Il 5 Maggio 1821 moriva Napoleone Bonaparte | Storia Laggera

il 5 Maggio 1821 moriva Napoleone Bonaparte, un uomo che nella propria vita fu più di un uomo, fu un sogno, un idea, una visione, ma anche un incubo, una dannazione, una delusione.
Il 5 Maggio moriva un uomo, ma non la leggenda di Napoleone.

Ei fu. Siccome immobile, Dato il mortal sospiro, Stette la spoglia immemore…

Al Manzoni non serve altro per definire quel momento, non servono nomi, perché la storia, la fama e l’eco della leggenda di Napoleone sono più che sufficienti affinché chiunque legga, sappia e capisca che si parla di lui e della sua inattesa e prematura scomparsa.

Un unico indizio ci viene dato, nel titolo, la data, quella data, il 5 maggio, quel 5 maggio, quel fatidico 5 maggio 1821, in cui Napoleone lasciò per le proprie spoglie mortali.

Prologo

200 anni fa, il 5 Maggio 1821 moriva Napoleone Bonaparte, un uomo che nella propria vita fu più di un uomo. Napoleone fu un sogno, un idea, una visione, ma allo stesso tempo Napoleone fu un incubo, una dannazione, una delusione.

Celebrato, osannato, temuto, discusso, deriso.

Napoleone fu tutto e nulla, fu uomo e leggenda e quel 5 maggio la sua morte segnò una ferita profonda nella storia dell’umanità.

Luce polare o macchia indelebile che fosse, il 5 maggio napoleone morì, e il mondo sapeva che con la sua morte qualcosa finiva, ma allo stesso tempo sapeva, perfettamente che quel giorno moriva un uomo, ma non la sua leggenda.

Così, giocando con le parole di Alessandro Manzoni e della sua ode “il 5 maggio” , un componimento che in me ha sempre acceso le stesse sensazioni della “stagioni” di Francesco Guccini (brano che cita la stessa 5 maggio, ma questa è un altra storia, che vi ho già raccontato qualche anno fa), ho voluto scrivere questo mio post, questo mio pensiero su quell’uomo che cavalcò sull’Europa, che conquistò i cuori di milioni di uomini e donne, di milioni di anime in tutta Europa, anime che deluse furono la causa della sua caduta.

La notizia

La notizia giunge in Europa diverse settimane dopo la dipartita dell’ex imperatore, ma è normale, ci troviamo agli inizi del XIX secolo, i tempi dell’informazione dell’epoca sono molto lenti, perché una notizia giunga dalla periferia estrema dell’impero britannico, dall’isola di Sant’Elena, luogo di prigionia dell’ex imperatore, scelta perché lontana dalle principali rotte commerciali, è necessario che una nave parta ed approdi in qualche porto più frequentato, e da lì, può diffondersi verso l’Europa e il mondo.

L’aria che si respira in Europa è in quel momento un’aria tesa, pesante, è aria di tempesta che mina le fondamenta stesse dell’Europa post congresso di Vienna. Italia e Spagna sono attraversate da un’idea di rivoluzione, che però non riesce a concretizzarsi, almeno non in quel momento, e le rivolte che si consumano in quegli anni tra 1820 e 1821, una dopo l’altra vengono sedate nel sangue proprio in quel 1821.

Il tessuto del congresso di Vienna regge, l’Europa delle teste coronata è sopravvissuta a Napoleone, o almeno così sembrava in quel momento.

Gli effetti della morte di Napoleone sulla gente

Napoleone Bonaparte era morto, l’uomo era morto, ma non il suo ricordo, non le leggende né l’eco del suo nome. Un nome che, anche se non particolarmente amato era sinonimo di cambiamento. Napoleone era stato la spina nel fianco delle teste coronate e nonostante tutto, aveva portato in Europa una nuova classe dirigente di astrazione popolare.

Qualcuno gioiva di fronte alla notizia della dipartita del tiranno, altri speravano, o forse sapevano, che un giorno quello spirito ardente, figlio e incarnazione stessa della rivoluzionario, espressione del destino, della volontà di Dio, sarebbe ritornato ad infiammare l’Europa.

I contemporanei di Napoleone non sanno dove o quando, ma non hanno dubbi, da qualche parte, un giorno, un nuovo “Napoleone” sarebbe tornato, da qualche parte, in modo totalmente inaspettato, sarebbe apparso qualcuno che come lui avrebbe lasciato un segno indelebile nella storia umana. E in quel momento Napoleone era esattamente quello, un segno indelebile, per alcuni una stella polare, per altri una macchia, nella storia umana.

Manzoni e Napoleone

Manzoni nel proprio componimento, nella sua ode “il 5 maggio” ripensa a se e al proprio rapporto con la figura di Napoleone, al quale, per scelta, prima di quel momento, mai aveva dedicato alcunché, né un ode, né una poesia, nulla.

La scelta del Manzoni è dettata dal rammarico e dalla delusione da quell’uomo, la cui vita è stata degna di un poema epico, ma al contempo, pur essendosi presentato al mondo come paladino di certi ideali rivoluzionari, rimaneva un uomo, un uomo che alla fine antepose il proprio potere e i propri interessi ai popoli d’Europa, popoli che in origine erano il muscolo più forte delle armate napoleoniche ma che alla fine gli si voltarono contro, scegliendo le antiche aristocrazie contro quello stesso Napoleone conosciuto come salvatore e liberatore.

Come era percepito Napoleone dai contemporanei?

Napoleone è stato un uomo che dal nulla creò un impero universale su suolo europeo, degno di Roma, un uomo il cui genio fu sconfitto solo dalle proprie ambizioni e dal proprio orgoglio, dal tradimento dei popoli e la riluttanza a stringere alleanze.

Napoleone è stato un uomo che si scagliò contro il mondo, andando in contro ad una certa sconfitta e, anche se sconfitto, anche quando fu “mutilato” del proprio impero, non si arrese, tornò in campo, marciò su Parigi, riconquistò il potere e solo sfidò nuovamente il mondo. Ma era tardi, e in quella lotta con il mondo, il mondo gli oppose i popoli in armi che lui per primo aveva concepito, quei popoli che lui aveva tradito, e fu proprio la collera di quei popoli abbandonati che infuriò contro l’uomo, ma non contro ciò che l’uomo rappresentava, segnando definitivamente il declino del suo potere temporale, pur lasciando accesa la fiamma di una nuova speranza.

Una speranza fondata sul ricordo nostalgico di quelle imprese raccontate nell’allegria amara di boccali di vino e calici di birra. Rigorosamente invertiti, a rappresentanza figurata di quell’ordinamento sociale già una volta stravolto. 

Napoleone è morto, viva Napoleone!!!

Il 5 maggio 1821, moriva Napoleone bonaparte, e la notizia della sua dipartita si diffuse a macchia d’olio in tutto il mondo, tra i suoi sostenitori e i suoi avversari, tra chi ancora credeva in lui, chi ne era rimasto deluso e chi lo temeva. 

Ma indipendentemente dalle proprie posizioni, tutti, senza eccezione, apprendendo la notizia rimasero senza parole, perché tutti sapevano, senza eccezione, che la morte dell’uomo non ne segnava la fine. Che il suo paradiso, o inferno, era terreno che lì sulla terra, tra gli uomini, quel nome non sarebbe stato mai più dimenticato, e in quel momento, di fronte alla notizia uno degli uomini più influenti del proprio tempo, forse il più influente di quello e dei secoli immediatamente precedenti e successivi, non era più, il mondo trattenne il fiato.

Manzoni chiude il proprio componimento richiamando la divina provvidenza, la mano di Dio che interviene per sottrarre ad una vita di sofferenze un uomo immenso, che la satira britannica dipingeva come minuto. E l’intervento divino è sufficiente a passare una mano di spugna sulla salma di Napoleone, allontanando da essa ogni parola malevola.

Napoleone come idea

Nella morte Napoleone ritrova la propria grandezza perduta, la propria essenza ascetica, dismettendo i panni del tiranno, dismettendo i panni dell’uomo e indossando ancora una volta e per sempre, la splendente veste degli ideali rivoluzionari.

Ecco che la morte passa la propria mano sulle ceneri dell’uomo, consacrando la sua leggenda e restituendo, alle generazioni future il nodo materiale del giudizio.

Napoleone per i compagni è stato, ed ora non è più, e se la sua vita sia quella di un tiranno, di un conquistatore, di un giusto tra gli uomini o di un visionario, la decisione ultima sarebbe spettata alla storia.

Manzoni lascia ai posteri l’arduo compito di esprimere un giudizio morale su napoleone, e nel proprio componimento immortale, lo racconta tra luci e ombre, attraverso l’occhio di un uomo, un poeta, un intellettuale ottocentesco che Napoleone lo ha visto e vissuto, da lontano, da uomo comune che rimane deluso per le scelte politiche del grande imperatore.

Manzoni, e come lui una fetta importante di uomini e donne europei avevano visto in Napoleone un qualcosa, una speranza, una visione mai completamente realizzata, un sogno troppo a lungo rimandato, l’uomo era stato idealizzato e in quella umana elevazione si tradusse presto in una amara delusione vissuta con sofferto rammarico, almeno fino a quel 5 maggio.

Il pene di Napoleone era piccolo?

Cerchiamo di capire quanto era grande il pene di napoleone

Molti sostengono che, la smisurata ambizione di Napoleone, fosse un tentativo di compensare alle minute dimensioni del suo pene. Di interpretazioni di questo tipo ne abbiamo tantissime, e in tempi recenti, quasi ogni personaggio storico mai esistito, è stato oggetto di una reinterpretazione e analisi freudiana, ma, nel caso di napoleone, è stato possibile “verificare empiricamente” questa teoria, perché in effetti, ci è stato possibile studiare, analizzare e misurare, il pene di napoleone.

Quello che vedere in foto è il vero pene di Napoleone, e se vi state chiedendo perché si trova in una scatola e non è più attaccato al suo corpo la risposta è presto detta.

Durante l’esilio sull’isola di Sant’Elena, Napoleone si ritrovò circondato da persone, diciamo di corrente politica diversa dalla sua, a parte Napoleone sembra che non ci fosse un solo bonapartista sull’isola. comunque, napoleone era circondato da persone che non lo amavano e di conseguenza si comportò, passatemi il termine, da vero stronzo, soprattutto con il medico che lo assisteva.

Secondo la leggenda, durante i suoi ultimi giorni di vita, sembra che Napoleone fu particolarmente insopportabile e quando il medico dell’isola fu chiamato per accertare l’avvenuto decesso dell’imperatore (una volta incoronati si è imperatori per tutta la vita U.U).

Quando fu lì, dopo aver stabilito che napoleone era effettivamente morto, prese un coltello e lo evirò, prima che il corpo fosse spedito a Parigi per la sepoltura ed il prezioso trofeo di pene e i testicoli fu conservato in un contenitore di vetro (tipo salsicciotto viennese).

Secondo un altra versione, il pene di Napoleone fu tagliato non sull’isola di Sant’Elena ma durante il viaggio della salma verso Parigi, ad evirare il cadavere si dice sia stato il clerico Vignali, che non aveva mai perdonato al generale alcuni riferimenti sulle sue presunte defaillance sessuali.

In ogni caso, una volta giunto a Parigi per la sepoltura, nessuno ha controllato se nella bara ci fossero tutti i pezzi del defunto imperatore.

Inutile dire che la cosa non mi sorprende, non vedo per quale motivo qualcuno avrebbe dovuto slacciare i pantaloni al cadavere di Napoleone per controllare se aveva ancora il pene

Nel 1999 il l’imperiale fallo di Napoleone è stato battuto all’asta e venduto a John F. Lattime, docente alla Columbia University, per circa 4000 dollari.

Lattime non ha acquistato l’imperiale fallica reliquia per motivi collezionistici, il suo interesse era infatti prevalentemente scientifico, e in seguito all’acquisto ha compiuto diversi test, ma soprattutto, ha fatto diverse misurazioni, che ci permettono di rispondere alla domanda, Napoleone aveva il pene Piccolo?

Secondo le misurazioni effettuate da Lattime, il pene di Napoleone misurava circa 4,5 cm a riposo e circa 6-7 cm in erezione. Lascio a voi le dovute deduzioni.

Molti studi sono stati fatti sul pene di napoleone, e non solo sul vero, ma anche su molti dipinti, alcuni studiosi infatti, hanno avuto modo di constatare che, in numerosi ritratti, le pieghe dei pantaloni, mettevano in evidenza l’organo sessuale dell’imperatore francese, particolare che sembra rafforzare l’idea che napoleone fosse realmente “ossessionato” dalle dimensioni del proprio pene.

I sette migliori generali di Napoleone Bonaparte

Chi furono i sette migliori generali di Napoleone Bonaparte?

Stavo cercando un modo diverso per parlare di Napoleone, ed mi sono detto, quale modo migliore per parlare di Napoleone, senza parlare di Napoleone, se non attraverso gli uomini e le donne che hanno reso grande il minuto generale francese?

Pensando che fosse una buona idea ho cominciato a cercare del materiale sui suoi generali e mi sono imbattuto in una striminzita classifica di quelli che sono i suoi migliori generali, e mi sono detto, perché non partire da lì, da questo elenco di nomi, per raccontare l’esercito di napoleone visto dal dietro le quinte?

I generali che seguirono Napoleone furono tutti eccezionali, la “Grande Armée“, l’esercito napoleonico, a differenza di un qualsiasi altro esercito europeo di inizio XIX secolo, era guidato da generali fuori dal comune, uomini che si erano distinti sul campo di battaglia e che arrivarono alla testa degli eserciti per merito e non per diritto di nascita. Detto molto semplicemente, Napoleone non avrebbe mai affidato il comando dell’esercito al nipote di suo cugino, o al principe ereditario di poggibonsi, come invece facevano , almeno inizialmente, i suoi nemici.

Ad Austerlitz, la Grande Armée ha ragione dei propri nemici, proprio perché, tra le altre cose, i suoi generali erano abili strateghi che si erano formati sul campo di battaglia, mentre, dall’altra parte, ad avere l’ultima parola sulle scelte strategiche da compiere, tra gli altri, c’era il principe Alessandro I di Russia, che, se bene avesse studiato tecniche e strategie e probabilmente aveva una conoscenza teorica di gran lunga superiore a quella degli uomini di Napoleone, all’atto pratico non aveva mai combattuto, non sapeva cosa significasse cavalcare nel fango sotto i colpi d’artiglieria del nemico e non sapeva cosa significasse vedere il proprio compagno morirgli tra le braccia, annegato dal proprio sangue che lentamente gli riempiva i polmoni.

Napoleone, va detto, aveva un rapporto speciale con i propri generali, non propriamente definibile un rapporto di fiducia quanto di stima e di rispetto.

Napoleone sa che non può fidarsi di nessuno, sa perfettamente che i suoi generali lo servono fedelmente e con efficienza soltanto per il ritorno, in termini economici, politici e di prestigio, che ne hanno, e sa perfettamente che se le cose dovessero mettersi male, potrebbe ritrovarseli tutti contro, ma sa anche che quegli uomini sono dei soldati, sa che hanno un codice d’onore e sa che finché lui avrebbe tenuto fede alla parola data, loro, i suoi generali, avrebbero fatto altrettanto.

Nelle prossime sette settimane quindi, partiremo da qui, da questa dimensione di stima e diffidenza, di lealtà ed opportunismo, di carisma e fredde decisione, per guardare più da vicino, i sette migliori generali di napoleone.

Sono sette e non cinque, dieci, quindici o venti, semplicemente per una questione di tempi, e di liste precompilate, come vi anticipavo, partirò da una “classifica” che non ho elaborato io, in cui si parlava dei cinque migliori generali di Napoleone, lista alla quale ho voluto aggiungere di mia iniziativa altri due nomi, che a mio avviso meritano di essere citati.

Questi generali che ora andrò a presentarvi e che approfondiremo nelle prossime settimane, sono i “migliori” non in termini assoluti, anche perché stabilire chi è stato il migliore credo sia impossibile, tuttavia, sono i “migliori” sulla base di una semplice questione statistica, ovvero, sono i generali che hanno conseguito quelle che sono state le più grandi, inaspettate e importanti vittorie della Grand Armée.

Per intenderci, parliamo dei generali di Napoleone che hanno avuto ragione dei propri nemici ad Austerliz, Eylau, Jena, Hamburgo, Ulm, Valencia, Zaragoza, Zurigo, ecc ecc.

Il primo generale da citare è Michel Ney, detto il coraggioso, Ney è uno dei due generali che ho aggiunto io alla lista, perché è uno dei pochissimi generale di Napoleone, ad aver conseguito una vittoria significativa durante la fase di ritirata dalla Russia nel 1812. Mentre gli altri generali si ritiravano causa freddo e fame, Ney, insieme ai suoi uomini assediava e conquistava Smolensk.

Ma di Ney, che fu definito dai contemporanei come il più coraggioso tra i coraggiosi, e di cui Napoleone disse essere “indispensabile” sul campo di battaglia, parleremo la prossima settimana.

Ney guida le truppe alla conquista di Kowno in un dipinto di Denis-Auguste-Marie Raffet conservato al Museo del Louvre

Il secondo generale da citare in questa veloce rassegna di apertura, è Nicolas Jean-de-Dieu Soult che Napoleone definì “il miglior manovriero d’Europa”. Stando ai resoconti, Soult fu determinante nella vittoria bonapartista sia ad Austerlitz che a Jena, e sembra che proprio dopo Austerlitz, sia entrato nelle grazie dell’Imperatore, anche se comunque già in quell’occasione aveva servito come Generale.

Il maresciallo Soult discende, sotto gli occhi di Napoleone Bonaparte, dal colle dello Zurlan per prendere il comando dei suoi uomini all’inizio della battaglia di Austerlitz e guidare l’assalto all’altopiano del Pratzen

Il terzo generale di cui parleremo è Louis Alexandre Berthier, lui è uno dei pochissimi “figli d’arte” che incontriamo tra gli alti ranghi dell’esercito di napoleone. Berthier era figlio del tenente colonnello Jean Baptiste Berthier del corpo degli ingegneri topografici. Luis Alexander va detto che non fu l’unico Berthier a diventare un generale di Napoleone, ben tre dei suoi cinque fratelli infatti ascesero al rango di generale sotto napoleone, e qualcuno potrebbe giustamente mettere in discussione ciò che dicevamo in apertura a proposito della carriera meritocratica nella Grande Armée, se non fosse che i fratelli Berthier avevano dimostrato il proprio valore e le proprie capacità sul campo, durante la rivoluzione e servendo sotto Lunkor e La Fayette, in particolare Louis Alexandre Berthier era stato capo dello stato maggiore di Lunkor e La Fayette, ed aveva combattuto fianco a fianco, spalla a spalla, con il giovane Bonaparte.

Louis Alexandre Berthier e due dei suoi fratelli, durante una battaglia della campagna d’italia, dipinto di Louis-Francois Lejeune

Louis Gabriel Suchet, è l’altro generale che ho inserito io nella lista, lui era un uomo totalmente alieno al mondo militare, era figlio di setaioli ed è l’esempio più iconico di soldato che fa carriera sul campo, fino a diventare generale. Suchet era un volontario nell’armata repubblicana, e nel 1793 venne promosso sul campo, al rango di Tenente Colonnello, da un suo superiore che in quel momento aveva bisogno di un tenente colonnello di cui il 4 battaglione disponeva e quella che fu quasi una promozione fortuita, segnò l’inizio della carriera di un generale che si sarebbe fatto valere soprattutto in spagna, per intenderci Suchet è uno dei comandanti durante l’assedio di Tolone e durante la battaglia di Valencia. Lui è un uomo che passerà l’intera sua vita negli accampamenti e sul campo di battaglia e per questo, purtroppo, di lui ci sono giunti per lo più ritratti a matita di autori anonimi o sconosciuti.

Ritratto a matita di Louis Gabriel Suchet, realizzato sul campo, autore sconosciuto

Andrea Massena è un generale italico che servì napoleone soprattutto in italia, fu notato dal futuro imperatore soprattutto per la sua intraprendenza, elemento che in un armata “tradizionale” lo avrebbe penalizzato e probabilmente sottoposto a numerose punizioni per insubordinazione, ma per Napoleone i suoi successi e la sua fedeltà alla causa bonapartista, furono sufficienti a perdonare le iniziative della testa calda italica. Purtroppo per lui, quella stessa intraprendenza che gli aveva permesso di scalare i ranghi, fu anche la causa della sua caduta, così, dopo un sonoro fallimento in Portogallo nel 1810, la sua carriera militare, finì prematuramente e fu costretto a ritirarsi a vita privata, almeno fino al 1817, anno della sua morte.

Il generale Massena guida le sue truppe alla seconda battaglia di Zurigo, dipinto di François Bouchot .

Jean Lannes come Louis Gabriel Suchet prima di lui, è un eccellente esempio di brillante generale che non aveva nulla a che vedere con la vita militare.
Lannes era figlio di tintori e iniziala propria carriera militare come volontario della Guardia Nazionale francese, e di lui ci sarebbe così tanto, troppo, da dire. In questa sede mi limiterò a citare i suoi soprannomi, “L’Orlando dell’Armata d’Italia” e “L’Achille della Grande Armata“.
Sono due soprannomi importanti, autorevoli, che fanno riferimento alla letteratura classica e l’epica cavalleresca, e non è un caso, ma di questo ne parleremo meglio nel post dedicato a Lannes.

La battaglia di Fombio, di Giuseppe Pietro. Lannes fu uno dei comandanti francesi durante questa battaglia in italia.

Arriviamo a quello che i libri di storia annoverano come il miglior generale di Napoleone Bonaparte, ovvero Louis Nicolas Davout.
Credo che non serva specificare che quest’uomo era un generale infallibile, si dice che non abbia mai perso una battaglia, o comunque che non subì mai una sconfitta troppo dolorosa, e che dove lui combatteva la francia avrebbe trovato una vittoria.
Davout è il generale che intervenne ad Eylau nel 1807 quando ormai sembrava tutto perduto e riuscì a trasformare una certa sconfitta in una sorta di pareggio, che è considerato da molti come un incredibile successo visto l’inizio disastroso dello scontro.

Ritratto di Davout, Pierre Gautherot

Questi sono quelli che i libri di storia ricordano come alcuni dei più grandi e importanti generali di Napoleone Bonaparte, da questa prima, superficiale introduzione, abbiamo già avuto un assaggio di quanto questi uomini siano stati straordinari e come, il loro ruolo nella storia, sconosciuto ai più è stato in realtà determinante per la consacrazione dell’imperatore Francese.
Napoleone probabilmente non sarebbe nulla senza i suoi generali, e come questi stessi generali ci hanno insegnato, loro stessi non sarebbero stati nulla, senza gli uomini che li seguivano, uomini che, nella maggior parte dei casi erano volontari, figli di contadini, mugnai, fabbri, tintori, e che, si erano arruolati nella Grande Armée, spinti dal sogno di libertà e dalla promessa che forse, un giorno, sarebbero diventati grandi e potenti, come alcuni di quei generali, che certo non venivano da nobili famiglie.

Uomini come Davout hanno contribuito a consegnare a Napoleone importanti vittorie, ma allo stesso tempo, uomini come Lannes, hanno contribuito a consegnare a Napoleone un immenso esercito, con cui, Lannes, Davout e lo stesso Napoleone avrebbero potuto conquistare l’Europa.

Ed è importante sottolineare e ricordare che il modello a cui ambivano i volontari di napoleone, l’uomo con cui si immedesimavano, non era l’imperatore che comunque veniva da una buona famiglia, ma erano uomini come Lannes e Suchet, di fatto uomini comuni che avevano raggiunto il potere solo grazie alle proprie capacità.

Daenerys Targaryen è Napoleone! e come tale va amata per ciò che è stata e odiata per ciò che ha fatto.

Il personaggio di Daenerys Targaryen è ispirato a Napoleone, e questo legame con l’imperatore francese è sufficiente a spiegare quelle che ad alcuni osservatori possono sembrare incoerenze del personaggio.

Deanerys Targaryen non è impazzita troppo velocemente nell’ultima stagione, è sempre stata “pazza”, parliamo della stessa donna che ha chiuso un uomo in una cassaforte, ucciso il fratello versandogli dell’oro fuso in testa e si è fatta bruciare viva insieme al marito.

Stasera voglio parlarvi di Daenerys Targaryen del trono di spade, ma non preoccupatevi, non vi farò spoiler, principalmente perché userò la scusa di Daenerys e di Game of Thrones, per parlare di storia e Napoleone… più o meno.

Prima di cominciare con l’articolo, se pensi che il paragone tra Napoleone e Daenerys sia azzardato ti propongo un gioco, dimmi a chi tra Daenerys e Napoleone, si riferisce questa descrizione, e se non riesci a rispondere, forse il paragone non è così azzardato come pensavi.

Napoleone o Daenerys ?

Portatore di ideali rivoluzionari e moderni, immerso in un mondo a metà tra due epoche che si è ritrovato quasi costretto ad affrontare una minaccia spettrale proveniente dal vecchio mondo. Un personaggio che è allo stesso tempo sogno ed incubo per gli abitanti di un intero continente, le cui gesta riecheggiano anche fuori da quel continente.

Negli ultimi giorni ho letto molti commenti e critiche agli ultimi episodi, in cui si diceva che il personaggio è stato snaturato, rovinato ecc, beh, la mia magari sarà una voce impopolare, una voce fuori dal coro, ma non credo che sia così.

Tutte le volte che mi è capitato di parlare del trono di spade e di Daenerys, ho sempre detto, e sul mio canale youtube c’è un video di tre anni fa a testimonianza di ciò, che il suo personaggio era profondamente ispirato alla figura storica di Napoleone, e a tratti a quella della regina Vittoria, e alla luce delle ultime vicende narrative dell’ottava ed ultima stagione, non posso che confermare questa mia antica tesi, stabilendo in via definitiva che Daenerys è Napoleone. Senza se e senza ma, è Napoleone in tutto e per tutto, negli atteggiamenti, nelle idee, nella politica, nella strategia e nella simbologia, e proprio come Napoleone il suo personaggio è ricco di contraddizioni, e fondamentalmente è da amare per ciò che è stata e da odiare per ciò che ha fatto.

Napoleone nella storia europa è stato un punto di rottura che ha dato inizio, nel bene o nel male, ad un vero e proprio mondo nuovo, un nuovo modo di vivere e concepire la società, e lo stesso fa Daenerys nel proprio mondo, soprattutto ad Essos, ma anche a Westeros.

Daenerys della casa Bonaparte, si è fatta portatrice di valori ed ideali rivoluzionari, nuovi e moderni per il mondo in cui è cresciuta ed ha vissuto ed ha incarnato la visione di un governo illuminato, stando alla testa di un impero, costruito in maniera fulminea, grazie a fiumi di sangue versato, e di sangue la platinata ad Essos ne ha versato parecchio.

Non prendiamoci in giro, fatta eccezione per i fedelissimi, ai quali ha concesso molte libertà, questo personaggio è sempre stato spietato e implacabile, con chiunque, soprattutto con i propri oppositori, rivali e nemici. O forse avete dimenticato cosa ha fatto ai padroni e schiavisti di Astapor, Yunkai, Meereen? Quale destino ha riservato ai capi dei Kalasar Dothraki che non le hanno riconosciuto la guida del popolo Dothraki quando è stata portata (prigioniera) a Vaes Dothrak.? e non ultimo, avete forse dimenticato cosa ha fatto a quell’inetto di suo fratello Viserys? O sono l’unico a ricordare la colata di oro fuso sulla testa del biondino e le innumerevoli vite umane spezzate dai draghi, su ordine di Daenerys, nel continente orientale?

Certo, qualcuno potrebbe osservare che “loro” se lo meritavano, in fondo Viserys l’aveva venduta a Khal Drogo, e gli schiavisti di Astapor, Yunkai e Meereen, non erano proprio dei santi… ed è vero, non lo erano, non erano dei santi, ma non dimentichiamo che i suoi fedeli ed i draghi, hanno continuato, uccidere e affondare navi nemiche, anche dopo la resa, nonostante fosse una resa incondizionata.

Quando si parla di Daenerys Targaryen nata dalla tempesta, la madre dei draghi e Khaleesi del grande mare d’erba, non bisogna dimenticare che quei titoli non se li è dati per caso, e non li rinfacciava a chi aveva di fronte solo per allontanare la conversazione, ma li ostentava come medaglie dei propri traguardi politici e militari.

Daenerys ha conquistato l’obbedienza di un popolo di schiavi spartani, che conoscevano solo il linguaggio della forza e della guerra, non perché era carina e dolce, ma perché dimostrò loro di essere una donna forte e inflessibile.

Non è diventata Khaleese per diritto di nascita o perché si scopava il personaggio di Jason Momoa, ma perché ha dimostrato, ad un popolo di feroci e crudeli razziatori mongoli, che ricordiamolo, si ammazzavano per divertimento e mangiavano cuori di cavallo crudo per dimostrare quanto ce l’avevano grosso (il codino), di essere più feroce e crudele di loro e soprattutto di avercelo più grosso di loro, sia il codino che la cavalcatura.

Il personaggio di Daenerys sul piano storico, non è mai stato un personaggio totalmente positivo o negativo, apparentemente poco profondo ma in realtà è forse uno dei tre personaggi più complessi di tutta la serie, insieme a Sansa Stark e John Snow, all’anagrafe di Westeros Aegon Targeryan, figlio di Rhaegar Targeryan.

Daenerys credo ormai sia chiaro, è un personaggio che mi è sempre piaciuto, anche se non proprio il mio preferito. Ad ogni modo, la platinata mi piace principalmente per due motivi, il primo è che si rifaceva a Napoleone e a tratti alla regina Vittoria (che adoro, soprattutto nell’interpretazione data da Jenna Coleman), e il secondo è che si tratta di uno dei pochissimi personaggio in tutto il trono di spade a non essere mai stato realmente definito in modo chiaro, l’altro personaggio a non essere mai stato definito in modo chiaro è Sansa Stark.

Personalmente credo che questa ambiguità sia stata una scelta soprattutto narrativa e condizionata dal fatto che, autori e sceneggiatori, per quanto potessero essere aiutati da Martin, non siano mai effettivamente riusciti a comprendere questi personaggi.

A parte questo, a rendere ancora più complicata l’interpretazione di Daenerys è il fatto che il suo personaggio sia de facto una riproposizione della figura di Napoleone nel mondo del trono di spade, e come tale deve avere necessariamente due volti, uno “dolce” con il volto ed il sorriso di Emilia Clarke (sorriso che personalmente apprezzo molto, anche se preferisco quello di Jenna Coleman) e l’altro duro e impietoso, incazzato a bestia come Ronon Dex (Jason Momoa) su Sateda, e se non sapete cosa è successo a Ronon Dex su Sateda, beh, diciamo che vi siete persi un molto capitolo importante del percorso artistico di Momoa, senza il quale probabilmente non sarebbe diventato Khal Drogo.

Tornando alla madre dei draghi, questo personaggio, così ambiguo e ambivalente, da sempre criptico e inespressivo, che in più di un occasione ha dimostrato di essere al limite della sociopatia, tra l’altro, dichiarando apertamente di non essere in grado di provare empatia per altri esseri umani, e forse uno dei pochissimi che, nonostante l’evoluzione personale estremamente profonda, come dicevo, non ha mai visto un reale cambiamento del proprio essere, è uno dei pochi personaggi che non è mutato nel tempo (gli altri due l’ho già detto, sono Sansa e Jon, e ovviamente non è un caso se è così), a differenza di un Jaime Lannister o di un Tyrion Lannister o chiunque altro che, nonostante tutto, è rimasto coerente e fedele a se stesso ed a se stesso soltanto, o al massimo ai propri draghi, per i quali avrebbe distrutto intere città e tutti i loro abitanti… non dimentichiamo che a Pentos ha chiuso un uomo in una cassaforte gigante e bruciato vivo uno stregone perché aveva minacciato i suoi draghetti.

Quel piccolo nano Francese che crede d’essere lui la storia – Storia Leggera

Forse non avrei dovuto giocare così presto la carta di Waterloo, perché si tratta di una canzone potente, di una canzone completa e di una delle mie canzoni preferite. Dopo Waterloo, dopo la disfatta dell’imperatore è difficile, se non impossibile trovare una canzone altrettanto forte e penetrante, è estremamente difficile trovare un altra canzone che riesca con tanta semplicità a proiettarci in un un altro mondo, in un altra epoca, in un altra realtà che è aliena al nostro tempo, ma alla fine una canzone l’ho trovata, ed è ancora una volta una canzone di Roberto Vecchioni che racconta Napoleone, ma visto e raccontato con occhi diversi, in un altro momento. La scorsa settimana Waterloo ci ha mostrato la caduta di quel piccolo nano francese convinto d’essere lui la storia, il cielo di Austerlitz invece, ci racconta un altra realtà, ci racconta un grande e inaspettato trionfo di Napoleone, visto dalla parte dello sconfitto impero Russo.

Il cielo di Austerlitz ci racconta un momento esatto della storia napoleonica, ci racconta una battaglia in particolare, delle tante battaglie combattute durante le guerre napoleoniche, ci racconta una battaglia che avrebbe segnato in qualche modo l’inizio e la fine dello stesso impero napoleonico, ci racconta la battaglia di Austerlitz combattuta il 2 dicembre del 1805 e che vide l’impero francese scontrarsi contro la terza coalizione antifrancese formata dall’Impero Russo e dal Sacro Romano Impero. È uno scontro epocale, è lo scontro che la storia avrebbe consacrato come la battaglia dei tre imperatori, in cui Napoleone Bonaparte ed il suo esercito, nonostante l’inferiorità numerica, avrebbe sconfitto l’Imperatore del sacro romano impero Francesco II d’Asburgo-Lorena e lo Zar di tutte le russie Alexandr Pavlovič Romanov.

La battaglia di Austerlitz è uno scontro leggendario, è una battaglia che sarebbe entrata nel mito oltre che nella storia ed avrebbe rappresentato un punto di rottura epocale, un punto fisso nella storia dal quale si sarebbe dipanato un nuovo mondo, è uno scontro così maestoso, così sfolgorante che Lev Tolstoj lo avrebbe eletto a cardine del suo romanzo immortale Guerra e Pace, ed è proprio tra le pagine del grande romanzo storico russo che storia, poesia e letteratura si fondono insieme, per spalancare le porte ad un mondo nuovo.

Ciò che ci viene raccontato è un cambiamento epocale, che si mostra apparentemente come la fine dell’antico regime, ad Austerlitz il vecchio mondo sembra giunto alla propria conclusione, i vecchi imperi sembrano destinati a scomparire, l’aristocrazia tradizionale sembra costretta a cedere il passo alla storia, le antiche casate reali, che da generazioni regnavano incontrastate sull’Europa e sul mondo sembrano essere ad un passo dalla fine, quasi costrette a cedere le proprie corone. La battaglia di Austerlitz sembra segna il trionfo assoluto di un nuovo ordine mondiale, un ordine post rivoluzionario in cui un soldato non è più sola e semplice carne da macello, lasciato a morire sotto gli incessanti colpi di artiglieria del nemico, mentre gli ufficiali ed i nobili sono al sicuro nelle retrovie e guardano la battaglia da lontano senza che questa li coinvolga, senza che questa sembri reale, semplicemente muovendo delle pedine di carne ed ossa su un qualche campo di battaglia. Ad Austerlitz gli ufficiali sono sul campo, sono in prima linea, devono essere in prima linea perché si battono contro un nemico che non gioca secondo le regole tradizionali della guerra tra gentiluomini, ma cavalca alla testa del proprio esercito e che combatte al fianco dei propri uomini.

Il Napoleone di Austerliz non è solo un imperatore che assiste alla battaglia, non è solo un generale pianifica la battaglia, ma è anche un soldato come tanti altri, che vive nell’accampamento insieme ad altri soldati e un uomo che cammina tra i propri uomini e parla con loro, li ascolta, vive e ama come loro, il Napoleone di Austerlitz è un comandante che divide il pane ed il vino con i propri uomini, compreso l’ultimo degli stallieri e non soltanto con i propri generali.

Di fronte a questo nemico così potente, così umano, l’antica aristocrazia non può più restare in disparte, non può più restare al sicuro nelle retrovie, non può continuare a giocare alla guerra con le vite dei propri soldati, ma è costretta a scendere dal proprio idilliaco piedistallo, è costretta a lasciare il proprio olimpo personale per scendere e mescolarsi tra gli uomini, tra i soldati. Napoleone nella battaglia di Austerlitz trascina due imperatori nel fango di terriccio umido e sangue, li trascina tra i cadaveri dei soldati ancora caldi, li trascina in quell’inferno terreno che è il campo di battaglia durante gli scontri e lì, quei bambini viziati e capricciosi che giocavano a fare la guerra ma che non avevano mai realmente combattuto, vengono travolti dalla ferocia e dalla furia cieca ed incontrollabile dei soldati bonapartisti.

Ad Austerlitz ancora di più che nella stessa rivoluzione francese, le masse popolari si scontrano contro l’aristocrazia e contro ogni aspettativa, contro ogni logica, nonostante l’enorme inferiorità numerica e il minor numero di cannoni, quell’esercito di contadini armati e non addestrati che costituiva le armate napoleoniche, sarebbe riuscito non solo a vincere, ma a trionfare sul nemico, subendo un numero minimo di perdite tra caduti, feriti e prigionieri rispetto alle perdite del nemico, più numeroso, meglio addestrato e meglio armato. Ad Austerlitz, forse per la prima ed unica volta nella storia, un esercito meno numeroso, meno armato e non addestrato, è riuscito a sconfiggere il nemico sfidandolo in campo aperto, è riuscito a trionfare su un nemico più imponente nello scontro diretto. E pure, per assurdo, la battaglia in cui Napoleone ed il suo esercito sono riusciti a sbaragliare senza troppe difficoltà la terza coalizione, non avrebbe segna la fine definitiva dell’antico regime, la fine dell’opposizione antifrancese, ma l’inizio dei un interminabile serie di campagne militari che avrebbero portato l’Impero Napoleonico al proprio apice e rapidamente alla sua fine.

Dopo Austerlitz, dopo il trionfo bonapartista ad Austerlitz, Napoleone si sentirà onnipotente e si convincerà che il suo esercito è in grado di sconfiggere qualsiasi avversario. Napoleone cadrà vittima del proprio successo e lo stesso esercito napoleonico si convincerà di non poter essere sconfitto. In particolare la guardia imperiale, l’elité dell’esercito bonapartista, cadrà vittima del proprio successo e dell’aura mistica che da Austerlitz in avanti l’avrebbe accolta. Dopo Austerlitz la guardia imperiale diventa qualcosa di leggendario, il cui nome è diventato quasi un impronunciabile sinonimo di morte e sconfitta, e la cui carica è temuta, per la sua invincibilità dalla maggior parte degli eserciti europei. Da Austerlitz in avanti, l’irruzione sul campo di battaglia della guardia imperiale diventa il preludio alla sconfitta, l’atto finale che avrebbe segnato l’ennesimo successo bonapartista.

La guardia imperiale e formata dai veterani che avevano combattuto mille battaglie al fianco di Napoleone ed è infusa simultaneamente da un aura mistica e da un ombra demoniaca. Il potere ed il prestigio di questo corpo scelto sono legati a ragioni puramente strategiche e all’acume militare di Napoleone, il cui intuito lo aveva spinto a giocare la carica della guardia imperiale soltanto come carta finale, l’asso nella manica che avrebbe segnato le sorti della battaglia. La guardia imperiale è scagliata contro il nemico soltanto nelle fasi finali della battaglia, quando il nemico è ormai debole, stanco e quasi completamente privo di difese, in alcuni casi la carta della guardia imperiale è giocato addirittura quando le sorti della battaglia sono già decise e il nemico è già sconfitto. Allora e solo allora, la guardia imperiale può scendere in campo, forte e ancora immacolata, scagliandosi contro un nemico inerme e producendo una carica estremamente efficace e letale. In alcune battaglie la carica della guardia imperiale è totalmente inutile ai fini della vittoria in quella battaglia, poiché il nemico si è già o è prossimo alla ressa, e l’ultima carica appare come un atto di crudele ferocia, un inutile massacro che però è fondamentale per rinforzare l’idea di invincibilità delle forze napoleoniche e in particolare per alimentare il mito della guardia imperiale.

Nella battaglia di Austerlitz ad essere travolti dalla carica imperiale non sono soltanto i soldati del sacro romano impero e dell’impero russo, gli stessi Imperatori verranno travolti, vedendo con i propri occhi l’impossibilità di vincere contro un nemico così potete, feroce e crudele, ed è proprio in quel momento di sconforto e sconfitta, che si dipana la narrazione del cielo di Austerlitz.

Il campo di battaglia è raccontato attraverso gli occhi ed i pensieri di Aleksandr Romanov, l’Imperatore si sente lontano come mai prima d’allora, dal proprio mondo, dalle feste, dalla gloria, dalla sua reggia di Pietroburgo e in quella lontananza, tra le urla altissime dei soldati francesi, riesce a capire di aver trascorso tutta la propria esistenza in un mondo irreale, in un mondo lontano dalla realtà e lontano dal proprio popolo ed è questa consapevolezza che qualche anno più tardi lo avrebbe convinto ad accettare l’aiuto dell’acerrimo nemico di Napoleone, il generale prussiano Carl von Clausewitz, le cui intuizioni avrebbero portato alla riorganizzazione degli eserciti della coalizione e la sconfitta di Napoleone.

Sul campo di battaglia di Austerlitz, quando la battaglia è ormai finita e l’esercito russo è ormai sconfitto, Aleksander si lascia trasportare dai mille pensieri che affollano la propria mente, osserva quel piccolo nano francese chiamato Napoleone Bonaparte ergersi come fosse un gigante tra i cadaveri mentre “meschino come la sua vittoria” conta i morti quasi con cortesia, consapevole della portata epocale di quella vittoria, consapevole di aver inferto un duro colpo all’antico regime e illudendosi che quel colpo fosse un colpo letale, quasi a convinse di essere lui la storia.

Perché in fondo Napoleone è anche questo, è un grande canalizzatore della storia, il cui impero più che la sua vita, avrebbe cambiato per sempre il volto del mondo, inaugurando una nuova epoca nel sangue di milioni di uomini che sarebbero morti per un ideale che non gli apparteneva e per il quale, forse, non erano ancora pronti.

In un mix sfolgorante di storia, musica e letteratura, la Battaglia di Austerlitz, celebrata nel romanzo guerra e pace di Tolstoj è anche il cuore pulsante del brano il cielo di austerlitz di Roberto Vecchioni​.
Austerlitz segna il trionfo del piccolo, grande imperatore, mette in luce il suo acume militare e la sua crudeltà di uomo, Austerlitz è il momento in cui vengono spalancati i cancelli dell’inferno, permettendo ai demoni della guardia imperiale di liberarsi in europa portando l’inferno sulla terra, la battaglia dei tre imperatori segna apparentemente il declino dei vecchi imperi, dei vecchi imperatori e contemporaneamente il passaggio al lato oscuro della forza di Napoleone.

Morir per niente, però tra i fiori, di Waterloo

Storia Leggera

Sono passati quasi sei mesi da quando ho iniziato a cercare e selezionare canzoni da utilizzare come pretesto per parlare di storia e l’idea era quella di restringere il campo in modo da avere meno difficoltà al momento della scelta di una specifica canzone di cui parlare. In questi mesi però di canzoni ne ho ascoltate e selezionate così tante da essere tornato quasi al punto di partenza, le canzoni che ho scelto sono diventate così numerose da rendermi difficile sceglierne soltanto una alla volta, anche perché sono canzoni a cui in qualche modo voglio bene, mi ci sono affezionato perché le ho ascoltate e riascoltate centinaia di volte, soprattutto in questi mesi, e allora, riflettendo sulla mia indecisione e la difficoltà nello scegliere una canzone per questa settimana, alla fine sono riuscito a trovarne una.

La canzone che ho scelto è una canzone “rara”, nel senso che non è stata mai pubblicata dall’autore in un vero e proprio disco, ma figura soltanto in una raccolta di canzoni inedite e cantate al Club Tenco che è stata pubblicata nel 1999 con il titolo “Roba di Amilcare” in onore ad Amilcare Rambaldi, storico fondatore del club della canzone d’autore italiana, in onore e memoria di Luigi Tenco.La canzone che ho scelto si intitola Waterloo, è stata scritta ed interpretata Roberto Vecchioni che, a modo suo e con il suo stile unico è riuscito ad intrecciare la realtà musicale, il sogno di Amilcare e la storia di una delle più grandi e importanti battaglie del secolo XIX.

Il brano si dipana nel lontano 1815, all’indomani della storica battaglia che avrebbe segnato la definitiva disfatta di Napoleone, raccontando lo sguardo affranto di un soldato che in qualche modo è sopravvissuto alla battaglia ed ha assistito alla fine di un sogno, perché in fondo Waterloo non è altro che questo, l’ultimo grido di un piccolo gigante che inseguiva il proprio sogno.

La battaglia di Waterloo in un certo senso rappresenta l’atto conclusivo del grande spettacolo bonapartista che nel piccolo teatro europeo aveva chiamato in scena nuovi attori e aveva messo all’angolo i vecchi burattini e burattinai. Waterloo rappresenta il punto di contatto con la realtà di migliaia per4 sognatori che, come quelli venuti prima di loro, avevano scelto di seguire Napoleone in un’ultima marcia, questi soldati erano stati allettati dai racconti fantastici dei veterani, erano stati tentati dalla promessa di gloria, fama e libertà, marciavano al seguito di napoleone in nome di un ideale di libertà e uguaglianza e assetati di avventure straordinarie, sognavano di diventare eroi e di camminare un giorno, con indosso l’uniforme imperiale, fieri tra le strade di una Parigi in festa che celebrava il loro trionfo.

Napoleone non era solo un uomo, Napoleone era un sogno, l’incarnazione stessa del sogno rivoluzionario, Napoleone era una promessa, una visione, ma nei lunghi anni del suo impero, in suo nome era stato versato tanto sangue, forse troppo sangue e quel sogno che un tempo aveva rinvigorito le cariche della cavalleria napoleonica, permettendogli di scagliarsi impavida contro i colpi di cannone, di mortaio e di moschetto del nemico, quella furia cieca che era stata alimentata dal senso rivalsa nei confronti dell’aristocrazia europea, col tempo si era affievolita perché il nemico era mutato e con esso anche le masse popolari che un tempo rinfoltivano le fila dell’esercito napoleonico. La coalizione antifrancese o forse è meglio dire anti-napoleonica aveva imparato dalle proprie sconfitte, dai propri insuccessi e dai propri errori e ne aveva fatto tesoro, Inglesi, Prussiani e Tedeschi avevano capito che il solo, vero punto di forza di Napoleone e delle sue armate affondava le proprie radici negli ideali rivoluzionari, era la forza delle masse popolari che combattevano e morivano per la propria rivalsa e che vivendo in nome di un sogno di pace e libertà universale. E pure, quel sogno che un tempo riempiva i cuori dell’intera popolazione europea, all’alba della caduta di Napoleone appariva nitido soltanto a tratti, soltanto nel fuoco dei falò che si accendevano dopo le battaglie, quando il vino scorreva a fiumi, quando il battere incessante di tamburi e tamburelli sostituivano le raffiche di artiglieria e la musica a festa quasi copriva il ricordo dei caduti, quando l’aria già pesante per i respiri affannosi dei soldati e satura dell’aspro aroma odore della cordite, si diradava, quando all’alba i i raggi primi raggi di sole illuminavano i corpi gelidi dei caduti ed i soldati riuscivano per un istante a rivedere la miseria della vita quotidiana del mondo contadino, un mondo dal quale proveniva la maggior parte dei soldati che combattevano tra le fila di napoleone, quando la festa era ormai lontana, ciò che restava della era soltanto un forte mal di testa, puzza di piscio e l’amaro in bocca per la perdita di cari amici, fratelli e commilitoni.

C’era stato un tempo in cui l’arrivo dei bonapartisti era percepito dalle popolazioni europee come un momento di festa, un momento di gioia, c’era stato un tempo in cui il loro arrivo era percepito come il preludio all’inizio della rivoluzione che avrebbe ribaltato gli equilibri europei, il preludio alla fine dell’oppressione delle masse popolari da parte dell’aristocrazia e le uniformi imperiali erano più che delle semplici uniformi, erano un simbolo di libertà, di grandezza, di opportunità, i bonapartisti erano delle vere e proprie rockstar, vivevano una vita da sogno, densa di avventure vissute in giro per il mondo, in giro per l’europa e quelle uniformi, le loro uniformi profumavano di libertà, di sogni, ambizioni e speranza, ma quei tempi erano ormai lontani e in alcune realtà erano stati persino già dimenticati.
Già prima della battaglia di Lipsia del 1813 l’arrivo dei bonapartisti aveva smesso di essere percepito con gioia, orgoglio e speranza ed era diventato sinonimo di guai, la presenza nei villaggi e nelle città di soldati bonapartisti significava soldati da sfamare, dissetare e soddisfare, significava nascondere i maiali e le riserve di grano, di alcolici e le donne, soprattutto quelle più giovani e carine, significava tenere lontano dagli occhi dell’esercito il proprio futuro perché di quei maiali, di quel grano e di quel vino le forze imperiali aveva bisogno, ne avevano bisogno per il proprio sostentamento, per difendere la libertà di tutti, o almeno così dicevano, ne avevano bisogno per difendere i privilegi che la borghesia europea era riuscita a conquistare, riempendo il vuoto di potere lasciato dalla caduta delle vecchie teste coronate, ed era una libertà il cui prezzo era pagato non da quella stessa borghesia che dalle campagne napoleoniche aveva tutto da guadagnare e da perdere, ma dai piccoli contadini, mercanti ed allevatori, che non possedevano ricchezze ed i cui figli si erano arruolati per seguire quel sogno di libertà ed avventura, i cui raccolti erano stati requisiti per sfamare le forze imperiali e le cui figlie avevano giaciuto con quei soldati, figli di chissà chi, venuti da chissà dove, per difendere un ideale a cui non le masse popolari, già da tempo, non sentiva più di appartenere.

A Waterloo le uniformi dei soldati non profumavano più di libertà e di avventura, non erano la rappresentazione di sogni, ambizioni e speranze, quei temi erano già lontani, a Waterloo quelle uniformi puzzavano di sudore, piscio e sterco di cavallo.

Waterloo ci racconta tutto questo in poche strofe e lo fa attraverso gli occhi di un soldato sopravvissuto alla battaglia finale del grande imperatore, una battaglia alla quale il soldato era sopravvissuto perché fuggito, ed era fuggito non per codardia, per vigliaccheria o paura della morte, perché la morte l’aveva vista da vicino in mille occasioni e lì a Waterloo la morte l’aveva guardata negli occhi, l’aveva già vista cavalcare sull’Europa e falciare soldati così come suo padre falciava l’erba vecchia prima di una nuova miserevole semina di cui forse non avrebbe visto il raccolto.

Di fronte a quell’immagine proveniente dal mondo contadino, il soldato, figlio probabilmente di allevatori o contadini, si era interrogato sul senso di quel massacro, sul senso di quella guerra, di quelle innumerevoli battaglie e si era interrogato sul perché lui stesse lì a combattere e morire, si era chiesto se quelle idee in cui credeva fossero realmente le sue o se le aveva accettate, ascoltate da chissà chi, chissà quando e dove e mentre tutte queste domande attraversavano la sua mente sotto una pioggia di frecce e palle di cannone si era reso conto che quella rivoluzione che tanto aspettava e in cui credeva di credere, non era realmente la sua, che gli ideali per cui si batteva con tanto ardore non erano i suoi, che quella guerra non era la sua guerra e con la lungimiranza di chi conosce già il susseguirsi degli eventi futuri, si era reso conto che lui era un contadino e indipendentemente dall’esito della battaglia, per lui non sarebbe cambiato nulla, non sarebbe diventato un generale, non avrebbe marciato per le strade di Parigi come un eroe, o forse si, magari sarebbe stato celebrato come un eroe, uno dei tanti che aveva combattuto con onore per il grande imperatore ma poi, a guerra finita, sarebbe dovuto tornare ad una terra che forse non possedeva, per completare una semina che qualcuno forse aveva incominciato e allora il soldato, stringendo la propria vita forte al petto, decidere di combattere per se, decide di combattere la propria battaglia e non quella di qualcun’altro.
Il soldato scappa, comincia a correre il più forte possibile, il più lontano possibile e continua a correre finché ha fiato in gola e forza nelle gambe, corre come nemmeno Forrest Gump ha mai corso in vita sua, corre per l’unica cosa che gli appartiene veramente, corre per se, per la propria vita e per il proprio futuro, e nel correre ci mostra forse un anticipazione del fallimento dei moti rivoluzionari del 20/21, quei moti troppo borghesi per coinvolgere realmente le masse popolari, troppo elitari per i contadini che da quella rivoluzione non avrebbero ottenuto nulla se non, come a Waterloo, un vano sacrificio ed una morte onorevole. E allora il soldato preferisce vivere piuttosto che morire per niente tra i fiori di Waterloo.

La Battaglia del Nilo

1° agosto 1798 , la flotta francese, forte di tredici vascelli al comando dell’ammiraglio Brueys, è ancorata a pochi chilometri da Alessandria, in una baia delimitata a ovest dalla punta di Abukir e a est dalla foce Rosetta del Nilo.

Le navi sono disposte in fila, a chiudere completamente la baia. Le ciurme a bordo sono ridotte, perché molti sono stati mandati a terra per fare rifornimento di cibo, acqua e vettovaglie.

La campagna d’Egitto è iniziata nel migliore dei modi, con la conquista di Alessandria e la sconfitta delle truppe mamelucche a Il Cairo. Il piano di Napoleone per bloccare le linee commerciali tra India e Inghilterra sta procedendo a gonfie vele.

Ma i preparativi della spedizione fatti a Tolone non passano inosservati agli occhi dell’Ammiragliato inglese. Si teme una possibile invasione dell’Irlanda attraverso lo stretto di Gibilterra o, passando per la Spagna, del Portogallo. Anche Napoli e la Sicilia sono in pericolo.

Così l’ammiraglio della flotta del Mediterraneo, Lord St Vincent, decide di scoprire cosa i francesi hanno in mente. Affida l’incarico al contrammiraglio Horatio Nelson, già distintosi per il suo coraggio e l’abilità marinara nella battaglia di St Vincent, destinandogli tre navi di linea e tre fregate.

Nelson cattura una corvetta francese ma non riesce a scoprire dove sono destinate le truppe di Bonaparte a Tolone. Una terribile tempesta sparpaglia la flotta, costringendo Nelson a effettuare delle riparazioni sull’isola di San Pietro, in Sardegna.

Nel frattempo St Vincent riceve una lettera da parte di Sir Willliam Hamilton, ambasciatore inglese alla corte di Napoli, dove si richiede un intervento della flotta del Mediterraneo per fronteggiare la minaccia francese alle loro Maestà. St Vincent decide di inviare a rinforzo di Nelson altre nove navi di linea al comando di Thomas Troubridge.

La flotta di Nelson è ora forte di dodici vascelli, in quanto le tre fregate sono andate disperse durante la tempesta e non sono più riuscite a raggiungerlo.

Intanto, il 19 maggio 1798, Napoleone assedia per un mese Malta e depreda i tesori dell’ormai morente ordine cavalleresco.

Quando Nelson scopre l’accaduto decide di far rotta su Alessandria, poiché teme che il piano di Napoleone sia quello di interrompere le rotte commerciali tra India e Inghilterra. Non si sbaglia. Ma il destino lo fa arrivare a destinazione qualche ora prima della flotta francese, così da mancarla. Nelson torna subito indietro, non perdendo neanche un minuto di tempo. Se avesse atteso, Brueys e Napoleone stesso gli sarebbero finiti in bocca. Ma così non è stato.

È solo il 28 luglio 1798, quando ha di nuovo portato la flotta a est di Siracusa, che viene informato dell’arrivo di Bonaparte in Egitto e delle sue vittorie ad Alessandria e Il Cairo.

Nelson punta verso l’Egitto una seconda volta, quella buona. Nel pomeriggio del 1° agosto le due flotte si incontrano.

Brueys è nella baia che osserva le dodici navi inglesi puntare dritto su di lui, così, intorno alle cinque di pomeriggio, dà ordine di prepararsi per la battaglia. Lo scontro sta per iniziare.

Sul ponte di comando della Vanguard, la sua ammiraglia, Nelson prende delle scelte pericolose ma vincenti. Decide di affrontare immediatamente il nemico attaccandolo subito e di concentrare i suoi sforzi sull’avanguardia e il centro dello schieramento francese. Per fare ciò, rischia volontariamente di affrontare il fondale insidioso della baia. Infatti nessuno dei comandanti britannici conosce la profondità di quelle acque. La Culloden, comandata da Troubridge, si incaglia quasi subito e non riuscirà a partecipare allo scontro.

Ma la fortuna sorride a Nelson poiché la flotta nemica è ormeggiata ad ancora singola, lasciando così spazio sufficiente per le navi britanniche di insinuarsi tra quelle francesi. E così fanno.

Cinque navi inglesi penetrano nello schieramento nemico, ancorandosi anch’esse, mentre le altre si posizionano lungo il lato marino. I francesi sono tra due fuochi.

Quello che sorprende è che i cannoni aprono il fuoco solo quando ormai i vascelli sono a un tiro di moschetto. È un errore, questo, che costerà caro a Brueys.

Le ostilità iniziano all’imbrunire. Ben presto è notte e i lampi della battaglia illuminano il cielo della baia. Le urla dei marinai si confondono con lo schianto delle palle di ferro pieno contro le murate di legno delle navi. Le schegge volano ovunque mietendo vittime in entrambi i fronti.

Anche i due ammiragli vengono feriti nel cannoneggiamento. Brueys viene quasi tranciato a metà da un colpo al ventre e insiste per essere lasciato morire sul ponte di comando. Nelson è ferito alla testa e un lembo di pelle gli ricade sull’unico occhio da cui vede, accecandolo. Viene immediatamente portato sottocoperta per essere curato.

Intorno alle nove di sera, l’Orient, la nave ammiraglia francese da 120 cannoni, prende fuoco. I vascelli ancorati nelle vicinanze tentano la fuga per non essere coinvolti nell’incendio. Si crea così tanta confusione che finiscono col farsi fuoco l’uno contro l’altro.

Alle dieci l’Orient esplode lanciando in aria detriti e marinai, che ricadono sui ponti delle navi imponendo il silenzio. Vivan Denon, a circa trenta chilometri di distanza, vede il lampo dell’esplosione e rimane stupefatto dal silenzio irreale che è caduto dopo la terribile deflagrazione.

Dei mille uomini dell’Orient, solo settanta riescono a salvarsi, la battaglia riprende dopo qualche minuto di stupore. La retroguardia francese non riesce ad aiutare il resto della flotta a causa del vento contrario e viene anch’essa bombardata dagli inglesi.

Lo scontro continua per tutta la notte e per il giorno successivo. Il terzo giorno i francesi si arrendono. Delle loro tredici navi di linea, nove sono catturate e due sono state distrutte dalle fiamme. Solo un paio sono riuscite a fuggire in mare aperto. È una sconfitta totale.

Nelson nel frattempo si è ripreso e scrive della vittoria all’Ammiragliato.

L’enorme successo riportato da Nelson, costringe Napoleone a continuare la campagna d’Egitto senza i rifornimenti necessari. Bonaparte, con l’esercito ormai stremato e decimato dalla forte resistenza locale, torna in Francia nel 1799.

Nelson ha così cambiato le regole del combattimento navale, riscrivendone la strategia e imponendo il dominio indiscusso sul mare della Royal Navy.

Quando inizia l’età contemporanea?

Quando si parla di epoche e periodi storici, si va in contro ad un discorso molto complicato e complesso perché ovviamente le epoche non sono delle etichette fisse, non è possibile dire “il giorno x all’ora y è finita l’età moderna, o medievale o quel che sia“, ma si tende ad utilizzare e raggruppare situazioni ed eventi per definire dei periodi più “contenuti” rispetto a tutta la storia dell’umanità, e meno “precisi” rispetto ad un singolo secolo, tuttavia tra un “epoca” e una data organizzazione del mondo e quella successiva, generalmente esiste una fase di passaggio, caratterizzata da un periodo di “decadenza” e crisi.

Nel passaggio tra l’europa “universale” dell’impero romano, e la successiva europa degli stati nazionali, il passaggio e le trasformazioni hanno richiesto anni, per non dire secoli, di evoluzione e cambiamento, il periodo è talmente ampio che è stato etichettato come “epoca” con un inizio indicativo che coincide con la fine di Roma (quindi la deposizione dell’ultimo imperatore) e il raggiungimento dell’unità nazionale dell’ultimo stato nazionale europeo, (in questo caso la Spagna, con la fine della reconquista).

Può sembrare fatta ma in realtà e pure i primi “secoli” del medioevo e gli ultimi dell’età romana, sono terreno comune a metà tra la storia romana e quella medievale, e stiamo parlando di un periodo che probabilmente è quello meglio definito.

La premessa sul medioevo è importante per comprendere e capire quando inizia l’età contemporanea.

Proprio come avvenuto per il medioevo, la prima parte dell’età contemporanea è terreno comune della storia sia contemporanea che moderna, e anzi, secondo alcuni il periodo che va dalla gloriosa rivoluzione britannica e la guerra di secessione americana, andrebbe ridefinito come “secondo medioevo” perché si tratta di un nuovo periodo di passaggio e trasformazione in cui l’europa delle monarchie assolute si trasforma in qualcosa di nuovo, tuttavia il periodo è troppo “breve” per essere identificativo di un epoca, si tratta di un secolo o poco più.

Tornando al discorso sull’età contemporanea, generalmente l’età moderna viene identificata con l’età degli stati nazionali e delle monarchie tipiche dell’antico regime, e alcuni storici adottano come “evento conclusiva dell’antico regime” il congresso di Vienna, che di fatto, ridisegnando l’europa pre-napoleonica introduce comunque molte novità a livello amministrativo, secondo altri però il congresso di Vienna non è un punto fisso, ma un singolo tassello di un più ampio quadro di mobilitazione che si sarebbe conclusa tra il 1848/71 (circa) con la fine dell’impero austriaco, ed il raggiungimento dell’unità nazionale in Italia e Germania, questo periodo di transizione che ha inizio con la rivoluzione francese e comprende il ventennio napoleonico, viene visto come una fase di fermento e mobilitazione che avrebbe messo in crisi l’antico regime.

Ma allora quando inizia realmente l’età contemporanea ?

Dare una risposta precisa è probabilmente impossibile, alcuni storici indicano il primo movimento e segno di cedimento dell’antico regime , ovvero la rivoluzione americana, come momento di inizio dell’età contemporanea, ma a livello e sul piano internazionale questi eventi non ebbero molta influenza e peso sulle dinamiche europee, semplicemente alcune colonie si dichiarano indipendenti per poi isolarsi dal resto del mondo, al contrario la rivoluzione francese invece ha molto più impatto, ed è la causa scatenante del congresso di Vienna, se si parla del congresso non puoi non parlare di Napoleone e di come Napoleone sia arrivato al potere.

Altri storici invece indicano il periodo di trasformazione post congresso di Vienna, e tutta l’età dei moti rivoluzionari del 20/21, 30/31 e 48 interamente nella sfera di influenza dell età moderna, facendo quindi iniziare l’età contemporanea solo dopo il 48/71 quando l’europa è veramente cambiata, ed è tutti gli effetti un vero e proprio mondo nuovo (e non nuovo mondo) con dinamiche economiche, sociali e strutture politiche completamente nuove e diverse rispetto al periodo precedente, i sovrani ormai regnano ma non governano ed i rappresentanti del popolo hanno un potere senza precedenti.

La Battaglia di Austerlitz e la fine dell’ancien regime

Il 2 dicembre del 1805 nei pressi di Brno , nell’attuale Repubblica Ceca fu combattuta la battaglia di Austerlitz, passata alla storia come la battaglia dei tre Imperatori perché coinvolti nello scontro i tre imperi dell’Europa centro orientale, la Francia di Napoleone Bonaparte con i suoi circa 73 mila uomini da una arte, contro gli oltre 86 mila uomini della coalizione del sacro romano impero e l’esercito russo. Leggi tutto “La Battaglia di Austerlitz e la fine dell’ancien regime”

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