LINEA GOTICA. L’offensiva finale. Aprile 1945 – Intervista all’Autore Massimo Turchi

Qualche tempo fa, grazie a Diarkos Editore, ho avuto modo di intervistare Massimo Turchi, autore di una trilogia di libri sulla Linea Gotica, la cui ultima fatica si intitola Linea Gotica – L’offensiva Finale, aprile 1945.

Grazie all’editore ho avuto anche la possibilità di sfogliare il libro in anteprima, ma per questioni di tempo, organizzazione e festività, non sono riuscito a realizzare una guida alla lettura in tempo, ma ho avuto il piacere di scambiare comunque qualche email con l’autore e di seguito riporto la nostra intervista integrale.

Introduzione all’intervista a Massimo Turchi

Buongiorno, come anticipato, ecco alcune domande per l’intervista.
Come potrà notare, ho preferito dare più spazio a lei, alla sua attività di ricerca e di divulgazione che non al libro in sé, da storico e divulgatore, ciò che mi interessava capire e raccontare ai miei lettori è cosa l’ha portata a scrivere questo libro, cosa l’ha spinta a scegliere determinate fonti, e cosa l’ha portata a raccontare determinate storie.

Sono tre domande che avrei potuto porre in modo diretto, secco, ma in quel modo, temo si sarebbe persa una parte importantissima che è la sua storia personale in relazione alla linea gotica, che invece è ciò che mi interessa offrire ai miei lettori.

L’Intervista

Di libri che parlano e raccontano le vicende della linea gotica ce ne sono diversi, alcuni, come credo sia anche il suo, portano con sé un’eredità storica, e non ho potuto resistere alla tentazione di cercare di capire quale eredità desidera lasciare ai suoi lettori.

Partiamo dalla domanda più semplice, che quasi certamente le avranno già posto.

Da quel che ho potuto osservare lei ha dedicato una parte significativa della sua vita allo studio della linea gotica, e quindi, banalmente le chiedo, cosa ha acceso in lei questo interesse così profondo?

Nel farle questa domanda ho in mente la prefazione del testo Peccati di Memoria, la mancata Norimberga italiana, di Michele Battini, che fu mio docente di storia politica all’Università di Pisa.

La trilogia della Linea Gotica nasce dai racconti delle persone che hanno vissuto la guerra. Se devo indicare una data, questa è sicuramente il giugno del 2002, quando con l’associazione “Vecchia Filanda” abbiamo organizzato un convegno sulla battaglia della Riva Ridge, combattuta nel febbraio 1945. Per l’occasione abbiamo invitato soldati americani, tedeschi e i partigiani per parlare delle loro esperienze vissute durante la battaglia. Ascoltare i loro ricordi, vedere negli occhi le emozioni che avevano vissuto sulla Riva Ridge mi ha spinto ad approfondire storicamente le vicende belliche. Da quel momento – per me – il luogo dove questa battaglia è stata combattuta, non più stato lo stesso: è diventato catartico. Quindi con l’associazione abbiamo dato vita all’esperienza della metodologia didattica del “diorama vivente” con lo scopo di far “toccare con mano” agli alunni e agli adulti le storie delle persone che su quei monti hanno intrecciato parte delle loro vite e i traumi vissuti.

La seconda domanda è quasi consequenziale alla prima, da quanto ho potuto leggere, il suo interesse e la sua passione per la storia e le vicende che hanno caratterizzato la linea gotica durante la seconda guerra mondiale, l’hanno nel tempo a raccontarla in vari modi e attraverso vari strumenti, uno tra tutti l’associazione “Linea Gotica – Officina della Memoria” di cui ad oggi è presidente.

L’associazione Linea Gotica – Officina della Memoria, nasce proprio da quell’esperienza, con l’obiettivo di proporre una nuova narrazione dei luoghi della memoria: una narrazione a 360 gradi, ovvero dove sono presenti tutti i diversi punti di vista, tenendo però sempre ben presente cosa significava combattere per una parte o per l’altra. È quindi una narrazione che vuole suscitare domande, rompere la dicotomia buono vs. cattivo.

Con la vostra associazione raccontate la linea gotica mantenendo un contatto diretto con i  luoghi della memoria e questo mi porta alla domanda vera e propria.

Quanto è importante, secondo lei, il legame fisico con il territorio per comprendere appieno gli eventi della Linea Gotica e l’esperienza di chi li ha vissuti?

Sì, per noi il luogo è la componente fondamentale della narrazione, è il mezzo dove si riesce a ri-creare il collegamento con l’evento storico. Uno dei nostri obiettivi, se non il principale, è proprio quello di riportare le esperienze vissute dalle persone nei luoghi dove sono accadute.

Da quel che leggevo nel testo, il suo è un approccio narrativo “bottom up“, che per chi non lo sapesse, parte dalle storie locali e dalle esperienze personali per arrivare a temi più generali. In altri termini la sua narrazione è un ibrido tra la metodologia di rilevazione etnografica e la narrazione micro storica. Non mi ha quindi sorpreso trovare nella bibliografia di riferimento un testo di Mario Alberto Banti, anche lui è stato mio docente, di Storia Culturale, all’Università di Pisa.

Leggi la mia “Recensione” di wonderland di Mario Alberto Banti

Volevo quindi chiederle, quali sono le influenze che l’hanno ispirata, se ci sono autori, storici, saggisti, ricercatori, ecc, che hanno ispirato il suo lavoro sia nella metodologia che nella narrazione?

In breve, l’idea di una narrazione di questo tipo è nata spontaneamente, dopodiché ho letto tantissimi libri di molti autori storici, ma anche di psicologi sociali. Il punto è che la guerra, per chi l’ha vissuta, è un trauma che ha avuto delle conseguenze a livello di relazioni familiari più o meno importanti, ovviamente a seconda del tipo di trauma che la persona ha vissuto. Il focus di questa narrazione è però rivolto al pubblico, soprattutto ai ragazzi, in modo da suscitare in essi un interesse e soprattutto un invito a porsi delle domande. Se devo citare un autore cito James Hillman e il suo testo “Un terribile amore per la guerra”, ma ce ne sono moltissimi altri altrettanto importanti.

La maggior parte dei testi legati alla seconda guerra mondiale, o almeno, quelli che generalmente sono più apprezzati da un pubblico generalista, riguardano soprattutto aspetti militari e politici, lei invece, ha preferito le esperienze umane, e in un contesto complesso e delicato come quella parte di mondo tra il 1943 e il 1945, non è facile da gestire, soprattutto a livello personale. Parliamo di traumi, stragi e sofferenze, raccontata sulla base anche di testimonianze dirette. Personalmente quando per alcuni esami e relazioni all’università, mi sono ritrovato a leggere testimonianze di ciò che accadeva quotidianamente lungo la linea gotica, confesso di aver riscontrato non poche difficoltà, soprattutto sul piano emotivo.

Mi viene quindi quasi naturale chiederle, come ha gestito, a livello personale, il carico emotivo derivante dall’immergersi in queste storie così drammatiche per così tanti anni? 

Guardi, ho iniziato a fare le prime interviste nel 1995, poi, in maniera più sistematica a partire dal 2002. Tutte le persone che ho conosciuto o di cui ho letto le testimonianze le porto con me e quando mi reco sui luoghi di memoria, quelle persone, i loro occhi, le loro storie sono lì.

Comunque non è semplice, anche se, a mio avviso, andava fatto.

Il tempo, mi rendo conto, essere un elemento ricorrente in questa intervista, lei ha iniziato a lavorare, in maniera diretta o indiretta, a questo libro, nel lontano 2002, sono passati 23 anni da allora, e in così tanto tempo, immagino che di storie ne abbia sentite tante, di domande ne abbia fatte e ricevute tante, e, prometto che è l’ultima domanda legata al tempo.

Volevo chiederle se e come è cambiato il suo approccio narrativo e storiografico in questo lungo percorso. 

Sì, col tempo l’approccio è cambiato, si è sempre più affinato, per cercare di rendere più efficace la narrazione, dando un risalto maggiore al testimone, senza mai trasfigurare l’umiltà delle persone.

Non so se ha avuto modo di notare, ma i testimoni che ho riportato nella trilogia sono sempre persone semplici: soldati, partigiani, civili, parroci e altro, difficilmente troverà gli alti comandanti, perché quello che mi interessava, e mi interessa tuttora, è la storia delle persone semplici, umili.

Ogni tanto una domanda sul libro forse dovrei farla. Nella prefazione a cura di Mirco Carrattieri, viene evidenzia la presenza di ben trentotto nazionalità sugli Appennini durante quel periodo.

Nel suo lavoro di ricerca e scrittura, come ha cercato di dare voce o rappresentare questa incredibile diversità di esperienze e provenienze che hanno composto il fronte della Linea Gotica?

L’aspetto della multiculturalità della linea Gotica è un aspetto che non viene quasi mai colto e che invece, a mio avviso, rappresenta un enorme interesse. Nella trilogia ho cercato di puntare molto sulla multiculturalità, cercando testimonianze di soldati delle trentotto nazioni (all’epoca, oggi cinquantadue) e delle minoranze all’interno delle stesse nazioni: penso ai maori della Nuova Zelanda, agli irlandesi del Regno Unito e del Canada, ai nativi americani, così come agli afroamericani o ai Nisei, o alle stesse minoranze presenti nell’esercito indiano, ai brasiliani, alle varie confessioni religiose: cattolici, ebrei e molto altro. Persone quindi che provenivano da società molto diverse da quella italiana con la quale hanno interagito e, comunque, lasciato un segno del loro passaggio. Mi permetto di rimandare all’Introduzione al primo volume dove analizzo proprio la complessità e la “ricchezza” della linea Gotica in questo senso. 

Più in generale, un concetto che traspare è che per lei ogni testimonianza e documento rappresentano solo una parte di una storia enormemente più ampia e complessa. Di storie da raccontare lungo la linea gotica ce ne sono infinite, e di fronte a scenari così grandi, densi di elementi, scegliere un punto di partenza, un punto d’arrivo, e una strada da percorrere, può non essere facile.

Come ha affrontato lei la difficile sfida di ricostruire eventi complessi basandosi su fonti spesso parziali, frammentarie o in alcuni casi contraddittorie?

Sì, ha ragione, sicuramente non è stato un lavoro semplice, ho dovuto privilegiare i territori coinvolti nelle direttrici di sfondamento principale delle armate alleate, da quando è iniziata l’operazione di sfondamento della linea Gotica (fine agosto 1944), fino al raggiungimento del fiume Po (fine aprile 1945). Dichiarato così i confini cronologici e geografici, il resto del lavoro è stato quello di ricercare quegli eventi – non solo bellici – funzionali alle azioni di sfondamento della linea Gotica. Con questo lavoro meticoloso di ricerca alcune volte mi è capitato di evidenziare episodi quasi sconosciuti, a scapito di altri sopravvalutati.

Il confronto tra le tante fonti è stato fondamentale, e questo mi ha permesso di arricchire di particolari la narrazione dell’evento, componendo così la complessità che stavo cercando. A volte è capitato – per fortuna in pochissimi casi – di trovare contraddizioni tra le fonti; comunque leggendo a fondo, leggendo anche tra le righe, quelle contraddizioni si sono via via sfumate.

Non ho potuto fare a meno di notare che negli “Aggiornamenti” lei presenta nuove scoperte e, cosa più importante, corregge errori precedenti. Questo ammetto che mi ha colpito, perché dimostra un impegno notevole e costante che ha come fine quello di raccontare gli eventi della linea gotica per ciò che furono, con distacco e professionalità storiografica. Ma mostra anche un evidente desiderio di trasparenza nei confronti del lettore.

La ringrazio per averlo notato. Sì, ho voluto una sezione “Aggiornamenti” per il secondo e per il terzo volume perché dalla pubblicazione dei primi due la ricerca storica è proseguita e mi sembrava doveroso tenerne conto. L’editore poi mi ha concesso di creare una pagina internet gratuita, dove i lettori possono scaricare strumenti utili alla consultazione dei tre volumi e gli ulteriori Aggiornamenti dei libri che verranno pubblicati in futuro.

La domanda che segue a queste osservazioni quindi, non può che essere una. Al di là della ricostruzione storica, qual è il messaggio o l’eredità principale che spera di lasciare ai lettori con questa monumentale opera sulla Linea Gotica? Che per inciso, non mi riferisco al libro, ma all’interezza della sua attività di ricerca e divulgazione della linea gotica.

Cosa vorrebbe che rimanesse, in particolare alle nuove generazioni, di queste “Storie”?

I messaggi sono due. L’invito a visitare i luoghi di memoria e i piccoli musei sparsi che custodiscono le memorie locali degli eventi. Il secondo è di provare a mettersi nei panni delle persone che hanno vissuto – forse sarebbe più appropriato dire subìto – la guerra, per evitare che accada di nuovo.

Considerazioni finali 

L’intervista con Massimo Turchi è stata molto interessante, almeno per me, e spero anche per voi. Parlando e confrontandomi con lui ho potuto notare una reale e autentica passione nel raccontare un angolo di mondo, vicende storiche e storie di persone che di quel mondo e quelle vicende ne sono stati testimoni più o meno diretti.

Si tratta di un sentimento comune che ho riscontrato spesso lungo le vie della linea gotica, il più acceso e caldo fronte della seconda guerra mondiale, un luogo di memoria che fu testimone di massacri indicibili e crimini atroci, dettati dalla più feroce crudeltà umana, camuffata da ideologia politica.

Come saprete ho vissuto per molti anni a La Spezia e i luoghi e memoriali della linea gotica e della guerra civile italiana, ho avuto modo di esplorarli e vederli con i miei occhi, ho avuto modo di conoscere tante persone per le quali quella guerra ufficialmente conclusa 80 anni fa, non è mai finita del tutto. E ancora oggi portano con se le ferite legate alla perdita dei propri cari.

Intervista all’autore di Storie Insolite della seconda guerra mondiale

storie insolite della seconda guerra mondiale, intervista a Domenico Vecchioni

Cari lettori e care lettrici, buonasera, a gran sorpresa, vi propongo una nuova intervista a Domenico Vecchioni, diplomatico e divulgatore, già autore di numerosi saggi storici, in occasione della pubblicazione del suo nuovo libro, “Storie insolite della seconda guerra mondiale” edito da Rusconi Libri.

Ho già avuto modo di intervistare Domenico Vecchioni circa un anno fa, in occasione della pubblicazione del saggio Mercenari, edito da Diarkos, del quale ho realizzato anche una guida alla lettura che trovate qui, ragion per cui non spenderò troppe parole in presentazioni, limitandomi a ripercorrere brevemente la sua carriera professionale, sia di diplomatico che di divulgatore.

Chi è Domenico Vecchioni ?

Come già anticipato, Domenico Vecchioni è un diplomatico e divulgatore italiano, autore di oltre 40 saggi storici e, secondo l’ambasciatore Stefano Baldi, “uno dei diplomatici più prolifici in ambito letterario“, secondo una classifica redatta dallo stesso Baldi infatti, Vecchioni si collocherebbe al secondo posto, secondo solo a Sergio Romano, che tra il 1985 e il 1989 fu ambasciatore italiano presso l’Unione Sovietica.

La carriera diplomatica di Vecchioni vede tra gli incarichi di maggior rilievo incarichi presso il consolato di Le Havre in Francia, l’ambasciata di Buenos Aires in argentina, e poi ancora diversi incarichi in Europa e presso la NATO.

La sua carriera da divulgatore è relativamente recente e, come osservato da Stefano Baldi, estremamente proficua, e conta la pubblicazione di oltre 40 saggi, con diversi editori e vede, come ultima fatica, la pubblicazione del saggio “Storie Insolite della seconda guerra mondiale”. Un saggio di microstoria, che affronta gli anni della seconda guerra mondiale attraverso uno sguardo su numerosi volti che furono, a vari livelli, protagonisti conflitto.

Microstoria della seconda guerra mondiale

Come anticipato, storie insolite della seconda guerra mondiale di Domenico Vecchioni è un saggio di Microstoria, ovvero una branca della storiografia molto fortunata nel panorama divulgativo, che parte dal quotidiano e dal particolare, per poi andare a delineare un contesto storico più ampio. Questa branca della storiografia moderna, nasce sul finire degli anni 50, il termine fu infatti coniato da George R. Stewart con la pubblicazione del saggio Pickett’s Charge: A Microhistory of the Final Attack on Gettysburg e vede tra i propri protagonisti, almeno nel panorama italiano contemporaneo il professor Alessandro Barbero.

Intervista a Domenico Vecchioni

Il testo che ci viene presentato, al di là della forma e dello stile, che ormai ho imparato a riconoscere e apprezzare, rispetto alle sue precedenti opere che ho avuto modo di consultare, si muove in una branca leggermente differente della storiografia, ma comunque interna alla storia sociale e culturale, si tratta di una branca a me “meno vicina”, per percorso di studi, ma comunque molto familiare, ovvero la Microstoria. Corrente che annovera tra i propri padri fondatori il nostro connazionale Carlo Ghinzburg, storico di rilevanza mondiale, che con tutta probabilità è ad oggi uno degli storici Italiani più autorevoli del 900, e che ho avuto il piacere di incontrare e intervistare qualche anno fa, ai margini di una conferenza tenuta presso la scuola Normale di Pisa. 

Per i nostri lettori, ed eventuali non addetti ai lavori, ad oggi la Microstoria rappresenta una delle metodologie di narrazione storiografica più apprezzate e funzionali, soprattutto in ambito divulgativo, dove è ampiamente utilizzata da maestri della divulgazione come Alessandro Barbero. La microstoria presenta una struttura che procede dal quotidiano e dal particolare e sfrutta l’aneddotica per catturare l’attenzione del lettore, al quale poi viene fornita una serie di informazioni sempre più approfondite e puntuali, volte a delineare un quadro sempre più complesso della società in un dato momento storico. E questo è esattamente ciò che ci viene proposto nel saggio “Storie Insolite della seconda guerra mondiale” edito da Rusconi Libri, e in retrospettiva, in realtà è un elemento molto presente anche in diverse altre sue opere. Le chiedo quindi.

In che modo e che dimensione la Microstoria ha influenzato ed influenza la sua produzione letteraria? 

In qualche modo la Microstoria, o meglio la divulgazione storica, è un po’ il leit-motiv di tutta la mia
produzione letteraria. Ho, in effetti, sempre avuto il gusto di “raccontare” la Storia, cioè – come
giustamente dice lei – partendo da un fatto particolare, da un evento minore, persino da un aneddoto,
risalire gradualmente alla “Grande Storia”, allo scopo di mantenere costante l’interesse del lettore. Il
piacere insomma di condividere le stesse sensazioni di stupore e curiosità che provo quando
m’imbatto in qualche evento speciale, o in situazioni storiche poco note o comunque tramandate
male. Questa è la vera divulgazione storica: nella cornice di presupposti storici accertati, descrivere
gli eventi come in un racconto letterario per viaggiare insieme al lettore, esserne insomma complice e
non infliggergli una lezione di Storia. Del resto i testi della grande divulgazione storica costituiscono
le mie letture preferite, insieme alle biografie, per le quali vale lo stesso ragionamento. Scrivo come
leggo, potrei dire…In questo mi ritrovo moltissimo in una battuta di Benjamin Disraeli, il famoso
primo ministro britannico, che era anche un autore molto prolifico e apprezzato. A chi gli chiedeva
ragione di tanto impegno nella scrittura, pur avendo sulle spalle pesanti responsabilità politiche, egli
rispondeva “quando ho voglia di leggere un libro, me ne scrivo uno!”. Nel mio caso appunto, lettore
e autore di divulgazione storica.

Rimanendo in tema di microstoria e riallacciandomi ad una domanda che le ho posto nella precedente intervista, legata al libro sui Mercenari, ovvero il suo legame con la storiografia francese, le pongo una domanda leggermente più tecnica (e in parte provocatoria).

La storiografia francese ha un forte legame con la scuola degli annales, nata dalla rivista “Annales d’histoire économique et sociale” fondata da Marc Bloch e Lucien Febvre. Bloch è considerato uno degli storici più autorevoli e iconici del 900, oltre che uno dei più citati, la cui storia personale è fortemente legata alla seconda guerra mondiale, soprattutto per la sua tragica morte avvenuta per fucilazione il 16 giugno 1944 a seguito dell’arresto da parte della Gestapo dell’8 marzo 1944.

Il suo libro è un opera di microstoria che ci racconta la seconda guerra mondiale e in questo contesto, Bloch è il grande assente, di conseguenza, non posso che chiedere, il perché di questa assenza, si tratta di una scelta voluta o una mera casualità?

No, nessuna esclusione, ci mancherebbe. Mi sono semplicemente interessato a determinati episodi
che per vari motivi hanno attirato la mia attenzione, e soprattutto la mia curiosità. Il tutto abbastanza
causalmente Quindi anche la bibliografia è limitata ai testi che ho effettivamente letto e studiato. A
dire la verità, a me non piacciono troppo le bibliografie lunghe tre o quattro pagine. Oggi, nell’era
internet, sono diventate inutili. Nessuno le legge più. Si possono avere informazioni più precise e più
rapide consultando i siti giusti on line. E’ preferibile quindi limitarsi a citare i libri ai quali ci si è
ispirati e che potranno essere di riferimento per il lettore che vuole approfondire determinati aspetti
della storia raccontata. Devo dire che amazon, in questa prospettiva, fornisce un ausilio prezioso. Ti
indica istantaneamente quanti libri sono stati scritti (nelle diverse lingue) su uno stesso argomento,
dove sono reperibili, quante pagine, quanto costano ecc…Testi magari introvabili nelle librerie
perché non più in commercio. Per non parlare delle biblioteche che ti permettono la consultazione on
line.

La seconda guerra mondiale è stato un fenomeno storico estremamente complesso, che ha coinvolto una quantità infinita di luoghi e individui, e leggendo il suo libro si ha modo di affacciarsi a quegli anni attraverso una serie di spaccati di vita quotidiana, che vanno da grandi protagonisti della storia come il generale e futuro presidente Dwight Eisenhower, ai meno noti protagonisti dello spionaggio bellico e le loro operazioni segrete.

Fin dalle prime pagine appare evidente che, a monte dell’opera, sia stata effettuata una meticolosa selezione. Le pongo a tale proposito due domande interconnesse.

Quanto è stato difficile scegliere quali storie tenere, e quali storie lasciarsi alle spalle (o da parte per un secondo volume)? E ancora, se ci sono storie che per questioni di spazio e tempo ha dovuto, a malincuore, mettere da parte? Può eventualmente darci un assaggio di una di quelle storie che non troveremo in questo volume?

Di “storie insolite” della Seconda guerra mondiale da raccontare ce ne sono a centinaia. Ci
vorrebbero sicuramente più volumi. Del resto io ne ho già raccontate diverse in precedenti libri. Si
può facilmente immaginare come durante i lunghi 6 anni di durata, il Secondo conflitto mondiale
abbia generato eventi singolari, personaggi fuori del comune, forme di spionaggio fino ad allora
inedite, situazioni paradossali ecc. Non è quindi detto che non ci sarà un seguito a Storie insolite n
1… Alcune storie trattate in precedenti pubblicazioni? Le donne di Hitler, lo strano destino del
nipote inglese di Hitler, spionaggio al Salon Kitty, la “fuga delle beffe” del tenente Giovanni Corsini,
il Centro di torture di Londra , the London Cage ecc…

Scorrendo tra le varie storie che ci vengono servite, abbiamo modo di svelare un sentito legame tra quest’opera e le precedenti, mi riferisco al mondo dello spionaggio, tema estremamente affascinante, che nella seconda guerra mondiale e nei decenni successivi, avrebbe visto la sua massima espressione. In quest’opera ci vengono raccontate diverse storie di spionaggio, e posso notare, dalla bibliografia indicata, diversi testi non sempre semplici da reperire, almeno non in Italia, come “La guerre Secrète” di Anthony Cave Brown, Pymalion Editore, Parigi 1981, e “Historie de l’Espionnage mondial”. Tomi I e II, di Genovefa Etienne, edito da Kiron/Editions du Félin, Parigi 2000. Elemento quest’ultimo cha da al saggio un certo spessore, ed evidenzia la passione e l’impegno messi nella ricerca bibliografica. In effetti sulla bibliografia di quest’opera si potrebbe aprire un intera discussione e strutturare tante interviste quante sono le opere citate e questo mi porta in qualche modo verso la chiusura dell’intervista.

Una conclusione che potrebbe apparire troncata, poiché di domande per lei ne avrei ancora molte, forse troppe, ma se le ponessi tutte correremmo probabilmente il rischio di risultare tediosi per i nostri lettori, le pongo quindi, un’ultima domanda, forse la più personale.

C’è in questo libro una storia che, quando l’ha scoperta, qualcosa dentro di lei si è attivato e l’ha spinta a dire “devo raccontarla”, o, più semplicemente, quale tra le tante storie raccontate nella rassegna, l’ha colpita di più? Per quanto riguarda me, mi permetto di rispondere anche io alla stessa domanda, l’insolita storia di Roosvelt è quella che più mi ha affascinato, divertito, e stupito allo stesso tempo.

Quale storia preferita? Non saprei dire. Sono così diverse tra di loro, ma tutte egualmente
interessanti. Sono però rimasto colpito da una delle storie che ha a che vedere con la guerra solo
indirettamente: la tragedia Balvano (la più grande catastrofe ferroviaria della storia italiana, 600
morti)
. Mi sono, infatti, immaginato la scena che deve essere apparsa ai primi soccorritori nella
galleria maledetta: “i vagoni sono ancora illuminati. All’interno i passeggeri appaiono tranquilli.
Danno l’impressione di dormire. Ma di un sonno strano, insolito, un sonno senza respiro, un sonno
senza sogni, un sonno di morte. Sono, in effetti, tutti deceduti! La morte li ha colti all’improvviso e
nelle posizioni che occupavano per il viaggio e probabilmente non hanno avuto nemmeno il tempo di
capire cosa stesse succedendo.”
Questa scena, agghiacciante, l’ho visualizzata nella mia ente come
se fosse un film. E ho subito scelto di raccontare la storia della “galleria della morte”.

Con questa descrizione agghiacciante, che ci fornisce un assaggio di una delle storie insolite raccontate nel saggio, senza mediazione, ma con lo stile narrativo ed espressivo di Domenico Vecchioni, l’intervista può dirsi conclusa. Il saggio nel suo complesso offre al lettore uno spaccato della seconda guerra mondiale, da una prospettiva insolita, a volte buffa, altre volte drammatica, altre volte ancora “romantica” e, a mio avviso, esattamente ciò che un saggio di carattere divulgativo dovrebbe fare, spinge il lettore ad andare oltre, a non fermarsi alla narrazione, e spalanca infinite porte su quel drammatico conflitto, di cui, purtroppo sappiamo tanto e sempre troppo poco, di cui sappiamo molto e mai abbastanza e di cui, nella violenza drammatica delle vicende che l’hanno caratterizzato, sorprende, stupisce e lascia sconcertati ad ogni dettaglio rivelato.

A chi si rivolge l’opera ?

Come osservato dallo stesso autore, il saggio si rivolge ad un pubblico di appassionati e curiosi di storia, non necessariamente addetti ai lavori, ma desiderosi di scavare e sapere di più. Non sono però esclusi gli addetti ai lavori, io stesso che ho dedicato alla divulgazione storica gli ultimi 10 anni della mia vita, e nel fare ciò, mi sono ritrovato per forza di cose ad immergere le mani nella storia, alla ricerca di “storie” note e insolite da raccontare al mio pubblico e, nonostante ciò, durante la lettura ho avuto modo di sorprendermi, stupirmi e scoprire qualcosa di nuovo ad ogni pagina di questo libro.

La scrittura fluida e accattivante di Domenico Vecchioni e l’organizzazione delle storie, in sezioni e capitoli dedicati, rendono il testo adatto a chiunque, dal lettore occasionale a quello più regolare. Inoltre, trattandosi di una rassegna di storie indipendenti, per lo più scollegate l’una dall’altra ma allo stesso tempo, tenute insieme da un contesto storico ben definito, la seconda guerra mondiale, il libro può essere scomposto e letto in ordine sparso. Senza necessità di partire dalla prima pagina e finire all’ultima. Io ad esempio, scorrendo l’indice, ho individuato alcuni saggi che mi sono sembrati più accattivanti e sono partito da quelli, per poi divorare il resto del libro nelle successive ore.

In conclusione quindi, Storie insolite della seconda guerra mondiale, a mio avviso, può essere un ottima lettura e anche un buon regalo di natale, se avete amici o familiari appassionati e affamati di storia e di storie.

Intervista a Domenico Vecchioni: Esperto di Storia, Diplomazia e Spionaggio

Diplomatico, scrittore, appassionato di storia e infine divulgatore, Domenico Vecchioni è tutto questo, ma non solo. Ho avuto il piacere e la fortuna di scambiare qualche e-mail con lui in vista della pubblicazione del suo saggio sui Mercenari, edito da Diarkos editore e da queste è nata quella che spero possa essere un interessante intervista, la prima di una lunga serie di interviste che ho intenzione di presentarvi qui su Historicaleye e chissà, in futuro magari riprendere in mano il Podcast e produrre un podcast dedicato agli appassionati di storia.

Chi è Domenico Vecchioni

Prima di addentrarci nell’intervista, credo sia opportuno inquadrare meglio Domenico Vecchioni, autore di oltre 40 saggi storici e, secondo l’ambasciatore Stefano Baldi, uno dei diplomatici più prolifici in ambito letterario, secondo una classifica redatta da Baldi infatti, Vecchioni si collocherebbe al secondo posto, secondo solo a Sergio Romano, che tra il 1985 e il 1989 fu ambasciatore italiano presso l’Unione Sovietica, e dio solo sa quante cose ha da dire e raccontare un uomo del genere.

Tornando a Vecchioni, la sua carriera diplomatica vede numerosi incarichi di rilievo tra cui spiccano il consolato di Le Havre in Francia, l’ambasciata di Buenos Aires in argentina, e poi ancora diversi incarichi in Europa e presso la NATO.

La Francia e il mondo francofono giocano un ruolo estremamente importante nella vita di Vecchioni, al punto che le sue due figlie saranno italo-francesi e questo elemento, come vedremo nell’intervista, influenzerà in modo importante la produzione letteraria di Vecchioni.

Oltre la brillante carriera diplomatica, come anticipato, Vecchioni può vantare una straordinaria produzione letteraria che si compone di numerosi libri e saggi storici, ma anche di articoli e collaborazioni con diverse riviste in ambito geopolitico, di intelligence e storico, contribuendo a costruire l’immagine di un Vecchioni esperto di storia e storiografia, oltre che di analisi geopolitica, ed essendo storia e geopolitica i due pilastri su cui si fonda non solo Historicaleye ma anche la formazione, mentirei se negassi il mio entusiasmo nel raccontarvi quest’uomo.

Il saggio sui mercenari

L’ultima opera di Domenico vecchioni è un saggio sui mercenari, opera che esplora la figura del mercenario dal mondo antico al mondo contemporaneo, in un viaggio che mette al confronto il mercenario storico nelle varie epoche e le figure che hanno contribuito a creare il mito del mercenario.

Vecchioni definisce il mercenario, la sua professione, il suo ruolo nella storia e, giungendo al mondo contemporaneo, le opportunità ed i rischi che tali figure, attraverso le società militari private, rappresentano per il mondo moderno.

Non mi dilungo oltre sul saggio sui Mercenari, ma se volete approfondire, qui su historicaleye trovate una guida alla lettura in cui il libro è scomposto e analizzato in tutte le sue parti.

Intervista a Domenico Vecchioni

Prima di intervistare Vecchioni ho dato una spulciata alle varie interviste che il diplomatico ha rilasciato, cercando di produrre qualcosa di interessante e soprattutto unico, ho quindi impostato la nostra intervista e le poche domande che ho posto al diplomatico, cercando di appagare in primis la mia curiosità. Ammetto che avrei voluto fargli anche altre domande, ma molte non avrebbero trovato una giusta collocazione qui su historicaleye, di conseguenza, ho ristretto il campo e le domande, ai soli temi e argomenti che oltre me, avrebbero potuto suscitare interesse anche nei lettori di questo sito.

La prima domanda che ho proposto a Domenico Vecchioni, riguarda non tanto il contenuto del libro sui Mercenari, lo preciso perché l’intervista parte dalla collaborazione con Diarkos relativa al saggio sui mercenari, e si sofferma sullo studio che vi è a monte. Più precisamente, leggendo il libro, e in particolare, spulciando la sua bibliografia, non ho potuto fare a meno di una significativa presenza di letteratura francese in materia di Mercenari, da qui la domanda.

Vi è un motivo particolare per cui è stato dato tanto spazio alla letteratura francese o più semplicemente la scelta è legata ad una maggiore attenzione alla materia e gli studi sul mercenariato da parte di autori francesi rispetto ad altri?

Un mix delle due motivazioni. Da una parte, la mia formazione culturale è stata abbastanza influenzata dalla francofonia. Ho costantemente studiato il francese (peraltro obbligatorio ai miei tempi per il concorso d’ingresso nella carriera diplomatica), le mie figlie sono italo-francesi, i miei nipoti pure, nel corso della carriera sono stato tre volte “en poste” in Francia (Le Havre, Strasburgo e Nizza) ecc. Dall’altra, avendo scritto tempo fa un libro sulla Legione Straniera, ho avuto modo di familiarizzare con gli autori e storici francesi, che in materia non sono secondi a nessuno. Dalla “Legione Straniera” ai “Mercenari”, il passo non è stato troppo lungo, incoraggiato anche dall’editore. Non per caso il più celebre mercenario del XX secolo è stato proprio un francese: Bob Denard!

La seconda domanda che le pongo, riguarda la sua attività da scrittore, osservando le opere da lei realizzate, ed avendone lette diverse, tra cui I signori della truffa e Lo sbarco in Normandia, e Le spie del fascismo, si può facilmente notare che, il tema dello spionaggio gode di una certa centralità nella sua produzione letteraria e quindi mi chiedo e le chiedo: Cosa l’ha spinta verso un tema come quello dei mercenari, che, ad un primo sguardo può risultare diametralmente opposto rispetto allo spionaggio. Mi spiego meglio, almeno in apparenza, poi magari entrerà lei nel merito della vicenda evidenziando una maggiore affinità di quella che può apparire, la “spia” è generalmente percepita come un qualcosa che si muove nell’ombra, nelle retrovie, mentre il “mercenario” è una figura più di impatto, diciamo anche da prima linea.

Effettivamente nella mia bibliografia le opere sullo spionaggio e sulle spie (personaggi dalle “mille anime”, come diceva Balzac), sono prevalenti con riferimento soprattutto al XX secolo. La spinta verso i Mercenari me l’ha data in realtà, come accennavo prima, la Legione Straniera. Due mondi certo paralleli e diversi, pur tuttavia con qualche elemento in comune: la disponibilità al sacrificio supremo (nella legione straniera spagnola il motto era “Viva la muerte!”), lo sprezzo del pericolo, lo spirito d’avventura, il cameratismo, l’expertise militare a tutta prova ecc. Ricordo che la Legione Stranera francese fu istituita nel 1831, proprio per meglio coordinare e controllare i diversi corpi mercenari stranieri che – a vario titolo – servivano nell’ambito dell’esercito francese.

La terza domanda che le pongo, è più un gioco che una domanda, e riguarda le quattro opere citate in precedenza, ovvero, i signori della truffa, lo sbarco in Normandia, le spie del fascismo e quest’ultima opera sui mercenari. Ciò che le chiedo e le propongo e di provare a tracciare un filo comune tra queste opere. 

C’è in realtà un filo conduttore che lega tutte le mie opere. Ed è l’attrazione che nutro per personaggi dal destino straordinario, fuori del comune, al di fuori dei sentieri battuti, che hanno lasciato tracce profonde nella Storia, sia in positivo sia in negativo. Quindi, se ho indagato sui tiranni e i dittatori più singolari del XX secolo, ho scritto anche un libro sui più grandi e mitici personaggi del XX secolo (da Lawrence d’Arabia al nostro Amedeo Guillet, leggendario ufficiale di cavalleria ed eccezionale diplomatico, da Nelson Mandela a a Winston Churchill, da Golda Meir a Santa Teresa di Calcutta ecc). Ho indagato anche sugli eroi sconosciuti, da Francesco de Martini, il soldato più decorato della Seconda guerra mondiale, a Raul Wallenberg, il diplomatico svedese che a Budapest nel 1944 salvò 1000.000 ebrei, ma non se stesso.

L’altro filo conduttore, se vuole, è la divulgazione. A me piace raccontare la storia. Condividere, cioè, con i lettori le stesse sensazioni di curiosità, sorpresa e interesse che provo io quando scopro o riscopro un personaggio o una particolare situazione del passato. Non sono uno storico di professione. Non pretendo scrivere libri di Storia, mi basta e mi accontento di raccontarla.

Concludo portando l’attenzione sulla sua figura professionale, oltre che di scrittore, di diplomatico, e le pongo due domande che probabilmente le saranno state poste in mille occasioni, la prima è : Da Diplomatico ha avuto modo di incontrare ed interagire in un modo o nell’altro con figure di primo piano nello scacchiere geopolitico internazionale, le chiedo quindi qual è stato il suo incontro più emozionante, chi è stata la figura “storica” più autorevole se così possiamo dire, che ha incontrato nella sua carriera?. Sempre se le è permesso divulgare questa informazione.

Sul piano professionale, ma non solo, devo dire che la persona che più mi ha influenzato è stata probabilmente l’ambasciatore e scrittore Sergio Romano, di cui sono stato stretto collaboratore in due occasioni, alla Farnesina e alla Rappresentanza permanente d’Italia presso la NATO. Da lui ho appreso alcune regole fondamentali:

preservare la dignità della funzione diplomatica, resistendo alle tentazioni di svendita per mere convenienze personali; avere come stella polare nell’attività diplomatica la difesa degli interessi nazionali e la protezione dei connazionali e, soprattutto, imparare a dire di no quando necessario. La diplomazia non può e non deve essere solo sorrisi, strette di mano, pasticcini e ….compromessi al ribasso. Dall’ambasciatore Romano inoltre ho ereditato l’amore per i libri e per la Storia. Le rivelo in merito una piccola curiosità che forse potrà sorprenderla. Secondo una classifica fatta dal mio collega Ambasciatore Stefano Baldi, circa i libri scritti dai diplomatici italiani ( “La penna del diplomatico”), Sergio Romano risulta il più prolifico. Il “secondo classificato” è …il sottoscritto!

La contestazione cattolica. Intervista a Alessandro Santagata

 

Questa settimana ho deciso di intervistare Alessandro Santagata che nel 2016 ha pubblicato  il saggio La contestazione cattolica. Movimenti, cultura e politica dal Vaticano II al ’68 (Viella, 2016)  ed   è borsista presso la Fondation Maison des sciences de l’homme / École pratique des hautes études di Parigi e collabora con la cattedra di Storia contemporanea dell’Università di Roma Tor Vergata.

-Quali sono state le motivazioni che l’hanno spinta a scegliere un argomento così particolare e così lontano dalle mode attuali?

 

A mio parere, questo ricerca si inserisce in un filone di studi che sta finalmente giungendo a maturazione, anche se in maniera disorganica, anche perché spontanea. Intendo dire che negli ultimi anni si è proposta una nuova generazione di storici che ha affrontato in modo nuovo e, nella maggioranza dei casi, post-ideologico lo studio degli anni Sessanta e Settanta. L’interesse per i movimenti nasce probabilmente anche dalla crisi della politica attuale e dallo studio delle cause profonde di quella crisi. Nello stesso tempo, mi sembra forte la ricerca di un legame con quel momento del nostro passato recente, in cui si era configurata la possibilità di una rivoluzione, prima che la categoria scomparisse dall’orizzonte. Per quanto riguarda lo studio dei movimenti cattolici, valuto in maniera positiva l’affermasi di una nuova leva di studiosi che intendono affrontare in maniera laica la materia. Penso, per esempio, al libro di Guido Panvini, L’altro album di famiglia. Cattolici e violenza politica, Venezia, 2014. Il mio libro condivide molti aspetti della sua impostazione, anche se è differente nelle domande e nel metodo. È vero però che resta ancora forte la diffidenza verso la storia della religione cattolica. Le ragioni sono da cercare nella storia stessa, ovverosia nella storia della storiografia e nelle ingerenze della Chiesa cattolica nella politica italiana, particolarmente forti negli ultimi quarant’anni: nelle campagne della gerarchia cattolica contro i diritti e via dicendo. Ho motivo di credere che le cose cambieranno, anche in conseguenza della svolta di papa Francesco…

 

-Che ruolo hanno nel concilio Vaticano II i vescovi italiani? Che ruolo  hanno all’interno dei Vescovi Italiani l’arcivescovo di Milano Montini e il quello di Bologna Lercaro?

 

I vescovi italiani sono il gruppo maggioritario al Vaticano II con ben 423 padri conciliari italiani. Eppure, l’episcopato italiano ha svolto un ruolo sostanzialmente marginale e poco influente sull’andamento dei lavori e sulle risoluzioni. Ciò è dovuto, in parte, alla disorganizzazione; basti pensare che le prime riunioni della Cei risalgono ai primi anni Cinquanta e da questo punto di vista il Vaticano II è un passaggio fondamentale per la “collegialità” italiana. Ma soprattutto, è dovuto alla difficoltà della maggioranza, guidata dal card. Siri, nel sintonizzarsi con le parole d’ordine dell’“aggiornamento” di Giovanni XXIII. Questo non significa che non ci siano figure che hanno avuto una funzione preziosa, come per esempio il card. Lercaro, che nel 1963 diventa uno  dei quattro moderatori, oppure Montini, a cui spetta il compito di chiudere il Concilio da papa: una scelta peraltro non scontata. Altre figure di rilievo sono quelle di Bettazzi, Guano, Bartoletti, Baldassarri. Altri ancora invece hanno animato la galassia conservatrice, come il già citato Siri e poi Carli e Ruffini. Giunti al momento del voto, i vescovi italiani si allineano alla maggioranza. Gli anni del post-concilio saranno quelli più difficili, perché la Cei si troverà a fare i conti con un evento che l’ha trasformata, ma che ha sostanzialmente subito.

-Il suo libro ripercorre il periodo in cui si sviluppa livello politico il centro-sinistra. Che rapporto c’è in questa fase tra Dc e mondo cattolico? L’associazionismo cattolico ha ancora una funzione importante all’interno della Dc?

Il rapporto tra la Dc e il mondo cattolico è sempre stato molto stretto. Possiamo dire che è stato un tratto costitutivo dello stesso “partito cristiano”. Questo è ancora vero negli anni Sessanta, anche se la secolarizzazione, da un lato, e il Concilio, dall’altro, hanno allentato notevolmente i legami con esisti diversi. Nel caso dell’Azione cattolica, che era stata la fucina della classe dirigente democristiana il processo, è iniziato già nel 1959 con la presidenza Maltarello. Per quanto riguarda le Acli, già nel 1958 è sorto un ragruppamento parlamentare che fa riferimento a Pastore, ma sarà solo con la presidenza Labor che si arriverà tra il 1968 e il 1969 a rompere il collateralismo. Bisogna considerare, del resto, Dc di Rumor, siamo di fronte a un partito sempre più autoreferenziale, nonostante le aperture di Moro alla trasformazione culturale. La mancata ricezione del Vaticano II lo confermerà.

 

 

-Che ripercussioni hanno  i movimenti di contestazione che sono seguiti al Concilio Vaticano II sulla politica di quel periodo della Dc? In che modo viene messa in discussione la Dc ?

 

Tutto ha inizio da alcuni cenacoli intellettuali legati ad alcune riviste (Testimonianze, Il gallo, Questitalia, etc) che mettono in discussione la legittimità dell’unità politica dei cattolici sulla base dei documenti conciliari, in particolare del paragrafo 76 di Gaudium et spes. In poche parole, si afferma che il Vaticano II ha tolto al “partito cristiano” il suo fondamento ideologico, ma i sostenitori del “movimento cattolico” hanno buoni argomenti per affermare il contrario. I testi del Vaticano II, infatti, si prestano a essere interpretati in modi diversi e talvolta opposti. Da parte sua, la Dc cerca di rispondere alle accuse a partire dal convegno di Lucca del 1967, in cui sostanzialmente presenta il Vaticano II come un momento di ratifica del progetto storico di Sturzo e De Gasperi: un’occasione mancata per una riflessione autocritica, come denunciano i gruppi spontanei, e un passaggio chiave per comprendere la contestazione cattolica degli “anni ‘68”.

 

 

-Come cambia l’Azione cattolica dopo il Concilio Vaticano II? Che ruolo ha in questo Bachelet?

 

L’associazionismo cattolico entra in crisi negli anni Sessanta a causa degli effetti sempre più dirompenti della secolarizzazione che investe la sfera del religioso, ma anche le altre culture politiche (si pensi, per esempio, al drastico calo di iscrizioni alla Fgci). Altri fattori di crisi sono da ricercare nel processo di ricezione conciliare, dal momento che i gruppi spontanei mettono in discussione la legittimità stessa dell’“apostolato gerarchico”. Infine, bisogna tenere presente che la crisi attraversa anche la stessa Aci con le organizzazioni giovanili (Giac e Fuci) impegnate per la democratizzazione interna e per una rottura definitiva del collateralismo. In questo contesto, la presidenza Bachelet si trova a gestire la difficile transizione verso la “scelta religiosa”: un allontanamento graduale dalla Dc, e dalla politica, che non si traduce però in una rottura con il movimento cattolico. L’esito sarà quello di traghettare l’associazione in una nuova epoca che vedrà però l’associazionismo ridimensionato dal punto di vista della rilevanza pubblica.

 

-Quali sono le principali caratteristiche dei gruppi  spontanei che si formano dopo il Concilio Vaticano II?  Che ruolo ha Wladimiro Dorigo in questa fase?

 

I gruppi spontanei iniziano a proliferare negli anni del Concilio e vivono la loro fase di massima diffusione tra il 1966 e il 1969. Sono in maggioranza gruppi di piccole dimensioni, auto-organizzati e generazionalmente connotati. Vi si ritrovano per lo più i militanti usciti dalle organizzazioni del movimento cattolico che chiedono una rottura dell’ordine esistente – leggi le commistioni tra Chiesa, Stato e Dc – sulla base della lezione conciliare. I gruppi non si considerano organizzazioni religiose, ma esclusivamente politiche. Tuttavia, la loro azione è nella sostanza incentrata sul piano della riforma politica del mondo cattolico, con tutta una serie di contraddizioni di carattere ideologico nella relazione tra appartenenza religiosa e identità politica. Negli incontri nazionali, coordinati in una prima fase da Wladimiro Dorigo, ex-militante della Base e direttore di Questitalia, e dal settimanale Adista, si delinea un processo verso la “nuova sinistra” alternativa a quella comunista e socialista, della quale si intende però stimolare una trasformazione. Il Pci, da parte sua, cerca senza particolare successo di assorbire il movimento per spaccare il blocco elettorale cattolico. L’esaurirsi della stagione dei gruppi comporterà anche la fine della parabola di Questitalia. Da quell’esperienza prenderà corpo il movimento delle Comunità di base, che declinerà in modo diverso, perché con una separazione più chiara dei piani, ispirazione cristiana, riforma della Chiesa e militanza a sinistra.

 

-In che modo Comunione e Liberazione è una risposta alla crisi dell’associazionismo cattolico e della Chiesa cattolica in generale? In che modo è riconducibile al movimento studentesco ?

 

Cl nasce come movimento universitario nel 1969 dalla crisi di Gioventù studentesca, il primo gruppo guidato da don Giussani e attivo nelle scuole. Si struttura quindi come una risposta di natura integralistica al movimento studentesco e, nello stesso, tempo come alternativa di carattere movimentistico all’Azione cattolica. Tuttavia, spogliando le fonti di Gs è possibile osservare una vicinanza del gruppo alle istanze di rottura del ’68 (terzomondismo, antiautoritarismo, critica alle istituzioni borghesi etc). Lo conferma anche il fatto che nel 1968 la maggioranza dei militanti abbandona Gs per confluire nel movimento di protesta. Negli anni Settanta, l’intuizione del nucleo di Giussani si evolverà, non senza contraddizioni, all’insegna della contrapposizione alla Nuova Sinistra e di un progetto di rilancio dell’identità cattolica come reazione alla crisi post-conciliare. Si profilerà, in sostanza, una nuova visione dei rapporti tra fede e politica, la “linea della presenza”, che porterà all’impatto con l’Azione cattolica della “scelta religiosa”.

-Vorrei concludere adesso con una domanda un po’ personale. E’ consuetudine di “Historical Eye” chiedere agli studiosi intervistati un po’ del loro percorso personale e delle motivazioni che li hanno spinti a intraprendere il difficile mestiere di storico. Crediamo sia molto importante capire “perché” si studi la storia o si diventi storici. Quindi, in definitiva, quali furono le motivazioni che la portarono a scegliere di studiare storia? A qualche consiglio di lettura e di storiografia?

Ho iniziato ad amare la storia ai tempi del liceo e credo che tale passione derivasse anche dal mio impegno politico a livello studentesco e di movimento. Sono convinto che scrivere di storia sia un modo per cercare delle risposte alle domande che agitano ciascuno di noi. Inoltre, scrivere un libro di storia è anche un esercizio di autobiografia. Consiglio a questo proposito di leggere l’intera produzione di George Mosse, storico straordinario che ha impiegato la vita a occuparsi di storia alla ricerca di se stesso.

Intervista alla professoressa Maya De Leo sulla storia dell’omosessualità

Questa settimana ho deciso di intervistare la professoressa Maya De Leo che terrà il primo corso di Storia dell’omosessualità in Italia all’università di Torino.

 

– La prima domanda è personale: quali sono le motivazioni che l’hanno spinta a passare dallo studio della Storia di genere alla storia dell’omosessualità ?

 

In realtà non è corretto individuare un “passaggio” tra le due cose: la storia di genere viene associata alla storia delle donne o delle relazioni tra uomini e donne, ma in realtà il campo di indagine della storia di genere è molto più vasto e comprende la costruzione delle identità di genere, maschile e femminile, la sessualità, la percezione dei comportamenti sessuali illeciti o proibiti, come l’omosessualità. Ho deciso di studiare l’omosessualità perché trovo cheindagare la costruzione normativa dei generi e delle sessualitàsia molto importante per comprendere fenomeni cruciali dell’età contemporanea, come hanno insegnato per primi i lavori di George Mosse.

 

– Quali sono state le motivazioni che l’hanno spinta a proporre un insegnamento come storia dell’omosessualità?

 

Non l’ho proposto io: l’insegnamento mi è stato affidato dopo la selezione seguita al bando indetto dall’Università. Sinceramente sono stata molto sorpresa io per prima quando ho appreso che era stato attivato questo corso, ma anche molto contenta.

 

– Lei si aspettava le polemiche e le reazioni che sono sorte dopo l’annuncio di questo nuovo corso universitario?

 

Sì, so per esperienza che parlare di omosessualità in pubblico suscita sempre reazioni molto forti, sia positive che negative. Quelle negative indicano che le resistenze sono ancora molto forti, quelle positive che d’altra parte c’è molta “fame” di informazione su questo tema.

Lo striscione di Forza Nuova appeso a Palazzo Nuovo a Torino

– Questo insegnamento esiste in altre università italiane o estere?

 

Che io sappia in Italia non esistono altri corsi con questa denominazione, mentre corsi di storia dell’omosessualità sono presenti nelle università statunitensi (ad esempio Stanford e Berkeley), inglesi (il Goldsmiths College, dell’University Of London, ha creato lo scorso anno un Master in Queer History ed è stato il primo in tutto il mondo nel suo genere), e presso l’Université du Québec a Montréal. Questi sono quelli che conosco, ma sicuramente ce ne sono altrinel mondo: è impossibile elencarli tutti.

-Secondo lei perché si è arrivati ora, alla decisione di istituire questo insegnamento?

 

Da un lato perché sono avvenuti importanti cambiamenti di tipo culturale: dieci anni fa, quando ho discusso la tesi di dottorato (dedicata alle rappresentazioni dell’omosessualità tra tardo Ottocento e primo Novecento), l’omosessualità iniziava ad apparire timidamente come tema nel dibattito pubblico e politico, ora è sempre più presente e sicuramente vi sono maggiore attenzione e minore chiusura.

Dall’altro lato perché, a quarant’anni circa dalla sua nascita, la storia dell’omosessualità ha raggiunto un certo consolidamento accademico e una produzione storiografica di peso e qualità ragguardevoli che è giunto il momento di divulgare.

 

– In altri paesi, al momento dell’istituzione di un insegnamento simile ci sono state reazioni come  quelle avvenute ora in Italia?

 

Attualmente negli Stati Uniti e nel Regno Unito la storia queer non solo è una consolidata realtà accademica ma è entrata nelle scuole superiori attraverso l’istituzionalizzazione del LGBT+ History Month, iniziativa che prevede approfondimenti sul tema della storia LGBT+ e altre iniziative contro l’omotransfobia. Alcune polemiche hanno fatto seguito alla decisione di alcuni stati americani di introdurre la LGBT+ History nelle scuole medie.

– Quando è nata l’idea dell’omosessualità come malattia e chi furono i maggiori teorici di questo pensiero ?

 

La patologizzazione dell’omosessualità è un prodotto ottocentesco con cui facciamo i conti ancora oggi.I testi più influenti furono quello del medico inglese Havelock Ellis, Sexual inversion (1897) e Psychopathia Sexualis (1886) del medico tedesco Richard von Krafft-Ebing. In entrambi questi testi si sosteneva l’idea dell’“inversione”, ovvero che gli omosessuali avessero caratteristiche del sesso opposto. D’altro canto è bene sottolineare che questo tipo di lettura era apprezzata da parte degli omosessuali del tempo che la preferivano alla visione dell’omosessualità come vizio esecrabile o crimine (la sodomia era punita dal codice penale in Inghilterra e in Germania).

 

– Come ha influito la televisione sulla visione dell’omosessualità in età contemporanea?

 

La stereotipizzazione negativa nei film è stata sempre molto diffusa, anche se portata avanti per allusioni, poiché la censura ha impedito che fossero proposte perfino figure negative di omosessuali e lesbiche.

Sicuramente il moltiplicarsi di rappresentazioni, e soprattutto di rappresentazioni positive o comunque non stereotipicamente negative, ha influito positivamente negli ultimi decenni sulla percezione dell’omosessualità.

 

–  Come si è sviluppato il movimento di liberazione omosessuale in Italia? Negli ultimi anni è cambiato qualcosa?

 

La storia del movimento di liberazione omosessuale in Italia è intrecciata con quella del femminismo di seconda ondata degli anni settanta, con quella della sinistra extraparlamentare e del partito radicale: interlocutori con cui il dialogo non è stato sempre facile e nemmeno sereno. Ora la situazione politica è completamente diversa, e la comunità LGBT+si è affermata maggiormente come soggetto politico autonomo, non soloin quanto bacino di potenziali elettori e agente di mobilitazione per precisi obiettivi politici, ma soprattutto come soggetto collettivo e diffuso in grado di produrre cambiamento sociale e trasformazione culturale.

 

– Vorrei concludere adesso con una domanda un po’ personale. È consuetudine di “Historical Eye” chiedere agli studiosi intervistati un po’ del loro percorso personale e delle motivazioni che li hanno spinti a intraprendere il difficile mestiere di storico. Crediamo sia molto importante capire “perché” si studi la storia o si diventi storici. Quindi, in definitiva, professoressa, quali furono le motivazioni che la portarono a scegliere di studiare storia? Ha qualche consiglio di lettura e di storiografia sull’argomento?

 

Mi sono iscritta a storia nel 1993, erano gli anni delle guerre jugoslave e sentivo il bisogno di strumenti che mi aiutassero a leggere un presente così tormentato. Il genere mi è sembrato da subito un’ottima chiave di lettura, poiché la sessualità costituisce uno spazio di articolazione primario dei rapporti di potere, delle tensioni sociali, dei conflitti e dei mutamenti che attraversano l’età contemporanea.

 

Sull’omosessualità segnalo due “classici” che purtroppo non sono stati tradotti in italiano:

 

George Chauncey, Gay New York: Gender, Urban Culture, and the Making of the Gay Male World, 1890 – 1940,Basic Books, New York, 1994.

 

Elizabeth Lapovsky Kennedy and Madeline D. Davis, Boots of Leather, Slippers of Gold: The History of a Lesbian Community,Penguin Books, New York1993.

 

Tra i lavori sull’Italia, in italiano, segnalo invece:

 

Lorenzo Benadusi, Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista, Feltrinelli, Milano 2005.

 

Massimo Prearo, La fabbrica dell’orgoglio. Una genealogia dei movimenti LGBT, ETS, Pisa 2015.

 

 

Intervista sulla Public history al professor Serge Noiret

Al termine dell’incontro che si è tenuto a Torino al Polo del ‘900 il 28 ottobre sul tema “Musei di  storia e Public History” sono riuscito ad intervistare il professor Serge Noiret.

Nell’ultimo periodo si parla sempre di più di Public History in che modo questa nuova concezione può aiutare la comunicazione della storia ad un pubblico più ampio?

La Public History non è soltanto comunicazione della storia, è anche formazione degli individui che porteranno la storia attraverso nuovi media a diversi pubblici. Si può benissimo pensare che una formazione in Public History, possa dare i mezzi ai musei e agli storici di confrontarsi con la narrazione all’interno di un museo, dunque con il linguaggio specifio che la storia attraverso il museo e le sue realizzazioni potrà fare. Cosicchè pubblici specifici di età, di comunità, di genere, di diverse etnie, pubblici diversi potranno conoscere la storia. La presenza della Public History è soprattutto il rivelare, che un campo disciplinare tocca molti mezzi di comunicazione, diversi pubblici, e che ha la capacità di agire insieme a questi pubblici, sia per parlare di storia che agire nel pubblico e nella società.

 

La Public History è nata negli anni settanta, cosa è cambiato nella Public History di oggi?

C’è una percezione del Public Historian diversa in base alle diverse culture dei paesi, in base anche all’esperienza storiografica nazionale e, dunque, ogni pase vede ciò in modo diverso. Anche nel tempo queste pratiche sono cambiate; per esempio, oggi abbiamo parlato di musei, è ovvio che il museo sia molto di attualità e, oggi, con un impatto delle tecnologie notevoli, il mutamento è dovuto all’impatto delle nuove tecnologie, il web, la condivisone possibile attraverso di esso. Vi è quindi, la possibilità finalmente, di far parlare le persone che hanno delle conoscenze e di metterle insieme di filtrarle e  farle partecipare a dei progetti. Questo ovviamente nel tempo è cambiato moltissimo.

 

In Italia si è iniziato a trattare di Public History negli ultimi anni, quali sono le motivazioni di questo ritardo?

La Public History è una cosa molto americana. L’idea della Public History nasce da una crisi della storia come veniva insegnata nelle università negli anni 70. E’ una crisi soprattutto del mercato della storia e degli storici all’interno dell’accademia; da qui quindi, la necessità di reinventare degli spazi professionali per gli storici professionali che venivano dall’università. Questo è successo negli Stati Uniti negli anni 70; da allora hanno strutturato dei programmi per formare il Public Historian. Stranamente non è passato in Europa perché in Europa la Public History si faceva già, senza sapere di fare Public History. C’erano molti storici che facevano una comunicazione nei musei, nelle biblioteche, negli archivi, nelle scuole, dove ci sono molti storici di professione, che praticavano la loro conoscenza della storia. Questo però non è mai stato riconosciuto come Public History, perché le diverse tradizioni nazionali non vedevano la Public History in quanto tale. Come diceva lei, sei, sette, forse dieci anni fa, si sono cominciate a vedere soprattutto in Italia; personalmente ho fatto molto per avvicinarmi alla Public History Nord americana, per vedere come questa Public History potesse funzionare all’interno delle strutture, culturali e storiche anche nel nostro paese. Mi sono reso conto che molte persone reagivano in modo diverso quando si parlava di Public History e non più di uso pubblico della storia, non nei media, ma di uso pubblico della storia per sottostare a delle volontà politiche ideologiche momentanee per creare delle memorie attive ad un certo punto. Quando siamo usciti da questo e abbiamo inizato a parlare di storia, con chi lavorava in diversi ambiti, si sono riconosciuti nella Public History sul modello americano, nel senso che tutte le persone avevano in comune il modo di trattare di storia con i pubblici più diversi, grandi e diversificati. È come una scintilla il concetto della Public History, che rivela alle persone che già da trent’anni lavorano. Io ho sentito tantissime volte qualcuno dirmi “quello che mi sta spiegando io lo faccio da trent’anni”, solo che magari questa persona era un archivista. Io spiegavo che l’archivista fa parte della Public History e che ha una sua posizione professionale, che lavora con la storia nel suo ambito. Si rivelava allora a queste persone, che erano parte di qualcosa di più grande di loro, che aveva delle problematiche epistemologiche e metodologiche comuni e, che dunque, potevano fare insieme della storia come il ministero in Italia che raggruppa turismo, musei, archivi, biblioteca, le gallerie. Quindi ha appreso che l’associazione internazionale di Public History, che è stata fondata nel 2012 ha nei suoi compiti quello di favorire la creazione di associazioni nazionali per tenere insieme questi professionisti .

Lei prima parlava di una funzione civile della Public History per sostituirsi all’uso pubblico della storia. Questa funzione civile però la storia l’ha sempre avuta perché ora questo concetto riemerge?

La storia ha sempre avuto una funzione civile, ma era molto poco presente nei vari pubblici e mancavano gli agganci con la popolazione, con le comunità locali con le problematiche delle comunità locali che non erano così evidenti come oggi lo sono.  Dunque quando si dice che gli storici universitari in grande parte, a parte quelli che escono dal laboratorio universitario per scrivere articoli sui giornali per commentare o  in una trasmissione televisiva come esperti, questi storici hanno una visione pubblica della storia e sono visibili pubblicamente. A parte questo la storia è fatta in stragrande parte da persone che dentro l’università scrivono non pensando alla diffusione, all’interazione con i pubblici più vasti, differenziati e anche pubblici qualificati, non sto parlando solamente di divulgazione, loro parlano tagliando fuori la popolazione e dunque, quello che la Public History ha fatto, è stato quello di ridiventare sociale reinventando un  ruolo sociale dello storico, ponendolo al centro della comunità nella quale e con la quale riflettere di storia. Questo è l’elemento centrale e civile della Public History: è la capacità di portare verso la gente una riflessione e un metodo storico, che è quello professionale dell’accademia, ma che l’accademia ha concentrato verso i libri che leggono in pochi, e che si stampano in poche copie e che servono a riprodurre la propria riflessione storica, accademica indipendentemente dall’impatto che questi lavori potrebbero avere verso un pubblico più vasto, sono rintanati e rinchiusi all’interno dell’università per produrre anche dei lavori, per passare da ricercatore ad associato ad ordinario, quindi dei lavori fatti soprattutto in funzione di questo cursus honorum nelle università. Non pensando all’impatto che questi lavori, se diffusi, potrebbero avere su diversi media e diversi pubblici.

 Che rapporto c’è tra Public History e il web e come può intervenire?

Diciamo che il web stimola la dimensione partecipativa, soprattutto del web 2.0 che nasce prima con Wikipedia nel 2001; perché la persona che contribuisce a Wikipedia, non è più solo un lettore diventa autore, quindi il pubblico interagisce con lo strumento del web. Questa modalità si è sviluppata dopo il 2004 con le varie piattaforme sociali i social software che noi chiamiamo socialmedia. Queste piattaforme, questa capacità tecnologica all’interno del progetto, ha dato una dimensione straordinaria perché ha diffuso quello che era l’essenza stessa della Public History, cioè il web e la rete hanno dato delle possibilità di realizzare progetti di Public History per la comunità, come progetti locali sul territorio, ma poi legati alla tecnologia del web, per costruire percorsi di conoscenza che vanno oltre alle persone del territorio stesso e integrare progetti di rete, musei e mostre degli archivi di rete che hanno rivoluzionato completamente la Public History. La Public History da quando è in rete è diventata Digital Public History cioè storia pubblica digitale e questa storia pubblica digitale ha le capacità di fare per il pubblico e con il pubblico dei lavori per la storia.

 

 

Qual è stato il suo percorso personale? Ha qualche consiglio di lettura su questo argomento?

 

Il mio è un percorso tradizionale: ho fatto il dottorato di storia contemporanea su delle tematiche molto tradizionali come la crisi dello stato liberale in Italia e la nascita del fascismo, poi mi sono occupato di storia comparata dei sistemi elettorali in Europa. Ho insegnato per l’università di Urbino. Quando è nato internet, visto che io lavoravo come storico in una biblioteca all’Istituto universitario europeo di Firenze, ho iniziato a costruire siti web per la bibliteca e l’istituto universitario e mi sono reso conto delle nuove problematiche di accesso all’informazioni, e alla documentazione del pubblico e soprattutto degli storici. Da quel momento,metà degli anni 90, sono più di vent’anni adesso, io mi sono dedicato a capire come le nuove tecnologie stavano cambiando il mestiere dello storico il rapporto con le fonti, la scienza della documentazione, le tecnologie, la critica dei documenti come questo cambiava. Andando avanti ho scoperto la Public History americana, che di questo anche cominciava a parlare e faceva i primi grandi progetti copartecipati come “September eleven” che è un progetto fatto da storici su modello locale a Mannhatan, nazionale negli Stati Uniti, ma mondiale, per ciò che la guerra contro il terrorismo a livello internazionale. Quindi aveva livelli diversi e, solo la rete, e la capacità di avere le memorie e l’esperienze di tutti, avrebbe potuto fare questo. Questo è stato il mio percorso che dalla storia pubblica è diventato di storia pubblica digitale. All’interno della Public History, che è fatta di pratiche diverse e di conoscenze personali diverse, io posso, se voglio dare qualcosa di personale. questa cosa la dò attraverso la storia pubblica digitale. Cioè questo impatto delle tecnologie nel cambiare la Public History stessa e di lì la mia expertise.

Ci sono diversi testi usciti in italiano, a parte i testi in inglese che sono importanti. In italiano esiste il mio fascicolo di memoria e ricerca del 2011 “ Public History una disciplina senza nome” che tratta di quello che dicevo prima, e cioè che ci sono diverse persone interessate, perché riguardano argomenti diversi. Un altro saggio secondo me importante che è stato pubblicato da ricerche storiche nel 2009 è il numero sui ”media e la storia”, in cui io ho parlato proprio della storia e la rete e la fotografia digitale. Dopo questi due in Italia, segnalo quello prima del convegno di Ravenna di questo Giugno, dell’Associazione italiana di Public History. Uno si intitola “Public History” (Mimesis,  2017) con delle pratiche, che è stato elaborato da chi fa il master in Public History a Modena e un altro è una raccolta di saggi di Maurizio Ridolfi intitolato “Verso la Public History” (Pacini, 2017). Dopo di questo c’è la partecipazione al numero della rivista Zapruder “ Di chi è la storia” che è un saggio sulla storia pubblica digitale che viene pubblicato inglese, spagnolo, portoghese, cinese russo e anche in italiano. Questa è stata la dimensione più importante. Nel 2015 c’è stata un’altra interpretazione della Public History in Italia, da parte di Angelo Torre in un numero monografico di Quaderni storici.

Cinquecentenario della Riforma. Intervista a Adriano Prosperi

 

Adriano Prosperi  è professore emerito di Storia moderna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa.

 

 

Il Cinquecentenario della Riforma Protestante ha portato ad un numero maggiore di pubblicazioni sull’argomento, ciò ha favorito anche un  maggior dibattito?

 

L’occasione del quinto centenario hastimolato in tutti i paesi la produzione di studi di tipo biografico o dedicati a particolari aspetti dell’opera di Lutero. Si tratta in generale di opere d’occasione , nate per fornire al lettore informazioni aggiornate sulla vita di Lutero o sul contesto storico in cui avvenne l’avvio della Riforma protestante. Io ne  cito alcune nel mio libro: si tratta di opere di biografi –  per esempio quella di Heinz Schilling, Ein Rebell, Martin Luther, tradotta in italiano dalla Claudiana – , di sistemazioni complessive delle conoscenze biografiche  su di lui   (Scott H. Hendrix, M. Luther, Yale U.P.) ci sono tentativi di riprese di antichi temi di ricerca,  come quello del rapporto tra il successo di Lutero e l’efficacia delle immagini e della stampa a caratteri mobili (Andrew Pettegree, Brand Luther). Scarse e generiche le opere di autori italiani e cattolici. Lutero non è  fra i temi più studiati dalla tradizione maggiore della  storiografia italiana, che invece si è dedicata alla storia deìi movimenti religiosi radicali e delle tendenze  riformatrici sviluppatesi allora in Italia (penso a Massimo Firpo).  Nella cultura anglosassone invece è ancora vivo un interesse speciale per il contributo della stampa alla Riforma e per la questione della libertà e delle sue origini, ma anche per l’antica questione se alle origini della modernità ci sia la Riforma protestante o il Rinascimento italiano.

 

Nel corso della storia del cristianesimo ci furono altri movimenti che portarono avanti istanze simili a quelle di Lutero, ma non sfociarono nella divisione del cristianesimo . Quali furono le novità che permisero alle idee di Lutero di avere questo successo? Tale successo può essere ricondotto anche alla situazione in cui si trovava il Sacro Romano Impero della Nazione Germanica?

 

Tra le cause della diffusione delle idee di Lutero bisogna tenere presente l’avvento della stampa a caratteri mobili, sicuramente un fattore importante; Lutero stesso  poté servirsi dello stampatore da lui fatto venire a Wittenberg e, da un certo momento in poi (dal 1518 almeno) del fatto che gli stampatori anche i più importanti si disputavano i suoi scritti per pubblicarli tale era il succeso fra i lettori. L’altra causa naturalmente fu la situazione della Germania, con le tensioni sociali (tra contadini servi della gleba e proprietari feudali, tra stati territoriali e Impero, ribellismo dei cavalieri , sviluppo di una borghesia colta nelle città, nascita di una coscienza nazionale tedesca etc.). Fu qui che di fatto  il sistema di potere finanziario e religioso del papato romano creò le condizioni della sua crisi.

 

 

 

Contemporaneamente alle idee di Lutero, in Europa, si diffusero altre idee di riforma. Quali furono le condizioni che portarono proprio in quel periodo, alla diffusione di così tante idee di Riforma e alla nascita di diverse chiese cristiane?

 

La crisi nacque dal mutamento del rapporto tra religione, potere  e società così come l’aveva conosciuto il mondo cristiano europeo occidentale del Medioevo. Il papato con la sua rivoluzione dell’XI-XIII secolo si trasformò in un potere totale politico-religioso, fonte suprema di diritto,  che si finanziava gestendo e distribuendo le rendite delle chiese, delle abbazie e delle fondazioni religiose locali e tassando chi si rivolgeva ai suoi tribunali e chiedeva la concessione di benefici. La crisi ebbe diverse manifestazioni a partire dal secolo  XV: il ritorno del papato al centro della Chiesa con la condanna del conciliarismo, il fallimento dei progetti di riforma dibattuti nei concili fino a quello convocato da Giulio II e portato a termine da Leone X (Concilio Lateranense V); di fatto mancò una riforma della Curia papale e della Camera apostolica. La struttura finanziaria del governo centrale del papato, abbandonata in gran parte la raccolta delle decime (per cederla ai sovrani degli stati che in cambio appoggiarono il papato e strinsero con lui i diversi concordati) la sostituirono coi proventi di uffici come la Dataria, la Penitenzieria e col controllo delle nomine dei titolari dei benefici ecclesiastici. Lo scandalo delle indulgenze denunziato da Lutero fu un episodio che nacque da un caso in cui a un vescovo si permise di cumulare le rendite di più diocesi facendogli pagare una tassa particolarmente alta. Da più parti si chiedevano vescovi e clero residenti e dediti al governo religioso dei popoli; si chiedeva unariforma degli ordini religiosi, corpi sottratti alle autorità locali e direttamente dipendenti dal papato.E con l’umanesimo cristiano rappresentato specialmente da Erasmo da Rotterdam si diffuse l’esigenza di una religione fondata sull’imitazione di Cristo come modello morale e di una conoscenza diretta della Sacra Scrittura da parte del popolo cristiano. Intanto in Boemia si era radicata la dottrina di Hus, che era stato mandato al rogo al concilio di Costanza. E sopravvivevano tendenze ereticali evangeliche e pauperistiche come quella dei valdesi o degli spirituali francescani.

 

 

Nel libro “Riforma” di MacCulloch si insiste molto sull’idea di Riforma come divisione della casa comune Europea, secondo Lei questo concetto è legato solo all’ambito religioso o la Riforma ha portato anche ad una divisione politica?

 

La tesi dello storico anglicano  MacCulloch si basa su di una constatazione di fatto: le divisioni tra le nazioni europee hanno una radice evidente nella frattura cinquecentesca tra le diverse “confessioni” cristiane. L’Europa unita sotto un solo sovrano e sotto un solo pontefice fu il sogno imperiale di Carlo V e entrò in crisi proprio alla Dieta di Worms.

 

In che modo la Riforma si diffuse nei paesi cattolici e, in particolare, in Italia?

 

La riforma luterana si diffuse anche in Italia attraverso la stampa con la lettura delle sue opere che furono molto diffuse. Spesso si cercò di mascherarne le idee e i testi sotto il nome di Erasmo, ma la caccia accanita condotta dalla polizia religiosa dell’Inquisizione, centralizzata a Roma con la Congregazione del Santo Ufficio dell’Inquisizione, estirpò ogni traccia di quella che apparve come una “infezione” ereticale.

 

 

Una delle novità che la Riforma portò all’interno della chiesa cattolica, fu la nascita di un nuovo ordine religioso, quello della Compagnia di Gesù. Il fondatore di questo ordine tentò di fare una riforma dall’interno della Chiesa. In che modo questo nuovo ordine rispose alla Riforma?

 

La Compagnia di Gesù nacque col progetto del gruppo dei fondatori di raggiungere la perfezione soirituale attraverso le forme tradizionali dell’ascesi , del pellegrinaggio a Gerusalemme e della dedizione alle opere della carità  . Ma quasi subito adottò il modello militare della Compagnia obbediente a un generale e si mise a totale disposizione del papato, specializzandosi nell’insegnamento, nell’ascolto delle confessioni e nell’opera della conversione di  eretici  e della evangelizzazione dei popoli non ancora cristianizzati. Di fatto, attraverso l’organizzazione di Collegi e di “missioni”, cioè campagne di predicazione nelle campagne o  nei paesi colonizzati dalla Spagna e perfino nei paesi dell’Estremo Oriente , finì con l’incarnare il volto di una Chiesa che reagiva alle conquiste della Riforma protestante ampliando l’orizzonte geografico della sua presenza e diventando così “cattolica”, cioè universale.

 

 

 

Vorrei concludere adesso con una domanda un po’ personale. E’ consuetudine di “Historical Eye” chiedere agli studiosi intervistati un po’ del loro percorso personale e delle motivazioni che li hanno spinti a intraprendere il difficile mestiere di storico. Crediamo sia molto importante capire “perché” si studi la storia o si diventi storici. Quindi, in definitiva, professore , quali furono le motivazioni che la portarono a scegliere di studiare storia? Può consigliare qualche lettura storiografica o di letteratura?

 

Le ragioni per cui ho praticato il mestiere di studioso e  insegnante di storia risiedono nel fascino che ha avuto sempre per me la possibilità di conoscere attraverso libri e documenti d’archivio persone e vicende del passato. Gli stimoli iniziali sono stati  quelli della grande letteratura europea dell’800 : si parte dall’incontro con la storia interpretata e raccontata dai grandi scrittori e  si finisce col cercare di sapere di più di tempi e di esseri umani remoti nel tempo e nello spazio. Non è un mestiere difficile, al contrario. Ai miei studenti ho consigliato sempre di leggere due libri come approccio allo studio e alla ricerca: Lev Tolstoi, Guerra e pace; Marc Bloch, Apologia della storia .

 

 

Aldo Moro. Lo statista e il sua dramma. Intervista al professor Guido Formigoni

Ho deciso di intervistare  il Prof. Guido Formigoni  che insegna Storia contemporanea nell’Università IULM di Milano autore di diversi libri:  “La Democrazia Cristiana e l’alleanza occidentale” (1996), “Storia della politica internazionale nell’età contemporanea” (nuova ed. 2006) ,  “L’Italia dei cattolici” (2010) e “Aldo Moro” ( 2016).

  • Molto spesso, quando si parla di Aldo Moro, ci si concentra in particolare sui 55 giorni, lei invece si è occupato molto della sua formazione. Che rapporto ebbe il giovane Aldo Moro con il Fascismo?

 

Moro (nato nel 1916) ebbe tutta la sua formazione infantile e giovanile nell’ombra del regime fascista, che cadde quando lui era un giovane di 27 anni. La sua famiglia non era fascista per ideologia, ma nemmeno apertamente antifascista. Il padre agnostico e liberale, ebbe qualche difficoltà nella sua carriera di ispettore scolastico, ma non fu certo un perseguitato; la madre, donna attiva e intellettualmente dotata, era una cristiana appassionata. Il giovane Aldo si formò nelle associazioni cattoliche e in particolare nella Federazione universitaria, la Fuci, dove negli anni ’30 l’eredità di Montini di un netto quanto silenzioso riserbo verso il regime si era modificata sensibilmente: era divenuta più diffusa la convinzione che fosse necessario fare i conti con la prevedibile durata della dittatura, cercando di orientare le posizioni sociali e culturali al suo interno. Moro quindi mostrò con i suoi studi giuridici (e particolarmente filosofico-giuridici) di ispirarsi a una visione eclettica, tutt’altro che organica alle correnti stataliste gentiliane, ma molto interna alla rivalutazione della statualità rispetto alla cultura cattolica tradizionale. Partecipò da studente universitario ai Littoriali, come scelta non personale ma probabilmente come parte di una generazione che intendeva condividere i percorsi dei propri coetanei, discutendo anche di “dottrina del fascismo”. Si iscrisse al Pnf per poter iniziare la carriera universitaria. Insomma, esprimeva una linea prudente e moderata nei comportamenti, quanto solida nelle convinzioni personali e ideali di distanza dal totalitarismo. Il fatto che fosse militare al Sud quando il regime crollò, non gli fece nemmeno sperimentare il dilemma delle regioni del nord e la possibilità dell’azione resistenziale. Da qui probabilmente anche i caratteri del suo antifascismo successivo (citato in Costituente e più volte ripreso nella sua attività pubblicistica e politica): non tanto militante e ideologico, ma attento a porre netti e precisi argini sostanziali all’eredità del fascismo nella società italiana.

 

2- Che idee differenziarono Moro dal gruppo dei “Professorini di Milano”?

 

Su questo punto ci sono ancora dibattiti aperti, anche perché le carte non hanno fornito appoggi solidissimi per precisare il discorso. Secondo me, Moro fu molto vicino a Dossetti, non solo – come sappiamo – nel lavoro costituente, ma anche dopo il 1947 nello sviluppo della sua corrente e della conseguente battaglia politica per attuare la prima parte della costituzione: il disegno cioè di un moderno Stato democratico-sociale di impronta europea. Questa resterà la sua ispirazione politica fondamentale per tutta la vita. Differenziandosi però da Dossetti, maturò dall’incontro con De Gasperi una visione meno contrapposta all’azione dello statista trentino, e in particolare – direi così – colse quello che De Gasperi aveva fatto per consolidare la democrazia italiana, introiettando nella Dc il moderatismo e il conservatorismo nel 1947, con la scelta di rompere l’alleanza ciellenistica e smontare la pressione delle destre. Moro resterà sempre convinto che ogni evoluzione riformatrice della società italiana nel senso del progetto democratico-sociale della Costituzione, dovesse essere attentamente e prudentemente gestita per evitare di creare una reazione nel ventre molle conservatore del paese. Espressione politica di ciò era la convinzione che bisognasse portare la Dc unita – cosa non sempre facile, anzi – alle svolte politiche più importanti.

 

3- Un evento importante che accadde mentre Moro era segretario della Dc fu la vicenda del “Piano solo”. Che ruolo ebbe Moro in tale vicenda?

 

Oggi conosciamo piuttosto bene la vicenda, dopo anni di polemiche anche fuorvianti ed esagerate. La crisi del luglio 1964 fu uno dei momenti più alti della reazione alla costituzione del centro-sinistra, che proprio con Moro aveva appena portato i socialisti al governo. Il vero perno dell’operazione fu Segni dal Quirinale, che intendeva favorire la costituzione di un governo tecnico fuori dai partiti, per bloccare le riforme e dar credito alle forze proprietarie, che nel paese vedevano preoccupatissime montare la cosiddetta “congiuntura” economica critica (proprio per effetto delle prime battaglie salariali e delle ipotesi di aumento della spesa pubblica). Segni si preoccupò di possibili reazioni di piazza (il caso Tambroni era fresco) e quindi fece preparare un piano d’emergenza al comandante dei carabinieri De Lorenzo, che ipotizzava in caso di disordini di far scattare le note misure autoritarie (compresa l’”enucleazione”” di dirigenti della sinistra). Era una contro-preparazione difensiva, per sostenere una manovra certamente per lo meno al limite delle prerogative costituzionali della presidenza. La crisi di governo fu durissima, ma alla fine Moro riuscì a salvare l’asse con Nenni e a portarsi dietro la Dc del segretario Rumor, confermando l’alleanza di centro-sinistra. Il prezzo da pagare a Segni e alle componenti politiche che lo appoggiavano fu il ridimensionamento del programma.

 

4-  Un ruolo importante che Aldo Moro ricoprì fu quello di Ministro degli Esteri. In che modo cercò di intervenire nella politica estera italiana?

 

Egli fu ministro quasi ininterrottamente dal 1969 al 1974, cioè nel periodo della cosiddetta distensione e dell’emergere del terzo mondo. Aveva pian piano costruito una statura internazionale negli anni della presidenza del Consiglio, ma in questi anni era un uomo sconfitto e piuttosto isolato nel suo stesso partito, per cui l’azione da ministro soffrì di certi limiti. Possiamo però dire che egli confermò la sua visione del solido ancoraggio atlantico e del primato della scelta europea dell’Italia, allargando però il senso di queste scelte, alla luce della comprensione dei mutamenti internazionali e del nuovo protagonismo dei popoli extra-europei. Soprattutto nel Mediterraneo, questo significava tentare di appoggiare una soluzione dei conflitti il più equilibrata e avanzata possibile.  Si equivoca definendola una linea “filoaraba”: era una linea che voleva tenere assieme la difesa di Israele e la pressione per una soluzione pacifica, che interloquisse con i leader del mondo arabo. Questa idea si collegava all’ipotesi che la distensione bipolare, immaginata inizialmente dalle superpotenze come strumento di ingessatura degli equilibri, potesse trasformarsi anche grazie all’azione europea (si pensi all’Ostpolitik tedesca) e a quella più modesta ma non inesistente italiana. Dando così vita a un processo di graduale superamento dei blocchi politico-militari: non a caso egli appoggiò molto la conferenza di Helsinki e la creazione della Csce.

 

5- Nel momento del sequestro di Aldo Moro vi erano molte figure che avevano un ruolo più importante rispetto a lui, tra le quali: Enrico Berlinguer, segretario del Pci, Giulio Andreotti, Presidente del consiglio, Benigno Zacagnini, segretario della Dc. Perché le BR scelsero Aldo Moro?

 

Difficile da dire: secondo l’autoricostruzione dei brigatisti che hanno parlato, Moro era semplicemente un simbolo dell’odiato potere democristiano, più facile da rapire rispetto ad altri più protetti. Resta però il dubbio che con il suo rapimento si volesse colpire la sua politica: non tanto, come spesso si è detto l’“apertura ai comunisti”. Moro non pensava che la proposta del compromesso storico di Berlinguer fosse realistica. Non credeva a un governo con il Pci nel breve periodo. Ma intendeva gestire un difficile percorso di transizione, che evitasse contrapposizioni frontali in un periodo difficilissimo per il paese, per non far saltare le fragili istituzioni. Dando contemporaneamente una sponda alla continua evoluzione ideologica del Pci, proprio con il coinvolgerlo maggiormente nella dinamica istituzionale e parlamentare. Era certo un percorso complesso e delicato, che i brigatisti non potevano che odiare, perché contribuiva a consolidare la democrazia e a allontanare il sogno ingenuo della “rivoluzione”. Venuto meno il suo più sperimentato registro, la “solidarietà nazionale” avviata con il governo Andreotti del 1976 non doveva durare moltissimo (anche se paradossalmente il rapimento nel breve periodo la consolidò).

 

6- Secondo lei perché non venne mai presa in considerazione la “linea della trattativa”, da parte dei maggiori esponenti della Dc?

 

Per certi versi, la linea della trattativa in pubblico era inammissibile e inoltre fu sabotata dagli stessi brigatisti, che resero nota la prima lettera di Moro a Cossiga, che l’affacciava come ipotesi da gestire in modo segreto e riservato. Il problema non è quindi primariamente il conflitto fermezza-trattativa, che era una contrapposizione piuttosto formale: l’ondivaga tattica di gestione del sequestro da parte delle Br sembrò a un certo punto chiedere il rilascio dei compagni in prigione più che altro come mossa di “propaganda armata”, tesa a convincere l’opinione pubblica che sarebbero stati i capi democristiani a volere Moro morto per non scegliere la trattativa (e questo fu forse uno dei pochi loro successi nel medio periodo…). Del resto, alcuni tentativi di trattativa riservata pure ci furono, anche se tutti molto deboli (ad oggi ne conosciamo uno promosso da Vaticano, uno che fece capo al rapporto tra i socialisti e alcuni militanti dell’Autonomia operaia, forse uno attraverso i palestinesi…). Il punto vero, rispetto all’azione degli apparati dello Stato e dei vertici politici responsabili fu l’incredibile impressione di passività e incapacità a gestire gli aspetti polizieschi del problema.  Tale incapacità a coniugare la fermezza pubblica con l’efficacia poliziesca è difficile dire se sia solo frutto delle debolezze e inefficienze tipiche del momento, oppure fosse anche condizionata dall’azione di gruppi di potere che odiavano Moro (si pensi al fatto che molti dirigenti degli apparati di sicurezza si rivelarono poi iscritti alla centrale politico-affaristica che si chiamava P2)…

 

 

7- Nel memoriale di Moro emergono forti critiche alla Dc e nelle ultime lettere emerge la sua volontà di abbandonare la Dc. Questa scelta era dovuta a come si stava sviluppando il partito, cioè alla volontà della Dc di proseguire con la linea della fermezza, o vi erano dei problemi all’interno della Dc che Moro vedeva ormai come irrisolvibili?

 

Difficile esprimersi con cognizione di causa: possiamo solo ipotizzare cosa passasse per la mente di Moro e le lettere dalla prigione brigatista sono da noi conosciute in forma solo occasionale e incompleta. Oggi non credo sia più possibile dire che non sono moralmente ascrivibili a Moro, come fu fatto nella durezza degli eventi. Ma nemmeno possono essere considerate come frutto sicuro di un ragionamento libero, ovviamente. Erano frutto di uno stato di costrizione, cui lo statista cercava con fatica di sottrarsi. Abbiamo contezza del fatto che ci fosse una sorta di doppia censura brigatista: alcune lettere furono scritte e poi non consegnate al destinatario, altre fatte scrivere e riscrivere più volte con intenzione di usarne versioni diverse. Tra l’altro egli era informato solo parzialmente e surrettiziamente dai brigatisti di quello che succedeva fuori. Perché Moro accettò di scrivere? Era subalterno e indifeso?  Si fece condizionare dalla “sindrome di Stoccolma”? Probabilmente è più facile immaginare che egli tentasse, in condizioni drammatiche, di esercitare per l’ultima volta la sua capacità di fare politica, di persuadere, di muovere gli eventi. Per salvarsi, certo, ma in una logica pienamente coerente con la solidità dello Stato democratico. Appare certo un crescente risentimento di Moro verso i suoi sodali di partito, che probabilmente avvertì come deboli e incapaci di offrirgli una sponda. Sotto questo elemento personale, però, trasparivano bagliori della sua lucida consapevolezza della crisi di un sistema. Erano gli elementi di un dramma interiore che egli stava già vivendo da anni, cogliendo come i partiti e la sua stessa Dc fossero sempre meno in grado di guidare una società che stava diventando articolata, disordinata e complessa, molto più di quella della ricostruzione. Forse, proprio il fallimento dello Stato in via Fani e nella gestione efficiente dell’emergenza costituirono per lui segnali di una crisi e di un logoramento rapidissimi.

 

 

Divulgazione e Storia: Intervista al professor Barbero

 

Alessandro Barbero scrittore e storico italiano. Laureato in Storia Medioevale con Giovanni Tabacco, nel 1981, ha poi perfezionato i suoi studi alla Scuola Normale di Pisa sino al 1984.  Diventa professore associato all’Università del Piemonte Orientale a Vercelli nel 1998, dove insegna Storia Medievale.

Ha pubblicato romanzi e molti saggi di storia non solo medievale. Con il romanzo d’esordio, Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle gentiluomo, ha vinto il Premio Strega nel 1996.
Collabora con La Stampa e Tuttolibri, con la rivista “Medioevo”, e con i programmi televisivi (“Superquark”) e radiofonici (“Alle otto della sera”) della RAI. Tra i suoi impegni si conta anche la direzione della “Storia d’Europa e del Mediterraneo” della Salerno Editrice. Tra i suoi titoli più recenti ricordiamo: Lepanto. La battaglia dei tre imperi (Laterza 2010), Il divano di Istanbul (Sellerio 2011), I prigionieri dei Savoia (Laterza 2012), Costantino il vincitore (Salerno 2016).

1-Ultimamente, grazie anche all’opera di molti storici, il connubio tra storia e narrativa sta riscuotendo un successo sempre più crescente. Nell’opera di gestazione di un testo, qual è il rapporto che vuole che si instauri tra lei ed un ipotetico lettore?

Quando scrivo, in realtà scrivo esclusivamente per me, per il piacere di costruire il libro. Però un libro dev’essere costruito in modo diverso a seconda del pubblico a cui si rivolge. Quando scrivo saggi io cerco innanzitutto la massima chiarezza espressiva, e lo faccio ormai anche quando scrivo saggi scientifici destinati agli specialisti; e questo è a maggior ragione l’obiettivo quando mi indirizzo a un lettore non specialista: vorrei che potesse leggere dall’inizio alla fine senza mai doversi fermare per decifrare quello che ho scritto.

2-  Per lungo tempo la divulgazione della storia è stata soprattutto affidata ai giornalisti  quali sono le motivazioni che l’hanno spinta a divulgare la storia prima alla radio e poi alla televisione?

Il fatto che me l’hanno chiesto! un editore, Giuseppe Laterza, mi ha chiesto di scrivere dei libri rivolti non agli specialisti ma al grande pubblico, come Carlo Magno o La battaglia. Storia di Waterloo, e poi di prendere parte ai cicli di Lezioni di storia che la Laterza organizza ormai da anni in teatro con grande successo; Sergio Valzania, allora direttore di Radio3, mi chiese di partecipare a quel bellissimo programma che era Alleottodellasera; Piero Angela mi ha proposto di partecipare a Superquark. Ogni volta l’ho presa come una sfida inaspettata che accettavo con divertimento.

3- Negli ultimi la divulgazione della storia è cambiata, questo può portare ad una progressiva semplificazione dei contenuti. Come è possibile evitare questo fenomeno?

Ma anche prima la semplificazione era sempre in agguato nella divulgazione; l’opera divulgativa di più grande successo mai uscita in Italia, la Storia d’Italia di Montanelli e Gervaso, era tutta una semplificazione e una banalizzazione. Finché la divulgazione è fatta da studiosi, la consapevolezza del rischio può aiutare ad evitarlo, anche se, beninteso, una certa dose di semplificazione è inseparabile dalla divulgazione, soprattutto televisiva.

4- Come è cambiato il suo modo di fare divulgazione nei programmi televisivi rispetto alla sua esperienza alla radio?

La radio consente molto più approfondimento, praticamente lo stesso che si può avere in un libro divulgativo, e infatti diversi miei programmi radiofonici sono diventati libri (Il giorno dei barbari, Federico il Grande, Il divano di Istanbul) e viceversa (Carlo Magno). In televisione i tempi sono spaventosamente ristretti, si deve ridurre tutto in pillole, e lì la concisione e l’efficacia dell’espressione sono tutto.

5- Secondo Lei anche i romanzi storici possono contribuire  in qualche modo alla diffusione della storia ?

Certamente sì. Un buon romanzo storico deve far rivivere l’esperienza vissuta del passato. Peccato però che la stragrande maggioranza dei romanzi storici siano scritti da gente magari di talento, ma che non conosce il mestiere dello storico e quindi non sa far rivivere la cosa più importante – la mentalità, i comportamenti, i modi di parlare…

6- Per lei come storico,  è stato difficile e ha dovuto rinuciare a qualcosa  nella scrittura dei romanzi storici?

L’unica cosa difficile è valutare fin dove può spingersi l’invenzione, che è anche la cosa più faticosa!

7- In molti suoi saggi si è occupato di storia militare, Secondo lei perché la storia militare pur trovando successo nella divulgazione, trova poco spazio a livello accademico in Italia?

Banalmente, perché non esistono cattedre di storia militare; ma del resto non so neanche se dovrebbero esistere: la storia ha così tanti aspetti! Del resto oggi non è più vero che in Italia ci siano pochissimi specialisti di storia militare, o comunque storici che si occupano anche di questo aspetto: in realtà ce ne sono moltissimi.

8- Nell’ultimo periodo si parla sempre di più di Public History in che modo questa nuova concezione può aiutare la  comunicazione della storia ad un pubblico più vasto?

Mah. Io non ho mai capito cosa voglia dire Public History, e se non sia solo un modo più snob di dire “divulgazione”.

9 – Vorrei concludere adesso con una domanda un po’ personale. E’ consuetudine di “Historical Eye” chiedere agli studiosi intervistati un po’ del loro percorso personale e delle motivazioni che li hanno spinti a intraprendere il difficile mestiere di storico. Crediamo sia molto importante capire “perché” si studi la storia o si diventi storici. Quindi, in definitiva, professore , quali furono le motivazioni che la portarono a scegliere di studiare storia?Ha qualche consiglio di lettura di storiografia e di letturatura?

Ma la storia è la cosa in assoluto più divertente ed emozionante che ci sia. Del resto io incontro continuamente medici, notai o fisici nucleari che mi confessano che la loro vera passione è la storia. E dunque la vera domanda va fatta a tutti quelli che non fanno lo storico: come mai non lo fanno? Io faccio semplicemente quello che fin da bambino ho capito che mi appassionava più di qualsiasi altra cosa. Quanto alle letture, bisogna leggere tutti i libri, o quasi: per cominciare, in ambito storico Marc Bloch, La società feudale; e in letteratura Bulgakov, Il Maestro e Margherita. Chi ha letto quei due libri sa cos’è un saggio e cos’è un romanzo…

 

 

La folla e la storia: intervista al professor Emilio Gentile

Emilio Gentile, storico di fama internazionale, è professore emerito dell’Università di Roma La Sapienza e socio dell’Accademia dei Lincei. Nel 2003 ha ricevuto dall’Università di Berna il Premio Hans Sigrist per i suoi studi sulle religioni della politica. Collabora al “Sole 24 Ore”.

  • Ultimamente, grazie anche all’opera di molti storici, il connubio tra storia e narrativa sta riscuotendo un successo sempre più crescente. Nell’opera di gestazione di un testo, qual è il rapporto che vuole che si instauri tra lei ed un ipotetico lettore?

Un rapporto basato fondamentalmente sul proposito di comunicare al lettore nella forma più chiara e interessante il risultato delle mie ricerche, nella speranza che possano aiutarlo a conoscere e a comprendere meglio l’evento storico narrato. Cerco di esporre i fatti lasciando parlare i documenti – dalle citazioni testuali alle illustrazioni –  affidando all’intreccio narrativo l’interpretazione che io ritengo sia più prossima alla realtà storica. Nei miei libri, lo sforzo costante è intrecciare narrazione e interpretazione, ma ritengo che compito primario dello storico sia raccontare le esperienze umane del passato cercando attraverso la sensibilità dei contemporanei del passato, evitando di incorrere nel peggiore dei peccati storiografici, cioè la sovrapposizione prevaricante dello  storico sui  soggetti che egli studia

  • Quali furono le spinte che lo portarono a scegliere di studiare storia? Che ruolo ha avuto in questo il suo maestro Renzo de Felice?

Ho raccontato nel libro Renzo De Felice. Lo storico e il personaggio (Laterza 2003) e nel libro  Italiani senza padri. Intervista sul Risorgimento, a cura di Simonetta Fiori (Laterza 2011) come è sorta in me la passione per la conoscenza storica fin dall’infanzia, quando osservavo, prima intimorito, poi incuriosito, le stele funerarie di epoca romana che erano esposte nei giardini del paese in cui sono nato. Cominciò allora il desiderio di conoscere gli esseri umani nel passato in tutte le forme della loro esistenza. Con gli anni scolastici, fino all’università, la curiosità è cresciuta a dismisura, man mano che si ampliavano con lo studio gli orizzonti delle civiltà nel passato. All’università scelsi subito di studiare storia, anche se mi iscrissi alla Facoltà di filosofia perché, appassionato lettore di Benedetto Croce al liceo, consideravo lo studio della filosofia propedeutico alla storiografia. I miei primi entusiasmi furono per la Storia medievale, seguendo i corsi sugli eretici tenuto da Arsenio Frugoni. Poi mi entusiasmai per gli “eretici dell’età giolittiana”, da Prezzolini a Gobetti, che erano materia di un corso di Nino Valeri.  Accademicamente, non fui allievo di Renzo De Felice. Nell’ultimo anno di liceo, nel 1965, avevo letto il primo volume della biografia di Mussolini, ma all’università non frequentai i suoi corsi di lezione, non feci con lui alcun esame,  e mai lo incontrai prima della preparazione della tesi di laurea in Storia moderna, iniziata con Valeri e proseguita, dopo il suo pensionamento, con Ruggero Moscati. Conobbi De Felice quando fu nominato come correlatore della mia tesi di laurea. Dopo la laurea, ho insegnato per alcuni anni nei licei varie materie, italiano e latino, storia dell’arte, storia della filosofia; poi, quando vinsi una borsa di studio, iniziai a collaborare con la cattedra di De Felice e col gruppo dei suoi allievi. La sua personalità umana e l’esempio scientifico del suo lavoro storiografico mi aiutarono a proseguire le ricerca e a migliorare il metodo, la riflessione e il concreto lavoro storiografico.

  • Il tema trattato nel suo saggio “Il capo e la folla” è stato per alcuni anni al centro del dibattito storiografico, ma negli anni successivi l’attenzione su questo argomento è andata scemando. Cosa l’ha spinta a scrivere un libro su questo tema?

 

Fin dai primi saggi sul nazionalismo italiano e nel  primo libro, La Voce e l’età giolittiana (1972),  il problema delle masse nella storia contemporanea è stato presente nelle mie ricerche e nella mia riflessione. Dalle avanguardie e dagli  che volevano influire con la cultura e con l’arte sulle masse per formare una coscienza nazionale moderna,  al fascismo, al totalitarismo, alle religioni della politica, fino al capo e la folla, vi è stato un sviluppo continuo della mia riflessione sulla politica di massa, sia in regimi democratici sia in regimi totalitari. Chi avesse la pazienza di ripercorrere attraverso i miei libri, lo svolgimento delle mie ricerche e delle mie interpretazioni, forse giungerebbe alla conclusione che in cinquanta anni ho studiato sempre un unico fenomeno, da molte prospettive e in diverse epoche.

Il capo e la folla (laterza, 2016)

 

  • Un momento di cambiamento nel  rapporto tra il capo e la folla, viene da lei individuato con l’aumento demografico. In che modo tale aumento condizionò questo cambiamento?

 

La politica di massa è fenomeno contemporaneo derivato e connesso ai mutamenti sociali che hanno posto fine all’isolamento delle sparse comunità di villaggio, soggette alla periodica falcidia demografica delle malattie, delle carestie, delle guerre, della fame, e nello stesso tempo hanno accelerato l’aumento progressivo della popolazione, l’urbanizzazione, l’agglomerazione sociale nelle nuove attività produttive, la differenziazione delle classi sociali con la modernizzazione, l’industrializzazione, le migrazioni di massa. Sono questi fenomeni che hanno a loro volta generato le organizzazioni di massa, partiti e sindacati,  e nello stesso tempo hanno generato lo Stato delle masse, dall’ampliamento della scuola pubblica alla leva di massa, alla guerra di massa. Dall’epoca delle rivoluzioni democratiche del Settecento, non si può fare politica ignorando la massa, anche se a farla sono singoli individui, minoranze, élites, oligarchie o consorterie.

 

  • Negli anni 30 in Europa cambia il rapporto tra il leader politico e la folla. Quali sono le cause che portarono a questo cambiamento?

 

Prima di tutto, l’impatto violento della Grande Guerra nel processo di organizzazione e mobilitazione delle masse iniziato con la rivoluzione francese. I nuovi capi delle masse sono quasi ovunque uomini di guerra, che hanno fatto la guerra e partecipato alla nascita di una militanza di massa modellata sull’esperienza della guerra. Anche capi democratici come Churchill e Franklin D. Roosevelt erano capi formati in periodo della Grande Guerra: Churchill era per educazione un guerriero, aveva partecipato alle guerra coloniali, era  ministro della marina durante la Grande Guerra e dopo il disastro dei Dardanelli combattè in trincea sul fronte occidentale. Roosevelt fu sottosegretario alla marina durante la Grande Guerra, si rivolgeva a milioni di americani che avevano vissuto, direttamente o indirettamente, l’esperienza della guerra in Europa, e nella sua oratoria presidenziale usò metafore di guerra per incitare gli americani a combattere contro la depressione per salvare le democrazia. Lo stesso si può osservare, e ancor di più, per il generale De Gaulle divenuto improvvisamente capo politico e fondatore di una Quinta repubblica. Quanto ai capi dei nuovi movimenti e regimi totalitari, sia di destra che si di sinistra, l’esperienza della Grande Guerra fu decisiva nel renderli consapevoli del modo di mobilitare e organizzare le masse per conquistare il potere e instaurare regimi a partito unico, che nel costante rapporto con le masse svolsero i loro esperimenti totalitari per future conquiste imperiali o rivoluzioni sociali mondiali.

 

Alla fine del suo libro, lei professore tratta il tema della personificazione del potere alla fine degli anni 50 del 1900, con gli esempi di Kennedy e De Gaulle. Secondo lei ci sono stati esempi italiani nello stesso periodo?

L’unico esempio italiano che mi sentirei di proporre è Alcide De Gasperi, che negli anni in cui fu al governo partecipò al compimento di un’opera gigantesca per ridare all’Italia lo slancio di una democrazia industriale dopo la catastrofica disfatta che aveva travolto tutto il paese nella guerra feroce fra eserciti stranieri e fra italiani. Per il resto, ci sono stati fra i politici italiani degli anni sessanta numerosi aspiranti De Gaulle e aspiranti Kennedy, ma nessuno è riuscito ad essere effettivamente l’uno o l’altro, diventando un mito nella tradizione nazionale. Nessun politico italiano della Repubblica ha avuto una trasfigurazione mitica.

 

Come si è modificato il rapporto tra il capo e la folla rispetto agli anni 50?

 

Da una parte, il rapporto si è svolto nella scia inaugurata da De Gaulle e da Kennedy, soprattutto attraverso la televisionizzazione dell’appello alla folla. Inoltre, è stato un rapporto che si è svolto, fino agli anni più recenti, attraverso le organizzazione dei partiti di massa. Oggi, la televisionizzazione del rapporto fra il capo e la folla è quel che resta dell’esperienza di De Gaulle e di Kennedy, mentre ai partiti di massa come organizzazioni permanenti di formazione della volontà politica e dei dirigenti, si vanno sostituendo fluidi aggregati coagulati attorno a un capo spesso improvvisato, che fonda movimenti o partiti personali o personalizza i partiti esistenti fluidificandone le strutture tradizionali per trasformarli in sodali al proprio seguito.

 

Il rapporto che istaura il fascismo con Mussolini tra il capo e la folla si può considerare innovativo e moderno? In che modo si differenzia con gli altri regimi totalitari?

 

Il rapporto fra Mussolini e la folla fu innovativo e moderno rispetto alla tradizionale politica italiana dei notabili parlamentari, che governavano con consorterie parlamentari e il suffragio limitato di grandi elettori. La differenza del fascismo dagli altri regimi totalitari, per quanto riguarda il rapporto specifico fra capo e folla, consiste principalmente nella primogenitura dell’esperimento ducesco rispetto al culto staliniano della personalità, che fu instaurato quando da alcuni anni già esisteva, caso unico alla fine degli anni venti, il culto mussoliniano della personalità. Penso che non solo Hitler e altri duci di movimenti e regimi fascistizzanti abbiamo seguito il modello mussoliniano, ma lo abbia seguito anche Stalin.

 

Quanto rimane del “fascismo-movimento” cioè portatore di alcune istanze di rinnovamento nella Repubblica sociale italiana?

Non mi ha mai convinto la distinzione fra “fascismo movimento” e “fascismo regime” come contrapposizione fra innovazione e conservazione nell’esperimento totalitario fascista. I capi più importanti della Repubblica sociale erano stati gerarchi del regime fascista, e le istanze di rinnovamento erano la prosecuzione, radicalizzata dalla esigenza di dare un più accentuato carattere sociale al regime, istanza già presenti negli ultimi anni del regime totalitario, specialmente nelle giovani generazioni fasciste.

Intervista a Marcello Flores

Questo libro che è stato pubblicato nell’anno del centenario della Rivoluzione Russa tratta di gran parte della storia del socialismo del 900. Quali sono le motivazioni che l’hanno portata a compiere questa scelta?
La rivoluzione russa si è imposta in gran parte del movimento operaio come l’unico modello di socialismo possibile, come il socialismo “vero”, diverso da quello dei “rinnegati” della Seconda internazionale. Mi interessava non tanto guardare a come il socialismo fosse stato costruito in Urss (su cui ci sono una quantità di volumi ottimi) e cioè con criteri e valori in qualche modo agli antipodi dai valori socialisti che si erano imposti nel movimento operaio tra Otto e Novecento; ma a come fosse stato possibile che quel socialismo (autoritario, monopartitico, violento, totalitario) diventasse per molti “il” modello di socialismo da difendere e se possibile da imitare. E ho cercato di farlo attorno alla rilevanza (alla creazione e alla diffusione) del mito che ha accompagnato l’Ottobre e ai successivi miti che hanno accompagnato la storia dell’Urss.

Nel libro, quando affronta il tema del socialismo degli anni 30 lei evidenzia due posizioni: una critica verso il socialismo dell’Unione Sovietica e l’ altra invece favorevole. In entrambi i casi Lei non cita intellettuali italiani. Che posizione ebbero gli intellettuali italiani dell’epoca verso l’Unione Sovietica?
Direi che tra queste due posizioni, una di critica molto forte e una di adesione acritica, vi sono anche posizioni intermedie, anche perché quello è il decennio in cui ci sono molti mutamenti di opinione, di cambiamento di giudizi, ecc. Per quanto riguarda gli italiani bisogna comprendere che, vivendo sotto il regime fascista, la situazione per loro era assai diversa da quella degli intellettuali che potevano esprimersi liberamente e confrontarsi in Francia, Inghilterra, Stati Uniti. Vi sono intellettuali antifascisti che sono presenti nel libro: Salvemini proprio a metà anni ’30 e Silone a cavallo tra anni ’20 e ’30, ma sono intellettuali con una forte partecipazione politica, anche diretta, quindi un po’ atipici rispetto a quelli degli altri paesi. Tra gli intellettuali italiani più vicini al fascismo vi fu un forte interesse per l’esperienza sovietica, che in alcuni casi e per alcuni aspetti fu avvicinata a quella fascista. Il punto di vista più significativo (d’interesse molto forte ma con occhi condizionati da un atteggiamento allora positivo verso il fascismo) fu quello di Corrado Alvaro dopo un viaggio che compì in Urss. Credo però che il clima e l’orizzonte del fascismo non permisero – tranne che per gli esuli dell’antifascismo – una discussione sull’Urss analoga a quella avvenuta nei paesi democratici. Anche se, occorre ricordarlo, le pubblicazioni sull’Urss negli anni ’30 sono numerosissime in Italia, comprese le maggiori opere scritte da Trockij.
Un momento di svolta nella storia dell’Unione Sovietica fu certamente ciò che avvenne nel febbraio del 1956 con il rapporto Chruščëv Che situazione c’era in quella fase? In che modo la lettura del rapporto segreto influenzò la politica dei partiti comunisti occidentali nei confronti dell’Unione Sovietica?
In Urss nel 1956 era in corso la lotta politica tra quei dirigenti che volevano, dopo la morte di Stalin, cambiare il corso dello sviluppo socio-economico (più attenzione ai consumi individuali, miglioramento delle condizioni di vita, specie nelle campagne, grandi obiettivi come il dissodamento delle terre vergini o la corsa allo spazio) alleggerendo la stretta repressiva pur nell’ambito di un monopolio del partito che restava esclusivo del partito comunista. Chruščëv riesce a emergere e, per rafforzarsi, decide di puntare sul dare la colpa a Stalin per salvare la sostanza del socialismo, con la formula del “culto della personalità”. I partiti comunisti occidentali, che erano all’oscuro fino all’ultimo della portata delle accuse a Stalin da parte di Chruščëv, si trovarono spiazzati e reagirono con difficoltà, edulcorando e riducendo nella sostanza le accuse rispetto a quanto aveva fatto Chruščëv. Togliatti, ad esempio, sotto la finta di voler meglio approfondire le “contraddizioni” del socialismo non permise che vi fosse una critica serrata a Stalin analoga a quella svolta in Urss, e si comportò con chi voleva aprire il dibattito (Giolitti, Calvino e tanti altri) con un settarismo e una chiusura di pieno stampo staliniano. Quando poi, nell’ottobre, vi fu la rivolta ungherese e l’intervento armato sovietico, si assisté a una nuova solidarietà in nome della repressione di presunti traditori e nuovi nemici del popolo, a dimostrazione di come la “destalinizzazione” non era vista come messa in discussione dei principi autoritari e totalitari dello stato e della politica sovietici, ma come cambiamento rispetto al passato ma in sostanziale continuità con esso. L’apertura democratica dei partiti comunisti ebbe sempre come vincolo e ostacolo insuperabile la critica all’Urss, come si vide subito dopo in occasione del premio Nobel a Pasternak e in ogni occasione almeno fino al 1968, quando si poterono esprimere – in occasione dell’invasione di Praga – le prime timide critiche.
Nel suo libro racconta che molti dei viaggiatori, intellettuali e politici che si recarono in Unione Sovietica furono “vittime” del confirmation bias (pregiudizio di conferma). Questo fenomeno ebbe una discontinuità dopo il Rapporto Chruščëv?
Lo ebbe per molti, ma purtroppo non per la maggioranza dei politici e intellettuali che rimasero alla guida dei partiti comunisti, che si ostinarono ancora a lungo – praticamente fino agli anni ’80 – a rifiutare di conoscere, discutere, prendere in considerazione le ricostruzioni storiche, economiche, culturali relative alle vicende del comunismo e dell’Urss. Questo “pregiudizio di conferma” fa sì che gli intellettuali comunisti scelgano di non leggere, ad esempio, Koestler o Solženicyn, perché si fidano dei giudizi che ne danno i dirigenti del partito, tacciandoli da anticomunisti, venduti, ecc. Dopo il Rapporto Chruščëv le cose migliorarono un po’, ma non di molto almeno nell’immediato: tranne, ovviamente, per coloro, e furono parecchi, che vissero le dichiarazioni al XX congresso e poi la rivolta ungherese come una crisi e un dramma che li portarono ad abbandonare il comunismo. Per gli altri credo che si debba giungere fino al 1968 perché le cose cambino davvero; anche se, a questo punto, il “pregiudizio di conferma” viene spesso utilizzato non più nei confronti dell’Urss ma della Cina e di Mao.
Nel periodo finale dell’Unione Sovietica, Gorbačëv cercò anche di riprendere alcune idee di Lenin per cercare di creare un socialismo diverso. Quali idee di Lenin cercò di riproporre?
Più che idee particolari si trattava di un clima diverso. Si voleva riproporre, intanto, una libera discussione dentro il partito, e infatti la glasnost? (trasparenza) fu la parola d’ordine più efficace adoperata da Gorbačëv. Anche se presto quegli spazi di maggiore libertà, verità, democrazia che si aprirono dentro il PCUS li si volle, a partire dallo stesso Gorbačëv, ampliare all’intera società. L’unica vera idea dell’epoca leninista direi che la si può trovare nelle riforme economiche, analoghe in spirito alla NEP che Lenin impose al X congresso nel marzo 1921 al termine della guerra civile. In questo caso, però, il fallimento delle riforme economiche nel breve periodo non dettero alcun consenso a Gorbačëv che, anzi, trovò proprio in patria le critiche più feroci. Si può dire che il richiamo al leninismo costituì il punto di partenza per legittimare le riforme, per lasciarsi definitivamente alle spalle lo stalinismo e quanto di esso era sopravvissuto nell’epoca brežneviana, con l’idea, però, che occorreva andare oltre, che non ci si poteva limitare al semplice ritorno a Lenin, per esempio sul mantenimento del partito unico. Però quello era l’orizzonte ideologico cui rifarsi per permettere a chi voleva le riforme dentro il partito di uscire allo scoperto senza timore di diventare un traditore o un anticomunista. La spinta della glasnost’, tuttavia, rese rapidamente impossibile restare all’interno dei limiti e dei vincoli del leninismo, perché la pressione per ampliare gli spazi democratici dentro la società divenne troppo forte.
In questi ultimi anni sta emergendo molto l’idea di una storia controfattuale. In che modo questo ha condizionato e condiziona lo studio della storia in generale e anche quella  dell’Unione sovietica e del socialismo?
La storia controfattuale ha avuto un momento di gloria qualche anno fa, ma nella maggior parte dei casi è rimasta ancorata a racconti narrativi o giornalistici, come occasione di fantasticare su “cosa sarebbe successo se”. Per gli storici interrogarsi su queste ipotesi significa poter mettere in luce le alternative esistenti anche se non realizzate, significa non accettare una visione meccanicistica e necessaria del divenire storico, per cui le cose non potevano andare che come sono andate, togliendo così ogni possibile libertà agli attori storici. Quello che non si può fare, se non come divertissement giornalistico o come spunto narrativo, è pensare di poter – sulla base delle alternative possibili o esistenti – immaginare come sarebbe evoluto il mondo in questo caso, anche se qualche speculazione, restando nel campo delle pure ipotesi, si può fare e può essere di qualche utilità per la comprensione del divenire storico.
Vorrei concludere adesso con una domanda un po’ personale. E’consuetudine di “Historical Eye” chiedere agli studiosi intervistati un po’ del loro percorso personale e delle motivazioni che li hanno spinti a intraprendere il difficile mestiere di storico. Crediamo sia molto importante capire “perché” si studia la storia o si diventa storici. Quindi, in definitiva, professore, quali furono le motivazioni che la portarono a scegliere di studiare storia?
Per me studiare la storia è stato un elemento strettamente connesso con l’impegno politico giovanile. La storia, soprattutto la storia contemporanea, rappresentava il terreno che sembrava più utile per meglio comprendere il presente, per dare strumenti che si sarebbero potuti utilizzare anche nell’arena politica. Per fortuna il fascino della storia e dello studio della storia ha preso presto il sopravvento: non perché essa non si sia dimostrata utilissima per la comprensione del presente, ma perché grazie alla lezione dei grandi storici (Bloch primo fra tutti) ho perduto subito una visione un po’ strumentale del suo uso, puntando alla conoscenza come elemento di comprensione di una complessità molto lontano dal giudizio riduttivo, spesso morale o moraleggiante, che emerge quando si lega troppo strettamente la politica alla storia. Guardare alla storia interrogandola con questioni che attengono al presente è qualcosa di diverso che cercare nella storia la legittimazione di quello che si pensa oggi o dell’agire nell’oggi. Leggi tutto “Intervista a Marcello Flores”

Intervista a Paolo Pombeni su Giuseppe Dossetti

Ho deciso di intervistare il Prof. Paolo Pombeni, docente di Storia contemporane presso l’Università di Bologna autore di diversi libri: Giuseppe Dossetti. L’avventura politica di un riformatore cristiano (Il Mulino, 2013), La politica dei cattolici. Dal risorgimento ad oggi (Città nuova, 2015), La questione costituzionale in Italia (Il Mulino, 2016). Questa seconda intervista ha come argomento la figura di Giuseppe Dossetti.

 

  • In che ambiente culturale si formò il giovane Giuseppe Dossetti ?

 

Dossetti ebbe una formazione per così dire irregolare. Spesso ricordava di essere stato in qualche modo maestro di sé stesso. Al contrario di altri esponenti dei gruppi dirigenti cattolici non ebbe per esempio un percorso all’interno dell’associazionismo cattolico. Nella prima fase della sua vita più che di ambienti culturali si deve parlare di ambienti “spirituali”, perché tale era il gruppo di don Torreggiani a Reggio Emilia, molto orientato alle azioni di presenza sociale e di spiritualità, piuttosto che alle riflessioni in senso classico culturali. Ovviamente l’esperienza di Dossetti all’interno della Università Cattolica fu importante, ma soprattutto per i rapporti che ebbe con molte persone. Va infatti notata una caratteristica specifica di Dossetti (che del resto è tipica di tutti i leader): era capace di vampirizzare, se posso sbrigarmela con questo termine, tutte le persone interessanti con cui veniva in contatto, di prendere da loro tutti gli spunti e gli stimoli che lo interessavano per poi rielaborarli a livello personale. Da qui una poliedricità nel suo approccio che non è del tipo usuale negli intellettuali.

 

 

  • Un ruolo importante nella partecipazione alla resistenza attiva e nella scelta poi dell’esperienza politica fu l’esperienza all’università Cattolica di Milano, in particolare, negli incontri di Casa “Padovani”. In che modo queste esperienze influirono sugli anni successivi di Dossetti ?

 

Gli anni della Cattolica furono decisivi per convincere Dossetti che c’era un dovere storico del cattolicesimo italiano ed era quello di agire concretamente e dall’interno nella grande trasformazione del mondo che si sarebbe poi rivelata con il dramma della Seconda Guerra Mondiale. Questa convinzione, che inizialmente era, se vogliamo, legata alla contingenza “resistenziale” (tipica del sentire degli anni Quaranta), andò continuamente approfondendosi. Dossetti si convinse sempre più che si era in presenza di una grande cesura, che avrebbe esteso i suoi effetti ben oltre la fase che noi chiamiamo della “ricostruzione”. Se leggiamo i suoi ultimi scritti, vediamo che questa prospettiva, direi escatologica, va approfondendosi con il procedere della sua vita.

 

 

  • Dossetti parteciperà in modo attivo alla Costituente insieme ad altri intellettuali cattolici, che apporto diedero alla Costituzione?

 

L’apporto di Dossetti alla Costituente fu fondamentale, perché egli assunse su di sé la “regia” del lavoro che si andava a fare per costruire le basi teoriche del nostro costituzionalismo. Lavorò anche sulla seconda parte, quella dell’organizzazione dei poteri, ma qui il suo apporto poté essere meno incisivo, tranne in qualche passaggio (per esempio nella legge elettorale sul Senato dove sconfisse la prospettiva per l’uninominale). Per quel che riguarda la prima parte l’impianto fu suo (anche se riprese qualche proposta che circolava) e fu lui a gestire la convergenza di forze intellettuali diverse verso una sintesi che riflettesse i nuovi orizzonti del costituzionalismo novecentesco oltre che delle esperienze politiche dopo le crisi seguite alla prima guerra mondiale. Fu anche merito suo e dei suoi amici se le pulsioni integraliste che venivano da certi ambienti della Santa Sede e della “Civiltà Cattolica” furono tenute ai margini, evitando però rotture che sarebbero state pericolose per il fragile momento che attraversava la democrazia italiana appena ristabilita.

 

  • Un primo scontro tra Dossetti, il gruppo di Cronache sociali e De Gasperi emerse già in occasione del Congresso della Dc del 1949. Quali erano i punti su cui emerse il contrasto?

 

Il contrasto fra De Gasperi e Dossetti nasceva da una diversa interpretazione del ruolo del cattolicesimo politico. Per De Gasperi era il riconoscimento della forza sociale di una componente allora maggioritaria della società, dopo di che il politico cattolico doveva fare il suo lavoro nel modo consentito dalle circostanze. Lo statista trentino era un politico di professione, nel senso alto del termine ovviamente, e faceva il suo mestiere al meglio possibile. Per Dossetti la presenza politica del cattolicesimo era una specie di dono storico che dava l’occasione per testimoniare che un altro mondo era possibile. Non certo quello dell’instaurazione del regno di Dio in terra (che per un vero credente è sempre una bestemmia, perché ciò non è possibile sino al ritorno di Cristo), ma quello di lavorare perché si realizzasse un sistema sociale che non teneva conto di vincoli di forze che erano, per cavarcela con una battuta, espressione dell’egoismo e della cecità di alcune componenti. Era la ricerca del famoso “terzo tempo sociale”: si riteneva possibile spingere il paese oltre la fase della semplice democrazia politica. De Gasperi, nel suo realismo, ma anche per il suo pessimismo sulla natura umana, riteneva invece che andare in quella direzione in maniera aperta avrebbe messo a rischio la stessa conquista della democrazia politica.

 

  • Nel 1951 Dossetti decise di ritirarsi dalla vita politica attiva dopo il convegno Rossena , ma l’idea di ritirarsi non era nuova in Dossetti. Quali furono le motivazioni che lo portarono nel 1948 a continuare la sua esperienza politica?

 

Dossetti non aveva mai pensato di avere come missione personale un ruolo nella politica. La cosa è curiosa perché era un uomo che sapeva muoversi con grande abilità e competenza nell’ambito della politica, ma vedeva questo come una fonte di corruzione della sua chiamata ad una testimonianza piena dell’alterità della vita cristiana. Fu un tormento che lo seguì durante tutta la vita. Nel caso concreto la percezione che gli spazi di “creatività” verso una nuova società erano assai ridotti lo aveva portato già nel 1948 a decidere di ritirarsi dalla vita politica, ma poiché si considerava un servitore della Chiesa chiese permesso al papa di uscire da quella esperienza. Papa Pacelli, che aveva capito benissimo la forza attrattiva che era esercitata da una personalità come Dossetti (per di più in uno scontro epocale come era quello delle elezioni del 1948), negò l’autorizzazione e per obbedienza il leader reggiano si ricandidò al Parlamento

 

 

  • L’ultima esperienza politica di Dossetti furono le elezioni amministrative di Bologna nel 1956, come maturò la scelta di tornare all’attività politica dopo il ritiro del 1951?

 

Come è ormai noto, non fu Dossetti a voler tornare in campo nel 1956, fu il vescovo di Bologna Giacomo Lercaro a chiederglielo prima e ad imporglielo per obbedienza poi. Il vescovo era convinto che in fondo tutti fossero cristiani e che se votavano comunista era perché i dc non erano capaci di proporre una visione veramente cattolica della politica. Dossetti non era affatto convinto di questo, ma colse l’occasione per dare alla sua Chiesa la prova provata che non era così. Mise in piedi una campagna elettorale molto moderna, approntò un programma assai illuminato (poi in buona parte ripreso dai comunisti) e perse, a testimonianza che, come dirà in un passaggio quasi occasionale di un discorso in Consiglio Comunale, il cattolicesimo era ormai una componente di minoranza in una società che andava già secolarizzandosi.

 

  • Perché secondo lei la figura di Dossetti è stata molto studiata dagli storici solo in tempi abbastanza recenti, mentre per anni venne dimenticata?

 

Per anni Dossetti pagò, come ha scritto giustamente Enrico Galavotti, una specie di damnatio memoriae. Il suo concentrarsi dopo il ritiro dalla politica sul problema della riforma della Chiesa era stato visto da molti cattolici come un abbandono del campo di battaglia. Del suo apporto fondamentale al Concilio Vaticano II si sapeva poco, perché aveva agito dietro le quinte. Il suo stesso apporto alla Costituente era stato dimenticato. Dossetti era stato anche assente dalle diatribe ideologiche che si erano avute nella seconda metà degli anni Sessanta per cui sembrava non avesse nulla da dire. Del resto non c’erano testi o libri che riproponessero il suo pensiero (Dossetti ha pubblicato direttamente pochissimo e in sedi non facilmente accessibili). Aggiungiamoci che l’immagine della DC era andata deteriorandosi dopo il fallimento del primo centrosinistra. Anche se oggi sembra incredibile, Moro per esempio era considerato un fumoso politico incapace di decisioni; quelli della DC che si imponevano avevano piuttosto una immagine di conservatori se non addirittura di uomini di destra.

Fu solo con l’uscita del libro di Baget Bozzo sulla DC di De Gasperi e Dossetti nel 1974 che tornò l’attenzione per la fase “costituente” della nostra democrazia postbellica. Ma erano anche gli anni in cui per uscire dalla sfida terroristica si capiva che era necessario tornare ad una visione forte della politica, che bisognava superare i manicheismi e capire che la nostra storia non era quella della “resistenza tradita” come si favoleggiava, ma quella di uno sforzo difficile e duro di impiantare un nuovo sistema di convivenza e di sviluppo in un paese distrutto dall’esperienza fascista.

 

  • I pochi interventi politici pubblici di Dossetti dopo il 1956, riguardarono la Costituzione. Perché questi interventi sulle riforme costituzionali?

 

Dossetti ritenne che la svolta che si era operata nel 1994 con la discesa in campo di Berlusconi significasse una specie di ritorno a quelle forze che avevano avversato nel 1945-48 il nuovo costituzionalismo italiano. Non dimentichiamoci che nella prima fase Berlusconi, con la leggerezza che lo contraddistingue, parlava di una “costituzione bolscevica”, ma che soprattutto c’era una larga corrente di opinione che pensava che la nostra Carta fosse troppo tributaria del pensiero politico della fase resistenziale.

Dossetti ritenne di dover scendere in campo per impedire che venisse messo in discussione quell’impianto costituzionale. A mio avviso, commise due errori. 1) sopravvalutò la portata di chi blaterava a vanvera di revisioni dei principi fondamentali, senza capire cosa ciò avrebbe comportato (e difatti fu un dibattito sterile che si esaurì presto); 2) non si curò del fatto che trincerandosi dietro la sua difesa dei grandi principi, si facesse poi passare la tesi che tutta la Carta era intoccabile. Questo era contrario al suo pensiero, perché più volte (addirittura dal 1948) Dossetti aveva sostenuto che più di un istituto era stato accettato era frutto di un cattivo compromesso momentaneo e che pertanto doveva essere riformato. Cito per tutti il Senato come perno di un bicameralismo paritario.

Ma Dossetti non faceva più battaglie politiche e dunque non si curava, come del resto aveva sempre fatto, se qualcuno strumentalizzava il suo pensiero.