la parità con Roma fu recepita come un autentico schiaffo diplomatico. Il trattato comunque non copriva il naviglio leggero (incrociatori, cacciatorpediniere, torpediniere e sommergibili) e per aumentare la propria potenza navale, le potenze scontente dell’accordo vararono ampi programmi di costruzione di questo tipo di navi, alimentando una nuova competizione che i successivi tentativi di regolamentazione (le conferenze navali di Roma 1927, Londra 1930 e Londra 1936) non riuscirono a contenere.

Di fatto, il trattato oltre a stabilire una “gerarchia” delle potenze fece delle marine un oggetto centrale della diplomazia e della questione del disarmo navale un elemento fondamentale delle relazioni internazionali tra le due guerre mondiali. Un fatto di cui Mussolini era ben consapevole quando affermava che in tempo di pace la gerarchia degli stati era determinata dalla loro marina.

 

In che modo il Trattato di Washington  condizionò la Regia Marina?

 

Carlo Schanzer, il senatore che aveva guidato la delegazione italiana a Washington, sottolineò che in seguito alla firma dell’accordo la Regia marina vedeva immediatamente aumentata la propria importanza tra le flotte mondiali (e con essa il paese), perchè la parità con la Francia stabiliva una presunta parità diplomatico-militare tra le due potenze. In realtà, il trattato garantiva la parità solo in fatto di navi capitali, per dimostrare che l’Italia non effettivamente in grado di mantenere una parità generale, i francesi avviarono programmi navali per ottenere la superiorità nel naviglio leggero, in modo da porre in discussione la posizione italiana nelle successive conferenze sul disarmo. Dopo il 1922, perciò la Regia marina si trovò nella necessità supportare una politica navale espansiva, in grado di competere con quella francese in termini di costruzioni navali. Di conseguenza, la questione della parità divenne un problema di prestigio centrale per il regime fascista, che negli anni Trenta cominciò a supportarla anche a scapito di una crescita bilanciata della flotta tra nuove costruzioni e miglioramento della preparazione e del livello tecnologico.

 

Che influenza ebbe la politica economica del ministro De Stefani sull’esercito e sulla Regia Marina ?

 

Il ministero di De Stefani (1922-1925) coincise con la prima fase del governo fascista. Una fase in cui il potere di Mussolini sullo Stato non era ancora del tutto consolidato e la cui politica economica fu indirizzata soprattutto alla stabilizzazione del bilancio statale e alla promozione di politiche liberiste. In tal senso il contenimento della spesa pubblica incise fortemente su quella militare e di conseguenza anche sui rapporti del fascismo con le forze armate. Esercito e marina avevano supportato l’ascesa di Mussolini al potere nella convinzione che questo avrebbe permesso di realizzare i progetti di riforma ed espansione desiderati dal vertice militare. Nel caso specifico della marina, contava soprattutto la volontà di avviare programmi navali di risposta a quelli francesi, in quanto la crescita della Marine Nationale seguita al Trattato di Washington era ritenuta una minaccia sostanziale per la difesa delle comunicazioni italiane. Le restrizioni di bilancio imposte dal governo Mussolini alla Marina invece portarono al contenimento dei programmi e, assieme alla costituzione della Regia Aeronautica (1923), alimentarono le tensioni, anche in forma pubblica, tra il Presidente del consiglio e il ministro della Marina, l’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, duca del mare e grandeammiraglio della vittoria nella Grande guerra. Tale conflitto si inserì nella crisi politica più generale seguita all’omicidio Matteotti, che portò alla definitiva trasformazione del fascismo in regime e anche alla ridefinizione dei rapporti tra le forze armate e il duce, in senso subordinativo. Le tensioni dovute alla politica economica di De Stefani furono centrali in tale cambiamento nei rapporti fascismo-forze armate.

 

 

In una  parte del suo libro paragona la Marina italiana a quella del Giappone e a quella tedesca, ci sono delle differenze tra queste tre marine?

 

Tutte e tre queste marine nacquero negli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento come prodotto dei processi di unificazione/modernizzazione nazionale attraversati dai tre paesi e in tutti e tre i casi si configurarono come centri propulsivi per elaborazioni geopolitiche e della modernizzazione politica ed economica nazionale. Anche se in Italia non ne abbiamo piena cognizione, la costruzione delle istituzioni navali nazionali fu un importante agente di sviluppo economico e nazionalizzazione delle masse tra Otto e Novecento.

Un tratto che le tre marine mantennero anche nei decenni successivi e che spiega anche lo stretto legame che svilupparono con il nazionalismo, accettando nel primo dopoguerra la radicalizzazione di tale politica. Soprattutto la Germania nazista e l’Italia fascista offrono interessanti parallelismi per la relazione che si sviluppò tra le loro marine e i partiti nazista e fascista, che furono lasciati penetrare nell’istituzione da élite convinte che i due regimi avrebbero permesso la realizzazione di una politica estera e navali tali da assicurare le ambizioni di cui le due istituzioni erano portatrici.

Le tre marine tuttavia avevano alle spalle anche tre differenti realtà politiche, economiche e sociali che si riflessero sulle tre istituzioni. In Italia ed in Germania, la struttura policratica delle dittature (un contesto in cui le istituzioni sono più in competizione che in coordinazione) ebbe un peso decisivo nell’emergere dei contrasti tra forze armate che impedirono la creazione di un’aeronautica di marina pienamente efficiente in entrambi i casi. In Giappone, viceversa, la marina era un centro di potere notevolissimo, data la natura di nazione-arcipelago del paese, e questo le permise di mantenere la sua autonomia rispetto all’esercito e di dotarsi anche di una grande forza aeronavale. Tale aspetto è solo uno dei tanti esempi possibili che possono essere fatti per comprendere come i contesti politici e sociali incidano sullo sviluppo delle istituzioni militari.

 

– Che rapporto c’era tra la Regia Marina e la Regia aeronautica che era una  delle forze armate più fascistizzate?

 

I conflitti tra le due istituzioni, cominciati nel 1923 con la costituzione della seconda, più che alla correlazione tra una più o meno maggiore fascistizzazione vanno ricondotti a due problemi: la struttura politica del regime e la più generale contrapposizione tra le neonate forze aeree e le forze armate tradizionali, problema comune più o meno a tutte le grandi potenze.

La conflittualità aeronautica-marina fu consentita soprattutto dalla natura del regime fascista, in quanto il duce impedì la creazione di organi di coordinamento effettivo tra le forze armate, temendo che un capo di stato maggiore generale troppo forte fosse una minaccia al suo potere. Tale logica del divide et impera finì col danneggiare le possibilità di cooperazione e la costruzione di una politica militare integrata e coerente tra le tre armi. Tuttavia, anche quando il dittatore ebbe l’effettivo potere di imporre il proprio volere alle tre forze armate, con il processo di radicalizzazione del regime nella seconda metà degli anni Trenta, le sue personali convinzioni in materia di aeronautica e marina, come ad esempio l’idea che l’Italia fosse una “portaerei naturale”, incisero decisamente sui rapporti tra le due armi.

A questo bisogna aggiungere che nell’Italia fascista, almeno a livello teorico, fu notevole l’impatto di Giulio Douhet. Forse più usato politicamente che ascoltatodottrinariamente, Douhet fu il primo teorico del ruolo strategico decisivo dell’aviazione attraverso l’impiego di massicci bombardamenti strategici per colpire la popolazione civile nemica. Soprattutto nel periodo di Italo Balbo (1926-1933), la Regia Aeronautica utilizzò Douhet per giustificare l’indipendenza assoluta dell’arma aerea da impieghi ritenuti “secondari” come l’appoggio all’esercito e alla marina. Il regime aveva attivamente supportato la creazione di un’arma aerea indipendente e l’appoggio di cui l’aviazione godeva negli ambienti governativi fascisti, fu fondamentale per privare la marina della possibilità di costruire portaerei e un’aviazione navale adeguate. Gli ammiragli che a metà degli anni Trenta riproposero prepotentemente tale problema, come parte di un più generale richiamo alla necessità di correlare ambizioni e mezzi per la futura guerra nel Mediterraneo contro le potenze occidentali, finirono con l’essere isolati ed esclusi dalla gestione della politica navale, con la connivenza del vertice stesso dell’istituzione, ormai succube del potere carismatico del dittatore.

 

 

– Vorrei concludere adesso con una domanda un po’ personale. E’ consuetudine di “Historical Eye” chiedere agli studiosi intervistati un po’ del loro percorso personale e delle motivazioni che li hanno spinti a intraprendere il difficile mestiere di storico. Crediamo sia molto importante capire “perché” si studi la storia o si diventi storici. Quindi, in definitiva, dottore, quali furono le motivazioni che la portarono a scegliere di studiare storia?

 

Naturalmente il primo elemento è stata la passione. Un aspetto che ho maturato nell’adolescenza, semplicemente perché orientato dalle letture allo studio della guerra e dei fenomeni militari, cominciato quasi per caso. Strategie, uomini, tattiche, mezzi divennero il mio pane quotidiano.

L’interesse intellettuale mi ha spinto a studiare storia all’università, nonostante la preoccupazione di molte persone, che sostenevano stessi commettendo un errore, date le difficoltà di inserimento nel mondo accademico o della cultura e le scarse prospettive occupazionali. Sebbene tali problemi costituiscano un questione assillante per chi si avvia allo studio delle discipline umanistiche, nel mio caso la passione prevalse, a ragione o a torto, vedremo.

Seguendo i miei interessi, all’università, ho scelto di dedicarmi allo studio della storia militare perché penso, forse banalmente, che in guerra gli uomini diano il meglio e il peggio di sé stessi e al tempo stesso perché lo studio delle istituzioni militari del XX secolo permette di interallacciarsi con ogni aspetto della società contemporanea: politica estera, politica interna, economia, tecnologia e società sono tutti problemi che mi sono trovato ad affrontare nel corso delle mie ricerche.

Nello specifico, mi sono dedicato alla storia della marina per due motivi. Il primo è la mia convinzione che l’Italia, nonostante non ne abbia pienamente coscienza, è un paese marittimo. Sono originario di Napoli e quando mi ritrovo periodicamente a fissare il Golfo non vedo il Vesuvio, ma le linee di comunicazione che dalla città partono verso Suez, l’Oceano Indiano e l’Estremo Oriente, oppure verso Gibilterra e l’Atlantico. Ieri come oggi, il nostro commercio e in generale la nostra prosperità dipendono dal mare, senza che si sia verificato un parallelo aumento di coscienza di questo rapporto sia per il passato sia per il presente.

Le marine militari sono state e sono ancora oggi preposte alla difesa, all’apertura e alla preservazione di tali spazi e comunicazioni, mentre nessun altro strumento ha la capacità di svolgere il loro lavoro con altrettanta efficacia e flessibilità. La storia navale serve per comprendere le cause di successi e fallimenti nella proiezione esterna del paese, ma bisogna considerare che, per costruire la propria marina, il paese si è servito del meglio delle sue risorse umane, economiche e tecnologiche. Di conseguenza, la storia navaleci può dire molto sulla storia dell’Italia contemporanea, sulla sua politica, economia e società. Un dato frequentemente sottovalutato sia dagli studiosi sia dal grande pubblico.

 

L’ultima carica. Storia del 14º reggimento Cavalleggeri di Alessandria


La più celebre carica di cavalleria del secondo conflitto mondiale è sicuramente quella effettuata dal Savoia Cavalleria a Isbuschenskij, nelle steppe russe, il 24 agosto 1942. L’importanza del fatto d’armi ebbe un valore sia psicologico, riuscendo a rompere l’accerchiamento che i russi stavano effettuando attorno alle truppe italiane, che militare, rallentando l’avanzata sovietica scattata con la controffensiva del 20 agosto precedente. In questo senso è l’ultimo fatto d’armi che ha visto una “carica di cavalleria” nel senso classico del termine con effetti così rilevanti contro un esercito formato da truppe regolari. Molti ignorano però che il Regio Esercito Italiano poté vantare l’ultima carica di cavalleria della storia militare moderna con quella che si consumò il 17 ottobre 1942, a Poloj (oggi Sluny), sul confine croato-bosniaco

Carica.di.Isbuscenskij

L’episodio si contestualizza nel periodo di occupazione italo-tedesco della penisola balcanica, teatro di guerra particolarmente sanguinoso e ignorato dalla storiografia italiana. Durante i mesi della guerra partigiana tra combattenti jugoslavi di Tito e le truppe nazi-fasciste supportate dagli Ustascia di Ante Pavelic. Al pari dei serbo-croati e dei nazisti, le truppe regolari italiane si macchiarono di atti violenti contro la popolazione locale, spinti non solo dalla propaganda razzista e anti-comunista, ma da precisi ordini degli alti comandi militari:

“Si sappia bene che eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno mai perseguiti. ”
Dopo l’aggressione dalle forze dell’Asse all’Unione Sovietica (estate 1941) iniziò a farsi sempre più pressante la guerriglia anti-fascista di ispirazione comunista. Questo movimento si organizzò nell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo e col tempo assunse una forza ed un’organizzazione sempre più capillare e decisiva, agendo come una spina nel fianco all’Asse. Sia i tedeschi che gli italiani dovettero impiegare un numero considerevole di reggimenti e divisioni per controllare l’area balcanica, spolpando il fronte sovietico e quello libico.

i Cavalleggeri di Alessandria liberano Trento, 3 novembre 1918

Il 14º Reggimento Cavalleggeri di Alessandria era uno dei reparti italiani presenti nei territori occupati le cui truppe erano prevalentemente a cavallo: il reggimento con la più alta mobilità tra tutti quelli nella zona. Inquadrato nella 1ª Divisione Celere “Eugenio di Savoia, i suoi cavalieri avevano il compito di pattugliare e controllare il territorio croato.
La cavalleria da sempre è stata considerata l’arma nobile per eccellenza, perché solo i più abbienti potevano possedere, mantenere e governare un cavallo, con tutti gli annessi e connessi. Con l’arrivo delle armi da fuoco, l’uso della cavalleria perse gradualmente importanza nella tattica militare, anche se unità di cavalleggeri rimasero inquadrate in tutti gli eserciti, con funzioni appunto di pattugliamento e perlustrazione in virtù delle doti del cavallo.
All’inizio del conflitto l’Italia aveva in organico 17 reggimenti di cavalleria, suddivisi tra cavalleria di linea, lancieri e cavalleggeri. Una numero così ampio di cavalieri era sinonimo anche dello scarso progresso di tecnologia e motorizzazione che il Regio Esercito aveva avuto nel periodo intercorrente fra le due guerre.
Il ciclo di azioni che vide la realizzazione della carica ebbe inizio il 1 ottobre 1942. L’obbiettivo che la 1ª Divisione Celere doveva portare a termine era di “ricacciare davanti a loro le formazioni ribelli segnalate nella zona di Perjasica, quartier generale delle più forti bande partigiane ”. L’operazione si doveva svolgere in tre fasi distinte in modo da spezzare la resistenza nella zona ed eliminare le forze partigiane della “Udarne brigade” (Brigata d’assalto) croata.
Nonostante le difficoltà incontrate durante il periodo di ricognizioni le forze italiane non si trovarono di fronte una resistenza troppo accanita. Le formazioni ribelli, difatti, seguirono da lontano i movimenti della colonna italiana, impegnandola in piccoli scontri e tentando di capirne i piani.
Il 17 ottobre, nel corso di un’ennesima ricognizione nell’area di Korana , la formazione venne colpita fin dal mattino di ripetuti attacchi con armi leggere da parte di forze partigiane. Vista la difficoltà di manovra con i cavalli, ed il pericolo di un nemico forte sia dal punto di vista militare che psicologico, il comandante del reggimento, Col. Antonio Ajmone Cat, valutata la situazione e l’approssimarsi del buio, decise di attestarsi a difesa su alcune modeste alture per conseguire un vantaggio tattico e costringere il nemico a scoprirsi. Il caso volle che alla colonna del col. Cat si fosse aggiunto il gen. Mario Federico Mazza, vicecomandante della Divisione, che, d’accordo con il gen. Cesare Lomaglio, comandante della Divisione, ordinarono di proseguire verso Primislje, nonostante l’operazione apparisse rischiosa a causa dell’oscurità.

Alle 18.30 iniziarono a muoversi, ma dopo pochi chilometri furono attaccati nuovamente da un violento fuoco di armi automatiche e di bombe a mano. Nelle ripetute cariche era andato perso lo stendardo: al mattino seguente il capitano Fabio Martucci comandante dello squadrone mitraglieri con il suo attendente Morgan Ferrari lo ritrova impigliato al ramo di un albero e lo recupera.
Le perdite della giornata furono di 2 ufficiali dispersi, deceduti ma i cui corpi non poterono essere recuperati, 1 ufficiale morto, 5 feriti, 10 morti, 56 feriti e 50 dispersi fra sottufficiali e cavalleggeri. I cavalli perduti furono 109, i feriti 60. Non si hanno notizie precise delle perdite dei partigiani jugoslavi, che però sarebbero ammontate da oltre un centinaio. Il 18 e 19 ottobre il reggimento sostò a Perjasica, a disposizione del comando Divisione “Lombardia”.

Già all’indomani della battaglia c’era, negli alti comandi italiani, la voglia di cancellare l’episodio. Alcuni reduci ricordano il discorso tenuto dal gen. Mario Roatta davanti ai cavalleggeri schierati:

“Al mio superiore vaglio gli ordini impartiti sono risultati illuminati. Si cancelli ogni cosa dalle vostre memorie, rimanga quello che passerà alla storia con il nome di carica di Poloj”.

A quelle parole, però, il comandante del reggimento, il colonnello Antonio Ajmone Cat, esplose:

Che dirò a tante madri? Che un ordine pazzo ha stroncato la vita delle proprie creature?”. Roatta voltò le spalle e tacque.

L’inettitudine dei generali Lomaglio e Mazza venne prontamente taciuta, non tanto per non screditare i due alti ufficiali, ma per non far trapelare quella che era la generale impreparazione di tutto il sistema militare italiano. Ironia della sorte il col. Ajmone Cat venne invece allontanato dal comando e privato di un qualsiasi riconoscimento ufficiale. Il contesto della guerra partigiana e dell’occupazione italiana dei Balcani non aiutarono certo a rendere il giusto merito alla vicenda nel dopoguerra, facendo si che tutta la vicenda venisse pressoché dimenticata.
Il reggimento è stato sciolto il 30 giugno 1979 senza aver mai ricevuto una ricompensa allo stendardo per i fatti dell’ottobre 1942.

 

 

Bibliografia:

Raffaele Arcella, L’ultima carica. Dolnij Poloj 17 ottobre 1942, ed. Bonanno, 2009
Antonio Poma, L’ultima carica della cavalleria italiana, ed. Busseto Palazzolo
Elena A. Rossi, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, ed Il Mulino

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