La Germania restituisce di sua iniziativa all’Italia una testa marmorea di II sec. d.C. trafugata dai Nazisti

La Germania restituisce di sua iniziativa all’Italia una testa marmorea di II sec. d.C. La scultura era stata trafufata dall’italia durante la seconda guerra mondiale, probabilmente durante l’occupazione tedesca, e successivamente venduta, nel 1964, da un privato cittadino di Amburgo al direttore del Museo Archeologico dell’Università di Münster, che all’epoca non aveva sospettato della provenienza illecita del reperto archeologico.

A tal proposito, il ministro dei beni culturali Alberto Bonisoli ha dichiarato

«si tratta di un atto dal valore altamente simbolico, in quanto testimonia la piena adesione di Italia e Germania a principi e valori di carattere universale e il nostro approccio condiviso al concetto di tutela del patrimonio culturale. L’atteggiamento dell’Italia non è solo quello di un Paese che rivendica la restituzione di opere d’arte trafugate, ma siamo in prima fila quando ne ricorrono le circostanze, nella restituzione di opere d’arte appartenenti al patrimonio culturale di altri Paesi. È così che intendiamo combattere il fenomeno del mercato illegale del patrimonio culturale».

La restituzione ha avuto luogo durante la cerimonia organizzata nella residenza romana dell’ambasciatore tedesco, Viktor Elbling ed hanno preso parte all’evento l’attuale Rettore dell’Università di Münster, Johannes Wessels, il capo dell’Ufficio Legislativo del Mibac, Lorenzo D’Ascia, il Comandante del Comando Carabinieri TPC, Gen. Fabrizio Parrulli e il sindaco del Comune di Fondi, Giuliano Carnevale.

La testa trafugata

Le prime notizie uffiziali riguardante questa scultura risalgono agli anni trenta, quando vennero svolti degli scavi archeologici nella città di Fondi, e nel 1937 si ha una notizia certa della sua esistenza, poi il nulla, almeno fino al 1964 quando la testa marmorea è entrata a far parte della collezione del museo archeologico di Münster, in germania, acquistata dall’allora direttore, in un momento non ben precisato tra il 1944 ed il 1964.

Stando alla dichiarazione dell’attuale direttore del Museo, all’epoca non si conosceva la natura illecita dell’acquisizione, o, per essere meno diplomatici, ufficialmente l’allora direttore del museo, non sapeva che la testa era stata trafugata.

Noi oggi sappiamo che, durante l’occupazione nazifascita dell’italia, nella seconda parte della seconda guerra mondiale, molti musei, collezioni e siti archeologici (e non solo) vennero saccheggiati ed innumerevoli opere, più o meno importanti, vennero trafugate in Germania (e non solo), ed è presumibile che questa testa sia solo una delle tante opere trafugate dai nazifascisti dagli scavi di Fondi.

Voglio aggiungere qualche considerazione personale alla vicenda.

Anche se la scultura era stata trafugata (e poi venduta), l’Italia non ha mai fatto richiesta alla Germania per la restituzione di questo specifico bene culturale, probabilmente perché un artefatto “minore” che ha sicuramente un enorme valore storico culturale, ma che in termini economici e politici, non ha molta rilevanza, ed è presumibile che l’Italia degli anni 60, abbia preferito non investire tempo, risorse e denaro per ottenere la restituzione di una testa marmorea di cui il 99,99999% della popolazione, ignorava l’esistenza.

Detto più semplicemente, l’Italia di allora ha semplicemente ignorato il fatto che molte opere “minori”, o comunque di recente scoperta, vennero trafugate durante la guerra, più che altro per convenienza politica. Questa testa, trafugata durante la guerra, e scoperta pochi anni prima, per l’Italia poteva restare al museo di Münster, così come altre, innumerevoli opere, potevano restare in altri musei e collezioni private.

Ed è proprio per questo che la decisione tedesca di “restituire” la scultura all’italia e ai suoi legittimi proprietari, in maniera totalmente spontanea, senza che quindi vi siano state richieste o pressioni da parte dell’Italia per la sua restituzione, da, alla restituzione, un valore enorme.

Perché enorme?

Perché da quanto riportato, dal 1964 (anno in cui si è compiuta la vendita ed è stata ufficializzata la presenza della testa nella collezione del museo Archeologico dell’Università di Münster) ad oggi, l’Italia, pur avendone la possibilità (e ipotizzo il diritto) non ha mai fatto esplicita richiesta di restituzione per la scultura marmorea. Ed è improbabile che l’Italia non sapesse che quest’opera era lì, parliamo pur sempre di un museo universitario in cui la scultura è stata esposta per decenni, non di una collezione privata, segreta e accessibile a pochi eletti di una qualche cerchia ristretta.

La restituzione è avvenuta in maniera totalmente spontanea da parte della Germania e del museo archeologico dell’Università di Münster, che si è privato volontariamente di un pezzo della propria collezione, pezzo che, stando a quanto riportato dalle varie riviste che hanno dato la notizia e le dichiarazioni dello stesso direttore del museo, era stato acquistato “legalmente” se pur, non se ne conoscesse la provenienza illecita.

Non entro nel merito della vicenda giudiziaria, perché non è il mio campo, se volete approfondire vi rimando alle pagine facebook Lost Archeology e Italica Res, che si occupano di archeologia e beni culturali in modo molto più approfondito (e competente) di quanto io non potrò mai fare.

Voglio però soffermarmi sull’uso politico e diplomatico di questa vicenda e sull’effetto che, in teoria, dovrebbe avere sul piano delle relazioni internazionali, perché questa vicenda ha dei risvolti a mio avviso molto interessanti.

So che molti dubiteranno della versione ufficiale, per cui l’allora direttore del museo Archeologico dell’Università di Münster non conoscesse la natura illecita dell’acquisto, e personalmente sono il primo a non credere a questa narrazione ma, facciamo finta che sia così, facciamo finta che il direttore non sapesse che quell’opera proveniente dall’Italia nell’immediato dopoguerra, fosse stata trafugata e accettiamo la versione ufficiale.

In favore del direttore tedesco degli anni 60, voglio dire che, a parte un breve riferimento apparso nel 1937, di questa testa marmorea, nessuno sapeva nulla, non era stata neanche inserita nella lista dei beni e reperti archeologici e artistici trafugati dall’italia durante la guerra. Insomma, era un opera fantasma, e, anche se trafugata, l’acquisto è avvenuto in maniera legittima, o almeno così sembra essere secondo i registri. Detto più semplicemente, chi ha venduto la scultura al museo, non ha venduto un opera rubata al mercato nero, ma ha presentato la testa come un proprio ritrovamento, e la quasi totalità di riferimenti precedenti all’ritrovamento, la catalogazione ecc, questa narrazione potrebbe essere semrata plausibile al direttore.

La scelta tedesca di restituire la scultura marmorea all’italia è una decisione molto importante, ed è chiaramente un segno di collaborazione istituzionale, amicizia e rispetto reciproco, tra la Germania e l’Italia, un gesto di “buona fede” come ha definito lo stesso ministro Bonisoli, che de facto la Germania non era tenuta a fare, ma che ha fatto ugualmente.

Come dicevo, accettando la versione ufficiale, questa scultura, trovata in italia negli anni trenta, da archeologi italiani, era in un certo senso, proprietà dell’Italia, ma in realtà, sembra che questa attribuzione all’Italia sia qualcosa di estremamente recente, sembra quasi che l’Italia neanche sapesse che questa testa era stata trafugata.

Una decisione di questo tipo quindi, in cui un museo decide di rinunciare ad un opera della propria collezione, che comporta una “perdita” di valore per la collezione stessa del museo e non è mai una scelta facile, non è facile quando c’è un esplicita richiesta di restituzione, figuriamoci quando la richiesta non c’è.

Personalmente sono molto felice che il museo di Münster abbia preso questa decisione, perché, come ha osservato il ministro, è un esempio di collaborazione e cooperazione che va oltre gli interessi economici. Quell’opera è stata realizzata in italia, ha riposato in italia nel sottosuolo di Fondi per centinaia di anni prima di essere ritrovata e pochi anni dopo è stata trafugata durante la guerra.

Quella testa appartiene alla città di Fondi, appartiene ai suoi abitanti ed è importantissimo che ritorni a casa, dalla propria gente, e che quella comunità possa ammirarla “quotidianamente” o quasi.

Fonte : https://journalchc.com/2019/06/22/la-germania-restituisce-di-sua-iniziativa-allitalia-una-testa-marmorea-di-ii-sec-d-c/

Elogio a : Murubutu | Una voce attraverso storia, filosofia ed emozioni

L’hip hop non è un argomento che tratteremmo normalmente su questo sito ma faremo volentiere una eccezione per uno degli artisti più promettente della scena italiana, ed è particolare anche il musicista che merita questo articolo. Professore di storia e filosofia al Liceo Matilde di Canossa a Reggio Emilia, classe 1975, rapper e fondatore del collettivo La Kattiveria. Alessio Mariani a.k.a. Murubutu.

La sua capacità nello storytelling (il racconto di una storia attraverso una base hip hop) è straordinaria, le storie raccontate sono travolgenti ed è incredibile come tramite le rime Murubutu riesca a farti partecipe delle avventure dei personaggi. Basta premere play per sentirti vicino ad Angelo mentre abbandona il suo corpo e diventa il vento al punto che riesci a sentire la brezza sulla tua pelle , o il senso di malinconia che colpisce il Paolo che realizzerà il desiderio che un po’ tutti noi abbiamo avuto prima o poi, ovvero quello di abbandonare tutto e partire senza meta ma è ancora più assurdo come riesca a catturare anche il sentimento opposto ovvero la paura e il dubbio di lasciare la propria casa tramite la triste vicenda di Claudio sull’Isola Verde che lo ha cresciuto.

Queste vicende catturano sentimenti che poi artisti sono riusciti a trasmettere ma la sua abilità poetica non si limita a questo in quanto Murubutu non si ferma a raccontare storie d’amore senza renderle banali e non si fa problemi a dare un volto umano ai personaggi i quali sono vittime fragili del mondo che li circonda come ci viene ricordato duramente tra le note di I Marinai Tornano Tardi nel quale una donna continua ad attendere il proprio amore nonostante siano già passati 10 anni dalla sua morte in mare, le vicende felici si costruiscono attraverso frammenti tristi che impediscono alla storia di diventare un banalissimo “e vissero felici e contenti” come l’internamento a Buchenwald del partigiano Dino il quale una volta tornato dalla sua amata vivrà insieme a lei nonstante il trauma subito ed insieme vedranno l’italia rinascenere nel Comitatà della Liberazione Nazionale.

Si nota la sua passione per l’istruzione sopratutto nei brani dedicati alla filosofia e alla storia, una nota particolare va fatta per Diogene di Sinope e La Scuola Cinica dove il rapper emiliano si scatena in una sfilza di rime impossibili da eseguire e presenta a sua volta i pensieri e le storie di alcuni dei migliori filosofi ricercatori dell’eudemonismo. Nulla a che vedere con la sua performance dedicata alla scomparsa inspiegata dei soldati di Cambise nel quale si può percepire sin dalle prime rime la lunga marcia dei legionari che svanirono nel nulla durante il loro percorso verso le valli del Nilo.

Mi permetto di prendere un altro paragrafo per esaltare quest’ultima canzone perché secondo me è davvero la sua magnum opus. Il brano racconta la folle ma leggendaria marcia dei 59’000 uomini dell’esercito persiano attraverso il deserto verso la città di Siwa. Il ritmo incalzante risuona come tamburi da guerra che guidano la il passo dei legionari e dei mercenari mentre vengono interrotti dal sibilare del rapper come le brezze del vento che alzano la sabbia rovente e l’uso della “s” non fa altro che rafforzare la calura ardente che colpisce gli uomini strozzati nell’oceano di sabbia senza la possibilità di andare ne avanti ne indietro. I brevi intervalli nei quali il rapper racconta la mistica vicenda danno i dettagli di quella assurda spedizione e basta chiudere gli occhi per vedere gli animali scalciare e liberarsi mentre la sabbia si fa strada nel corpo dei poveri soldati e la disperazione prende il controllo in quello che era il più grande esercito dell’antichità che aveva messo in ginocchio tutti gli altri. E nella spaventosa bufera di sabbia tutti scomparirono nel nulla.

Nel silenzio, che ti incanta, una voce canta stanca

Segue il senso, della sabbia, giunse lento e scaldò l’aria

No, non lo videro

No, non lo udirono

Lui li raggiunse in un soffio ogni corpo svanì

La politica: un’arte o una religione?

In epoca contemporanea, dal ‘700 in poi, la politica ha subito dei cambiamenti. Questi spesso sono identificati nelle due più clamorose rivoluzioni del tempo: la Rivoluzione Americana e la Rivoluzione Francese. Ma possiamo realmente affermare che queste hanno portato ad un drastico ed improvviso cambiamento della politica? Possiamo veramente dire che la politica è cambiata in quei due precisi momenti?
Ebbene no, perché aldilà dei fatti storici, degli avvenimenti, il cambiamento importante della politica si è avuto con il tempo. Certo, le rivoluzioni hanno avuto il loro ruolo, ma esse stesse sono scaturite dal cambiamento della politica, del modo di vedere la politica, quindi non è propriamente esatto affermare che il cambiamento c’è stato perché ci sono state le rivoluzioni. Ma allora com’è cambiata la politica? Quali sono stati i fattori determinanti per il cambiamento?

La politica come arte

Fin da sempre e prima del ‘700 la politica era considerata un’arte. La massima espressione di ciò che era la politica, di come la si vedeva e di come la si doveva praticare la si ritrova ne “Il Principe” di Niccolò Machiavelli, considerato un vero e proprio manuale per il politico. Secondo Machiavelli la politica era un’arte ed il politico doveva essere, allo stesso tempo, volpe e leone, ovvero furbo e forte. In pratica il padre della scienza politica elaborò un manuale secondo cui la politica è fatta di calcoli, astuzia, strategie. Inoltre all’epoca la si vedeva come un’attività limitata a determinati ambiti quali le guerre, le tasse, la politica estera, l’ordine pubblico e soprattutto come un’attività riservata a pochissime persone ovvero a quei pochi sovrani e principi, legittimati da un fondamento religioso: Re e Principi erano i rappresentanti di Dio sulla terra, avevano quindi una legittimazione divina a governare. Proprio per questo erano incoronati spesso dal Papa o comunque da importanti Vescovi. La religione aveva quindi un peso enorme nell’ambito politico.
Da sottolineare c’è anche il fatto che l’attività politica così come la si praticava a quei tempi non era stabile: non vi era una struttura di governo organizzata e con un’agenda più o meno stabile. I sovrani, i principi, si riunivano con i loro funzionari pochissime volte, per cui l’attività di governo era molto limitata e saltuaria.

La politica come una religione

Dal ‘700, il secolo delle rivoluzioni importanti, la politica cominciò a cambiare. Iniziò a mutare il modo di viverla, di praticarla, di concepirla. Essa non era più un’arte, bensì una completa dedizione dell’uomo all’attività di governo. Questo cambiamento lo si può vedere in alcune opere di Jacques-Louis David, artista dell’epoca, che nel famosissimo dipinto “Il giuramento degli Orazi” mise in risalto come la politica stava cambiando: l’uomo che giurava fedeltà alla Patria e giurava di essere pronto a morire per questa; le donne che, in privato, piangevano perché non riuscivano a concepire questa completa, alta e nobile dedizione dell’uomo alla Patria, alla politica, ai valori. Nacque quindi la concezione secondo cui la politica è il momento più alto e decisivo dell’attività umana.
Il cambiamento pratico più importante sicuramente è stato quello riguardante gli ambiti della politica. Se in precedenza l’ambito era limitato a guerra, tasse e diplomazia, per la prima volta, con la Rivoluzione Americana e con la prima carte dei diritti dell’uomo, la politica pervade ambiti come l’istruzione,  fino ad allora monopolio della Chiesa, che aveva e gestiva le scuole e quindi l’istruzione di quelli che nel concreto erano i sudditi; l’assistenza a chi non era in grado di sostenersi con i mezzi propri e, ambito molto particolare, l’aiuto della politica all’uomo nel perseguimento della propria felicità, visto come diritto fondamentale. Insomma, era in atto un radicale stravolgimento di quella che era la concezione della politica di un tempo. Essa adesso non riguarda più pochissime persone, un gruppo ristretto di sovrani e principi legittimati dal motivo divino a governare, bensì riguarda tutti e quindi non esistono più i sudditi, ma solo cittadini, che insieme decidono di “stipulare” un contratto e di rinunciare ad una parte della propria libertà in cambio di ordine, regole, organizzazione: governo.
Ma se alla base della politica ci sono dei cittadini consapevoli, che scelgono come e da chi farsi governare, ecco che viene a mancare la base religiosa che fino ad allora aveva dominato la politica. Se manca la base religiosa allora è ragionevole affermare che la politica poteva cominciare ad essere considerata laica e rispondente unicamente ai cittadini, che la controllavano attraverso l’opinione pubblica. Per la prima volta s’introduce questo concetto o meglio, nuovo soggetto politico, che appunto controllava la politica e l’attività del governo, attraverso mezzi come la stampa ed i partiti. Proprio i partiti rappresentano una degli stravolgimenti politici più importanti: da associazioni mutualistiche, cooperative, massonerie, nacquero soggetti politici organizzati con la specifica funzione di rappresentare una parte di cittadini, portare avanti un’idea o programma.
Con il tempo si è passati quindi da una politica disorganizzata e saltuaria ad una politica organizzata e strutturata: si è passati da Re e Principi che svolgevano attività di governo saltuaria, ad un governo organizzato gerarchicamente e territorialmente, che, tuttora, svolge attività di governo stabile e periodica. Con la scomparsa del motivo religioso, che legittimava i sovrani e rendeva il popolo suddito, spariscono anche le chiese di stato. Nasce, inizialmente, la religione dei cittadini: un vero e proprio credo nell’essere cittadini, nella ragione, nella razionalità.
Un vero e proprio culto della bandiera, della politica, dei valori. Infatti, successivamente alla Rivoluzione Francese, ci fu una vera e propria scristianizzazione della politica e degli stati, tanto che venivano organizzate orazioni d’intellettuali, riti per la venerazione della Dea Ragione e del Super – Dio, entità metafisica, essere supremo e venivano costruiti veri e propri luoghi di culto dove praticare la religione del cittadino: l’altare della Patria è un esempio. In seguito la Dea Ragione, con la nascita degli stati nazionali, venne sostituita dalla Nazione. Si passò quindi dalla religione del cittadino alla religione della nazione. Entrambe comunque non impedivano agli individui di credere, allo stesso tempo, nelle religioni classiche.
Nel corso dell’800 ed oltre, nacquero, sulla base della religione della nazione, due tipi diversi di religioni praticabili: la religione civile e la religione politica. La prima, una religione non obbligatoria e che si sviluppò in ambienti democratici, che prevedeva il culto della Patria, della bandiera, dei simboli patri, della nazione, del popolo stesso. La seconda, obbligatoria, nacque invece in ambienti di regime dittatoriale e consisteva nella venerazione dell’ideologia, del leader, del dittatore, che veniva insegnata a scuola e mediante la propaganda.

Nel tempo abbiamo visto come la politica è cambiata e non solo per via di alcuni avvenimenti, ma per il mutamento di diversi fattori. Il solo fatto che da un certo punto in poi, nella storia, la condizione del popolo sia mutata da sudditanza a cittadinanza, ha portato ad uno stravolgimento della visione che si aveva della politica e quindi da una visione artistica ad una religiosa. Che poi la politica possa essere considerata una vera religione, è soggettivo, ma i tratti sono quelli. È estremamente interessante, e se ne potrebbe parlare per righe e righe, di come ancora oggi la politica sia in continua evoluzione. Il cambiamento non si è mai arrestato e forse mai si arresterà, se solo pensiamo ai grandi sistemi d’idee e alle ideologie, che mantengono la politica in una condizione di costante rivoluzione.

Fonti:
G. Sabbatucci, V. Vidotto  
Storia Contemporanea,
L’ottocento 
G. Sabbatucci, V. Vidotto  Storia Contemporanea, Il Novecento
N.Machiavelli, Il Principe

Il restauro della Cappella degli Scrovegni a Padova

Sono passati già quasi dieci anni dalla conclusione dei restauri che hanno gettato nuova luce sulla magnifica Cappelli degli Scrovegni, a Padova, uno degli esempi più lampanti della maestria e della modernità di Giotto. I lavori, che hanno richiesto l’intervento di un team variegato composto da tecnici, storici dell’arte e restauratori e i servizi necessari forniti da ditte specializzate in opere edili e noleggio di ponteggi, cominciarono nel luglio 2001 e vennero conclusi ufficialmente nel novembre 2002, con il Convegno Internazionale di studi tenutosi a Padova.

Grazie al compimento del programma di restauro, finanziato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, ai visitatori del nuovo millennio è stata data la possibilità di ammirare gli affreschi giotteschi in tutto il loro originario splendore, e di scoprire anche alcuni particolari significativi che il tempo aveva nascosto, ma che sono essenziali per capire la grandezza di un’artista quale Giotto è stato. Uno degli esempi più noti, in questo senso, riguarda le lacrime, visibili dopo il restauro, che rigano il viso delle madri raffigurate nella sezione dedicata alla strage degli innocenti, ma potremmo citare anche i tre specchietti che adornano l’aureola del Cristo Giudice, un artificio tecnico-scientifico più che artistico:

grazie a questa trovata, il 25 marzo, anniversario della consacrazione della Cappella alla Vergine Annunciata, la luce che entra dalla finestra e si staglia sul Cristo viene riflessa e illumina a sua volta l’immagine di Enrico Scrovegni, ossia il committente dell’opera.

Ma l’importanza del restauro non sta solo in queste chicche che è riuscito a portare alla luce, sta anche e soprattutto nell’essere riuscito a mettere l’accento sull’uso del colore e della tecnica del “marmorino” effettuato da Giotto nella decorazione della cappella. Non bisogna sottovalutare, inoltre, che i lavori di ristrutturazione si sono resi necessari non solo per il restauro del manufatto in sé, ma anche per rallentare il processo di deterioramento dell’opera. I lavori hanno dunque previsto, oltre che il restauro degli affreschi, lo studio di interventi di adeguamento dell’ambiente e di conservazione
dell’edificio, quali la messa in opera di controvetrate schermanti e la sostituzione delle lampade ad incandescenza, senza dimenticare l’innovazione maggiore, ossia la messa in opera del Corpo tecnologico attrezzato, un sistema di protezione studiato per impedire agli inquinanti gassosi di penetrare nella cappella e la cui installazione ha preceduto i lavori di restauro veri e propri.

Solo dopo la verifica dell’efficacia del Corpo tecnologico attrezzato è stato infatti possibile procedere con il montaggio di ponteggi e cominciare dunque gli interventi conservativi d’urgenza (consolidamento dell’intonaco e della pellicola pittorica) e i lavori volti ad attenuare le disomogeneità cromatiche che erano venute a crearsi in seguito ai precedenti lavori di restauro portati a termine alla fine dell’Ottocento e, più di recente, agli inizi degli anni Sessanta. Il restauro è stato inoltre accompagnato dalla creazione di una pagina web dedicata, dalla creazione di una banca dati sulla Cappella e il suo restauro e da una documentazione digitale, in modo da dare a tutti una possibilità di approfondimento per comprendere la portata e le finalità degli interventi di restauro.

Un’opera dettagliata e sfaccettata, dunque, quella che ha portato al compimento dei lavori di restauro della Cappella Scrovegni, un’opera che ha dato – e che darà ancora a lungo – la possibilità ai numerosi visitatori di godere dei colori e dei particolari riscoperti di un innegabile
capolavoro.

Articolo a cura di  Francesca Tessarollo
Fonte: Article-Marketing.it

Battlefield 1 e il realismo storico nei videogiochi.

Approfitto della imminente uscita di uno dei titoli videoludici più attesi dell’anno, Battlefield 1, un FPS ambientato nella prima guerra mondiale, per occuparmi di un argomento abbastanza diverso dal solito, ovvero il realismo storico nei videogiochi.

Metto le mani avanti dicendo che non sono un grande videogiocatore o un appassionato di videogiochi, e che quella che seguirà sarà solo la mia opinione, un opinione che può essere condivisa o meno ma che voglio condividere con voi, e spero mi facciate sapere qui sotto nei commenti, cosa ne pensate.

É parecchio tempo che mi sto tormentando con questa la domanda

I videogiochi possono essere storicamente attendibili ?

La prima volta che mi sono interrogato in merito è stato quando Lorenzo mi ha mostrato il primo trailer di Battlefield 1 proponendomi una recensione storica del trailer, un po come fa “the great war” nel suo canale youtube. Da quel momento ho iniziato a guardare questa tipologia di video, vedendo in essa un potenziale spiraglio per il mio canale, un modo per raggiungere un pubblico nuovo e diverso, insomma, il pubblico dei videogiocatori, il pubblico dei gamer, per intenderci il pubblico degli appassionati di videogiochi.

Sentivo tuttavia che mancasse qualcosa, avevo la convinzione che qualcosa mi stesse sfuggendo e che non riuscissi a vedere il quadro completo. Ed è fondamentalmente per questo che alla fine non ho mai realizzato la recensione storica del trailer di Battlefield 1, per questo e perché ho cancellato il file prima di editare il video.

Recentemente però è stata rilasciata una open beta o comunque si chiami, di questo titolo, e guardando i primi gameplay, sono finalmente riuscito a capire cosa mi mancasse e soprattutto perché probabilmente non sarò mai nella condizione di realizzare la recensione storica di un videogioco.
Ma procediamo con ordine, e vediamo perché, per quanto mi riguarda, un buon videogioco non potrà mai essere storicamente attendibile. E soprattutto perché è giusto che sia così.

Per chiarezza ricordo ancora una volta di non essere un videogiocatore, di fatto so poco o nulla su questo mondo, e tutto ciò che conosco è dovuto alla divulgazione videoludica effettuata da canali youtube come Playerinside, Sabaku no maiku e Quei due sul servere preciso di essermi avvicinato, non poco, a questo mondo, interessandomi soprattutto alla magia che può comunicare un videogioco.

Credo sia proprio questa la parola chiave che stavo cercando, il punto di partenza per il nostro ragionamento, la magia del videogioco, qualcosa che, per sua natura è di totalmente inconciliabile con la cruda realtà dei fatti.

Credo che un Videogioco realmente storicamente attendibile non potrebbe mai avere quella magia e in questo articolo cercherò di spiegare perché.

La cruda realtà dei fatti, la storia, per quanto possa essere affascinante è di per se molto lenta, violenta, crudele, a tratti anche disgustosa e questi elementi stonerebbero, presi così come sono, nel contesto videoludico, a meno che non si voglia realizzare un titolo disgustoso e allo stesso tempo noioso. Ma una simile idea non verrebbe neanche al più folle e visionario degli sviluppatori, poiché il videogioco, ha una sua precisa ragione d’essere e il suo scopo è quello di coinvolgere e catturare il videogiocatore, trascinandolo in un mondo dal quale è difficile non essere affascinati, ed è proprio a questo che mi riferisco quando parlo di magia del videogioco, la sua lontananza dalla realtà anche quando è estremamente verosimile.

Prendo ad esempio un titolo come il già citato Battlefield 1, si tratta di un FPS, uno spara-tutto in prima persona, ambientato nella prima guerra mondiale. La veridicità storica di questo titolo possiamo riscontrarla in tanti aspetti, o almeno così appare dalle immagini del trailer, e dai primi gameplay in beta, ma in altri aspetti, questi ultimi legati soprattutto al gameplay, inteso come esperienza di gioco, quella veridicità viene meno, crollando su se stessa e questo perché se fosse mantenuta “alta”, sarebbe probabilmente una tortura per il videogiocatore, che ricordiamo è il principale destinatario di un videogioco.

Come ha detto Synergo (del canale Youtube Quei due Sul Server) in un rapido scambio di opinioni proprio sotto un suo gameplay, la veridicità storica sarebbe la morte del gamelplay, ed è vero, e per quanto mi riguarda, non c’è nulla di più vero, perché la storia così come è, è lenta e noiosa, e in un gioco in cui bisogna sparare ai propri avversari nel minor tempo possibile e allo stesso tempo evitare di essere colpiti, è folle pensare e anche solo immaginare che possa esistere un qualche tipo di veridicità storica, nel gameplay. Perché appunto, quella sarebbe la morte stessa del gameplay, rendendo il titolo impossibile da giocare.

Un cecchino che per ricaricare il suo fucile impiega anche 10 minuti, e fa una fatica enorme per mettere a segno il bersaglio, in un titolo come Battlefield 1, è già bello che morto, e “io” ipotetico giocatore, col cavolo che sceglierei un cecchino per giocare, se nella mia partita potrò sparare al massimo uno o due colpi ogni dieci minuti, soprattutto se la partita durerà dieci minuti o già di lì.

Chiaramente quindi, un videogioco per essere realmente coinvolgente deve necessariamente scendere a compromessi, e adottare determinate convenzioni che andranno a sacrificare una certa dose di veridicità storica e di realismo, in cambio di un gameplay decisamente più dinamico e soprattutto rapido.

La veridicità storica di Battlefield 1 in questo senso non è superiore, ne inferiore, a quella di titoli che paradossalmente non sono ambientati in momenti storici precisi, e anzi, sono addirittura collocati in universi immaginari costruiti su misura per quel gioco. Penso a titoli ambientati in mondi fantasy che pur non avendo assolutamente nulla, e sottolineo, nulla, di storico al proprio interno, posso considerarli storicamente attendibili esattamente come, e magari anche più di battlefield 1.

Ma perché avviene ciò ?

Prendo ad esempio in questo caso un titolo come l’osannatissimo Dark Soul o ancora Skyrim, e perché no, anche World of Warcraft, in modo da tracciare un quadro che possa essere il più ampio possibile. E  a questo punto mi direte “ma Antonio, cosa c’è di storicamente attendibile in questi titoli, soprattutto in WOW?”.
Nulla, è questo il punto non c’è assolutamente nulla e proprio per questo, lo sono, proprio come accade in alcune serie televisive e romanzi, dichiaratamente fantasy come ad esempio Game of Thrones, nel cui universo totalmente inventato e costruito a tavolino da Martin, c’è più storia di quanta non se ne possa incontrare in vero e proprio romanzo storico, che di storico ha solo la didascalia.

Ancora una volta è opportuno procedere con ordine.
Come già detto e ripetuto, per quanto mi riguarda, l’esperienza di gioco non potrà mai essere storicamente soddisfacente, perché il giocatore si annoierebbe decisamente troppo presto, ma un gioco non è fatto di solo gameplay, certo, il gameplay è probabilmente la componente principale e più importante di un videogioco, guarderei un film, leggerei un libro o ascolterei un cd se mi interessasse altro.

Ma è proprio quest’altro che può essere storicamente attendibile e soddisfacente da quel punto di vista, riuscendoci in numerosissimi titoli, che non necessariamente hanno un vero e proprio background storico, ma, nella costruzione del mondo, nella rappresentazione dei rapporti di forza, degli equilibri e delle dinamiche sociali, riescono paradossalmente ad essere più storici di un gioco dichiaratamente a sfondo storico.

Non so se quest’ultimo passaggio è abbastanza chiaro, cercherò di mettere un po d’ordine magari con qualche esempio.

Un titolo come Assasin’s Creed, è, diversamente da quello che può sembrare, storicamente attendibile, non mi riferisco al gameplay per i motivi sopra citati, ne alla trama, dichiaratamente fantasticheggiante e poco realistica, ma penso agli elementi “storici” nelle ambientazioni che vanno a costituire lo sfondo della nostra avventura.

Abbiamo ambientazioni precise, ben definite nel tempo e nello spazio, e in quelle ambientazioni, se rivolgiamo lo sguardo oltre il nostro personaggio, possiamo osservare precise dinamiche sociali, tra popolo e nobili, tra mercanti e pirati, tra operai e capitalisti, ecc ecc ecc, e cos’è la storia se non l’insieme delle dinamiche e delle trasformazioni sociali che coinvolgono le società umane.

Queste dinamiche sono ben descritte, ben realizzate e se bene non costituiscano l’elemento centrale del titolo, danno forma allo sfondo e all’atmosfera che si può respirare in esso, danno corpo al secondo piano e questi riempiono la maggior parte dello spazio di un titolo, anche se non sempre in maniera così invasiva da permettere al giocatore meno attento di notare certi particolari.

Sabaku no maiku nei suoi video su youtube, da molto spazio e molta attenzione allo sfondo, a ciò che si vede e intravede all’orizzonte, soffermandosi su quei piccoli e quasi insignificanti dettagli che però completano un gioco, rendendolo un bel gioco.
Questi elementi a tutti gli effetti secondari, sono, per quanto mi riguarda, una delle colonne portanti di un buon titolo, e per quanto riguarda la veridicità storica, l’unico elemento che possa realmente ospitarla al cento percento.

Nel mio discorso voglio quindi dividere il videogioco in tre parti distinte, alcune delle quali possono essere storicamente attendibili, altre non possono e non devono assolutamente esserlo.

Come già detto e ripetuto mille volte in questo mio ragionamento pubblico, non sono un videogiocatore e le mie conoscenze in materia sono abbastanza limitate, ma per questo discorso credo/spero più che sufficienti.

Le tre parti in cui voglio dividere il gioco sono, il gameplay, la trama e d il mondo in cui il gioco è ambientato.
Per quanto riguarda il sistema di gioco e il gameplay, come già detto in maniera più che abbondante, per motivi pratici questi non può assolutamente essere storicamente attendibile, a meno che no si stia giocando ad un simulatore di vassalli nel X secolo.

Per quanto riguarda la trama, la questione sulla possibile veridicità storica diventa di gran lunga più complessa, e se da una parte, in una campagna singleplayer  la veridicità storica può essere presente, accurata e magari anche divertente, senza insorgere in particolari problematiche, diventa un ostacolo bello grosso nel momento in cui si passa ad un potenziale multiplayer andrebbe a limitare tantissimo, oserei dire troppo, le possibilità del giocatore.

In questo caso la veridicità storica, come nel caso del gameplay, ucciderebbe la competizione, rendendo di fatto il titolo ingiocabile. Prendo ancora una volta ad esempio Battlefield 1, ipotizzando di scegliere la Russia, un ipotetico giocatore sarebbe obbligato ad abbandonare il gioco verso la fine, senza alcuna possibilità di vittoria, e chi sceglierebbe mai la Russia, la Germania, l’impero Austro Ungarico o l’impero Ottomano , se, l’unica possibile conclusione in un contesto di realismo storico è la sconfitta ?

Tutti sceglierebbero di giocare con Francia, Gran Bretagna e USA. Al massimo potrebbero scegliere l’Austria Ungheria e giocarsela contro l’Italia, ma alla fine dovrebbero comunque perdere la guerra.
E se si considera che in una competizione, per quanto la partecipazione possa essere sicuramente importante, alla fine si gioca per vincere, ed ecco allora che il realismo storico applicato alla trama, diventerebbe un ostacolo insormontabile, letale per il videogioco e il videogiocatore.

Arriviamo infine all’ultimo dei tasselli che compongono un videogioco, il mondo in cui un determinato titolo è ambientato, questo può effettivamente essere “realistico” ? Deve sottostare a precise convenzioni affinché il titolo sia godibile ? In questo caso credo che il realismo storico possa presentarsi in maniera dirompente, ed essere accurato fin nel minimo dettaglio, senza inficiare la godibilità del titolo.

La presenza di un mondo storicamente realistico arricchito da elementi grafici in linea con il tempo e lo spazio in cui siamo proiettati, possono costituire un interessante e ricco background in cui vivere la nostra avventura.  Questi elementi che vanno a costruire il sottofondo narrativo possono, e in alcuni casi devono, essere perfettamente coerenti con l’epoca in cui è ambientato il titolo, andando quindi a stabilire e definire i rapporti e le convenzioni sociali che regolano quel mondo, più o meno simile con il nostro mondo in un determinato periodo storico, e questo senza alcun tipo di conseguenze sul gameplay.

In conclusione, un buon videogioco, che sia realmente giocabile, non potrà mai essere storicamente attendibile al 100%  e ci sarà sempre bisogno di una qualche convenzione che andrà a modificare la percezione di un determinato momento storico, tuttavia, qualunque variazione nel mondo in cui è ambientato andrà semplicemente a creare un nuovo mondo, storicamente “coerente” con se stesso, e sostanzialmente indipendentemente dal realismo del titolo, poiché ciò che conta in un videogioco è la sua giocabilità, e sfido chiunque a giocare con un protagonista lebbroso o colpito dalla dissenteria, mentre è impegnato a schivare secchiate di piscio gettate dalla finestra, e tutto questo durante un inseguimento necessario per completare la propria missione.

 

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