Il 5 Maggio 1821 moriva Napoleone Bonaparte | Storia Laggera

il 5 Maggio 1821 moriva Napoleone Bonaparte, un uomo che nella propria vita fu più di un uomo, fu un sogno, un idea, una visione, ma anche un incubo, una dannazione, una delusione.
Il 5 Maggio moriva un uomo, ma non la leggenda di Napoleone.

Ei fu. Siccome immobile, Dato il mortal sospiro, Stette la spoglia immemore…

Al Manzoni non serve altro per definire quel momento, non servono nomi, perché la storia, la fama e l’eco della leggenda di Napoleone sono più che sufficienti affinché chiunque legga, sappia e capisca che si parla di lui e della sua inattesa e prematura scomparsa.

Un unico indizio ci viene dato, nel titolo, la data, quella data, il 5 maggio, quel 5 maggio, quel fatidico 5 maggio 1821, in cui Napoleone lasciò per le proprie spoglie mortali.

Prologo

200 anni fa, il 5 Maggio 1821 moriva Napoleone Bonaparte, un uomo che nella propria vita fu più di un uomo. Napoleone fu un sogno, un idea, una visione, ma allo stesso tempo Napoleone fu un incubo, una dannazione, una delusione.

Celebrato, osannato, temuto, discusso, deriso.

Napoleone fu tutto e nulla, fu uomo e leggenda e quel 5 maggio la sua morte segnò una ferita profonda nella storia dell’umanità.

Luce polare o macchia indelebile che fosse, il 5 maggio napoleone morì, e il mondo sapeva che con la sua morte qualcosa finiva, ma allo stesso tempo sapeva, perfettamente che quel giorno moriva un uomo, ma non la sua leggenda.

Così, giocando con le parole di Alessandro Manzoni e della sua ode “il 5 maggio” , un componimento che in me ha sempre acceso le stesse sensazioni della “stagioni” di Francesco Guccini (brano che cita la stessa 5 maggio, ma questa è un altra storia, che vi ho già raccontato qualche anno fa), ho voluto scrivere questo mio post, questo mio pensiero su quell’uomo che cavalcò sull’Europa, che conquistò i cuori di milioni di uomini e donne, di milioni di anime in tutta Europa, anime che deluse furono la causa della sua caduta.

La notizia

La notizia giunge in Europa diverse settimane dopo la dipartita dell’ex imperatore, ma è normale, ci troviamo agli inizi del XIX secolo, i tempi dell’informazione dell’epoca sono molto lenti, perché una notizia giunga dalla periferia estrema dell’impero britannico, dall’isola di Sant’Elena, luogo di prigionia dell’ex imperatore, scelta perché lontana dalle principali rotte commerciali, è necessario che una nave parta ed approdi in qualche porto più frequentato, e da lì, può diffondersi verso l’Europa e il mondo.

L’aria che si respira in Europa è in quel momento un’aria tesa, pesante, è aria di tempesta che mina le fondamenta stesse dell’Europa post congresso di Vienna. Italia e Spagna sono attraversate da un’idea di rivoluzione, che però non riesce a concretizzarsi, almeno non in quel momento, e le rivolte che si consumano in quegli anni tra 1820 e 1821, una dopo l’altra vengono sedate nel sangue proprio in quel 1821.

Il tessuto del congresso di Vienna regge, l’Europa delle teste coronata è sopravvissuta a Napoleone, o almeno così sembrava in quel momento.

Gli effetti della morte di Napoleone sulla gente

Napoleone Bonaparte era morto, l’uomo era morto, ma non il suo ricordo, non le leggende né l’eco del suo nome. Un nome che, anche se non particolarmente amato era sinonimo di cambiamento. Napoleone era stato la spina nel fianco delle teste coronate e nonostante tutto, aveva portato in Europa una nuova classe dirigente di astrazione popolare.

Qualcuno gioiva di fronte alla notizia della dipartita del tiranno, altri speravano, o forse sapevano, che un giorno quello spirito ardente, figlio e incarnazione stessa della rivoluzionario, espressione del destino, della volontà di Dio, sarebbe ritornato ad infiammare l’Europa.

I contemporanei di Napoleone non sanno dove o quando, ma non hanno dubbi, da qualche parte, un giorno, un nuovo “Napoleone” sarebbe tornato, da qualche parte, in modo totalmente inaspettato, sarebbe apparso qualcuno che come lui avrebbe lasciato un segno indelebile nella storia umana. E in quel momento Napoleone era esattamente quello, un segno indelebile, per alcuni una stella polare, per altri una macchia, nella storia umana.

Manzoni e Napoleone

Manzoni nel proprio componimento, nella sua ode “il 5 maggio” ripensa a se e al proprio rapporto con la figura di Napoleone, al quale, per scelta, prima di quel momento, mai aveva dedicato alcunché, né un ode, né una poesia, nulla.

La scelta del Manzoni è dettata dal rammarico e dalla delusione da quell’uomo, la cui vita è stata degna di un poema epico, ma al contempo, pur essendosi presentato al mondo come paladino di certi ideali rivoluzionari, rimaneva un uomo, un uomo che alla fine antepose il proprio potere e i propri interessi ai popoli d’Europa, popoli che in origine erano il muscolo più forte delle armate napoleoniche ma che alla fine gli si voltarono contro, scegliendo le antiche aristocrazie contro quello stesso Napoleone conosciuto come salvatore e liberatore.

Come era percepito Napoleone dai contemporanei?

Napoleone è stato un uomo che dal nulla creò un impero universale su suolo europeo, degno di Roma, un uomo il cui genio fu sconfitto solo dalle proprie ambizioni e dal proprio orgoglio, dal tradimento dei popoli e la riluttanza a stringere alleanze.

Napoleone è stato un uomo che si scagliò contro il mondo, andando in contro ad una certa sconfitta e, anche se sconfitto, anche quando fu “mutilato” del proprio impero, non si arrese, tornò in campo, marciò su Parigi, riconquistò il potere e solo sfidò nuovamente il mondo. Ma era tardi, e in quella lotta con il mondo, il mondo gli oppose i popoli in armi che lui per primo aveva concepito, quei popoli che lui aveva tradito, e fu proprio la collera di quei popoli abbandonati che infuriò contro l’uomo, ma non contro ciò che l’uomo rappresentava, segnando definitivamente il declino del suo potere temporale, pur lasciando accesa la fiamma di una nuova speranza.

Una speranza fondata sul ricordo nostalgico di quelle imprese raccontate nell’allegria amara di boccali di vino e calici di birra. Rigorosamente invertiti, a rappresentanza figurata di quell’ordinamento sociale già una volta stravolto. 

Napoleone è morto, viva Napoleone!!!

Il 5 maggio 1821, moriva Napoleone bonaparte, e la notizia della sua dipartita si diffuse a macchia d’olio in tutto il mondo, tra i suoi sostenitori e i suoi avversari, tra chi ancora credeva in lui, chi ne era rimasto deluso e chi lo temeva. 

Ma indipendentemente dalle proprie posizioni, tutti, senza eccezione, apprendendo la notizia rimasero senza parole, perché tutti sapevano, senza eccezione, che la morte dell’uomo non ne segnava la fine. Che il suo paradiso, o inferno, era terreno che lì sulla terra, tra gli uomini, quel nome non sarebbe stato mai più dimenticato, e in quel momento, di fronte alla notizia uno degli uomini più influenti del proprio tempo, forse il più influente di quello e dei secoli immediatamente precedenti e successivi, non era più, il mondo trattenne il fiato.

Manzoni chiude il proprio componimento richiamando la divina provvidenza, la mano di Dio che interviene per sottrarre ad una vita di sofferenze un uomo immenso, che la satira britannica dipingeva come minuto. E l’intervento divino è sufficiente a passare una mano di spugna sulla salma di Napoleone, allontanando da essa ogni parola malevola.

Napoleone come idea

Nella morte Napoleone ritrova la propria grandezza perduta, la propria essenza ascetica, dismettendo i panni del tiranno, dismettendo i panni dell’uomo e indossando ancora una volta e per sempre, la splendente veste degli ideali rivoluzionari.

Ecco che la morte passa la propria mano sulle ceneri dell’uomo, consacrando la sua leggenda e restituendo, alle generazioni future il nodo materiale del giudizio.

Napoleone per i compagni è stato, ed ora non è più, e se la sua vita sia quella di un tiranno, di un conquistatore, di un giusto tra gli uomini o di un visionario, la decisione ultima sarebbe spettata alla storia.

Manzoni lascia ai posteri l’arduo compito di esprimere un giudizio morale su napoleone, e nel proprio componimento immortale, lo racconta tra luci e ombre, attraverso l’occhio di un uomo, un poeta, un intellettuale ottocentesco che Napoleone lo ha visto e vissuto, da lontano, da uomo comune che rimane deluso per le scelte politiche del grande imperatore.

Manzoni, e come lui una fetta importante di uomini e donne europei avevano visto in Napoleone un qualcosa, una speranza, una visione mai completamente realizzata, un sogno troppo a lungo rimandato, l’uomo era stato idealizzato e in quella umana elevazione si tradusse presto in una amara delusione vissuta con sofferto rammarico, almeno fino a quel 5 maggio.

I sette migliori generali di Napoleone Bonaparte

Chi furono i sette migliori generali di Napoleone Bonaparte?

Stavo cercando un modo diverso per parlare di Napoleone, ed mi sono detto, quale modo migliore per parlare di Napoleone, senza parlare di Napoleone, se non attraverso gli uomini e le donne che hanno reso grande il minuto generale francese?

Pensando che fosse una buona idea ho cominciato a cercare del materiale sui suoi generali e mi sono imbattuto in una striminzita classifica di quelli che sono i suoi migliori generali, e mi sono detto, perché non partire da lì, da questo elenco di nomi, per raccontare l’esercito di napoleone visto dal dietro le quinte?

I generali che seguirono Napoleone furono tutti eccezionali, la “Grande Armée“, l’esercito napoleonico, a differenza di un qualsiasi altro esercito europeo di inizio XIX secolo, era guidato da generali fuori dal comune, uomini che si erano distinti sul campo di battaglia e che arrivarono alla testa degli eserciti per merito e non per diritto di nascita. Detto molto semplicemente, Napoleone non avrebbe mai affidato il comando dell’esercito al nipote di suo cugino, o al principe ereditario di poggibonsi, come invece facevano , almeno inizialmente, i suoi nemici.

Ad Austerlitz, la Grande Armée ha ragione dei propri nemici, proprio perché, tra le altre cose, i suoi generali erano abili strateghi che si erano formati sul campo di battaglia, mentre, dall’altra parte, ad avere l’ultima parola sulle scelte strategiche da compiere, tra gli altri, c’era il principe Alessandro I di Russia, che, se bene avesse studiato tecniche e strategie e probabilmente aveva una conoscenza teorica di gran lunga superiore a quella degli uomini di Napoleone, all’atto pratico non aveva mai combattuto, non sapeva cosa significasse cavalcare nel fango sotto i colpi d’artiglieria del nemico e non sapeva cosa significasse vedere il proprio compagno morirgli tra le braccia, annegato dal proprio sangue che lentamente gli riempiva i polmoni.

Napoleone, va detto, aveva un rapporto speciale con i propri generali, non propriamente definibile un rapporto di fiducia quanto di stima e di rispetto.

Napoleone sa che non può fidarsi di nessuno, sa perfettamente che i suoi generali lo servono fedelmente e con efficienza soltanto per il ritorno, in termini economici, politici e di prestigio, che ne hanno, e sa perfettamente che se le cose dovessero mettersi male, potrebbe ritrovarseli tutti contro, ma sa anche che quegli uomini sono dei soldati, sa che hanno un codice d’onore e sa che finché lui avrebbe tenuto fede alla parola data, loro, i suoi generali, avrebbero fatto altrettanto.

Nelle prossime sette settimane quindi, partiremo da qui, da questa dimensione di stima e diffidenza, di lealtà ed opportunismo, di carisma e fredde decisione, per guardare più da vicino, i sette migliori generali di napoleone.

Sono sette e non cinque, dieci, quindici o venti, semplicemente per una questione di tempi, e di liste precompilate, come vi anticipavo, partirò da una “classifica” che non ho elaborato io, in cui si parlava dei cinque migliori generali di Napoleone, lista alla quale ho voluto aggiungere di mia iniziativa altri due nomi, che a mio avviso meritano di essere citati.

Questi generali che ora andrò a presentarvi e che approfondiremo nelle prossime settimane, sono i “migliori” non in termini assoluti, anche perché stabilire chi è stato il migliore credo sia impossibile, tuttavia, sono i “migliori” sulla base di una semplice questione statistica, ovvero, sono i generali che hanno conseguito quelle che sono state le più grandi, inaspettate e importanti vittorie della Grand Armée.

Per intenderci, parliamo dei generali di Napoleone che hanno avuto ragione dei propri nemici ad Austerliz, Eylau, Jena, Hamburgo, Ulm, Valencia, Zaragoza, Zurigo, ecc ecc.

Il primo generale da citare è Michel Ney, detto il coraggioso, Ney è uno dei due generali che ho aggiunto io alla lista, perché è uno dei pochissimi generale di Napoleone, ad aver conseguito una vittoria significativa durante la fase di ritirata dalla Russia nel 1812. Mentre gli altri generali si ritiravano causa freddo e fame, Ney, insieme ai suoi uomini assediava e conquistava Smolensk.

Ma di Ney, che fu definito dai contemporanei come il più coraggioso tra i coraggiosi, e di cui Napoleone disse essere “indispensabile” sul campo di battaglia, parleremo la prossima settimana.

Ney guida le truppe alla conquista di Kowno in un dipinto di Denis-Auguste-Marie Raffet conservato al Museo del Louvre

Il secondo generale da citare in questa veloce rassegna di apertura, è Nicolas Jean-de-Dieu Soult che Napoleone definì “il miglior manovriero d’Europa”. Stando ai resoconti, Soult fu determinante nella vittoria bonapartista sia ad Austerlitz che a Jena, e sembra che proprio dopo Austerlitz, sia entrato nelle grazie dell’Imperatore, anche se comunque già in quell’occasione aveva servito come Generale.

Il maresciallo Soult discende, sotto gli occhi di Napoleone Bonaparte, dal colle dello Zurlan per prendere il comando dei suoi uomini all’inizio della battaglia di Austerlitz e guidare l’assalto all’altopiano del Pratzen

Il terzo generale di cui parleremo è Louis Alexandre Berthier, lui è uno dei pochissimi “figli d’arte” che incontriamo tra gli alti ranghi dell’esercito di napoleone. Berthier era figlio del tenente colonnello Jean Baptiste Berthier del corpo degli ingegneri topografici. Luis Alexander va detto che non fu l’unico Berthier a diventare un generale di Napoleone, ben tre dei suoi cinque fratelli infatti ascesero al rango di generale sotto napoleone, e qualcuno potrebbe giustamente mettere in discussione ciò che dicevamo in apertura a proposito della carriera meritocratica nella Grande Armée, se non fosse che i fratelli Berthier avevano dimostrato il proprio valore e le proprie capacità sul campo, durante la rivoluzione e servendo sotto Lunkor e La Fayette, in particolare Louis Alexandre Berthier era stato capo dello stato maggiore di Lunkor e La Fayette, ed aveva combattuto fianco a fianco, spalla a spalla, con il giovane Bonaparte.

Louis Alexandre Berthier e due dei suoi fratelli, durante una battaglia della campagna d’italia, dipinto di Louis-Francois Lejeune

Louis Gabriel Suchet, è l’altro generale che ho inserito io nella lista, lui era un uomo totalmente alieno al mondo militare, era figlio di setaioli ed è l’esempio più iconico di soldato che fa carriera sul campo, fino a diventare generale. Suchet era un volontario nell’armata repubblicana, e nel 1793 venne promosso sul campo, al rango di Tenente Colonnello, da un suo superiore che in quel momento aveva bisogno di un tenente colonnello di cui il 4 battaglione disponeva e quella che fu quasi una promozione fortuita, segnò l’inizio della carriera di un generale che si sarebbe fatto valere soprattutto in spagna, per intenderci Suchet è uno dei comandanti durante l’assedio di Tolone e durante la battaglia di Valencia. Lui è un uomo che passerà l’intera sua vita negli accampamenti e sul campo di battaglia e per questo, purtroppo, di lui ci sono giunti per lo più ritratti a matita di autori anonimi o sconosciuti.

Ritratto a matita di Louis Gabriel Suchet, realizzato sul campo, autore sconosciuto

Andrea Massena è un generale italico che servì napoleone soprattutto in italia, fu notato dal futuro imperatore soprattutto per la sua intraprendenza, elemento che in un armata “tradizionale” lo avrebbe penalizzato e probabilmente sottoposto a numerose punizioni per insubordinazione, ma per Napoleone i suoi successi e la sua fedeltà alla causa bonapartista, furono sufficienti a perdonare le iniziative della testa calda italica. Purtroppo per lui, quella stessa intraprendenza che gli aveva permesso di scalare i ranghi, fu anche la causa della sua caduta, così, dopo un sonoro fallimento in Portogallo nel 1810, la sua carriera militare, finì prematuramente e fu costretto a ritirarsi a vita privata, almeno fino al 1817, anno della sua morte.

Il generale Massena guida le sue truppe alla seconda battaglia di Zurigo, dipinto di François Bouchot .

Jean Lannes come Louis Gabriel Suchet prima di lui, è un eccellente esempio di brillante generale che non aveva nulla a che vedere con la vita militare.
Lannes era figlio di tintori e iniziala propria carriera militare come volontario della Guardia Nazionale francese, e di lui ci sarebbe così tanto, troppo, da dire. In questa sede mi limiterò a citare i suoi soprannomi, “L’Orlando dell’Armata d’Italia” e “L’Achille della Grande Armata“.
Sono due soprannomi importanti, autorevoli, che fanno riferimento alla letteratura classica e l’epica cavalleresca, e non è un caso, ma di questo ne parleremo meglio nel post dedicato a Lannes.

La battaglia di Fombio, di Giuseppe Pietro. Lannes fu uno dei comandanti francesi durante questa battaglia in italia.

Arriviamo a quello che i libri di storia annoverano come il miglior generale di Napoleone Bonaparte, ovvero Louis Nicolas Davout.
Credo che non serva specificare che quest’uomo era un generale infallibile, si dice che non abbia mai perso una battaglia, o comunque che non subì mai una sconfitta troppo dolorosa, e che dove lui combatteva la francia avrebbe trovato una vittoria.
Davout è il generale che intervenne ad Eylau nel 1807 quando ormai sembrava tutto perduto e riuscì a trasformare una certa sconfitta in una sorta di pareggio, che è considerato da molti come un incredibile successo visto l’inizio disastroso dello scontro.

Ritratto di Davout, Pierre Gautherot

Questi sono quelli che i libri di storia ricordano come alcuni dei più grandi e importanti generali di Napoleone Bonaparte, da questa prima, superficiale introduzione, abbiamo già avuto un assaggio di quanto questi uomini siano stati straordinari e come, il loro ruolo nella storia, sconosciuto ai più è stato in realtà determinante per la consacrazione dell’imperatore Francese.
Napoleone probabilmente non sarebbe nulla senza i suoi generali, e come questi stessi generali ci hanno insegnato, loro stessi non sarebbero stati nulla, senza gli uomini che li seguivano, uomini che, nella maggior parte dei casi erano volontari, figli di contadini, mugnai, fabbri, tintori, e che, si erano arruolati nella Grande Armée, spinti dal sogno di libertà e dalla promessa che forse, un giorno, sarebbero diventati grandi e potenti, come alcuni di quei generali, che certo non venivano da nobili famiglie.

Uomini come Davout hanno contribuito a consegnare a Napoleone importanti vittorie, ma allo stesso tempo, uomini come Lannes, hanno contribuito a consegnare a Napoleone un immenso esercito, con cui, Lannes, Davout e lo stesso Napoleone avrebbero potuto conquistare l’Europa.

Ed è importante sottolineare e ricordare che il modello a cui ambivano i volontari di napoleone, l’uomo con cui si immedesimavano, non era l’imperatore che comunque veniva da una buona famiglia, ma erano uomini come Lannes e Suchet, di fatto uomini comuni che avevano raggiunto il potere solo grazie alle proprie capacità.

La Presa di Roma e la sua importanza epocale, che va oltre l’Unità d’Italia

L’importanza storica della Presa di Roma (20 Settembre 1870) va ben oltre l’effimera e regionale Unificazione Italiana, la presa di roma segna un passaggio epocale ed è un avvenimento, che per importanza, è assimilabile alla presa della bastiglia e la presa del palazzo di inverno

L’importanza storica della Presa di Roma (20 Settembre 1870) va ben oltre l’effimera e regionale Unificazione Italiana. La presa di roma segna un passaggio epocale ed è un avvenimento, che per importanza, è assimilabile alla presa della bastiglia e la presa del palazzo di inverno.

Il 20 Settembre 1870, i manuali di storia contemporanea italiani, ci insegnano essere la data finale dell’unificazione italiana, la presa di roma è, e rappresenta, l’ultimo atto ufficiale del processo unitario, iniziato in sordina, tra moti rivoluzionari e ambizioni politiche di regni italici, nella prima metà del XIX secolo.

Ma il 20 settembre è anche altro, e la sua importanza storica viaggia ben oltre i confini nazionali, ponendosi, sul piano internazionale, alla stregua di avvenimenti come la presa della Bastiglia e la presa del palazzo d’Inverno di Pietrogrado (poi San Pietroburgo) in Russia.

Questi tre avvenimenti, insiema al congresso di vienna e i moti del 40, rappresentano a pieno, l’intero excursus del cambiamento epocale che porta l’età Moderna, caratterizzata dal sistema politico noto come Ancient Regime, ad un nuovo sistema politico, sociale e culturale, proprio dell’età contemporanea, ma andiamo con ordine.

La presa della Bastiglia, come è noto, è uno degli avvenimenti simbolici più importanti della Rivoluzione Francese, rivoluzione che segna il punto di inizio di un lungo e lento processo evolutivo che avrebbe attraversato tutta l’europa. Per quanto riguarda la bastiglia, l’assalto a questa struttura è stato spesso associato a due ragioni, la prima, più importante, di carattere politico, la seconda, meno incisiva, ma comunque importante, di carattere strategico militare.

La Bastiglia era percepito nella Francia del tempo, come uno dei simboli tangibili del dispotismo monarchico, una prigione politica, in cui erano rinchiusi per lo più oppositori del Re, oppositori della monarchia. La Bastiglia era una struttura militare fortificata, protetta da uomini armati e che ospitava, nel proprio arsenale, un discreto quantitativo di armi, munizioni e polvere da sparo, e la possibilità di mettere mano su queste risorse delinea il carattere dtrategico/militare dell’assalto alla bastiglia.

Come anticipavo, in realtà la ragione è per lo più politica, visto che era era “protetta” da circa 32 guardie svizzere, 82 soldati francesi invalidi di guerra, ed ospitava circa 30 cannoni, e il grande bottino di guerra che poteva offrire si cortituiva di circa 250 barili di polvere da sparo (contenenti circa 20.000 kg di polvere pirica) e circa 28.000 fucili che, possono sembrare tanti, ma non lo sono affatto, visto che le armi dell’epoca erano a colpo singolo e richiedevano diversi minuti per essere ricaricate prima di poter riaprire il fuoco, e questo significa che, durante un assalto, mentre un soldato sparava, un altro soldato ricaricava i fucili, ma nel frattempo, il soldato che sparava, utilizzava altri fucili, in caso di mobilità, un unità di questo tipo contava su circa 3 fucili, mentre in situazioni meno concitate e più stazionarie, ogni soldato disponeva in media di circa 10 fucili.

Tornando ai numeri della bastiglia, 28.000 fucili, potevano armare in maniera efficace, circa 3.000 uomini, o al massimo 10.000 o addirittura 28.000, dando loro, in questo caso, un’irrisoria capacità di fuoco.

Certo, va detto che la Bastiglia fu assaltata da circa 600 uomini, e quella quantità di polvere da sparo e fucili, per 600 uomini è più che sufficiente, tuttavia, 600 uomini, senza alcun addestramento militare possono avere a disposizione anche 1000 fucili cadauno, e risultare comunque poco efficaci in combattimento, ma questa è un altra storia.

Come dicevo, la presa della Bastiglia, è un evento più che altro simbolico, segna lo scontro con l’autorità monarchica, segna l’apertura del conflitto reale tra popolo e aristocrazia, segna l’inizio della fine di quello che è noto come Ancient Regime.

Ad ogni modo, dalla rivoluzione francese si passa al terrore, poi all’età Napoleonica, e per oltre 30 anni, l’antico ordine politico europeo e nella fattispecie Francese, sembra sgretolarsi, almeno fino al congresso di Vienna, in cui viene passata una mano di spugna sulle trasformazioni post rivoluzionarie e napoleoniche e l’europa torna, almeno sulla carta, ad avere lo stesso aspetto che aveva nel 1789, ovvero prima dell’inizio della Rivoluzione, le antiche case reali vengono riportate sui rispettivi troni e, si introduce un concetto tanto antico quanto nuovo, si introducono il principio di legittimità e concetto di “mandato divino” ovvero, il potere monarchico, l’autorità reale e imperiale, deriva direttamente da Dio, i Re, le Regine e gli Imperatori d’europa, sono tali perché è Dio che ha voluto così, e in quanto vicario di dio sulla terra, il ponetefice è interprete della sua volontà.

Con il congresso di Vienna il papato, diventa una monarchia assoluta che estende il proprio controllo diretto su di un ampio territorio nell’italia centro settentrionale, questa monarchia prende il nome di Stato Pontificio ed esiste ufficialmente, e soprattutto politicamente, dal 1815 al 1870, più precisamente, fino al 20 settembre 1870, interrotto brevemente dall’esperienza della Repubblica Romana del 1848.

Nel 1848, le assi portanti dell’europa costruita nel congresso di vienna, vengono a mancare, in particolare il mandato divino, l’autorità monarchica concessa direttamente da Dio, non ha più alcun valore, e il principio di legittimità, che legittima le monarchie europee si trasforma, affondando le proprie radici nella volontà popolare, i re non sono più sovrani, ma semplici regnanti, governatori che possono esercitare il proprio potere solo e se, è il popolo a delegare loro quella autorità. Max Weber nel suo saggio sul potere definisce diversi metodi di legittimazione del potere, tra cui rienrano la legittimazione popolare, propria delle monarchie parlamentari e delle repubbliche, e la legittimazione tradizionale, in cui rientrano le monarchie assolute.

Questi due sistemi di legittimazione, sono in aperto contrasto tra loro, il re o è legittimato da dio o dal Popolo, e con la primavera dei popoli che si conclude nel 1848, il secondo sistema di legittimazione si sostituisce, in più o meno tutta europa, alla legittimazione tradizionale.

Restano però, ancora vincolati all’Ancient Regime, l’impero Zarista, la cui casa regnante però, non è di fede cattolica e dunque non è consacrata dal pontefice e dalla chiesa romana, e l’impero ottomano, di fede islamica e la cui casa regnante, a sua volta non è consacrata dal papa e dalla chiesa romana e in fine, ma non meno importante, lo stato pontificio, questa volta di fede romana, unica teocrazia europea, il cui Re Imperatore è il Papa. Apro una piccola parentesi a proposito del Regno unito, che, se bene sia ufficialmente di fede Anglicana e la Regina/Re (in quest ocaso la regina Vittoria) è ufficialmente a capo della chiesa anglicana, Vittoria è in un certo senso di fede cattolica, come anche suo marito il principe Alberto e la casa regnante Britannica, per quanto autonoma rispetto alla chiesa romana, tende in questo periodo storico, ad essere molto vicina alla chiesa romana e tiene in grande considerazione l’opinione papale.

Con il 1848 la storia assiste al tramonto dell’antico regime, ma come è noto, tra il tramonto e l’inizo della notte vera e propria, passa qualche ora, e in queste ore l’Ancient Regime continua ad esistere in europa attraverso le monarchie assolute dello stato pontificio, dell’impero zarista e di quello ottomano.

Mettendo da parte Russia e Impero Ottomano, lo stato Pontificio rappresenta, in europa, l’ultimo vero baluardo dell’Ancient Regime, e questo ci porta direttamente al 1870.

Nel 1870 lo stato pontificio cade, viene completamente cancellato e i suoi territori vengono annessi al Regno d’Italia. Questo avvenimento è sì, l’atto finale dell’unificazione italiana, come ci è stato insegnato a scuola, ma come dicevo, è molto di più, prché è anche l’atto finale del potere politico del Papa in Europa (e fuori dall’europa), è il vero atto conclusivo dell’Ancient Regime.

Nel 1870 l’Italia, perché nel 1870 l’italia esisteva ormai politicamente da circa un decennio, può permettersi di dichiarare guerra allo stato Pontificio, può permettersi di attaccare Roma, fare breccia tra le sue mura e persino mettere in fuga il Papa, senza alcuna ripercussione.

Già in passato il Papa e la curia romana erano stati attaccati e messi in fuga ma, diversamente dal 1848 e dall’esperienza della repubblica romana durata meno di un anno perché Luigi Napoleone Bonaparte, meglio noto come Napoleone III, presidente della repubblica francese e fondatore del secondo impero, era intervenuto al fianco del Papa per liberare la città e, andando ancora più all’indietro e spingendoci fino al medioevo, quando un papa era sotto attacco, era minacciato da forze e correnti politiche sempre interne alla chiesa cattolica che vedevano in altri uomini la “vera” leadership papale. Insomma, in passato il papa era stato attaccato da alti prelati che ambivano a sostituirlo con altri pontefici, in questo caso invece, con la presa di roma del 1870, il papa viene semplicemente messo all’angolo, gli viene chiesto gentilmente di accomodarsi fuori dalla città degli imperatori, da quella città che un tempo era stata la capitale del mondo intero.

Qualcuno a questo punto potrebbe chiedersi:

Perché prendere roma nel 1870 e non prima, perché non attaccare Roma nel 1860 e far proseguire l’armata garibaldina ben oltre Teano?

Il motivo è politico, ma anche militare ed economico, insomma, è complicato.

Nel 1860, il papa, anche se molto depotenziato rispetto al passato, (depotenziamento iniziato in seguito al 1848 e conclusosi sul finire degli anni 60 del diciannovesimo secolo) era ancora molto influente e soprattutto, aveva molti alleati ed erano alleati del papa, sia alleati che i nemici di casa Savoia. Roma nel 1860 era alleata dell’Austria, con cui i Savoia erano in guerra, ma era anche alleata con la Spagna, con la Francia di Napoleone III e con l’Impero Britannico, e se da un lato il conflitto tra i Savoia e l’Austria-Ungheria era percepito all’estero come qualcosa di poco più grande di una banale disputa territoriale e, sulla base di quanto emerso dalla Guerra di Crimea, in cui ricordiamo che il Regno di Piemonte aveva partecipato al fianco di Francia e Regno Unito, Il Regno di Piemonte era legittimato a reclamare quei territori “occupati” dall’Austria, e dunque Francia e Regno Unito, non sarebbero intervenuti, o almeno non al fianco dell’Austria, va inoltre detto che, per quello che stava avvenendo in europa e nel mediterraneo, Francia e Regno Unito in primis, erano in un certo senso favorevoli all’idea di depotenziare ulteriormente l’impero Asburgico.

Diversamente però, fare guerra allo stato pontificio, era molto più complicato, non era più una disputa territoriale in cui il Regno di Piemonte era legittimato a rivendicare dei territori occupati da una potenza straniera, e questo perché, diversamente dall’Austria, lo stato pontificio godeva della stessa legittimità storica, culturale, politica e tradizionale del regno di Piemonte, nell’esercitare il proprio controllo sulla penisola italica e sull’Italia, dunque, i principi emersi dalla guerra di Crimea, che impedivano a Francia e Regno Unito di intromettersi nella guerra tra Italia e Austria, non erano validi in un ipotetico scontro tra Italia e Stato Pontificio. Va inoltre detto che la regina Vittoria a Londra e Napoleone III a Parigi, erano in ottimi rapporti con il pontefice e senza troppe licenze, avevano avvertito casa Savoia di un loro possibile intervento al fianco del pontefice, se l’Italia, nel suo processo unitario avesse inglobato militarmente lo stato pontificio. Specifico Militarmente perché un annessione politica e pacifica, che avrebbe portato ad un Italia Federale composta da due o tre stati, era invece ben vista sia dalla Francia che dal Regno Unito.

Cosa è cambiato nel 1870?

Nel 1870 è cambiato tutto, sono cambiati gli equilibri, sono cambiate le alleanze, è cambiata la percezione della chiesa, è cambiato il peso di Roma fuori dalla penisola italica ma soprattutto, è cambiato il ruolo dell’Italia nell’asset globale.

L’Italia durante l’età moderna ha visto un suo progressivo decentramento, in conseguenza dello slittamento delle vie commerciali dal mediterraneo al nord atlantico, l’Italia era bloccata nel mediterraneo, un mare chiuso, isolato dal resto del mondo.

Nel 1870 non era più così perché nell’anno precedente, nel 1869 era stati completati i lavori di costruzione del Canale di Suez, finanziato da Francia e Regno Unito, e la sua innaugurazione era la cosa migliore che potesse capitare all’Italia, perché regalava dava all’Italia una nuova e rinnovata centralità nel commercio internazionale e se da un lato Suez e Gibilterra erano diventati improvvisamente , da un giorno all’altro dei passaggi obbligati per chiunque volesse attraversare il Mediterraneo, e andare dall’Europa all’Asia, senza circumnavigare dell’Africa ed evitando il passaggio terrestre del medio e vicino oriente, dall’altro lato, l’Italia, con la sua centralità nel mediterraneo, rappresentava un importante snodo commerciale che avrebbe semplificato l’afflusso di merci in Europa, risparmiando giorni e settimane di navigazione, ma perché questo accadesse era necessario che l’Italia non fosse più divisa in due stati e che, lo stato pontificio che spaccava in due il Regno d’Italia, poteva essere inglobato nel regno d’Italia.

In questo contesto storico, ormai privo di coperture politiche e militari, il papa si trova da solo contro il regno d’Italia, che può quindi attaccarlo su due fronti e in poco, pochissimo tempo, riescire a fare breccia tra le mura capitoline e prendere Roma, completando ufficialmente quel processo unitario iniziato più di 20 anni prima, per assurdo, proprio a Roma, in quella città in cui si erano manifestate le prime istanze unitarie e dove per la prima volta, durante la fallimentare esperienza repubblicana del 48, si era parlato, per la prima volta nell’età contemporanea, di Italia come nazione.

Bibliografia
M.Borgogni, La gloria effimera. Forze armate e volontari dalla prima guerra d'indipendenza alla breccia di Porta Pia (1848-1870)
G.Darby, The Unification of Italy by Mr Graham Darby
A.M.Banti, Il risorgimento Italiano
G.Pécout, Il lungo Risorgimento. La nascita dell'Italia contemporanea
G.Calchi Novati, Il canale della discordia. Suez e la politica estera italiana
E.Hobsbawm, Il trionfo della Borghesia
A.M.Banti, L'età contemporanea. Dalle rivoluzioni settecentesche all'imperialismo

I fuorilegge non esistono più

Al di la dell’immagine romantica del fuorilegge dei vecchi film western, dove l’eroe era un bandito e lo sheriffo, il tutore della legge era un criminale al soldo dei funzionari della ferrovia, o dei pirati, che vivevano liberi in mare, veleggiando senza alcun padrone, andando dove volevano e facendo ciò che volevano quando volevano, quella del fuorilegge è in realtà una figura storica, o per meglio dire, uno status giuridico, molto complicato, proprio di un mondo che non esiste più da almeno 2 secoli.

Nel mondo moderno/contemporaneo, i “fuorilegge” non esistono più, o almeno, non nel senso originale del termine, poiché nel mondo moderno/contemporaneo si sono affermati una serie di principi per cui non è più possibile (a meno che non si viva in un regime criminale o comunque infrangendo la legge di un paese civile) porre un individuo al di fuori della legalità.

Ma chi sono i fuori legge? e perché non esistono più?

Originariamente per fuorilegge si intendeva non chi agiva al di fuori della legge e della legalità, ma chi veniva posto al di fuori della legge, essere marchiati come fuorilegge era una sorta di “scomunica” dall’ordinamento giuridico, essere fuori dalla legge significava non avere più alcun diritto legale e chiunque poteva fare di un fuorilegge ciò che desiderava, ivi compresi ucciderlo e ridurlo in schiavitù.

Questo antico concetto giuridico, ampiamente utilizzato in età moderna soprattutto nei confronti della pirateria, inizia a venir meno con la pace di Westfalia, al termine della guerra dei trent’anni.

Con Westfaliainizia un importante processo di trsformazione degli ordinamenti giuridici degli stati, degli stati stessi e dei rapporti tra essi.

Detto molto semplicemente, con la pace di Westfalia, si affermano in europa una serie di principi giuridici, interconnessi tra loro.

Il primo di questi principi è la definizione dello stato nazione, che non è più un insieme di terre controllate da un sovrano che ha il potere di disporre a proprio piacimento di quelle terre e di chi le abita, diventando invece una zona, un area, ben precisa, delimitata da confini ben definiti, entro i cui termini vigono determinate leggi e determinati rapporti di potere tra sovrano, rappresentanti dello stato, istituzioni e abitanti.

Questi confinu artificiali che delimitano gli stati nazione, implicano il riconoscimento reciproco di quei confini dalle varie nazioni e di conseguenza impongono i limiti del potere dei sovrani e delle loro corti, e si riflette sulla popolazione di quelle zone, ma anche sui rapporti di forza entro quei confini e soprattutto sulle leggi e sul concetto di fuori legge.

In un mondo in cui le nazioni si riconoscono tra loro, aprendo al concetto teorico per cui una nazione esiste solo se riconosciuta da altre nazioni, le leggi di quelle nazioni valgono entro i confini di quelle nazioni, ed in quei confini hanno valore universale. Inizia quindi ad affermarsi una prima forma embrionale del concetto di universalità delle leggi e dei diritti, ma a questo arriveremo con calma.

Nel momento in cui le leggi di uno stato hanno valore universale, non è più possibile, in un sistema ordinato, porre qualcuno al di fuori della legge, o almeno, in teoria è così, in pratica dovremmo aspettare ancora molto tempo per vedere abbandonata questa pratica barbarica e primitiva.

Il concetto di fuorilegge e l’annesso status giuridico, continuano ad esistere e sopravvivere nel “nuovo mondo“, nel contesto generale della lotta alla pirateria, mentre tende a sparire nell’europa continentale, dove, i “pirati di terra” o se preferite i banditi, iniziano a venir meno.

Le bande di predoni che per secoli avevano imperversato nelle campagne e saccheggiato i villaggie europei, erano formate da compagnie militari, milizie e soldati che, in tempo di guerra servivano i sovrani in guerra, ma in tempo di pace, si dedicavano ad altro tipo di attività. Tuttavia, questo tipo di attività inizia a svanire dopo la pace di Westfalia, poiché uno degli effetti della pace è la riorganizzazione degli eserciti europei.

Fino alla guerra dei trent’anni non esistevano eserciti permanenti, i soldati erano per lo più mercenari che, di volta in volta, sceglievano da che parte stare e al fianco di chi combattere, mossi ufficialmente da giuramenti vari, ma anche e soprattutto dalla promessa di maggiori ricompense espresse in terre e denaro.
Dopo Westfalia inizia ad affermarsi negli stati nazione europei, il concetto di esercito permanente, si ritorna quindi, come già accaduto in epoca romana con la riforma di Mario, alla creazione di eserciti statali, permanenti, formati da professionisti salariati e non più da mercenari al soldi del miglior offerente.

L’assenza, o meglio, la riduzione dei signori della guerra e di predoni, dall’europa continentale, contribuì a far cadere nel dimenticatoio, almeno in europa, lo status di fuori legge, ovvero di individuo posto al di fuori della legge.

Durante la Rivoluzione Francese, o meglio, dopo la rivoluzione francese, per intenderci, tra la rivoluzione e il “periodo del terrore” (perdonate la semplificazione), si dibattè ampiamente sulla questione del fuorilegge e si arrivò a proporre la scomunica giuridica dei nemici della rivoluzione, detto più semplicemente, si propose di porre fuori dalla legge i sostenitori dell’ancient regime, tuttavia, questa possibilità venne poi scartata in favore di posizioni più “morbide” che prevedevano la confisca dei beni e dell’applicazione di condanne a morte.

Lo stesso problema fu posto in essere circa un secolo e mezzo più tardi, in occasione dei processi di Norimberga, dove, tra le opzioni prese in considerazione e poi scartate, vi fu la possibilità di revocare lo status giuridico ai criminali nazisti, tuttavia, in quest’occasione, si affermò un vago principio di “superiorità morale” secondo il quale, porre fuori legge e alla stregua degli animali i criminali nazisti, non era diverso da ciò che era stato fatto dai criminali nazisti nei campi di concentramento e sterminio, e dunque si ripiegò sull’applicazione di nuove leggi create ad hoc, costruite sulla base del principio di hostis humani generis (nemico del genere umano), e delle leggi contro la pirateria, per definire quelli che sarebbero diventati, da quel momento in avanti, “crimini contro l’umanità”.

In termini storici lo status di “fuori legge” in europa ha smesso di esistere ufficialmente con la pace di Westfalia, tuttavia, dalla seconda metà del XVIII secolo, un nuovo attore continentale si sarebbe affacciato sulla scena globale, questo attore erano gli odierni Stati Uniti d’America, dove, lo status di Fuori Legge ha continuato ad esistere almeno fino agli inizi del XX secolo, nella fattispecie nelle zone rurali del “selvaggio west”.

In europa invece lo status di fuori legge, come sinonimo di scomunica dall’ordinamento giuridico e perdita di ogni qualsiasi forma di diritto, appare sporadicamente, nella prima metà del XX secolo nei regimi nazifascisti e in unione sovietica, dove, i “nemici” dello stato e del partito, vennero privati di ogni diritto, e lo stesso sarebbe accaduto, nel XX e XIX secolo, in ogni regime dittatoriale.

Per approfondire

J.Elster, Chiudere i conti. La giustizia nelle transizioni politiche, 2008, editore il Mulino

Protetto: Le sette guerre mondiali

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Si pronuncia “Necker” non Necker – quando un nome è più importante di ciò che rappresenta.

Uno dei commenti più frequenti che mi capita di leggere sotto i video del mio canale youube è “Si pronuncia “Necker” non Necker” o qualcosa di simile, prendo ad esempio nome in particolare perché il video sulla rivoluzione francese, in cui viene fatto tale nome, è probabilmente il più popolare dei video del mio canale, ma potrei fare benissimo mille altri esempi analoghi, soprattutto quando si ha a che fare con nomi o parole provenienti dal mondo antico, in particolare dal mondo greco-latino.

Ho sempre risposto a questi commenti dicendo che il modo in cui si pronuncia un determinato nome è assolutamente irrilevante ai fini storici” tuttavia, alcuni studenti mi hanno fatto notare che spesso, la pronuncia di un nome può fare la differenza tra un buon ed un cattivo voto ad un interrogazione o ad un esame, quasi come se il modo in cui viene pronunciato un determinato modo sia più importante di ciò che quel nome rappresenta.

Prendiamo ad esempio Jacques Necker, non stiamo parlando di Voldemort, di uno stregone rinnegato di cui non si può pronunciare il nome, stiamo parlando di un banchiere francese del diciottesimo secolo che fu chiamato alla corte di Versailles dal re Luigi XVI per dirigere le finanze della Francia e, a differenza di Voldemort, il suo nome possiamo pronunciarlo. Possiamo pronunciarlo senza paura di sbagliare e indipendentemente dal modo in cui lo si pronuncia, esso non cambierà ciò che rappresenta. Indipendentemente dalla sillaba in cui cadono gli accenti e dal fatto che si utilizzino accenti acuti o ottusi o non si utilizzi alcun accento, Necker rimarrà sempre un banchiere francese del diciottesimo secolo che nel 1777 fu chiamato da Luigi XVI per dirigere le finanze della Francia nel tentativo di sanare il bilancio dopo una lunga e costosa guerra contro il Regno Unito.

La sua figura centrale in quella serie di eventi che la storia avrebbe ribattezzato Rivoluzione Francese, non dipende dal modo in cui si pronuncia il suo nome, ma dalle azioni e dalle scelte che caratterizzarono la sua carica di “ministro dell’economia e delle finanze francesi”, per utilizzare un etichetta più “moderna”.

Quest’uomo è passato alla storia per essere stato convocato dal Re di Francia ed aver ricevuto l’incarico di sanare il bilancio della nazione, e dopo essere stato licenziato perché nel suo piano di risanamento era previsto un taglio alle enormi spese della casa reale, pubblicò i dati del bilancio della casa reale, rendendo noto alla popolazione parigina che, mentre il popolo moriva letteralmente di fame, il Re sprecava una fortuna in quelle che potremmo definire delle vere e proprie stronzate.

Necker rappresenta tutto questo, rappresenta il punto di partenza della rivoluzione francese e personalmente trovo folle, per non dire sbagliato o inutile, ridurre il suo ruolo nella rivoluzione in una mera questione linguistica…  “si pronuncia Necker non Necker”.

Ovviamente una corretta pronuncia del nome di un così importante personaggio storico è certamente qualcosa di apprezzabile, ma non posso accettare che la corretta pronuncia di questo o di qualsiasi altro nome possa superare per importanza ciò che quel nome rappresenta. Necker non è solo un nome, non è una stringa di simboli fonetici che appare in qualche pagina prima degli eventi della rivoluzione francese, Necker è stato un uomo, è stato un politico, è stato un economista ed è stato una figura chiave nella nascita della stessa rivoluzione francese, ed è soprattutto per questo che andrebbe studiato, è soprattutto su questo che bisognerebbe soffermarsi quando lo si incontra in un manuale, non sul modo più corretto di pronunciare il suo nome.

Studiare storia non significa studiare una successione di avvenimenti, di nomi pronunciati alla perfezione e di date precise al millesimo di secondo.
Studiare storia significa comprendere determinati avvenimenti che hanno influenzato il corso degli eventi successivi, significa comprendere le dinamiche che hanno portato quegli avvenimenti a compiersi in quel determinato modo e non in un altro.
Studiare storia significa prima di tutto comprendere la realtà del mondo e degli eventi passati, significa comprendere la realtà dei rapporti e le relazioni tra gli esseri umani, tra i popoli e le nazioni del mondo. Nomi e date hanno un valore puramente accessorio, servono soltanto a mettere in ordine questi avvenimenti, sono soltanto delle etichette, come quelle che troviamo al supermercato prima di ogni reparto e ci indicano sommariamente il genere di prodotti che incontreremo in un determinato reparto, non sono diversi dalle etichette che vicino ad ogni prodotto ci indica nome e prezzo di quello specifico prodotto. Ma un prodotto non è solo il suo nome e il suo prezzo, è molto altro.

Queste informazioni sono certamente utili, ci aiutano a non smarrirci nel supermercato e non ricevere brutte sorprese una volta alla cassa o appena tornati a casa, sarebbe impossibile fare la spesa se tutti i prodotti fossero contenuti in scatole grige, senza nome e senza prezzo. Così nomi e date ci aiutano a non perderci nella Storia, e non avere brutte sorprese, ma non sono la Storia.

Voglio concludere l’articolo “passando la parola” ad uno dei più grandi scrittori britannici dell’età moderna, mi riferisco ovviamente a William Shakespeare. Shakespeare in uno dei suoi capolavori immortali, Romeo e Giulietta, pubblicato nel 1597, si lascia andare ad alcune riflessioni analoga e al cui interno qualcuno potrebbe rivedere un certo platonismo, facendo pronunciare ad uno dei protagonisti, tale Giuletta dei Capuleti, queste “esatte” parole.

“What’s in a name? that which we call a rose by any other name would smell as sweet”

“Che cosa c’è in un nome? Ciò che noi chiamiamo con il nome rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo.”

Nella sua ingenuità Giulietta comprende quello che molti studenti e spesso insegnanti non riescono a vedere, ovvero che un nome non è altro che un nome, una semplice etichetta che ci indica qualcosa, nulla di più, e dunque anche Necker sarebbe sempre Necker, anche se lo chiamassimo in modo differente, ignorando o alterando la cadenza e l’apertura degli accenti che accompagnano il suo “complicatissimo” nome.

La massoneria nelle rivoluzioni ottocentesche

La rivoluzione francese è da molti considerata, insieme alla rivoluzione americana, la pietra angolare su cui poggia l’età contemporanea, il punto di origine per il lungo diciannovesimo secolo che si sarebbe concluso soltanto con lo scoppio della prima guerra mondiale e protagonista indiscussa di quest’epoca di transizione tra l’antico regime e il nuovo ordine mondiale, sarebbe stata la classe borghese che lentamente avrebbe modellato un mondo nuovo in cui la proprietà terriera era solo un espressione, probabilmente la più limitata, della ricchezza.

Durante l’ancien regime il possesso di terre era determinato dall’economia feudale in cui il le terre erano una proprietà quasi esclusiva della monarchia, di fatto le terre appartenevano al re, ed erano amministrate dalle nobili famiglie, che a loro volta affidavano la gestione e l’utilizzo delle terre alle masse popolari residenti nell’area e su cui esercitavano il proprio potere, politico e sociale. Questo sistema economico proprio della società feudale è da molti erroneamente considerato come un sistema peculiare dell’età medievale, tuttavia permane anche in tutta l’età moderna e in alcune aree coloniali sopravvive fino alla metà del diciannovesimo secolo, per non dire agli inizi del ventesimo.

La fine dell’ancien regime ed il conseguente collasso della società feudale portano alla nascita di un nuovo sistema economico e una nuova struttura sociale che sono considerati gli elementi peculiari dell’età contemporanea. Questi saranno l’affermazione della borghesia e la nascita di un economia non più terriera ma capitalistica. Detto più semplicemente, la ricchezza non è più determinata dal possesso della terra ma dal capitale, un bene in un certo senso astratto, che può essere quantificato dalla sommatoria di tutti i beni materiali posseduti da un individuo, rendendo così tangibile la ricchezza della classe borghese che in età feudale, pur avendo più ricchezze, di alcuni nobili, erano considerati una classe economicamente inferiore alla nobiltà.

Verso la metà del XVIII secolo i ricchi borghesi iniziano a vivere sempre di più il disagio della propria situazione, uno degli esempi più significativi in questo senso è espresso dalla figura di John Hancock, uno dei padri fondatori americani, la cui famiglia si era arricchita grazie al commercio, e se bene fossero britannici e la sua famiglia fosse estremamente ricca, essa non godeva in patria di un peso politico estremamente marginale, vivendo perennemente un gradino più in basso dell’aristocrazia, e guardati dall’alto in basso anche da quegli aristocratici caduti in miseria che non avevano altro de non il proprio titolo nobiliare.

Questa insofferenza sociale unita ad un crescente desiderio di rappresentanza politica e tutela dei propri interessi si diffonde progressivamente in tutta europa e nelle colonie, e quando al termine della guerra dei sette anni tra francia e gran bretagna, le corone francesi chiederanno sostanzialmente alla classe borghese di pagare il grosse delle spese della guerra, mentre l’aristocrazia quasi non verrà tassata, e gli alti lord, continueranno a vivere nel lusso più sfrenato in un paese in crisi e senza neanche provare a ridurre le proprie spese e gli sprechi di corte, la borghesia che avevano appreso molto dallo studio del passato, si rividero in una situazione analoga a quella dei ricchi mercanti greci del V secolo a.c. , costretti a pagare le spese di guerre volute dall’aristocrazia.

Prendendo coscienza di ciò la borghesia avrebbe richiesto una sempre maggiore rappresentanza politica e l’adeguamento alle condizioni fiscali dell’aristocrazia o viceversa, una tassazione alle proprietà degli aristocratici, ma questo non avvenne, e l’insofferenza crebbe ulteriormente trasferendosi dalla ricca borghesia alle masse popolari oppresse dall’aristocrazia e dalla monarchia, la cui rabbia era alimentata dalla stessa borghesia.

Si cerca quindi di attuale un modello classico per l’affermazione del potere, individuando un pericolo interno o esterno la cui eliminazione rappresenta la chiave del potere.

Nel mondo greco la classe di ricchi mercanti era riuscita ad ottenere il potere politico dall’aristocrazia, sedando le rivolte con la promessa di riforme fiscali e sociali, e durante la rivoluzione francese, la borghesia puntava ad un epilogo analogo, tuttavia, l’evoluzione tecnologica soprattutto per quanto riguarda gli armamenti, avrebbe reso le masse popolari del XVII e XVIII secolo, molto più pericolose e meglio armate delle masse popolari del V secolo a.c. e la rivoluzione sfuggì di mano rendendo necessaria l’istituzione del direttorio come unico sistema per mettere fine alla guerra civile esplosa in francia, e riportare l’ordine sociale, un ordine che ormai era stato distrutto e andava ricostruito da zero.

In questa successione di eventi, e soprattutto nella rapida degenerazione degli eventi è evidente che non vi fosse a monte un grande disegno attribuibile ad organizzazioni massoniche il cui intento era quello di ribaltare l’ordine precostituito, e analogamente non vi è uno spirito del popolo capace di incarnare un desiderio di rivalsa sociale.

Le organizzazioni massoniche e le società segrete in questo momento non esistono o meglio, non sono organizzazioni politiche, ma associazioni con scopi prevalentemente ludici e in alcuni casi filantropici,  e non vanno assolutamente confuse con i club politici già esistenti e che possiamo considerare gli antenati dei moderni partiti. Le due entità (associazioni massoniche e club politici) iniziano a fondersi insieme nel corso del XIX secolo e sarebbero stati protagonisti delle ondate rivoluzionarie europee successive al 1830, in particolare quelle del 1848 in cui l’organizzazione e la pianificazione da parte delle società segrete avrebbe dato maggiori frutti.
Nei tre grandi cicli rivoluzionari del XIX secolo, ovvero 20/21, 30/31 e 48, abbiamo tre diverse strutture organizzative, nel primo caso, (20 21) il modello è analogo a quello della rivoluzione francese, ovvero non c’è organizzazione, la rivoluzione si diffonde in maniera quasi autonoma da una nazione all’altra, contagiando le varie elité cittadine in europa che, desiderose di carte costituzionali e rappresentanza parlamentare sarebbero scese nelle piazze in maniera quasi istintiva, sperando di riproporre quanto accaduto nel 1789 ma senza riuscirci a causa di una mancata pianificazione e della mancata partecipazione delle masse popolari il cui principale interesse era il pane e non la politica.

Nel 30 31 vi è un primo accenno organizzativo, ma viene commesso ancora una volta l’errore di non coinvolgere le masse popolari, e anche questa volta la loro assenza avrebbe portato al fallimento della rivoluzione.

Nel 1848 le società segrete hanno imparato la lezione, ed in fase organizzativa riusciranno a penetrare negli strati più poveri della popolazione, promettendo pane e diritti, e coordinando le insurrezioni riusciranno a generare un effetto a catena molto simile a quello generatosi quasi casualmente nel 1789.

Tra il 1789 e il 1848 l’europa è profondamente mutata, l’esperienza democratica della rivoluzione francese, l’età napoleonica e la rivoluzione industriale inizialmente in Gran Bretagna e poi anche nell’Europa continentale ha reso irrisoria la ricchezza proveniente dalla terra, e contemporaneamente l’economia monetaria è percepita come potenzialmente illimitata.

In questo caso e in queste precise circostanze, la rivoluzione del 1848 può essere considerata come il frutto della meticolosa organizzazione di associazioni segrete e clandestine, in alcuni casi massoniche in alti casi noi, che hanno precisi interessi politici ed economici, che hanno il preciso intento di ribaltare l’ordine costituito gettando le basi di un nuovo ordine mondiale, dando così vita all’anacronistico mito dell’organizzazione massonica della rivoluzione francese.

 

Noi creeremo quello che non è esistito…

La tesi di Jacques Pierre Brissot nel dibattito con Maximilien Robespierre sull’opportunità di entrare in guerra coi principi tedeschi

Tra il dicembre 1791 e il gennaio 1792, si svolse in Francia il celebre confronto tra J.P. Brissot e M. Robespierre sull’opportunità di dichiarare guerra ai principi tedeschi che accoglievano gli emigranti controrivoluzionari. Sullo sfondo del dibattito vi era l’ultimatum rivolto agli Elettori di Treviri e Magonza e annunciato da Luigi XVI il 14 dicembre 91’ con la richiesta di allontanare gli assembramenti di emigranti entro il 15 gennaio 92’. Nel clima di crescente sospetto verso Luigi XVI e la corte creatosi dopo la fuga di Varennes del giugno 91’ e le decisioni altalenanti prese dal sovrano nei mesi passati, l’entrata in guerra diveniva motivo di aspro confronto all’interno del fronte rivoluzionario tra chi sottolineava le opportunità e chi i rischi del conflitto.

In questo quadro si collocano i discorsi di Brissot e Robespierre alla Società degli amici della Costituzione di Parigi, ove il primo sosteneva la guerra ai principi tedeschi mentre Robespierre anteponeva alla guerra esterna la prioritaria necessità di sbarazzarsi dei nemici interni.

Se la storiografia ha sottolineato molto le tesi di Robespierre, spesso considerandole erroneamente come pacifiste (lo stesso Robespierre sottolinea più volte di volere anche egli la guerra ma solo dopo aver vinto la guerra interna), meno conosciute e considerate sono quello di Brissot.

Nei loro interventi sia Brissot che Robespierre si propongono di difendere la rivoluzione, quello che li separa non è tanto il problema della guerra o la diversa posizione all’interno del fronte rivoluzionario (più moderato il primo e più radicale il secondo), ma una diversa visione del mondo post 1789.

Da questo punto di vista, il più “rivoluzionario” è senza dubbio Jacques Pierre Brissot. Infatti, il futuro leader dei Girondini, parte dall’assunto che le rivoluzioni americana e francese abbiano creato un orizzonte culturale totalmente nuovo che si pone in discontinuità sia con i secoli dell’Ancien Régime sia con il mondo della classicità. A far data dal 1789 tutti gli esempi del passato diventano quindi obsoleti poiché la rivoluzione ha creato uomini nuovi, plasmati dai lumi e dalle nuove idee di libertà; una nuova umanità che non deve più temere i vizi dell’antico regime perché messa in guardia della nuova libera stampa; una nuova umanità che genera nuovi soldati difensori della libertà, ben diversi da quelli che lottavano per i despoti dell’antico regime.

Nell’illustrare questo nuovo scenario Brissot sottolinea una evidente discontinuità della nuova Francia con quella della Fronda. Infatti se in quel conflitto del XVII secolo “Non vi era maggior motivo di battersi per Condé che per Mazzarino”, la Rivoluzione apriva certamente un nuovo orizzonte:

Ma ora quale cambiamento di scenario! Quali vasti interessi incatenano il soldato francese alla causa della libertà! Che cos’è infatti il soldato francese? Un uomo, l’uguale degli altri uomini, al quale tutti i posti sono aperti , un uomo che conosce la propria dignità, la propria forza, i propri diritti. Non si seduce un soldato simile; non lo si seduce soprattutto quando non gli si può offrire come compenso nient’altro che l’umiliazione e il nulla dell’antico regime.”

I nuovi soldati di Francia sono quindi immuni ad ogni tradimento perché combattono per la patria e per la libertà e non più per i despoti.

Se lo scenario è totalmente cambiato, anche i modelli non possono che provenire dalle nuova storia, infatti gli esempi citati da Brissot provengono quasi tutti dalla Rivoluzione americana, i cui avvenimenti all’epoca dovevano essere ben noti ad un vasto pubblico. Allora i modelli sia virtuosi (Washington) che meschini (Arnold) sono citazioni delle note vicende d’oltre oceano alle quali Brissot aggiunge al massimo qualche personaggio della Rivoluzione inglese citando Ireton e Cromwell (ovviamente Cromwell nei suoi bei giorni ).

In questa nuova visione immaginifica del post 89’ anche la guerra non può essere più quella di antico regime, infatti:

“… la guerra della libertà è una guerra sacra, una guerra ordinata dal cielo; e come il cielo, essa purifica gli animi. In mezzo ai terrori della guerra libera l’egoismo scompare, il pericolo comune riunisce tutti gli animi; allora si esercita l’ospitalità, quella virtù dei popoli liberi.”

Se allora è cambiata la natura della guerra anche le conseguenze sono diverse e il nuovo conflitto finisce per avere un effetto igienico e rigenerante:

La guerra avrà per voi lo stesso pregio; metterà in pratica l’uguaglianza tra gli uomini, poiché solo la guerra può, confondendo e gli uomini e i ranghi, innalzando il plebeo, abbassando il fiero patrizio, solo la guerra può uguagliare le teste e rigenerare gli animi.”

La visione di Brissot assolutamente netta e tranchant viene ripresa nel secondo discorso del 30 dicembre 91’, pronunciato in risposta alla replica di Robespierre del 18 dicembre. Nel suo discorso Robespierre spiega che anch’egli vorrebbe la guerra, ma solo dopo aver sconfitto i nemici interni, poiché “la sede del male non è a Coblenza, è in mezzo a noi, è nel nostro seno”. Rifiuta invece quella che vede come la guerra della corte e del governo pronti a tradire ben presto la causa rivoluzionaria ed utilizzare la guerra solo per riportare in Francia il dispotismo e i privilegi del ancien régime. Infine vi è il timore, su cui tornerà nei successivi interventi, che qualche generale, su tutti La Fayette, possa approfittare del conflitto per instaurare una dittatura come fece Cromwell in Inghilterra.

Se il ragionamento di quello che sarà l’Incorruttibile è altrettanto brillante e ben costruito di quello di Brissot e se entrambi saranno in qualche misura premonitori dei fatti futuri, il brillante giurista e oratore Robespierre utilizza un linguaggio e un immaginario culturale ben diverso da quello di Brissot. Infatti per il leader della Montagna i punti di riferimento sono ancora quelli classici: Cesare, Pompeo, il Senato di Roma, i Bruti e Catone ecc…; e per Robespierre non fa problema citare gli esempi antichi con i moderni, ad esempio Cesare e Cromwell, e reputarli ancora buoni modelli di Historia Magistra Vitae utili anche per i tempi presenti. Da questo punto di vista se Brissot, influenzato da quanto visto in prima persona nella Rivoluzione Americana prima e Francese poi, è ormai lanciato verso una visione di una società totalmente nuova da quelle del passato nella quale i nuovi diritti viaggino di pari passo a una nuova forma mentis e alla nascita di una nuova umanità, Robespierre resta ancorato alle forme mentali dell’antico regime e al suo repertorio.

Nel corso della sua controreplica del 30 dicembre Brissot, mantiene la promessa di ribattere alle obiezioni poste al suo precedente discorso. Lo fa con una prosa più asciutta e meno aulica di quella di Robespierre, ma estremamente lucida e puntuale. La nuova logica post rivoluzionaria è qui illustrata in tutte le sue potenzialità, divenendo non solo un modello utile agli Stati Uniti e alla Francia ma un esempio da esportare, infatti questi popoli hanno creato qualcosa di totalmente nuovo e moralmente migliore in grado di contagiare gli altri popoli:

Descartes (sic) diceva: “Datemi un punto d’appoggio e solleverò il mondo”. Questa idea è ancora più vera in politica che in morale. Abbiate un punto d’appoggio per sollevare l’universo contro i tiranni e l’universo è libero; ora questo punto è trovato. Anzi! Ne esiste uno in ogni emisfero; gli Stati Uniti nell’uno, la Francia nell’altro, ecco due fabbriche eterne per la libertà generale, due rifugi per coloro che non riusciranno. Conoscete un popolo, si sente gridare, che abbia conquistato la sua libertà sostenendo una guerra straniera, civile e religiosa, sotto gli auspici del dispotismo che lo ingannava? … Ma che ci importa l’esistenza o non di un simile fatto? Esiste nella storia antica una rivoluzione simile alla nostra? Mostrateci un popolo che, dopo dodici secoli di schiavitù si sia ripreso la sua libertà. Noi creeremo quello che non è esistito …”

Per il leader dei Girondini la rottura con il passato è ormai totale, l’esperimento rivoluzionario è un unicum nella storia a cui non si possono accostare fatti o accadimenti del passato, infatti Brissot rigetta gli esempi di Robespierre in quanto non hanno più niente da spartire con il nuovo creato post rivoluzionario: che cosa vi è di comune tra Cesare e Pompeo, e i nostri generali, tra Roma e la Francia? chiede retoricamente Brissot e risponde che queste due realtà non hanno niente in comune poiché la modernità così dirompente aveva rotto i cordoni con il passato e soprattutto aveva dato il vaccino contro il dispotismo che di certo l’antichità non aveva:

Roma non aveva né clubs, né società patriottiche, né stampa, né giornali, e la tirannide diventa impossibile ovunque esistano dei clubs patriottici e la stampa; sono come tante campane moltiplicate che suonano ben presto l’allarme se il nemico compare. 

Alla luce di questo incredibile ottimismo Brissot si propone di creare secoli nuovi e nuove rivoluzioni. I tempi antichi sono ormai definitivamente tramontati e le citazioni di Robespierre ormai non appartengono più all’immaginario rivoluzionario del Girondino.

Se tutto è cambiato è allora bene che vengano i tradimenti, affinché si possano separare i patrioti dai traditori e l’unico timore e che nessuno tradisca, I grandi traditori saranno funesti solo ai traditori; saranno utili ai popoli.”

Con questo ragionamento, certamente un po’ utopico e semplicistico ma di grande carica ideale, Brissot replica con poche parole a tutte le obiezioni di Robespierre. Nella sua lunga controreplica, l’Incorruttibile dovrà mettere tutta la propria abilità oratoria per attaccare Brissot e le sue facili e ridenti vie del patriottismo, ma lo farà sul piano del realismo e della purezza arrivando ad attaccare Brissot sul piano personale; Robespierre sa infatti molto bene che non può reggere il confronto con Brissot sul piano immaginifico.

Nel frattempo anche gli eventi evolvono ed il 6 gennaio 1792 il principe elettore di Treviri promette di disperdere il raggruppando di emigranti, il nemico diventa sempre di più l’Impero austriaco, ma i partiti pro e contro la guerra esterna restano di fatto immutati.

Il 17 gennaio Brissot pronuncia un discorso pro guerra all’assemblea legislativa, il 20 torna alla Società degli amici della Costituzione per replicare ancora una volta a Robespierre.

Nell’ultimo intervento Brissot cambia in parte la sua visione delle cose alla luce del nuovo quadro internazionale. La guerra esterna resta necessaria per rafforzare la rivoluzione e colpirne i nemici esterni ed interni, ma a differenza di quando aveva assicurato nel primo discorso, ove ne prevedeva la neutralità, il nemico diviene l’imperatore austriaco. Anche rispetto alla corte Brissot ora sostiene di aver sempre denunciato la scarsa volontà di questa all’impegno bellico.

Risulta qui evidente la paura di Brissot di perdere l’opportunità la tanto agognata guerra che aveva con così tanta passione difeso. Infine il Girondino è costretto a difendersi dagli attacchi di Robespierre ed alle sue insinuazioni rispetto al suo rapporto con La Fayette.

Lo sconto tra i due Giacobini si concluderà il 26 gennaio con l’ultimo intervento di Robespierre. Il giorno prima era stato dichiarato l’ultimatum all’imperatore, ma la guerra all’Austria arriverà soltanto il 20 aprile.

Gli interventi di Brissot e Robespierre ebbero subito dignità di stampa e furono largamente conosciuti all’interno del fronte rivoluzionario. La frattura fra i due porterà proprio in quei mesi alla nascita dei partiti della Montagna e dei Girondini (ma all’epoca erano chiamati spesso Brissottini dal loro principale esponente). Il modello di guerra rivoluzionaria proposto da Brissot, nel quale i soldati marciano cantando Ah! ça ira! e diffondono le nuove idee di libertà sarà il modello che di lì a qualche anno la Francia avrebbe esportato in Europa. I nuovi eserciti rivoluzionari avranno un impatto fortissimo sul vecchio continente, contribuendo a diffondere i primi germogli della nuova Europa contemporanea.

Bibliografia

Primo discorso di J.P. Brissot alla Società degli amici della Costituzione del 16 dic 1791.

Primo discorso di M. Robespierre alla Società degli amici della Costituzione del 18 dic 1791.

Secondo discorso di J.P. Brissot alla Società degli amici della Costituzione del 30 dic 1791.

Quando inizia l’età contemporanea?

Quando si parla di epoche e periodi storici, si va in contro ad un discorso molto complicato e complesso perché ovviamente le epoche non sono delle etichette fisse, non è possibile dire “il giorno x all’ora y è finita l’età moderna, o medievale o quel che sia“, ma si tende ad utilizzare e raggruppare situazioni ed eventi per definire dei periodi più “contenuti” rispetto a tutta la storia dell’umanità, e meno “precisi” rispetto ad un singolo secolo, tuttavia tra un “epoca” e una data organizzazione del mondo e quella successiva, generalmente esiste una fase di passaggio, caratterizzata da un periodo di “decadenza” e crisi.

Nel passaggio tra l’europa “universale” dell’impero romano, e la successiva europa degli stati nazionali, il passaggio e le trasformazioni hanno richiesto anni, per non dire secoli, di evoluzione e cambiamento, il periodo è talmente ampio che è stato etichettato come “epoca” con un inizio indicativo che coincide con la fine di Roma (quindi la deposizione dell’ultimo imperatore) e il raggiungimento dell’unità nazionale dell’ultimo stato nazionale europeo, (in questo caso la Spagna, con la fine della reconquista).

Può sembrare fatta ma in realtà e pure i primi “secoli” del medioevo e gli ultimi dell’età romana, sono terreno comune a metà tra la storia romana e quella medievale, e stiamo parlando di un periodo che probabilmente è quello meglio definito.

La premessa sul medioevo è importante per comprendere e capire quando inizia l’età contemporanea.

Proprio come avvenuto per il medioevo, la prima parte dell’età contemporanea è terreno comune della storia sia contemporanea che moderna, e anzi, secondo alcuni il periodo che va dalla gloriosa rivoluzione britannica e la guerra di secessione americana, andrebbe ridefinito come “secondo medioevo” perché si tratta di un nuovo periodo di passaggio e trasformazione in cui l’europa delle monarchie assolute si trasforma in qualcosa di nuovo, tuttavia il periodo è troppo “breve” per essere identificativo di un epoca, si tratta di un secolo o poco più.

Tornando al discorso sull’età contemporanea, generalmente l’età moderna viene identificata con l’età degli stati nazionali e delle monarchie tipiche dell’antico regime, e alcuni storici adottano come “evento conclusiva dell’antico regime” il congresso di Vienna, che di fatto, ridisegnando l’europa pre-napoleonica introduce comunque molte novità a livello amministrativo, secondo altri però il congresso di Vienna non è un punto fisso, ma un singolo tassello di un più ampio quadro di mobilitazione che si sarebbe conclusa tra il 1848/71 (circa) con la fine dell’impero austriaco, ed il raggiungimento dell’unità nazionale in Italia e Germania, questo periodo di transizione che ha inizio con la rivoluzione francese e comprende il ventennio napoleonico, viene visto come una fase di fermento e mobilitazione che avrebbe messo in crisi l’antico regime.

Ma allora quando inizia realmente l’età contemporanea ?

Dare una risposta precisa è probabilmente impossibile, alcuni storici indicano il primo movimento e segno di cedimento dell’antico regime , ovvero la rivoluzione americana, come momento di inizio dell’età contemporanea, ma a livello e sul piano internazionale questi eventi non ebbero molta influenza e peso sulle dinamiche europee, semplicemente alcune colonie si dichiarano indipendenti per poi isolarsi dal resto del mondo, al contrario la rivoluzione francese invece ha molto più impatto, ed è la causa scatenante del congresso di Vienna, se si parla del congresso non puoi non parlare di Napoleone e di come Napoleone sia arrivato al potere.

Altri storici invece indicano il periodo di trasformazione post congresso di Vienna, e tutta l’età dei moti rivoluzionari del 20/21, 30/31 e 48 interamente nella sfera di influenza dell età moderna, facendo quindi iniziare l’età contemporanea solo dopo il 48/71 quando l’europa è veramente cambiata, ed è tutti gli effetti un vero e proprio mondo nuovo (e non nuovo mondo) con dinamiche economiche, sociali e strutture politiche completamente nuove e diverse rispetto al periodo precedente, i sovrani ormai regnano ma non governano ed i rappresentanti del popolo hanno un potere senza precedenti.

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