Il 5 Maggio 1821 moriva Napoleone Bonaparte | Storia Laggera

il 5 Maggio 1821 moriva Napoleone Bonaparte, un uomo che nella propria vita fu più di un uomo, fu un sogno, un idea, una visione, ma anche un incubo, una dannazione, una delusione.
Il 5 Maggio moriva un uomo, ma non la leggenda di Napoleone.

Ei fu. Siccome immobile, Dato il mortal sospiro, Stette la spoglia immemore…

Al Manzoni non serve altro per definire quel momento, non servono nomi, perché la storia, la fama e l’eco della leggenda di Napoleone sono più che sufficienti affinché chiunque legga, sappia e capisca che si parla di lui e della sua inattesa e prematura scomparsa.

Un unico indizio ci viene dato, nel titolo, la data, quella data, il 5 maggio, quel 5 maggio, quel fatidico 5 maggio 1821, in cui Napoleone lasciò per le proprie spoglie mortali.

Prologo

200 anni fa, il 5 Maggio 1821 moriva Napoleone Bonaparte, un uomo che nella propria vita fu più di un uomo. Napoleone fu un sogno, un idea, una visione, ma allo stesso tempo Napoleone fu un incubo, una dannazione, una delusione.

Celebrato, osannato, temuto, discusso, deriso.

Napoleone fu tutto e nulla, fu uomo e leggenda e quel 5 maggio la sua morte segnò una ferita profonda nella storia dell’umanità.

Luce polare o macchia indelebile che fosse, il 5 maggio napoleone morì, e il mondo sapeva che con la sua morte qualcosa finiva, ma allo stesso tempo sapeva, perfettamente che quel giorno moriva un uomo, ma non la sua leggenda.

Così, giocando con le parole di Alessandro Manzoni e della sua ode “il 5 maggio” , un componimento che in me ha sempre acceso le stesse sensazioni della “stagioni” di Francesco Guccini (brano che cita la stessa 5 maggio, ma questa è un altra storia, che vi ho già raccontato qualche anno fa), ho voluto scrivere questo mio post, questo mio pensiero su quell’uomo che cavalcò sull’Europa, che conquistò i cuori di milioni di uomini e donne, di milioni di anime in tutta Europa, anime che deluse furono la causa della sua caduta.

La notizia

La notizia giunge in Europa diverse settimane dopo la dipartita dell’ex imperatore, ma è normale, ci troviamo agli inizi del XIX secolo, i tempi dell’informazione dell’epoca sono molto lenti, perché una notizia giunga dalla periferia estrema dell’impero britannico, dall’isola di Sant’Elena, luogo di prigionia dell’ex imperatore, scelta perché lontana dalle principali rotte commerciali, è necessario che una nave parta ed approdi in qualche porto più frequentato, e da lì, può diffondersi verso l’Europa e il mondo.

L’aria che si respira in Europa è in quel momento un’aria tesa, pesante, è aria di tempesta che mina le fondamenta stesse dell’Europa post congresso di Vienna. Italia e Spagna sono attraversate da un’idea di rivoluzione, che però non riesce a concretizzarsi, almeno non in quel momento, e le rivolte che si consumano in quegli anni tra 1820 e 1821, una dopo l’altra vengono sedate nel sangue proprio in quel 1821.

Il tessuto del congresso di Vienna regge, l’Europa delle teste coronata è sopravvissuta a Napoleone, o almeno così sembrava in quel momento.

Gli effetti della morte di Napoleone sulla gente

Napoleone Bonaparte era morto, l’uomo era morto, ma non il suo ricordo, non le leggende né l’eco del suo nome. Un nome che, anche se non particolarmente amato era sinonimo di cambiamento. Napoleone era stato la spina nel fianco delle teste coronate e nonostante tutto, aveva portato in Europa una nuova classe dirigente di astrazione popolare.

Qualcuno gioiva di fronte alla notizia della dipartita del tiranno, altri speravano, o forse sapevano, che un giorno quello spirito ardente, figlio e incarnazione stessa della rivoluzionario, espressione del destino, della volontà di Dio, sarebbe ritornato ad infiammare l’Europa.

I contemporanei di Napoleone non sanno dove o quando, ma non hanno dubbi, da qualche parte, un giorno, un nuovo “Napoleone” sarebbe tornato, da qualche parte, in modo totalmente inaspettato, sarebbe apparso qualcuno che come lui avrebbe lasciato un segno indelebile nella storia umana. E in quel momento Napoleone era esattamente quello, un segno indelebile, per alcuni una stella polare, per altri una macchia, nella storia umana.

Manzoni e Napoleone

Manzoni nel proprio componimento, nella sua ode “il 5 maggio” ripensa a se e al proprio rapporto con la figura di Napoleone, al quale, per scelta, prima di quel momento, mai aveva dedicato alcunché, né un ode, né una poesia, nulla.

La scelta del Manzoni è dettata dal rammarico e dalla delusione da quell’uomo, la cui vita è stata degna di un poema epico, ma al contempo, pur essendosi presentato al mondo come paladino di certi ideali rivoluzionari, rimaneva un uomo, un uomo che alla fine antepose il proprio potere e i propri interessi ai popoli d’Europa, popoli che in origine erano il muscolo più forte delle armate napoleoniche ma che alla fine gli si voltarono contro, scegliendo le antiche aristocrazie contro quello stesso Napoleone conosciuto come salvatore e liberatore.

Come era percepito Napoleone dai contemporanei?

Napoleone è stato un uomo che dal nulla creò un impero universale su suolo europeo, degno di Roma, un uomo il cui genio fu sconfitto solo dalle proprie ambizioni e dal proprio orgoglio, dal tradimento dei popoli e la riluttanza a stringere alleanze.

Napoleone è stato un uomo che si scagliò contro il mondo, andando in contro ad una certa sconfitta e, anche se sconfitto, anche quando fu “mutilato” del proprio impero, non si arrese, tornò in campo, marciò su Parigi, riconquistò il potere e solo sfidò nuovamente il mondo. Ma era tardi, e in quella lotta con il mondo, il mondo gli oppose i popoli in armi che lui per primo aveva concepito, quei popoli che lui aveva tradito, e fu proprio la collera di quei popoli abbandonati che infuriò contro l’uomo, ma non contro ciò che l’uomo rappresentava, segnando definitivamente il declino del suo potere temporale, pur lasciando accesa la fiamma di una nuova speranza.

Una speranza fondata sul ricordo nostalgico di quelle imprese raccontate nell’allegria amara di boccali di vino e calici di birra. Rigorosamente invertiti, a rappresentanza figurata di quell’ordinamento sociale già una volta stravolto. 

Napoleone è morto, viva Napoleone!!!

Il 5 maggio 1821, moriva Napoleone bonaparte, e la notizia della sua dipartita si diffuse a macchia d’olio in tutto il mondo, tra i suoi sostenitori e i suoi avversari, tra chi ancora credeva in lui, chi ne era rimasto deluso e chi lo temeva. 

Ma indipendentemente dalle proprie posizioni, tutti, senza eccezione, apprendendo la notizia rimasero senza parole, perché tutti sapevano, senza eccezione, che la morte dell’uomo non ne segnava la fine. Che il suo paradiso, o inferno, era terreno che lì sulla terra, tra gli uomini, quel nome non sarebbe stato mai più dimenticato, e in quel momento, di fronte alla notizia uno degli uomini più influenti del proprio tempo, forse il più influente di quello e dei secoli immediatamente precedenti e successivi, non era più, il mondo trattenne il fiato.

Manzoni chiude il proprio componimento richiamando la divina provvidenza, la mano di Dio che interviene per sottrarre ad una vita di sofferenze un uomo immenso, che la satira britannica dipingeva come minuto. E l’intervento divino è sufficiente a passare una mano di spugna sulla salma di Napoleone, allontanando da essa ogni parola malevola.

Napoleone come idea

Nella morte Napoleone ritrova la propria grandezza perduta, la propria essenza ascetica, dismettendo i panni del tiranno, dismettendo i panni dell’uomo e indossando ancora una volta e per sempre, la splendente veste degli ideali rivoluzionari.

Ecco che la morte passa la propria mano sulle ceneri dell’uomo, consacrando la sua leggenda e restituendo, alle generazioni future il nodo materiale del giudizio.

Napoleone per i compagni è stato, ed ora non è più, e se la sua vita sia quella di un tiranno, di un conquistatore, di un giusto tra gli uomini o di un visionario, la decisione ultima sarebbe spettata alla storia.

Manzoni lascia ai posteri l’arduo compito di esprimere un giudizio morale su napoleone, e nel proprio componimento immortale, lo racconta tra luci e ombre, attraverso l’occhio di un uomo, un poeta, un intellettuale ottocentesco che Napoleone lo ha visto e vissuto, da lontano, da uomo comune che rimane deluso per le scelte politiche del grande imperatore.

Manzoni, e come lui una fetta importante di uomini e donne europei avevano visto in Napoleone un qualcosa, una speranza, una visione mai completamente realizzata, un sogno troppo a lungo rimandato, l’uomo era stato idealizzato e in quella umana elevazione si tradusse presto in una amara delusione vissuta con sofferto rammarico, almeno fino a quel 5 maggio.

Intervista a Marcello Flores

Questo libro che è stato pubblicato nell’anno del centenario della Rivoluzione Russa tratta di gran parte della storia del socialismo del 900. Quali sono le motivazioni che l’hanno portata a compiere questa scelta?
La rivoluzione russa si è imposta in gran parte del movimento operaio come l’unico modello di socialismo possibile, come il socialismo “vero”, diverso da quello dei “rinnegati” della Seconda internazionale. Mi interessava non tanto guardare a come il socialismo fosse stato costruito in Urss (su cui ci sono una quantità di volumi ottimi) e cioè con criteri e valori in qualche modo agli antipodi dai valori socialisti che si erano imposti nel movimento operaio tra Otto e Novecento; ma a come fosse stato possibile che quel socialismo (autoritario, monopartitico, violento, totalitario) diventasse per molti “il” modello di socialismo da difendere e se possibile da imitare. E ho cercato di farlo attorno alla rilevanza (alla creazione e alla diffusione) del mito che ha accompagnato l’Ottobre e ai successivi miti che hanno accompagnato la storia dell’Urss.

Nel libro, quando affronta il tema del socialismo degli anni 30 lei evidenzia due posizioni: una critica verso il socialismo dell’Unione Sovietica e l’ altra invece favorevole. In entrambi i casi Lei non cita intellettuali italiani. Che posizione ebbero gli intellettuali italiani dell’epoca verso l’Unione Sovietica?
Direi che tra queste due posizioni, una di critica molto forte e una di adesione acritica, vi sono anche posizioni intermedie, anche perché quello è il decennio in cui ci sono molti mutamenti di opinione, di cambiamento di giudizi, ecc. Per quanto riguarda gli italiani bisogna comprendere che, vivendo sotto il regime fascista, la situazione per loro era assai diversa da quella degli intellettuali che potevano esprimersi liberamente e confrontarsi in Francia, Inghilterra, Stati Uniti. Vi sono intellettuali antifascisti che sono presenti nel libro: Salvemini proprio a metà anni ’30 e Silone a cavallo tra anni ’20 e ’30, ma sono intellettuali con una forte partecipazione politica, anche diretta, quindi un po’ atipici rispetto a quelli degli altri paesi. Tra gli intellettuali italiani più vicini al fascismo vi fu un forte interesse per l’esperienza sovietica, che in alcuni casi e per alcuni aspetti fu avvicinata a quella fascista. Il punto di vista più significativo (d’interesse molto forte ma con occhi condizionati da un atteggiamento allora positivo verso il fascismo) fu quello di Corrado Alvaro dopo un viaggio che compì in Urss. Credo però che il clima e l’orizzonte del fascismo non permisero – tranne che per gli esuli dell’antifascismo – una discussione sull’Urss analoga a quella avvenuta nei paesi democratici. Anche se, occorre ricordarlo, le pubblicazioni sull’Urss negli anni ’30 sono numerosissime in Italia, comprese le maggiori opere scritte da Trockij.
Un momento di svolta nella storia dell’Unione Sovietica fu certamente ciò che avvenne nel febbraio del 1956 con il rapporto Chruščëv Che situazione c’era in quella fase? In che modo la lettura del rapporto segreto influenzò la politica dei partiti comunisti occidentali nei confronti dell’Unione Sovietica?
In Urss nel 1956 era in corso la lotta politica tra quei dirigenti che volevano, dopo la morte di Stalin, cambiare il corso dello sviluppo socio-economico (più attenzione ai consumi individuali, miglioramento delle condizioni di vita, specie nelle campagne, grandi obiettivi come il dissodamento delle terre vergini o la corsa allo spazio) alleggerendo la stretta repressiva pur nell’ambito di un monopolio del partito che restava esclusivo del partito comunista. Chruščëv riesce a emergere e, per rafforzarsi, decide di puntare sul dare la colpa a Stalin per salvare la sostanza del socialismo, con la formula del “culto della personalità”. I partiti comunisti occidentali, che erano all’oscuro fino all’ultimo della portata delle accuse a Stalin da parte di Chruščëv, si trovarono spiazzati e reagirono con difficoltà, edulcorando e riducendo nella sostanza le accuse rispetto a quanto aveva fatto Chruščëv. Togliatti, ad esempio, sotto la finta di voler meglio approfondire le “contraddizioni” del socialismo non permise che vi fosse una critica serrata a Stalin analoga a quella svolta in Urss, e si comportò con chi voleva aprire il dibattito (Giolitti, Calvino e tanti altri) con un settarismo e una chiusura di pieno stampo staliniano. Quando poi, nell’ottobre, vi fu la rivolta ungherese e l’intervento armato sovietico, si assisté a una nuova solidarietà in nome della repressione di presunti traditori e nuovi nemici del popolo, a dimostrazione di come la “destalinizzazione” non era vista come messa in discussione dei principi autoritari e totalitari dello stato e della politica sovietici, ma come cambiamento rispetto al passato ma in sostanziale continuità con esso. L’apertura democratica dei partiti comunisti ebbe sempre come vincolo e ostacolo insuperabile la critica all’Urss, come si vide subito dopo in occasione del premio Nobel a Pasternak e in ogni occasione almeno fino al 1968, quando si poterono esprimere – in occasione dell’invasione di Praga – le prime timide critiche.
Nel suo libro racconta che molti dei viaggiatori, intellettuali e politici che si recarono in Unione Sovietica furono “vittime” del confirmation bias (pregiudizio di conferma). Questo fenomeno ebbe una discontinuità dopo il Rapporto Chruščëv?
Lo ebbe per molti, ma purtroppo non per la maggioranza dei politici e intellettuali che rimasero alla guida dei partiti comunisti, che si ostinarono ancora a lungo – praticamente fino agli anni ’80 – a rifiutare di conoscere, discutere, prendere in considerazione le ricostruzioni storiche, economiche, culturali relative alle vicende del comunismo e dell’Urss. Questo “pregiudizio di conferma” fa sì che gli intellettuali comunisti scelgano di non leggere, ad esempio, Koestler o Solženicyn, perché si fidano dei giudizi che ne danno i dirigenti del partito, tacciandoli da anticomunisti, venduti, ecc. Dopo il Rapporto Chruščëv le cose migliorarono un po’, ma non di molto almeno nell’immediato: tranne, ovviamente, per coloro, e furono parecchi, che vissero le dichiarazioni al XX congresso e poi la rivolta ungherese come una crisi e un dramma che li portarono ad abbandonare il comunismo. Per gli altri credo che si debba giungere fino al 1968 perché le cose cambino davvero; anche se, a questo punto, il “pregiudizio di conferma” viene spesso utilizzato non più nei confronti dell’Urss ma della Cina e di Mao.
Nel periodo finale dell’Unione Sovietica, Gorbačëv cercò anche di riprendere alcune idee di Lenin per cercare di creare un socialismo diverso. Quali idee di Lenin cercò di riproporre?
Più che idee particolari si trattava di un clima diverso. Si voleva riproporre, intanto, una libera discussione dentro il partito, e infatti la glasnost? (trasparenza) fu la parola d’ordine più efficace adoperata da Gorbačëv. Anche se presto quegli spazi di maggiore libertà, verità, democrazia che si aprirono dentro il PCUS li si volle, a partire dallo stesso Gorbačëv, ampliare all’intera società. L’unica vera idea dell’epoca leninista direi che la si può trovare nelle riforme economiche, analoghe in spirito alla NEP che Lenin impose al X congresso nel marzo 1921 al termine della guerra civile. In questo caso, però, il fallimento delle riforme economiche nel breve periodo non dettero alcun consenso a Gorbačëv che, anzi, trovò proprio in patria le critiche più feroci. Si può dire che il richiamo al leninismo costituì il punto di partenza per legittimare le riforme, per lasciarsi definitivamente alle spalle lo stalinismo e quanto di esso era sopravvissuto nell’epoca brežneviana, con l’idea, però, che occorreva andare oltre, che non ci si poteva limitare al semplice ritorno a Lenin, per esempio sul mantenimento del partito unico. Però quello era l’orizzonte ideologico cui rifarsi per permettere a chi voleva le riforme dentro il partito di uscire allo scoperto senza timore di diventare un traditore o un anticomunista. La spinta della glasnost’, tuttavia, rese rapidamente impossibile restare all’interno dei limiti e dei vincoli del leninismo, perché la pressione per ampliare gli spazi democratici dentro la società divenne troppo forte.
In questi ultimi anni sta emergendo molto l’idea di una storia controfattuale. In che modo questo ha condizionato e condiziona lo studio della storia in generale e anche quella  dell’Unione sovietica e del socialismo?
La storia controfattuale ha avuto un momento di gloria qualche anno fa, ma nella maggior parte dei casi è rimasta ancorata a racconti narrativi o giornalistici, come occasione di fantasticare su “cosa sarebbe successo se”. Per gli storici interrogarsi su queste ipotesi significa poter mettere in luce le alternative esistenti anche se non realizzate, significa non accettare una visione meccanicistica e necessaria del divenire storico, per cui le cose non potevano andare che come sono andate, togliendo così ogni possibile libertà agli attori storici. Quello che non si può fare, se non come divertissement giornalistico o come spunto narrativo, è pensare di poter – sulla base delle alternative possibili o esistenti – immaginare come sarebbe evoluto il mondo in questo caso, anche se qualche speculazione, restando nel campo delle pure ipotesi, si può fare e può essere di qualche utilità per la comprensione del divenire storico.
Vorrei concludere adesso con una domanda un po’ personale. E’consuetudine di “Historical Eye” chiedere agli studiosi intervistati un po’ del loro percorso personale e delle motivazioni che li hanno spinti a intraprendere il difficile mestiere di storico. Crediamo sia molto importante capire “perché” si studia la storia o si diventa storici. Quindi, in definitiva, professore, quali furono le motivazioni che la portarono a scegliere di studiare storia?
Per me studiare la storia è stato un elemento strettamente connesso con l’impegno politico giovanile. La storia, soprattutto la storia contemporanea, rappresentava il terreno che sembrava più utile per meglio comprendere il presente, per dare strumenti che si sarebbero potuti utilizzare anche nell’arena politica. Per fortuna il fascino della storia e dello studio della storia ha preso presto il sopravvento: non perché essa non si sia dimostrata utilissima per la comprensione del presente, ma perché grazie alla lezione dei grandi storici (Bloch primo fra tutti) ho perduto subito una visione un po’ strumentale del suo uso, puntando alla conoscenza come elemento di comprensione di una complessità molto lontano dal giudizio riduttivo, spesso morale o moraleggiante, che emerge quando si lega troppo strettamente la politica alla storia. Guardare alla storia interrogandola con questioni che attengono al presente è qualcosa di diverso che cercare nella storia la legittimazione di quello che si pensa oggi o dell’agire nell’oggi. Leggi tutto “Intervista a Marcello Flores”

La storia del Rum, dai suoi antenati asiatici alla fortuna caraibica

Scrivere una storia completa del Rum, che tenga conto anche dei suoi illustri antenati è pressapoco impossibile, se si considera che alcuni dei suoi precursori risalgono a migliaia di anni fa.

Fin dall’antichità infatti, i popoli asiatici erano in grado di produrre una bevanda fermentata dalle canne da zucchero, questa bevanda era molto diffusa in India e nella Cina meridionale, e da lì si ritiene che si sarebbe diffusa un po ovunque, subendo negli anni alcune variazioni più o meno significative che nel XV secolo avrebbero dato vita al “nostro” Rum. Uno degli antenati orientali più “noti” al mondo occidentale è “brum”, questa bevanda dai malesi ha alle proprie spalle migliaia di anni di storia. Un altro antenato del rum giunto all’attenzione del mondo occidentale, e potrebbe essere il padre spirituale di questa bevanda, è detta “vino di zucchero” ed è descritta in un documento risalente XIV, in cui, Marco Polo parla di un “ottimo vino di zucchero” che gli venne offerto in una regione dell’attuale Iran.

Nell’Europa del XV secolo, più precisamente a Londra, sarebbe stata distillata una fermentata prodotta dallo zucchero delle colonie indiane (indie orientali), molto simile al rum, ma che ancora non era Rum così come lo conosciamo oggi, questa bevanda era una sorta di “adattamento europeo” al vino di zucchero descritto da Marco Polo. Successivamente alla scoperta delle Americhe e la colonizzazione del nuovo mondo, il vino di zucchero, sarebbe stato prodotto soprattutto utilizzando le canne da zucchero provenienti dalle “indie occidentali” dove le condizioni climatiche favorevoli e la mano d’opera a basso costo avrebbe permesso coltivazioni intensive di canne da zucchero.

In questa fase evolutiva del rum, il vino di zucchero britannico è ancora prodotto a Londra e si dovrà aspettare almeno fino al XVII secolo per avere la prima produzione di rum “americano”, così come lo conosciamo oggi, questi sarebbe stato prodotto direttamente nelle colonie caraibiche, dove gli schiavi impegnati nelle piantagioni per la coltivazione e la raffinazione dello zucchero, scoprirono che le melasse, un sotto-prodotto del processo di raffinazione, poteva fermentare in alcool.

La distillazione di questi sottoprodotti alcolici permetteva di concentrare l’alcool e rimuovere le impurità, producendo i primi veri rum e secondo la tradizione, il primo rum sarebbe stato distillato sull’Isola di Barbados.

Secondo un documento risalente al 1651

“Il maggiore intossicante prodotto sull’isola è il Rumbullion, detto anche Kill-Devil (ammazza-diavolo), ottenuto da canne da zucchero distillate, un bollente, infernale, e terribile liquore.”

La popolarità della bevanda, dalle proprietà inebrianti, molto più forte della birra, si sarebbe diffusa rapidamente nelle colonie statunitensi e per sostenere la crescente richiesta di liquore, nel 1664 sarebbe stata aperta a Staten Island la prima distilleria coloniale britannica. Non molto tempo più tardi una seconda distilleria sarebbe stata aperta anche a Boston, per poi affermarsi in florida che in breve sarebbe diventata la principale produttrice di Rum del continente americano.

La crescente domanda di Rum, implicava una crescente domanda di melassa che avrebbe viaggiato parallelamente alla crescente domanda di zucchero, molto richiesto in Europa per accompagnare bevande come il cioccolato, il tè e il caffè, e insieme la richiesta di Zucchero e di Rum avrebbe amplificato la richiesta di manodopera a basso costo, incrementando il traffico atlantico di schiavi.

 

Per produrre Rum serviva zucchero, per coltivare lo zucchero servivano schiavi e per trasportare schiavi dall’Africa alle Americhe erano necessari diversi mesi di navigazione, un periodo estremamente lungo per i marinai, che avrebbero trovato proprio nel Rum una valida e più efficace alternativa alla birra e al vino, poiché la più alta gradazione alcolica rendeva più rapido l’inebriamento e di conseguenza ai marinai era fornita una razione “minore” di rum rispetto alla birra, che sarebbe stata rapidamente sostituita dal liquore di zucchero, che era stivato in un numero minore di barili, dunque vi era più spazio per altro tipo di razioni alimentari, e questo avrebbe fatto la fortuna del rum, che si sarebbe legato in maniera indissolubile alla tradizione marinaresca nell’area caraibica.

Nel 1764 la corona britannica avrebbe emesso l’ Sugar Act, una legge che limitava l’importazione di zucchero caraibico nelle colonie americane, andando di fatto a limitare la produzione di Rum nelle colonie britanniche, secondo alcuni l’interruzione al commercio di zucchero causata dal Sugar Act potrebbe essere uno dei fattori preliminari che avrebbero portato alla rivoluzione americana. In ogni caso, la restrizioni all’importazione di rum dai possedimenti caraibici e la conseguente riduzione della circolazione del rum, avrebbe fatto la fortuna di un altro tipo di liquore, permettendo lo sviluppo del Whisky americano, o se preferite bourbon, la cui produzione avrebbe richiesto materie prime coltivate direttamente nelle colonie (poi ex colonie) americane causando il declino del Rum nell’area continentale del nord delle Americhe.

 

Fonte : 

Gabriella Baiguera, Il Piacere del Rum
Tasting Empire: Chocolate and the European Internalization of Mesoamerican Aesthetics

La politica: un’arte o una religione?

In epoca contemporanea, dal ‘700 in poi, la politica ha subito dei cambiamenti. Questi spesso sono identificati nelle due più clamorose rivoluzioni del tempo: la Rivoluzione Americana e la Rivoluzione Francese. Ma possiamo realmente affermare che queste hanno portato ad un drastico ed improvviso cambiamento della politica? Possiamo veramente dire che la politica è cambiata in quei due precisi momenti?
Ebbene no, perché aldilà dei fatti storici, degli avvenimenti, il cambiamento importante della politica si è avuto con il tempo. Certo, le rivoluzioni hanno avuto il loro ruolo, ma esse stesse sono scaturite dal cambiamento della politica, del modo di vedere la politica, quindi non è propriamente esatto affermare che il cambiamento c’è stato perché ci sono state le rivoluzioni. Ma allora com’è cambiata la politica? Quali sono stati i fattori determinanti per il cambiamento?

La politica come arte

Fin da sempre e prima del ‘700 la politica era considerata un’arte. La massima espressione di ciò che era la politica, di come la si vedeva e di come la si doveva praticare la si ritrova ne “Il Principe” di Niccolò Machiavelli, considerato un vero e proprio manuale per il politico. Secondo Machiavelli la politica era un’arte ed il politico doveva essere, allo stesso tempo, volpe e leone, ovvero furbo e forte. In pratica il padre della scienza politica elaborò un manuale secondo cui la politica è fatta di calcoli, astuzia, strategie. Inoltre all’epoca la si vedeva come un’attività limitata a determinati ambiti quali le guerre, le tasse, la politica estera, l’ordine pubblico e soprattutto come un’attività riservata a pochissime persone ovvero a quei pochi sovrani e principi, legittimati da un fondamento religioso: Re e Principi erano i rappresentanti di Dio sulla terra, avevano quindi una legittimazione divina a governare. Proprio per questo erano incoronati spesso dal Papa o comunque da importanti Vescovi. La religione aveva quindi un peso enorme nell’ambito politico.
Da sottolineare c’è anche il fatto che l’attività politica così come la si praticava a quei tempi non era stabile: non vi era una struttura di governo organizzata e con un’agenda più o meno stabile. I sovrani, i principi, si riunivano con i loro funzionari pochissime volte, per cui l’attività di governo era molto limitata e saltuaria.

La politica come una religione

Dal ‘700, il secolo delle rivoluzioni importanti, la politica cominciò a cambiare. Iniziò a mutare il modo di viverla, di praticarla, di concepirla. Essa non era più un’arte, bensì una completa dedizione dell’uomo all’attività di governo. Questo cambiamento lo si può vedere in alcune opere di Jacques-Louis David, artista dell’epoca, che nel famosissimo dipinto “Il giuramento degli Orazi” mise in risalto come la politica stava cambiando: l’uomo che giurava fedeltà alla Patria e giurava di essere pronto a morire per questa; le donne che, in privato, piangevano perché non riuscivano a concepire questa completa, alta e nobile dedizione dell’uomo alla Patria, alla politica, ai valori. Nacque quindi la concezione secondo cui la politica è il momento più alto e decisivo dell’attività umana.
Il cambiamento pratico più importante sicuramente è stato quello riguardante gli ambiti della politica. Se in precedenza l’ambito era limitato a guerra, tasse e diplomazia, per la prima volta, con la Rivoluzione Americana e con la prima carte dei diritti dell’uomo, la politica pervade ambiti come l’istruzione,  fino ad allora monopolio della Chiesa, che aveva e gestiva le scuole e quindi l’istruzione di quelli che nel concreto erano i sudditi; l’assistenza a chi non era in grado di sostenersi con i mezzi propri e, ambito molto particolare, l’aiuto della politica all’uomo nel perseguimento della propria felicità, visto come diritto fondamentale. Insomma, era in atto un radicale stravolgimento di quella che era la concezione della politica di un tempo. Essa adesso non riguarda più pochissime persone, un gruppo ristretto di sovrani e principi legittimati dal motivo divino a governare, bensì riguarda tutti e quindi non esistono più i sudditi, ma solo cittadini, che insieme decidono di “stipulare” un contratto e di rinunciare ad una parte della propria libertà in cambio di ordine, regole, organizzazione: governo.
Ma se alla base della politica ci sono dei cittadini consapevoli, che scelgono come e da chi farsi governare, ecco che viene a mancare la base religiosa che fino ad allora aveva dominato la politica. Se manca la base religiosa allora è ragionevole affermare che la politica poteva cominciare ad essere considerata laica e rispondente unicamente ai cittadini, che la controllavano attraverso l’opinione pubblica. Per la prima volta s’introduce questo concetto o meglio, nuovo soggetto politico, che appunto controllava la politica e l’attività del governo, attraverso mezzi come la stampa ed i partiti. Proprio i partiti rappresentano una degli stravolgimenti politici più importanti: da associazioni mutualistiche, cooperative, massonerie, nacquero soggetti politici organizzati con la specifica funzione di rappresentare una parte di cittadini, portare avanti un’idea o programma.
Con il tempo si è passati quindi da una politica disorganizzata e saltuaria ad una politica organizzata e strutturata: si è passati da Re e Principi che svolgevano attività di governo saltuaria, ad un governo organizzato gerarchicamente e territorialmente, che, tuttora, svolge attività di governo stabile e periodica. Con la scomparsa del motivo religioso, che legittimava i sovrani e rendeva il popolo suddito, spariscono anche le chiese di stato. Nasce, inizialmente, la religione dei cittadini: un vero e proprio credo nell’essere cittadini, nella ragione, nella razionalità.
Un vero e proprio culto della bandiera, della politica, dei valori. Infatti, successivamente alla Rivoluzione Francese, ci fu una vera e propria scristianizzazione della politica e degli stati, tanto che venivano organizzate orazioni d’intellettuali, riti per la venerazione della Dea Ragione e del Super – Dio, entità metafisica, essere supremo e venivano costruiti veri e propri luoghi di culto dove praticare la religione del cittadino: l’altare della Patria è un esempio. In seguito la Dea Ragione, con la nascita degli stati nazionali, venne sostituita dalla Nazione. Si passò quindi dalla religione del cittadino alla religione della nazione. Entrambe comunque non impedivano agli individui di credere, allo stesso tempo, nelle religioni classiche.
Nel corso dell’800 ed oltre, nacquero, sulla base della religione della nazione, due tipi diversi di religioni praticabili: la religione civile e la religione politica. La prima, una religione non obbligatoria e che si sviluppò in ambienti democratici, che prevedeva il culto della Patria, della bandiera, dei simboli patri, della nazione, del popolo stesso. La seconda, obbligatoria, nacque invece in ambienti di regime dittatoriale e consisteva nella venerazione dell’ideologia, del leader, del dittatore, che veniva insegnata a scuola e mediante la propaganda.

Nel tempo abbiamo visto come la politica è cambiata e non solo per via di alcuni avvenimenti, ma per il mutamento di diversi fattori. Il solo fatto che da un certo punto in poi, nella storia, la condizione del popolo sia mutata da sudditanza a cittadinanza, ha portato ad uno stravolgimento della visione che si aveva della politica e quindi da una visione artistica ad una religiosa. Che poi la politica possa essere considerata una vera religione, è soggettivo, ma i tratti sono quelli. È estremamente interessante, e se ne potrebbe parlare per righe e righe, di come ancora oggi la politica sia in continua evoluzione. Il cambiamento non si è mai arrestato e forse mai si arresterà, se solo pensiamo ai grandi sistemi d’idee e alle ideologie, che mantengono la politica in una condizione di costante rivoluzione.

Fonti:
G. Sabbatucci, V. Vidotto  
Storia Contemporanea,
L’ottocento 
G. Sabbatucci, V. Vidotto  Storia Contemporanea, Il Novecento
N.Machiavelli, Il Principe

Exit mobile version