L’ostaggio nel mondo antico

L’ostaggio nel mondo antico, è un prigioniero politico, ma anche una garanzia per il rispetto di trattati e un mediatore

Il termine Ostaggio, oggi, ha un significato ben preciso, che a grandi linee possiamo definire come, una persona fisica tenuta prigioniera, per ragioni economiche o politiche, o per altri motivi, ma nel mondo antico, il termine ostaggio o meglio, quello che noi oggi traduciamo con il termine ostaggio, aveva un significato leggermente differente dal moderno concetto di ostaggio, diciamo che l’ostaggio nel mondo antico, soprattutto nel mondo greco romano, era in parte un prigioniero, in parte un ospite, in parte un mediatore, ma ovviamente, non era così sempre e dappertutto.

Per la Treccani l'ostaggio è "cittadino di uno stato nemico che un belligerante tiene in proprio potere e contro il quale minaccia di prendere determinate misure..."

Molto dipendeva dall’ostaggio, dalle sue doti politiche e dalla sua dote, ed i rapporti di forza e le relazioni che riguardavano la civiltà di appartenenza dell’ostaggio e quella di cui era ostaggio avevano un peso considerevole nel determinare le condizioni dell’ostaggio, ma, andiamo con ordine e partiamo dal termine ostaggio e dalla sua etimologia.

L’etimologia della parola Ostaggio

Noi oggi sappiamo che l’etimologia della parola ostaggio deriva dal francese antico hostage, le cui radici affondano nel latino del tardo antico, un arco temporale che va dal finire del IV al IX secolo dopo cristo, l’hostage del francese antico è un evoluzione del più antico termine hospitatĭcum, che, a sua volta è derivato dal più antico hospes -pĭtis, che letteralmente letteralmente, ospite politico.

La parola ostaggio, nel mondo antico ha una forte connessione con la politica, concetto che viene legato al concetto di ospitalità, ed è proprio in questo connubio di ospitalità e politica che risiede il cuore del concetto dell’ostaggio.

Il termine ci indica un ospitalità politica, più precisamente un ospitalità interessata e motivata da interessi politici, ma ci dice anche altro, poiché ci troviamo in un epoca in politica, guerra e diplomazia, sono concetti interconnessi e molto vicini tra loro, molto più di quanto non lo siano oggi.

Ostaggi dall’Egitto a Roma

Il concetto di ostaggio nel mondo antico non ha un valore universale, popoli diversi hanno idee e concezioni diverse di ostaggio e prigioniero, e se in alcune civiltà antiche questi due concetti coincidevano, in altre, erano molto distanti tra loro, e non di rado, in momenti diversi, nella stessa civiltà, il concetto di ostaggio viene applicato e interpretato diversamente.

L’ostaggio nell’antico Egitto

Nel antico Egitto, almeno fino alla conquista alessandrina della civiltà del delta del Nilo, l’ostaggio era considerato prettamente un prigioniero politico il cui ruolo nella società era profondamente diverso dal prigioniero di guerra. Il compito del prigioniero politico egiziano, dell’ostaggio nell’antico Egitto, era quello di garantire al faraone la fedeltà e la lealtà dei regni vassalli, e a tale scopo, dei membri delle nobili famiglie feudatarie del faraone erano inviati periodicamente alla corte del faraone, dove vivevano da ospiti, e spesso ricoprivano incarichi pubblici, in cambio della garanzia di fedeltà e lealtà delle proprie famiglie al faraone. Diversa e meno fortunata sorte invece toccava ai prigionieri di guerra.

Un esempio di ostaggio nel mondo egizio, molto noto, ci arriva dal libro della Genesi nell’Antico Testamento attraverso la storia del patriarca Giuseppe, de facto un capo tribù che giura fedeltà e lealtà al faraone d’Egitto in cambio di protezione politica per il proprio popolo, in un epoca in cui la regione Cananea, e l’intero vicino oriente, era controllata da diversi popoli guerrieri in lotta tra loro e allo stesso tempo in guerra con l’Egitto.

L’ostaggio nella Grecia antica

Analogamente al concetto egizio, anche nella Grecia pre-romana l’ostaggio assolveva ad una funzione prettamente politica, non sappiamo però se i greci acquisirono il concetto di ostaggio dagli egizi o se lo svilupparono autonomamente. Noi oggi sappiamo che nelle civiltà primitive il concetto di ostaggio, così come quello di schiavitù, sono molto frequenti, anche in popoli che non avevano alcun contatto tra loro, e questo perché il concetto di ostaggio e l’istituzione della schiavitù, sono stati incontrati anche in popolazioni che non hanno avuto alcun contatto con le antiche civiltà mediterranee, come ad esempio le civiltà mesoamericane.

Nella Grecia antica, almeno in età arcaica, l’ostaggio assolveva ad una funzione analoga a quella dell’ostaggio egizio, questo lo sappiamo attraverso alcuni miti legati alla civiltà Minoica, come ad esempio il mito del Minotauro il cui racconto ci parla, ovviamente tra le righe, di ostaggi politici il cui sacrificio è necessario al mantenimento della pace probabilmente tra un popolo dominante e i suoi feudatari. In età classica invece, il concetto di ostaggio cambia, assumendo tratti leggermente differenti a seconda delle varie polis, ma il concetto di fondo rimane invariato, l’ostaggio continua ad essere un prigioniero politico il cui compito è garantire la pace tra due popoli, sancire una tregua o suggellare alleanze. L’ostaggio diventa quindi non più il tramite di un alleanza, ma anche il garante di tregue, accordi e negoziati, inoltre è il garante del rispetto delle regole della guerra, elemento quest’ultimo sarebbe stato successivamente ereditato dalla civiltà romana.

L’ostaggio concepito dalla civiltà greca è un uomo, o una donna, di alto rango, un nobile, un politico, un filosofo o un dotto, la cui presenza viene utilizzata anche per imporre precise decisioni politiche. In tale senso il caso di Filippo II di Macedonia, condotto a Tebe come ostaggio, è particolarmente interessante. Filippo II era un nobile, la cui presenza a Tebe assicurava alla polis greca il rispetto di una pace tra Macedonia e Tebe ed impediva ai macedoni di assumere posizioni ostili nei confronti di Tebe o sancire alleanze con i suoi nemici. Filippo II viene inviato a Tebe come ostaggio e trascorre nella polis greca più di 30 anni della propria, un periodo di tempo in cui il nobile macedone avrebbe appreso la lingua, i costumi, la politica e, soprattutto, le tattiche militari in uso a Tebe, conoscenze che avrebbe portato con se, una volta tornato in macedonia.

La storia di Filippo II di Macedonia è molto interessante se analizzata in rapporto alle idee di Aristotele sulla prigionia, gli ostaggi e la schiavitù, e non è un caso se Filippo avrebbe scelto proprio l’allievo di Platone come precettore per il proprio erede Alessandro III, meglio noto come Alessandro Magno.

La schiavitù per Aristotele

La schiavitù, per Aristotele è un istituzione educativa e civilizzante, che viene utilizzata per facilitare il processo di conversione e acquisizione, da parte dei prigionieri, degli usi e dei costumi, oltre che della lingua, della civiltà dominante. Lo schiavo per Aristotele è un barbaro che va rieducato e istruito affinché possa acquisite le conoscenze per vivere da uomo greco. Questo concetto di schiavitù, ha molti tratti in comune con l’esperienza da ostaggio di Filippo II, i cui lunghi anni in Grecia gli hanno permesso di acquisire tutto ciò di cui aveva bisogno per sembrare un uomo greco, e una volta tornato in Macedonia, volle per i propri figli la migliore istruzione e formazione possibili, in modo che questi, venissero accolti in Grecia da uomini greci e non da re barbari.

L’ostaggio nella civiltà romana

Diversamente dalla civiltà greca, che considerava se stessa all’apice della civiltà nel mondo antica, e tendeva dunque ad imporre il proprio modello culturale, elemento questo che spesso sfociò in guerre, scontri e rivalità secolari tra le polis, nel mondo romano, almeno nei primi secoli, c’è stato un forte desiderio di auto-miglioramento, che il più delle volte si è tradotto nell’acquisizione di modelli e schemi sociali e culturali, oltre che tecnologici, dalle numerose civiltà con cui roma entrava in contato, che hanno portato Roma ad assorbire, imitare e migliorare, di tutto, dalla mitologia all’architettura alla tecnologia militare.

Il mito di Clelia e Porsenna

La prima e più antica istanza di ostaggio nella civiltà romana la incontriamo nella mitologia arcaica, e tra i tanti miti in cui si fa riferimento al concetto di ostaggio, il mito di Clelia e di Porsenna è forse uno dei più noti e importanti.

Di questo mito esistono due versioni, probabilmente legate al fatto che, nel corso del tempo, il concetto di ostaggio nel mondo romano, ha subito delle variazioni, e il mito di Clelia ci aiuta, con le sue due varianti, a ricostruire queste differenti idee di ostaggio.

Nella più antica delle versioni del mito, Clelia, insieme ad altre nove ragazze, venne consegnata a Porsenna, il lucumone etrusco di Chiusi (il lucumone era la più alta carica politica per una polis etrusca) dai Romani, in seguito ad una pace tra le due città. In questa versione del mito, Clelia incoraggiò le altre nove ragazze a fuggire dall’accampamento di Porsenna e mentre le ragazze guadavano il tevere, lei rimase di guardia sulla sponda, dove venne rintracciata da una guardia di Porsenna o lo stesso Porsenna, e questi, impressionato dal coraggio della donna, decise di premiarla concedendole la libertà.

In questa versione del mito, se bene sia un signore straniero, Porsenna è raccontato come un uomo buono e saggio, che libera Clelia riconoscendone il coraggio ed il valore e poi si ritira, non fa inseguire le altre ragazze oltre il fiume, e continua ad onorare il patto stipulato con Roma, mentre Clelia viene è raccontata come una donna forte, valorosa e coraggiosa, che per la propria intraprendenza e coraggio viene liberata.

Un messaggio di questo tipo potrebbe apparire come un invito agli ostaggi di tentare la fuga, imitando Clelia, e se questo racconto fa parte della tradizione, ciò può significare solo una cosa, ovvero che gli ostaggi nella roma arcaica, non erano prigionieri, ma ospiti.

Nell’altra e più recente versione del mito di Clelia, raccontataci da Tito Livio e da Aurelio Vittore, inizialmente Clelia viene consegnata da sola al lucumone di chiusi, ma riesce a fuggire e tornare a Roma, una volta scoperta venne riconsegnata a Porsenna insieme ad altri ostaggi che i romani fecero scegliere a Porsenna e Porsenna, lasciò che fosse Clelia a scegliere gli altri ostaggi, ed una volta terminata la tregua e tornati a Roma, la città fece erigere una statua equestre in onore di Clelia.

In questa seconda versione, di cui abbiamo traccia già nel IV secolo a.c. con Aurelio Vittore, la figura dell’ostaggio l’ostaggio è mutata e a differenza del passato, la sua fuga può causare la rottura di un patto, dunque l’ostaggio è obbligato a rimanere ostaggio per tutto il tempo necessario, anche se questo non significa necessariamente prigionia. Come vediamo nel mito, Clelia viene riconsegnata a Porsenna, ma questi non punisce la ragazza per la sua fuga, ma al contrario si fa carico della sua protezione, e le consente di scegliere la propria compagnia. Porsenna, in questa versione del mito, consente a Clelia continuare a vivere da donna romana, a differenza di quello che accade a Filippo II di Macedonia.

Il caso di Polibio

Quello di Celia e Porsenna però è un mito, vi sono però altre storie di ostaggi romani, nel mondo antico, che possono aiutarci a comprendere meglio la dimensione dell’ostaggio in età romana ed uno di questi è il caso di Polibio, lo storico greco ostaggio di Roma.

Plibio, durante la propria permanenza a Roma, come ostaggio, nel secondo secolo, nel vivo della terza guerra punica, godette di grande stima, apprezzamento e libertà, nella futura capitale imperiale. La storia di Polibio ci è arrivata direttamente dalla penna di Polibio, il cui racconto ci fornisce uno sguardo unico dell’istituzione dell’ostaggio nel II secolo a.c. poiché ci arriva direttamente da un ostaggio.

Ciò che colpisce in modo particolare nel caso di Polibio, è il grande legame di amicizia che Polibio costruì con gli Scipioni, un amicizia che lo avrebbe reso una delle fonti antiche più autorevoli e apprezzate, per quanto concerne il raccontato della terza guerra punica, guerra che impegnò Roma e contro Cartagine, gli Scipioni contro i Barca, contro Annibale e portò, alla fine, all’inevitabile distruzione di Cartagine, il cui rogo, secondo quanto riportato proprio da Polibio, avrebbe causato lacrime e sofferenza in Scipione l’Africano che, tra le fiamme che divoravano la città, intravedette il declino che prima o poi raggiunge ogni grande civiltà, compresa la sua Roma.

Se vuoi approfondire la storia di Cartagine, leggi anche questo articolo.

La presenza di Polibio come ostaggio a Roma è di natura prettamente politica, lo storico greco è stato condotto a Roma in un epoca in cui Roma stava estendendo propria protezione ben oltre la penisola italica, spingendosi sempre più ad oriente, e guardava con interesse ai territori delle polis greche, polis che non sempre vedevano di buon occhio la presenza imperialista di Roma, e che anzi, proprio durante la terza guerra punica, in diverse occasioni offrirono asilo e aiuto ad Annibale, acerrimo nemico degli Scipioni e di Roma.

La presenza di Polibio a Roma serviva principalmente per evitare che troppe polis passassero dalla parte di Annibale. L’ostaggio greco a roma era quindi un ospite politico, trattenuto formalmente con la forza, ma senza troppe limitazioni e costrizioni, a cui era garantita piena libertà e la cui funzione era quella di fare da garante della pace tra i due popoli, in particolare, il suo compito serviva a garantire che non vi fossero atti di ostilità, ne minacce alla sicurezza di Roma e dei suoi soldati in Grecia, da parte della popolazione ellenica. Vi era una sorta di impegno reciproco tra Roma e Polibio, per cui l’ospite si impegnava a garantire all’ostaggio tutto ciò di cui aveva bisogno e l’ostaggio si impegnava a garantire la pace e far si che nella propria terra d’origine, non vi fossero insurrezioni o rivolte, e che anzi, se possibile, vi fosse collaborazione con Roma.

L’evoluzione del concetto di Ostaggio

Con la caduta di roma, il concetto di ostaggio cambia nel tempo, senza allontanarsi troppo dal concetto di ostaggio greco romano. In età Medievale l’ostaggio diventa il cardine delle alleanze e dei rapporti d’amicizia, e in età moderna, si riscopre il concetto rieducativo dell’istituzione schiavistica, soprattutto in rapporto agli scontri con l’impero ottomano.

Nel mondo antico quello che era il ruolo dell’ostaggio non era codificato, e probabilmente è proprio l’assenza di una codifica formale e universale del concetto di ostaggio nel mondo antico, ad aver portato a diverse evoluzioni. Tuttavia, quello dell’ostaggio era un concetto noto, un istituzione riconosciuta in quell’insieme di leggi e norme non scritte che costituivano lo Jus ad bellum, il diritto alla guerra, e lo Jus in bellorum il diritto in guerra, ed è proprio dal retaggio lasciato da quel mondo e da quell’insieme di teorie, concetti e nozioni giuridiche che il concetto di ostaggio sarebbe arrivato fino a noi, passando attraverso il corpus iuris civilis dell’imperatore Giustiniano e gli scritti sul diritto alla guerra e il diritto in guerra di numerosi giuristi e filosofi dell’età medievale e moderna, da Sant’Agostino d’Ippona a Francisco de Vitoria, da Tommaso d’Aquino a Ugo Grozio, fino a raggiungere uomini gli scritti filosofi come Thomas Hobbes e Immanuel Kant, e giuristi come Emmeric de Vattel le cui idee avrebbero ispirato Franz Lieber nella stesura del Codice Lieber, commissionato da Abraham Lincoln durante la guerra civile americana e la quasi contemporanea prima convenzione di Ginevra del 1864 voluta da Henri Dunant.

Quello che nel mondo antico era l’ostaggio oggi è convenzionalmente riconosciuto come “prigioniero di guerra” i cui diritti vennero formalizzati per la prima volta proprio con la convenzione di Ginevra del 1864 e con il codice Lieber.

Bibliografia

Tito Livio, Ab Urbe condita libri.
M.Liverani,Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele.
E. Lo Cascio, Storia romana. Antologia delle fonti
G.Geraci,A.Marcone, Fonti per la stoira romana
C.Mossé, Dizionario della civiltà greca

Annales, Il dibattito senza fine sulla narrazione storica

Storia, Microstoria, Macrostoria, è da un po’ che si discute su questi tempi, soprattutto in funzione all’opera di narrazione e divulgazione messa in atto da personaggi come Alberto Angela, che, con leggerezza e un linguaggio giocoso, si sono imposti come interpreti e divulgatori, e, a tal proposito, è esemplare il caso di Alessandro Barbero, che, con il proprio linguaggio, riesce a raccontare storia e storie, di uomini, donne, frati, mercanti e cavalieri, espressione materiale di intere epoche e della vita ordinaria, e straordinaria, in quei mondi ormai passati.

Vi sono però non pochi detrattori, non tanto di Alessandro Barbero che, nonostante tutto, è pur sempre un docente universitario con in attivo decine e decine di pubblicazioni di altissimo valore, al quale nulla si può dire, poiché schermato e protetto da un curriculum più che eccellente. Quanto per Alberto Angela, divulgatore e narratore popolare, la cui carriera è percepito più che altro, come presentatore che parla di storia, senza però essere un addetto ai lavori.

Al di la di quello che è il curriculum di Alberto Angela, e di quelli che sono i suoi titoli, nei suoi programmi, lui non è un deus ex machina, senza il quale il programma non va avanti, e ciò che viene raccontato, si basa su documentari realizzati da professionisti e i suoi lunghi e appassionati interventi, ricordiamo, sono monitorati, revisionati e corretti da un comitato scientifico d’eccellenza, di cui fa parte, tra gli altri, anche Alessandro Barbero.

Fatta questa lunga premessa di carattere generale, il nocciolo della questione è il metodo narrativo, per i detrattori della divulgazione storica, è un “errore” narrare la storia partendo dall’aneddotica e dalle piccole cose, da storie ordinarie di uomini comuni, per raccontare un passato che è molto più grande e complesso, e sarebbe più consono, utilizzare un metodo più “scolastico“, raccontando soprattutto i grandi eventi, le grandi ideologie e le grandi battaglie.

Questo metodo narrativo, parliamo di narrazione non di ricerca, in cui ci si focalizza sui grandi eventi, sulla macro storia per intenderci, è un metodo, che è stato dimostrato essere inefficace e a tratti noioso. E una divulgazione , una narrazione noiosa, sarete d’accordo con me, non è una buona divulgazione. Se io sto ascoltando qualcuno che mi racconta qualcosa, e nel raccontarlo mi annoia, a me ascoltatore, non rimarrà nulla di quel racconto. E queste osservazioni, non sono figlie di quest’epoca televisiva, ma vengono dal secolo scorso.

Negli anni 20 del novecento, per essere più precisi, nel 1924, lo storico francese Marc Bloch, insieme al suo collaboratore e caro amico, Lucien Febvre, fondò la rivista Les Annales, una rivista destinata a fare storia e scuola, tanto che, ne sarebbe proprio derivato il termine “scuola degli annales”. Marc Bloch che noi conosciamo come l’autore dell'”apologia della storia o il mestiere di storico” uno dei saggi più iconici e fortunati del settore, e siamo soliti raccontare Bloch come uno storico del medioevo, un medievalista, perché la sua opera più importante (da non confondere con la più famosa) è dedicata allo studio della Società Feudale, tipica del medioevo, ma che in realtà, si spinge ben oltre il medioevo.

Marc Bloch, oltre ad essere uno studioso di storia, noi oggi sappiamo essere anche un personaggio storico, non tanto perché celebre nel settore per i suoi libri, ma perché, durante la seconda guerra mondiale, si unì alla Resistenza francese e combatté contro gli invasori nazisti, ma Bloch vive il proprio tempo da uomo comune, e la sua esperienza di vita, insieme alle sue teorie sul mestiere di storico e il lavoro eccellente, di ricostruzione della società feudale, che rendono il suo libro uno dei più completi e accurati, nonostante sia stato pubblicato quasi un secolo fa, ci insegnano che forse, lui aveva ragione.

Bloch racconta la società feudale, un grande tema epocale che attraversa diverse epoche, caratterizza il medioevo e gran parte dell’età moderna, è l’incarnazione di quell’ancient regime di cui spesso sentiamo parlare in contrapposizione alla società borghese figlia del XIX secolo, nella quale oggi siamo immersi, e pure, Bloch ha raccontato questo intero sistema economico, sociale e ideologico, partendo dalla vita quotidiana degli uomini, delle donne, dei frati, dei mercanti e dei cavalieri, che vivevano in quel mondo.

Discutere di micro-storia e macro-storia, oggi, alla luce di oltre mezzo secolo di dibattito sulla scuola degli annales, dibattito iniziato nel 1924 con la fondazione della rivista e continuato almeno fino al 1975, e, in alcuni ambienti fino agli anni 90, significa non avere alcuna conoscenza di natura storiografica, il che si riduce al conoscere della storia, nomi, luoghi e date, ma non sapere realmente cosa è successo in quei luoghi, a quegli uomini, in quel preciso momento.

La scuola degli annales è stata rivoluzionaria nel processo di studio e analisi storiografica ed ha gettato le basi per la costruzione di un efficace narrazione storica, che permettesse agli spettatori degli show televisivi, ascoltatori di programmi radiofonici e podcast e lettori di libri di carattere divulgativo, di avvicinarsi a quegli eventi, di entrare in empatia con quelle vicende, di appassionarsi a quegli episodi e di apprezzarne la natura viva, vivace, dinamica e avvincente.

Partendo dalla vita dell’uomo comune, in un determinato momento storico, possiamo trarre tante informazioni sul mondo in cui vive, un esempio eccellente in tal senso, ci viene fornito da Carlo Ginzburg, con il “formaggio e i vermi” in cui racconta la vita di Domenico Scandella, un mugnaio friulano del XVI secolo.

In questo saggio, Ginzburg come già detto, ci racconta la vita di un mugnaio, un uomo che che macinava la farina, di certo non un grande protagonista del suo tempo, e pure, la vita di Menocchio, così viene chiamato nella sua comunità, è estremamente significativa per comprendere le dinamiche sociali dell’area friulana del XVI secolo, il suo ruolo di mugnaio ci dà un indicazione su quelli che erano gli equilibri economici della comunità, ci racconta inoltre il clima politico di quel tempo e quali erano le ideologie politiche e religiose dominanti in quel mondo.

Ginzburg ci mostra che vi è un vero e proprio abisso tra una storia racconto, in cui si comprende il mondo passato e le sue dinamiche, ed una storia di avvenimenti, una storia evenemenziale, in cui gli avvenimenti sono il cardine e riducono la storia ad una successione di nomi, luoghi e date.

Questi temi, sono i temi della “battaglia degli annales” che videro contrtapposta la scuola degli annales alla storia-politica tra il 1924 ed il 1975, e non è un caso se, il dibattito iniziato con la fondazione della rivista Les Annales, termina nello stesso anno in cui venne pubblicato il formaggio e i vermi, opera che avrebbe consacrato Ginzburg come uno dei padri e rinnovatori della Micro Storia.

In conclusione

Personalmente credo che quella polemica, oggi, al netto di tutto quello che è stato detto e scritto, sia abbastanza inutile e puerile, perché parte dall’assenza di una conoscenza storiografica di base e da un concetto, a mio avviso sbagliato. Parte dall’idea che alcuni uomini e personaggi sono nella storia e altri no, cosa che Ginzburg e Bloch prima di lui, ci hanno dimostrato non essere vera, Domenico Scandella è tanto nella storia quanto Carlo V.

Per i detrattori della microstoria e sostenitori della storia evenemenziale, bisognerebbe parlare di grandi eventi e grandi uomini, ma la verità è che quei grandi avvenimenti non sarebbero stati tali se non ci fosse stato un substrato di uomini comuni che, nella miseria delle proprie vite, coltivavano campi, tenevano in funzione mulini e forge, producevano grano, pane e armi, con cui i grandi signori banchettavano e stringevano alleanze e combattevano guerre.

Ed è qui la vera differenza tra gli annales e la storia evenemenziale. La scuola degli annales e la microstoria ci insegnano a partire dal basso, per ricostruire le dinamiche di un epoca e comprendera a pieno, Ginzburg parte da Menocchio, per ricostruire il fenomeno dell’Inquisizione, diversamente, la storia evenemenziale parte dall’inquisizione, e si ferma all’inquisizione, ignorando quel substrato nascosto che è, a mio avviso, il vero motore della storia.

Le fonti della storia

Le scienze storiche, come qualsiasi altra disciplina scientifica, si basa sul metodo scientifico, che nel caso della storia però, non può avvalersi della componente sperimentale. Lo storico non può fare esperimenti in laboratorio, ma allora, come fa a dimostrare empiricamente la veridicità delle proprie teorie o confutare teorie errate?
lo fa attraverso la ricerca, analisi e verifica delle fonti.
Lo storico ha accesso ad una moltitudine di fonti storiche differenti, monumentarie, numismatiche, archeologiche, artistiche, letterarie, documentarie, ecc, e dalla comparazione delle fonti e delle testimonianze, lo storico può ricostruire e interpretare un passato nel quale non era fisicamente presente.

Le scienze storiche, come qualsiasi altra disciplina scientifica, si basano sul metodo scientifico, che, tuttavia, nel caso della storia, non può avvalersi della componente sperimentale in quanto, per lo storico, o meglio, per lo storiografo, è impossibile fare esperimenti in laboratorio, ne può osservare il fenomeno che intende studiare.

Ma allora, come fa lo storico a verificare le proprie teorie e dimostrare empiricamente la loro veridicità e come può uno storico confutare una teoria errata?

La risposta è semplice, lo fa apportando una leggera modifica al metodo scientifico che de facto gli permette di ovviare all’impossibilità di “sperimentare” in maniera “tradizionale”. Il lavoro dello storico infatti, è un lavoro che si basa principalmente sulla ricerca, l’analisi e la verifica delle fonti.

Le fonti sono i mattoncini fondamentali che permettono allo storico di viaggiare nel tempo e ricostruire avvenimenti e dinamiche del passato più o meno remoto.

Lo storiografo ha accesso a diverse tipologie di fonti, che generalmente sono divise in due macro categorie.

  • Fonti primarie
  • Fonti secondarie

Per fonti primarie si intende tutta una serie di fonti prodotte nel periodo storico che si sta studiando e che non necessariamente hanno finalità storiografiche. Tra le fonti primarie possiamo incontrare documenti, contratti, monete, atti pubblici, documenti privati, registri commerciali, bolle, monumenti, opere d’arte ecc.

Per fonti secondarie invece, si intende una serie di fonti, prodotte in un secondo momento, che generalmente si basano su testimonianze dirette o indirette e sulle fonti primarie. Tra le fonti secondarie possiamo incontrare cronache, ricostruzioni, racconti storici fatti sia da autori contemporanei agli avvenimenti narrati, che postumi, e che quindi.

Lo storiografo, mediante l’analisi e la comparazione delle fonti, primarie e secondarie, produce a sua volta materiale documentario, che arricchisce le fonti disponibili su un determinato periodo e/o avvenimenti, e aumentando i gradi di distanza tra lo storico e l’avvenimento, si avrà un aumento esponenziale delle fonti storiche su un determinato avvenimento storico, che avrà un doppio effetto.

Da un lato, semplificherà la ricerca di fonti, poiché essendo tante, sarà più semplice individuarne, dall’altro, complica la fase di verifica e confutazione, poiché, essendo il loro volume molto elevato, lo storiografo, sarà costretto a selezionare accuratamente le proprie fonti, facendo attenzione a non incorrere in falsi storici o in teorie già confutate.

I falsi storici sono una delle grandi problemi che affliggono la storia contemporanea, in particolare gli ultimi due secoli circa. Sono in parte un effetto indesiderato della proliferazione di documenti e fonti di vario tipo, unite alla massiccia presenza di testimoni diretti degli avvenimenti intervistati dagli storici, e in parte, sono frutto di epoche pregresse in cui c’è stata la volontà di produrre e consapevolmente dei falsi storici, per ragioni tal volta economiche, tal volta politiche.

Nel XIX secolo in particolare, con la riorganizzazione della società e l’ascesa della borghesia, soprattutto in europa, c’è stata una crescente domanda di manufatti antichi, ricercati dai collezionisti borghesi per legare il proprio nome di famiglia, ad un passato in cui quel nome non aristocratico, era stato tenuto apparentemente lontano dalla storia, qualcosa di simile era già accaduto con il mecenatismo rinascimentale, quando, soprattutto in italia, le ricche famiglie mercantili, iniziarono a collezionare testi ed opere d’arte prodotte in quell’epoca ma anche opere dal mondo classico.

La crescente domanda di manufatti e manoscritti antichi, alimentò un florido mercato di falsari che all’occorrenza crearono componimenti poetici, testi antichi, manufatti, oggetti rituali o di tortura, provenienti da un mondo arcaico apparentemente dimenticato, ma che in realtà veniva costruito inseguendo il gusto dei potenziali acquirenti.

Dall’altra parte, nello stesso periodo, vennero prodotte per ragioni politiche, anche numerose opere volte ad insinuare l’esistenza di cospirazioni e congreghe segrete, e tra gli esempi più famosi, vi sono l’ordine dei Rosa Croce, nato quasi per scherzo, facendo il verso alle logge massoniche del tempo, e la congiura dei savi di Sion, una congiura mai realmente esistita, e basata su falsi documenti costruiti ad hoc, per finalità politiche, nell’impero zarista sul finire del XIX secolo.

Oggi gli storici o storiografi, che dir si voglia, hanno accesso a numerose tipologie di fonti, che differire a seconda dell’epoca studiata. Queste fonti sono i residui, i resti, di un tempo ormai perduto, ed è compito dello storico usare questi tasselli, questi mattoncini elementari, per ricostruire, sia pur solo sul piano narrativo, quella che era la società del passato, una società di cui noi non abbiamo e non possiamo avere una reale memoria, ma ne abbiamo conoscenza attraverso la ricostruzione storica. E la grande difficoltà dello storico, sta nel riuscire ad interpretare le fonti a cui ha accesso, posizionandole nel modo più opportuno, e riconoscere le fonti autentiche da quelle false, così da poter ricostruire un passato, il più possibile fedele alla realtà, anche se forse, non potendo viaggiare nel tempo, non saremo mai realmente in grado di comprendere la realtà quotidiana di un tempo che non abbiamo vissuto.

La Battaglia, storia di Waterloo di Alessandro Barbero | Recensione

Recensione del saggio La Battaglia, storia di Waterloo di Alessandro Barbero

Molte volte ho parlato di Napoleone e di Waterloo, di quella battaglia che in un certo senso ha rotto l’incanto e consegnato Napoleone alla Storia.

La battaglia di Waterloo è stata raccontata da innumerevoli autori, a partire da Carl Von Clausewitz che su quel campo di battaglia era effettivamente presente, e non è mia intenzione aggiungermi, con questo post, alla lunga lista di nomi che hanno raccontato la battaglia.

Il mio intento è quello di fornire la mia personalissima ed estremamente soggettiva opinione sul saggio La Battaglia, Storia di Waterloo di Alessandro Barbero, storico e divulgatore italiano, docente di storia all’università di Torino che non ha certo bisogno di presentazioni, il suo lavoro come consulente e divulgatore su Rai Storia e membro del comitato scientifico di programmi come Quark e Ulisse, i suoi saggi e le sue innumerevoli conferenze tenute in tutta italia sono una garanzia di qualità e affidabilità, e questo saggio sulla battaglia di Waterloo non fa eccezione, è un un saggio a mio avviso meraviglioso, che vi consiglio di recuperare se non avete già letto.

Non serve che quindi mi dilunghi oltre sul curriculum e la biografia del professor Barbero e forse non serve neanche che vi dica cosa troverete nel libro qualora decideste di leggerlo, ma lo farò lo stesso.

Napoleone, per anni era stato forse qualcosa in più di un semplice uomo, di un semplice generale, di un semplice imperatore. Per milioni di uomini e donne in tutta europa Napoleone era stato quasi l’incarnazione di un sogno, aveva rappresentato l’avanguardia di una nuova epoca che si faceva strada nel vecchio mondo, era stato quasi una visione del mondo futuro che si affacciava sulla vecchia e logora europa.

Allo stesso tempo però, per altri versi, Napoleone era stato anche uno spietato signore della guerra, un demone sanguinario feroce, un folle che aveva spalancato i cancelli degli inferi, lasciando che la morte si riversasse sull’Europa come un fiume in piena e da questo punto di vista, la battaglia di Waterloo si presentava come l’ultimo grido disperato del morente gigante Golia che cadeva sotto i colpi di fionda del piccolo Davide.

Napoleone era stato il sogno e l’incubo dell’Europa tutta e dei suoi popoli, era stato amato ed odiato, prima di essere consegnato definitivamente alla storia, nell’atto finale di quel monumentale spettacolo che era stato l’impero francese, e che ora conosceva nella battaglia finale di Waterloo.

La battaglia di Waterloo è sicuramente più di una semplice battaglia, ebbe senz’altro un valore simbolico sia sul piano militare che sul piano politico, fu certamente una battaglia epocale, il cui esito avrebbe definito il futuro e le sorti dell’europa, che all’epoca, era ancora il cuore pulsante del mondo, e di conseguenza la battaglia di Waterloo segnò il futuro del mondo da quel momento in avanti.

Ma al di la di questo banale esercizio di retorica, alla fine, a Waterloo si combatté una vera battaglia, e soldati ed uomini provenienti da ogni angolo del vecchio continente, si scontrarono, si affrontarono, furono posti gli uni contro gli altri, fucile contro fucile, spada contro spada, cadavere sopra cadavere, per definire le sorti del mondo.

La Battaglia, Storia di Waterloo, ha per cardine una battaglia, forse la battaglia più importante dell’europa del XIX secolo, la grande battaglia di Waterloo, che qualcuno potrebbe definire come la grande battaglia per il destino del mondo, ma il fatto che sia un libro che parla della battaglia di Waterloo, non significa che parli solo della battaglia di Waterloo.

Ovviamente la battaglia vera e propria, gli schemi utilizzati, gli schieramenti, le unità sul campo, l’equipaggiamento dei soldati, l’artiglieria, ecc, ecc sono una componente centrale, fondamentale, per questo libro, ma raccontare la battaglia di Waterloo significa anche e soprattutto raccontare la storia di quella battaglia, significa racconta il mondo in cui venne vissuta e combattuta questa battaglia. Barbero tra le pagine di questo libro ci dice cosa c’era in gioco su quel campo di battaglia, chi erano i giocatori, qual’era lo stato d’animo delle pedine, disseminate sul campo di battaglia da entrambe le fazioni, ci racconta le paure e le angosce degli uomini che si affrontarono sul campo ed i timori e le speranze dei generali asserragliati nelle retrovie.

Da quella battaglia, dalla battaglia di Waterloo dipendevano, come già detto, le sorti del mondo, da quella battaglia dipendeva il futuro dell’europa e di tutti i suoi abitanti, e tutti, in quel momento, ne erano consapevoli.

La Battaglia, Storia di Waterloo di Alessandro Barbero è questo, un libro che racconta uno scontro di civiltà interno all’Europa, uno scontro che iniziò sul finire del XVIII secolo e continuò per gran parte del XIX secolo, il libro racconta la battaglia centrale di quello scontro epocale vissuto al cavallo tra quei due mondi che oggi indichiamo come età Moderna ed età Contemporanea, racconta un tempo troppo veloce che ha rischiato di lasciarsi la storia alle spalle, ma anche un tempo che si è impantanato e per questo è stato raggiunto e senza che se ne accorgesse, è stato superato dalla storia. Racconta l’alba di un epoca dalla doppia morale e dalla doppia faccia, che con una mano dispensava prosperità e progresso e dall’altra raccoglieva morte e distruzione.

Racconta di quel momento indelebile della storia che ha visto spalancare i cancelli degli inferi e la morte ha iniziato a cavalcare sull’Europa, da Waterloo in avanti, nel bene o nel male, l’europa non sarebbe più stata la stessa europa. A Waterloo, in quella storica battaglia, non ci furono vincitori ne vinti, ci fu solo, un deroga del tempo concesso al vecchio mondo che si sarebbe trascinato in avanti, con qualche affanno, ancora per qualche decennio.

Per quanto riguarda il libro in se, il mio giudizio è più che positivo, scritto nel solito stile di Alessandro Barbero, con la solita non banale semplicità, con la solita ironia ed accuratezza, un libro che dice tutto quello che c’era da dire e forse anche qualcosa di più, ma senza che questo risuoni come un eccesso, è un libro che racconta una storia militare, ma non la storia di una battaglia qualsiasi, bensì la storia della più grande ed importante battaglia del XIX secolo.

Questo libro ci porta, attraverso la sua narrazione, nel ventre della balena, ci conduce nel vivo della battaglia di Waterloo, e al fianco dei soldati bonapartisti, ci mostra i colori, i suoni, i profumi, ma anche il dolore, il fetore di sangue che si mischia con l’odore acre della polvere da sparo ed il fumo dei cannoni, mentre le grida dei soldati che cadono uno dopo l’altro come mosche, si mischiano tra loro e si perdono tra l’affannoso respiro dei cavalli ed il boato assordante di colpi di fucile, cannone ed esplosioni di mortai.

Non ho altro da aggiungere, queste erano le mie considerazioni sul libro La Battaglia, Storia di Waterloo, di Alessandro Barbero e più in generale le mie considerazioni personali sulla battaglia di Waterloo.

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Si pronuncia “Necker” non Necker – quando un nome è più importante di ciò che rappresenta.

Uno dei commenti più frequenti che mi capita di leggere sotto i video del mio canale youube è “Si pronuncia “Necker” non Necker” o qualcosa di simile, prendo ad esempio nome in particolare perché il video sulla rivoluzione francese, in cui viene fatto tale nome, è probabilmente il più popolare dei video del mio canale, ma potrei fare benissimo mille altri esempi analoghi, soprattutto quando si ha a che fare con nomi o parole provenienti dal mondo antico, in particolare dal mondo greco-latino.

Ho sempre risposto a questi commenti dicendo che il modo in cui si pronuncia un determinato nome è assolutamente irrilevante ai fini storici” tuttavia, alcuni studenti mi hanno fatto notare che spesso, la pronuncia di un nome può fare la differenza tra un buon ed un cattivo voto ad un interrogazione o ad un esame, quasi come se il modo in cui viene pronunciato un determinato modo sia più importante di ciò che quel nome rappresenta.

Prendiamo ad esempio Jacques Necker, non stiamo parlando di Voldemort, di uno stregone rinnegato di cui non si può pronunciare il nome, stiamo parlando di un banchiere francese del diciottesimo secolo che fu chiamato alla corte di Versailles dal re Luigi XVI per dirigere le finanze della Francia e, a differenza di Voldemort, il suo nome possiamo pronunciarlo. Possiamo pronunciarlo senza paura di sbagliare e indipendentemente dal modo in cui lo si pronuncia, esso non cambierà ciò che rappresenta. Indipendentemente dalla sillaba in cui cadono gli accenti e dal fatto che si utilizzino accenti acuti o ottusi o non si utilizzi alcun accento, Necker rimarrà sempre un banchiere francese del diciottesimo secolo che nel 1777 fu chiamato da Luigi XVI per dirigere le finanze della Francia nel tentativo di sanare il bilancio dopo una lunga e costosa guerra contro il Regno Unito.

La sua figura centrale in quella serie di eventi che la storia avrebbe ribattezzato Rivoluzione Francese, non dipende dal modo in cui si pronuncia il suo nome, ma dalle azioni e dalle scelte che caratterizzarono la sua carica di “ministro dell’economia e delle finanze francesi”, per utilizzare un etichetta più “moderna”.

Quest’uomo è passato alla storia per essere stato convocato dal Re di Francia ed aver ricevuto l’incarico di sanare il bilancio della nazione, e dopo essere stato licenziato perché nel suo piano di risanamento era previsto un taglio alle enormi spese della casa reale, pubblicò i dati del bilancio della casa reale, rendendo noto alla popolazione parigina che, mentre il popolo moriva letteralmente di fame, il Re sprecava una fortuna in quelle che potremmo definire delle vere e proprie stronzate.

Necker rappresenta tutto questo, rappresenta il punto di partenza della rivoluzione francese e personalmente trovo folle, per non dire sbagliato o inutile, ridurre il suo ruolo nella rivoluzione in una mera questione linguistica…  “si pronuncia Necker non Necker”.

Ovviamente una corretta pronuncia del nome di un così importante personaggio storico è certamente qualcosa di apprezzabile, ma non posso accettare che la corretta pronuncia di questo o di qualsiasi altro nome possa superare per importanza ciò che quel nome rappresenta. Necker non è solo un nome, non è una stringa di simboli fonetici che appare in qualche pagina prima degli eventi della rivoluzione francese, Necker è stato un uomo, è stato un politico, è stato un economista ed è stato una figura chiave nella nascita della stessa rivoluzione francese, ed è soprattutto per questo che andrebbe studiato, è soprattutto su questo che bisognerebbe soffermarsi quando lo si incontra in un manuale, non sul modo più corretto di pronunciare il suo nome.

Studiare storia non significa studiare una successione di avvenimenti, di nomi pronunciati alla perfezione e di date precise al millesimo di secondo.
Studiare storia significa comprendere determinati avvenimenti che hanno influenzato il corso degli eventi successivi, significa comprendere le dinamiche che hanno portato quegli avvenimenti a compiersi in quel determinato modo e non in un altro.
Studiare storia significa prima di tutto comprendere la realtà del mondo e degli eventi passati, significa comprendere la realtà dei rapporti e le relazioni tra gli esseri umani, tra i popoli e le nazioni del mondo. Nomi e date hanno un valore puramente accessorio, servono soltanto a mettere in ordine questi avvenimenti, sono soltanto delle etichette, come quelle che troviamo al supermercato prima di ogni reparto e ci indicano sommariamente il genere di prodotti che incontreremo in un determinato reparto, non sono diversi dalle etichette che vicino ad ogni prodotto ci indica nome e prezzo di quello specifico prodotto. Ma un prodotto non è solo il suo nome e il suo prezzo, è molto altro.

Queste informazioni sono certamente utili, ci aiutano a non smarrirci nel supermercato e non ricevere brutte sorprese una volta alla cassa o appena tornati a casa, sarebbe impossibile fare la spesa se tutti i prodotti fossero contenuti in scatole grige, senza nome e senza prezzo. Così nomi e date ci aiutano a non perderci nella Storia, e non avere brutte sorprese, ma non sono la Storia.

Voglio concludere l’articolo “passando la parola” ad uno dei più grandi scrittori britannici dell’età moderna, mi riferisco ovviamente a William Shakespeare. Shakespeare in uno dei suoi capolavori immortali, Romeo e Giulietta, pubblicato nel 1597, si lascia andare ad alcune riflessioni analoga e al cui interno qualcuno potrebbe rivedere un certo platonismo, facendo pronunciare ad uno dei protagonisti, tale Giuletta dei Capuleti, queste “esatte” parole.

“What’s in a name? that which we call a rose by any other name would smell as sweet”

“Che cosa c’è in un nome? Ciò che noi chiamiamo con il nome rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo.”

Nella sua ingenuità Giulietta comprende quello che molti studenti e spesso insegnanti non riescono a vedere, ovvero che un nome non è altro che un nome, una semplice etichetta che ci indica qualcosa, nulla di più, e dunque anche Necker sarebbe sempre Necker, anche se lo chiamassimo in modo differente, ignorando o alterando la cadenza e l’apertura degli accenti che accompagnano il suo “complicatissimo” nome.

Sciapodi, Blemmi e Creature Fantastiche all’ombra di Genghis Khan

Nel XIII secolo i contatti commerciali tra Europa e Asia erano ormai consolidati. L’oro e l’argento di Sumatra, della Corea e della Malesia. Il sandalo, il bambù e l’albero della canfora da cui estrarre una fragrante essenza. Aromi come incenso e muschio, poi pietre preziose come rubini e zaffiri provenienti da Ceylon e dall’India. E le spezie! Noce moscata, pepe, cinnamomo, chiodi di garofano.

Nonostante i ripetuti scambi commerciali che, attraverso il Mediterraneo, connettevano da tempo l’Oriente con l’Occidente, se ci chiediamo quale fosse per un occidentale l’immagine dell’Asia non possiamo rispondere senza chiamare in causa una serie di miti, leggende, racconti magici e geografie fantastiche.

All’ombra di Genghis Khan (il condottiero mongolo spesso paragonato ad Alessandro Magno per il fatto di aver unificato gran parte dell’Asia) troviamo vere e proprie gallerie di mostri: sciapodi (esseri con un solo piede), blemmi (creature con la faccia sul ventre), cinocefali, panozi (esseri dalle orecchie giganti) ed altre creature fantastiche che abbiamo imparato a conoscere anche grazie ai romanzi di Umberto Eco (Il nome della rosa e Baudolino, ad esempio).

Homo Fanesius Auritus nella Monstrorum historia di Jean-Baptiste Coriolan, 1642.

Coma mai questa commistione tra mito e realtà? L’idea dell’Oriente e dell’India che avevano i Greci dipendeva dalle conquiste di Alessandro Magno. Dopo la battaglia di Gaugamela e il crollo dell’impero Persiano, Alessandro volse alla conquista delle regioni orientali. Dopo essere penetrato nell’altopiano dell’Iran, che solo in parte era stato soggetto alla Persia, occupò varie regioni fondandovi una seconda, una terza e un’ultima Alessandria. Alexandrèscata (Alessandria Ultima) in Sogdiana (una regione dell’Asia centrale, nell’attuale Uzbekistan meridionale) è il luogo in cui sposò Rossane, figlia di un valoroso principe battriano.

Ma non è tutto. Alessandro arrivò in India, precisamente fino al bacino dell’Indo (327 a. C.), e le sue conquiste hanno lasciato una traccia indelebile nella cultura e nella letteratura (non solo greca). Pare dunque probabile che la grandezza di Alessandro abbia giocoforza contribuito alla commistione dei due piani (mitologico e “storico”).

Se passiamo al mondo romano non possiamo stupirci delle difficoltà nell’isolare i dati storici e geografici dai miti e dalle leggende. I romani erano consapevoli dell’esistenza della via dell’incenso, che dall’estremità della penisola arabica conduceva fino al Mediterraneo le spezie provenienti dalla Cina e dall’India; tuttavia, non avevano alcuna informazione certa sull’entroterra asiatico e sui suoi abitanti. Avevano soltanto l’eco delle imprese alessandriste.

Uno sciapode dalle Cronache di Norimberga (1493).

Molte conferme arrivano anche solo da una rapida rassegna tra i viaggiatori ed enciclopedisti romani. Pur in presenza di nuove informazioni è per noi molto difficile isolarle dalle leggende che ammantavano l’Asia. Possiamo ricordare Pomponio Mela (I secolo d.C.), cui dobbiamo la più antica geografia conservataci nella letteratura latina, un’opera pervenutaci in vari codici e che intendeva presentarsi come una descrizione esaustiva del mondo conosciuto: De Chorographia (Descrizione dei luoghi), Cosmographia (Descrizione del mondo) e De situ orbis (La posizione della terra).

Plinio il Vecchio (23 d.C.-79d.C.) di cui abbiamo solo la Naturalis historia, una vera e propria enciclopedia in cui l’autore è influenzato da alcune istanze dello stoicismo medio e che avrà molta fortuna nel Medioevo. Per non parlare di Gaio Giulio Solino (III secolo d.C.) autore di una Collectanea rerum memorabilium, in cui attinge a piene mani da Pomponio e da Plinio che proprio nella Naturalis Historia descrive gli abitanti dell’India come monocoli, appartenenti a una razza che possiede una sola gamba e che è molto abile nel salto (singulis cruribus, mirae pernicitatis ad saltum).

L’incontro con i mongoli è l’entrata in un mondo fantastico destinato a disgregarsi inevitabilmente. Gli occidentali erano certamente molto interessati ai luoghi di provenienza di quelle spezie che erano parte importante della loro vita, o alle gemme e alle stoffe preziose di cui i principi e la liturgia cristiana facevano grande uso. Al punto che, verso la fine del XIII secolo, si narra di una lettera pervenuta alla corte di papa Alessandro III e di Federico I, forse per il tramite bizantino, che descriveva le meraviglie dell’Asia: di un grande regno cristiano a capo del quale ci sarebbe stato un sacerdote-re detto Prete Gianni. Lo scritto, certamente propagandistico secondo la tradizione storiografica in cui si inserisce Franco Cardini, mostrava allusioni a fatti storici reali: alla presenza di regni turco-mongoli nel centro dell’Asia, all’esistenza di comunità cristiano-nestoriane disseminate lungo ala via della seta, dall’Iran fino alla Cina.

Ma sulle origini di tutte queste merci, come sulla storia e natura stessa di quei luoghi lontani, gli occidentali erano disposti ad accettare pure e semplici fiabe: la barriera di fuoco che circondava la parte più estrema del Paradiso Terrestre, che ovviamente si trovava a Oriente, o il Monte della Calamita che si trovava nell’Oceano Indiano, capace di attirare tutti gli oggetti di metallo che si trovavano sulle navi. E molti cominciarono a costruirle senza chiodi, per evitare che … affondassero. Ancora una volta, il mito si intreccia alla realtà.

Fonti e Bibliografia:

Grousset, R., L’empire des steppes. Attila, Gengis Khan, Tamerlan, Paris, 2001

Phillips, E.D., Genghiz Khan e l’impero dei Mongoli, Newton Compton, 2008

Stahl, W. H., La Scienza dei Romani, Bari, Laterza, 1962

La Guerra del Peloponneso: l’avvento della Sofistica e la dissoluzione della Polis

L’età di Pericle è considerata il vertice indiscusso della grecità classica. La crisi quasi trentennale che si aprì a conclusione di questo periodo è caratterizzata da un evento bellico senza precedenti per il mondo greco: la Guerra del Peloponneso.

Si tratta infatti del più grande evento storico dopo la spedizione di Serse, le cui implicazioni sono ancora oggi oggetto di discussione dato che riguardano aree geografiche e culture assai diverse: dal continente greco attraverso l’Egeo, la Macedonia, la Tracia fino all’Asia Minore a est, passando per lo Ionio fino alla Sicilia e all’Italia meridionale a ovest.

Busto di Pericle (copia romana di una statua di Cresila, Museo Pio-Clementino).

Il coinvolgimento dell’impero persiano e della Magna Grecia rende questo evento non solo “universale” ma una vera e propria svolta negli equilibri politici ed economici del mondo di allora. Atene e Sparta ne uscirono sconfitte. La Grecia, il centro del mondo dopo Salamina e Platea, si vide gradualmente spinta verso la periferia per osservare passivamente l’affermarsi della Persia (ad oriente) e Dioniso I di Siracusa (ad occidente). Anche la polis ellenica stava lentamente morendo. La Lega Delio-Attica mostrò tutta la sua debolezza: l’incapacità di conciliare le eccessive autonomie locali con il senso di un “dovere comune” non determinarono solo il crollo di Atene, intesa come potenza politica ed economica, ma anche il dissolversi di un’idea di grecità che era indissolubilmente legata alla struttura della polis ateniese. 

La situazione politica, economica e sociale era caratterizzata da una forte crisi ma in questi anni oscuri lo spirito ellenico seppe dar prova di una inesauribile vivacità intellettuale. “La maggior parte delle opere di Euripide (morto nel 406) e delle commedie di Aristofane (la prima delle quali fu rappresentata nel 427) risalgono al periodo della guerra; esse testimoniano una fiorente vita culturale in Atene dove non cessarono le annuali rappresentazioni di tragedie e commedie, nonostante lo strepito degli arsenali e delle officine della città e del Pireo. Anche lo scalpello e la sega del carpentiere procedettero senza sosta nel loro lavoro: si continuò la costruzione dell’Eretteo, e i tesorieri, pur pressati dalle spese per la guerra, non mancarono di registrare i conteggi per i cittadini, meteci e schiavi“, (H. Bengtson, L’antica Grecia, Il Mulino, pag. 220).

Socrate nella cesta in una rappresentazione pittorica delle Nuvole di Aristofane (Joannes Sambucus, 1564).

Ma l’evento più significativo è indubbiamente l’ingresso della sofistica sulla scena ateniese. Questa nuova dottrina rappresentata fisicamente dal viaggio in Atene dell’ambasciatore Gorgia ebbe un ruolo determinante nella formazione dello spirito greco, sia dal punto di vista antropologico che scientifico. L’uomo protagoreo, proprio in quanto misura di tutte le cose, diviene il fulcro di una nuova visione del mendo, una spinta nella ricerca scientifica: non è un caso che la scrittura di Tucidide ha subito influenze sia sofistiche che derivanti dalla medicina antica, nella figura di Ippocrate.

Siamo quindi di fronte al processo di costruzione di una nuova umanità che se da un lato è profondamente segnata dalla ferocia della guerra, e resta imbrigliata nell’ambizione di uomini come Alcibiade e Lisandro e nell’inettitudine del demos, dall’altro riesce a superare i suoi stessi limiti, come mostrano il coraggio e la fedeltà di Socrate.

Troppo spesso di racconta la Guerra del Peloponneso come una sequenza di date, nomi e fatti, troppo spesso si comincia con le cause scatenanti e si procede attraverso le tre fasi in cui comunemente la storiografia la divide. E poi ci si ferma. Si dimentica il contesto, il quadro d’insieme, si smarrisce la consapevolezza dei significati “filosofici” e più genericamente culturali di questo evento. La nascita della storiografia e la morte della polis, di quella polis intesa come espressione di una democrazia diretta che non riuscì ad imporsi come uno strumento di direzione politica convincente nei momenti di crisi. Nel podcast che trovi qui sotto cerco di tracciare un quadro generale della situazione culturale che ha da humus alla Guerra del Peloponneso.

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