I principi della democrazia : Analisi comparativa tra democrazia e sistemi autarchici.

Quando si parla di Democrazia, generalmente si intende un sistema di governo fondato sull’uguaglianza delle opportunità e sulla partecipazione collettiva, tale interpretazione politica si contrappone nettamente ai regimi autarchici, nei quali invece, il potere è concentrato in poche mani o in una singola persona.

Tuttavia, non sempre la democrazia è interpretata in questo modo, e spesso anche in democrazia si rischia di virare verso posizioni autoritarie, superando e denigrando uno dei principi portanti della democrazia stessa, il “compromesso politico” in favore di sistemi maggioritari e più “forti”, basati sul principio che chi “chi ha la maggioranza decide”.

Ma la democrazia non funziona così, o meglio, per come è stata concepita e definita nel corso dei secoli, non dovrebbe, e anzi, per millenni la filosofia ci ha ampiamente messo in guardia dalle ombre che aleggiano e minacciano la democrazia, ombre che periodicamente, e seguendo un copione ben definito, hanno prevalso sulla democrazia, portando alla nascita di sistemi autoritari, sempre più pericolosi.

In questo articolo cercheremo di esplora il concetto di democrazia, le sue origini, le sue criticità, e di identificare le maggiori e più note e facilmente riconoscibili minacce alla democrazia di cui abbiamo conoscenza storica.

Etimologia e significato del termine “democrazia”

Cominciamo con l’etimologia della parola, poiché tutto parte da essa. Il termine “democrazia” deriva dal greco, più precisamente dalla composizione di due parole, demos (popolo) e kratos (potere), e la traduzione letterale dell’unione di queste due parole è “potere del popolo“, ne consegue che tale significato persista e definisca anche (e soprattutto) il termine che deriva dall’unione di queste due parole, ovvero Democrazia.

Democrazia però non è solo il potere del popolo, ma è anche il modo in cui e con cui, il popolo esercita tale potere, ed è usato generalmente per rappresentare diverse forme di governo caratterizzate da una serie di elementi comuni suggerendo l’idea che i governi “democratici” siano in sostanza espressione della volontà del popolo, della collettiva, e non di singoli individui o gruppi ristretti, come potrebbe invece essere in sistemi autocratici o oligarchici dove invece a governare sono rispettivamente un solo individuo o un gruppo elitario.

Se l’idea tali governi siano espressione della volontà colletta, è un qualcosa di solido e persistente nelle varie declinazioni di democrazia, la misura e la dimensione di quella volontà è un qualcosa di più volatie e mutevole, che in sistemi democratici differenti, può assumere forme differenti. Si pensi alle democrazie dirette, alle democrazie presidenziali, alle democrazie parlamentari, ecc.

In queste varie declinazioni, ognuna delle quali interpreta in maniera differente la volontà della collettività, si celano alcune insidie della democrazia, che espongono le varie forme di democrazie a contaminazioni più o meno pericolose. La maggior parte di queste minacce sono sintetizzabili nel rischio che la democrazia possa in qualche modo confluire in sistemi autoritari, in cui si possa prediligere una parte della collettività a scapito della sua interezza, e solo una parte del popolo, della collettività, degli elettori, la “maggioranza”, risulta essere fonte e di legittimazione del potere, con l’effetto di una forte polarizzazione politica, che rende impossibile o quasi, ogni forma di compromesso e confronto politico.

Questa distorsione della democrazia, si radica nell’idea distorta per cui ci sia una parte che ha il compito di governare, e una parte, che deve rimanere in panchina. Come vedremo nella prossima sezione, questa visione non ha nulla a che vedere con la democrazia, e anzi, rappresenta la sua morte.

La filosofia della democrazia

Fin ora abbiamo ragionato sull’etimologia della parola democrazia, visto le sue possibili declinazioni e accennato in via puramente teorica alle sue insidie. Da qui in avanti ripercorreremo la storia filosofica della democrazia, dall’antichità greca ad oggi, nel tentativo di capire che cos’è la democrazia oggi.

Tra i primi filosofi che si sono occupati del concetto di Democrazia, incontriamo, come già successo per il concetto di politica, Platone, e la sua La Repubblica, opera in cui il filosofo greco, narrando un dialogo con il proprio maestro Socrate, si ritrova ad esprimere le proprie idee di governo ideale, e nel fare ciò, dedicherà importanti sezioni dell’opera alla critica dei governi noti, tra cui anche la democrazia ateniese, una forma di governo che per Platone è incline al disordine e alla tirannide. Come vedremo, le critiche che il filosofo greco muove alla democrazia hanno un sapore quasi profetico e ci mostrano con qualche millennio di anticipo e straordinaria lucidità, le problematiche che nel mondo contemporaneo abbiamo riscontrato in modo diversi, in diversi sistemi politici, tra cui l’Unione Sovietica o gli Stati Uniti d’America.

Per Platone la democrazia diretta ateniese è una sorta di regime in cui il popolo detiene il potere senza alcuna qualificazione o competenza specifica per governare, e alla base di questa democrazia diretta vi è un principio di uguaglianza formale che non tiene conto delle differenze qualitative tra gli individui. senza troppi giri di parole, per Platone non tutti hanno la capacità non solo di governare, ma anche di scegliere i governanti, di conseguenza, in un sistema in cui tutti i cittadini hanno lo stesso diritto di partecipare alla vita politica, indipendentemente dalle proprie capacità o virtù, si inibisce la capacità e la possibilità di un buon governo e si favorisce l’ascesa di demagoghi, ovvero di leader populisti in grado di manipolare le passioni, le paure e le opinioni della massa, al fine di ottenere maggiori consensi. Questo fenomeno, conduce inevitabilmente alla tirannide, poiché i demagoghi una volta al potere tendono a consolidare il loro controllo eliminando ogni forma di opposizione.

Altra enorme criticità delle democrazie dirette, secondo Platone, sta nella loro instabilità, poiché esse lasciano ampio all’anarchia delle opinioni e dei desideri individuali, elementi di disturbo che tendono a prevalere sul bene comune. In altri termini, per Platone la democrazia è un regime in cui “ognuno fa ciò che vuole“, dando luogo a una società frammentata e priva di coesione, che tenderà a scegliere come guida chi gli permette di fare ciò che vuole, e allontanerà chi invece punterà al bene comune.

A tale proposito il brano “La sete di libertà” del libro quarto della repubblica, offre un immagine estremamente vivida e profetica.

“Quando un popolo, divorato dalla sete di libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano a sazietà,
fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati despoti.
E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani.
In questo clima di libertà, nel nome della libertà, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia.”

Esempi storici di questo tipo, che avverano la profezia di Platone, ne potremmo fare all’infinito, da Cesare ed Augusto, passando per Napoleone ed i dittatori del novecento, fino arrivare ai grandi populisti contemporanei, la storia dell’umanità ha visto l’ascesa di innumerevoli “coppieri“.

Lasciandoci Platone alle e avanzando di una generazione anche Aristotele, maestro di Alessandro Magno e allievo di Platone, si occuperà di definire il concetto di democrazia e le forme di governo democratico. Aristotele ne parla nel libro Politica, dove descrive la democrazia come una forma di governo mista, capace di integrare elementi di monarchia, aristocrazia e politica e come il proprio maestro, anche Aristotele non è esente dal sottolineare alcune criticità e insidie della democrazia, mettendo in guardia soprattutto dal rischio di oclocrazia, ovvero il dominio della folla irrazionale e priva di virtù.

L’etimologia di questo termine è simile a quella di democrazia, il suffisso cratos è lo stesso, ma cambia la radice, da demos (popolo) a oclos (folla), ed indica appunto un regime in cui le decisioni sono prese in modo impulsivo e passionale, senza alcun riguardo per la legge o il bene comune, da quella che sostanzialmente considera una folla irrazionale.

Aristotele critica aspramente questa forma di governo, poiché ritiene che essa sia particolarmente priva di moderazione e di equilibrio tra le classi sociali, elementi che ritiene fondamentali affinché si possa esercitare il potere in maniera giusta.

Per Aristotele quindi, l’oclocrazia è quindi una distorsione della democrazia che e si manifesta quando i cittadini meno virtuosi prendono il sopravvento e corrompono la democrazia, quasi ne abusano.

Tornando ad Aristotele, il filosofo greco ritiene che la deriva della democrazia in oclocrazia possa essere evitato attraverso la politeia (politica), attraverso l’attuazione di forme di governo miste che combina elementi democratici e oligarchici, garantendo così una maggiore stabilità e giustizia sociale. È quasi come se ci stesse dicendo che l’oclocrazia nasce dall’eccesso di democrazia e di libertà, visione ereditata dal proprio maestro.

La storia, soprattutto recente, è ricca di esempi di democrazie evolute in oclocrazie, alcune delle quali hanno permesso l’ascesa di vere e proprie dittature, non solo in Europa e non solo nel novecento.

Tornando al concetto di democrazia, ha accompagnato la nostra storia solo per brevi tratti e nella maggior parte dei casi, l’umanità ha preferito altre forme di governo. Se l’Europa classica ha conosciuto varie forme di democrazia, in particolare quella di alcune polis greche e la repubblica romana, a partire dal primo secolo a.c., in particolare da Cesare in avanti, le democrazie classiche sono sparite, lasciando il passo a nuove forme di governo, come l’Impero e le monarchie, tutt’altro che democratiche.

Eccezion fatta per la breve esperienza dei comuni dell’Italia medioevale, la democrazia è tornata ad affacciarsi sull’Europa solo di recente. Più precisamente torna a far parte del dibattito politico e filosofico a partire dal XVII secolo, soprattutto con autori come John Locke e Jean-Jacques Rousseau, che nei propri scritti hanno ridefinito il concetto di democrazia, gettando le basi per le democrazie moderne, che all’atto pratico sono un esperienza politica totalmente nuova e profondamente diversa dalle democrazie “classiche”.

Le democrazie moderne pongono l’accento sul ruolo dei diritti individuali e della volontà generale, con alcune differenze tra i vari filosofi che si sono susseguiti nel tempo. Per Locke ad esempio, l’esercizio del potere doveva basarsi sul consenso dei governati, mentre per Rousseau, la democrazia diretta rappresentava l’unica forma legittima di governo, poiché solo in questo modo era possibile avere un espressione autentica della volontà collettiva. Di tutt’altro avviso invece è Hobbes che critica la democrazia ritenendola instabile e preferendo un sovrano assoluto per garantire ordine e sicurezza.

Kant vede la democrazia come una repubblica razionale e giuridica, ponendo tutta l’attenzione sul diritto e le regole, poiché solo il diritto, metodico e rigoroso è in grado di produrre un sistema politico che possa garantire pace e libertà. E se per Kant, alla base della democrazia c’è il diritto, per Marx, la democrazia è altro, non è infatti solo una forma di governo, ma una “fonte di governo” che sposta la costruzione istituzionale dal basso, immaginando una società autogestita. C’è quindi una sorta di ritorno alla democrazia diretta.

Come per Platone e Aristotele anche gli altri autori, citati e non, che si sono occupati del concetto di democrazia, ne hanno intravisto possibili criticità, rendendo evidente un principio, la democrazia non è perfetta perché riguarda gli esseri umani, e il rischio più comune, evidenziato in tutte le declinazioni della democrazia, vede la maggioranza assumere posizioni autoritarie, per imporre decisioni.

Compromesso politico vs. dittatura della maggioranza

In sostanza, la democrazia è una questione da gentiluomini, richiede un certo rispetto reciproco, l’ammissione e il riconoscimento reciproco dei propri limiti e il ricorso al compromesso politico, inteso come la capacità di mediare tra interessi diversi per raggiungere soluzioni condivise. In teoria, nei sistemi democratici, il compromesso è essenziale per garantire stabilità e inclusività ed evitare che le decisioni siano dettate unilateralmente dalla parte vincente. Qualunque essa sia. Poiché, in caso contrario, avremmo a che fare con una tirannia, una dittatura della maggioranza.

Tale principio fondante, non è tuttavia implicito e spesso viene oscurato dal principio deviante e deviato per cui “chi vince decide“, e in quei casi si rischia di trasformare la democrazia in una vera e propria “dittatura della maggioranza“, un sistema politico in cui, a seconda della maggioranza, le minoranze vengono marginalizzate e i loro diritti e le loro istanze quasi del tutto ignorate. Tale dinamica si contrappone in maniera netta e radicale ai principi fondanti della democrazia, e riflette in vero quel rischio da cui giuristi e filosofi ci hanno messo in guardia per secoli.

La dittatura della maggioranza non è solo un sintomo della tirannia e dell’oclocrazia, ma è anche causa ed effetto di alti fenomeni, tra cui, la polarizzazione politica, che rendono estremamente difficile, se non del tutto impossibile, il dialogo tra schieramenti diversi e contrapposti, alimentando tensioni sociali.

Ma la natura pluralistica degli schieramenti politici non dovrebbe essere fonte di divisione, ma un punto cardine per la ricerca di un compromesso che però, in alcuni casi viene visto come una rinuncia ai propri valori e principi, un “inciucio” che non fa bene alla propria parte, poiché non fa l’interesse esclusivo della propria parte, puntando invece agli interessi comuni di tutte le parti. E così, il bene comune, che per Aristotele era il punto d’arrivo della politica, diventa il suo principale ostacolo. Qualcosa da scardinare e superare.

Nei sistemi autarchici tuttavia, il compromesso politico è praticamente assente, il potere è centralizzato e le decisioni sono imposte dall’alto senza alcuna reale consultazione pubblica. Questo perché fondamentalmente non serve, perché il governante è stato eletto dal popolo e in quel momento il popolo ha esercitato ed esaurito il proprio potere, può quindi tornare ad essere spettatore fino alle prossime elezioni, se mai ci saranno prossime elezioni.

In questi contesti, o nei contesti che tendono in questa direzione, il concetto stesso di compromesso diventa irrilevante, poiché non esiste un reale spazio comune per il confronto tra diverse visioni del mondo. El più esiste un luogo in cui le forze politiche possono accusarsi a vicenda, in quelle che risultano essere sterili e inutili dibattitti polarizzati. Ma che dovrebbero invece essere luoghi di confronto finalizzati al compromesso.


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Politica: Tra filosofia, storia e sfera pubblica

Spesso ci riempiamo la bocca con la parola “Politica” usata in modo inopportuno, o peggio, dispregiativo, relegandola a determinati soggetti e categorie di persone, i soli che “possono fare politica” perché sono politica, e se non si fa ha questa etichetta, l’etichetta di politico, allora non si fa, non si può “fare politica”. Ma cos’è la politica, cos’è davvero la politica, cosa vuol dire fare politica e soprattutto chi è il politico, ovvero colui che fa politica?

Nell’uso comune spesso si intende la politica come qualcosa che fare con forme partitiche in qualche modo legate a governi e amministrazioni, ad una sorta di leadership gerarchica della società, ma se andiamo alla radice del termine e del concetto stesso di politica, possiamo osservare che in realtà politica è qualcosa di diverso, molto più semplice e per questo estremamente complesso.

Una delle definizione più semplicistiche e generali che possiamo dare del concetto di politica è “tutto ciò che ha a che fare con la sfera pubblica“, ma in questo senso apparentemente semplificato e generale, tutto può diventare politica. Ed è davvero così? Davvero tutto può diventare politica? un concerto, uno spettacolo teatrale, un dibattito, una scampagnata con gli amici, o delle semplici chiacchiere tra due individui, di persona o sui social, sono tutti esempi diversi di “politica”?

Partendo da questa definizione generale, che comprende letteralmente qualunque interazione tra due o più individui, tutto sembra essere politica. In questo articolo proveremo a “raffinare”, se così si può dire, su base etimologica, storica e filosofica, il concetto di politica.

Alle origini del termine

La prima cosa da individuare è l’etimologia della parola “Politica”, un termine che trova le proprie radici nel termine greco politeia (πολιτεία), parola già in uso e con un concetto ben radicato nella cultura greca classica. Questa parola designa l’essenza stessa dell’organizzazione politica come atto collettivo che si lega ad un altro termine, ben più noto, legato anch’esso alla cultura greca classica, ovvero polis (πόλις), la città-stato greca.

Per capire meglio il significato della Politica quindi, dobbiamo comprendere meglio anche il concetto di Polis, che non è solo un entità geografica e amministrativa, che incontriamo nella penisola ellenica tra il VI e il III secolo avanti cristo, ma anche è un vero e proprio modello di organizzazione etica e sociale, che regola la convivenza umana.

Ed è proprio in quel sistema sociale che nasce la parola politica. Al tempo e nel mondo polis greche infatti, incontriamo i primi utilizzi “formale” della parola politica, o meglio Politeia. Tra questi utilizzatori del termine incontriamo Platone con la sua “Politeia”, un opera meglio nota in italiano come “La Repubblica”.

La Politica in età classica

La Repubblica di Platone, è un opera monumentale, è uno dei testi più importanti della storia della Filosofia, ed è scritto nella forma di un dialogo con Socrate, vero protagonista del libro in cui il filosofo greco, attraverso il proprio maestro, cerca di rispondere alle domande sulla natura della giustizia, di fatto l’opera è per certi versi un indagine sulla natura della giustizia e sulla sua importanza nella vita dell’uomo e nella società e, tra le altre cose, Platone esplora diverse forme di governo, tra quelle note all’epoca ed ipotetiche, individuando con straordinaria lucidità e in maniera quasi profetica, alcune delle maggiori criticità delle democrazie moderne, come ad esempio la “sete di libertà”.

Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati tiranni. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia.

Platone

Per Platone il concetto di politica è fortemente legato alla moralità, alla conoscenza, alla giustizia e alla capacità del buon governante, che per lui deve essere un Re Filosofo, di prendere decisioni che beneficino l’intera comunità.

Come Platone, anche il suo miglior allievo, Aristotele, userà il termine politica, nell’opera Politica, in greco Tá politiká (Τά πολιτικά) per descrivere le varie forme di governo e la scienza che studia l’organizzazione delle Polis, per il maestro di Alessandro Magno, il politico non è solo un legislatore, ma è qualcosa di più, poiché la politica è finalizzata alla filosofia ed ha il dovere di creare condizioni ottimali affinché si possa coltivare la scholè (tempo libero) e le attività teoretiche (filosofia, matematica, fisica ecc).

Più semplicemente, per Aristotele politica, non si limita alla semplice amministrazione statale, ma implica una visione olistica del vivere politico, del vivere pubblico, per cui l’amministrazione e la ogni attore attivo di quel luogo e quello spazio pubblico in cui l’individuo realizza la propria natura di zoon politikón (animale politico). Ciò significa che i tre concetti moderni di politica, pubblico e sociale, per Aristotele coincidono in maniera totale, sono sovrapponibili e sostituibili, di fatto sono la stessa cosa e questo perché per Aristotele, politica non è solo amministrazione, ma anche socialità.

Cambiando “mondo” e spostandoci in avanti nel tempo di qualche circa 2 secoli, arriviamo alla Roma del primo secolo a.c., qui Marco Tullio Cicerone aggiunge il proprio contributo al concetto di Politica con il suo De Republica, in cui il filosofo latino associa la res publica alla legge intesa come fondamento della comunità e definisce la politica come una sorta di scienza del governo, concetto che, in forma più o meno diversa verrà ripreso a più battute in tutto il medioevo culminando con il realismo politico di Machiavelli per il quale la politeia diventa arte del potere, per cui la politica mente o come è più comunemente noto “il fine giustifica i mezzi“.

Possiamo quindi definire politica come un qualcosa che si compone di due elementi, esercizio del potere e partecipazione attiva alla sfera pubblica.

Chi fa Politica? Cittadini e governanti

Che la si guardi in ottica moderna, medievale o classica, la politica ha un forte legame con il pubblico e con il sociale, sia quando è esercizio del potere per governare il popolo, sia quando è espressione della volontà del popolo, sia quando è al servizio del popolo. Ma chi fa politica? chi è il politico?

Nella Grecia classica esiste il termine polites con cui ci si riferisce a coloro che partecipavano attivamente alla vita pubblica, esercitando diritti e doveri, potremmo tradurre questo termine con il moderno “politico” o “cittadino”. Apriamo allora una parentesi sul cittadino, nel mondo antico la cittadinanza era un concetto abbastanza ampio, al punto che in epoca Romana, incontriamo nello stesso stato diverse forme di cittadinanza che riflettono privilegi. Oggi la cittadinanza è qualcosa di diverso rispetto a come era concepita nel mondo antico, dove, semplificando moltissimo, era qualcosa di molto simile al concetto moderno di “sovranità popolare”, di conseguenza il cittadino contribuisce alla formazione della volontà generale e vi è pertanto un rapporto di reciprocità tra cittadino e governante, che insieme, e solo insieme, sono espressione autentica della politica.

Nel mondo classico il politico è in sostanza un attore attivo della vita pubblica, c’è sinergia tra il “politico e il governante”, per Platone i governanti dovessero essere filosofi guidati dalla saggezza e al servizio del benessere collettivo. Nel medioevo tuttavia, Machiavelli rovescia questa prospettiva, descrivendo ne Il principe, il leader come un abile manipolatore delle circostanze, anteponendo la sopravvivenza dello stato alla virtù personale e dopo di lui Hobbes, nel Leviatano, teorizza un sovrano assoluto in grado di garantire sicurezza al popolo, il cui potere tuttavia non è immutabile ed è legittimato da un contratto sociale.

Abbiamo visto prospettive differenti, da Platone ad Hobbes, ma nella sostanza, il politico mantiene un elemento costante, ovvero il suo legame con la sfera pubblica. Politico e pubblico, continuano ad essere, nel XVII secolo, concetti sovrapponibili.

Il confine tra pubblico e politico?

Per gran parte della nostra storia, siamo arrivati ad Hobbes, ma in realtà ancora oggi, pubblico e politico sono concetti ampiamente sovrapponibili, risulta quindi necessario cercare di capire se c’è, e se c’è dov’è questa la linea di demarcazione tra Pubblico e Politico, cosa definisce l’azione politica?

Per Hannah Arendt la politica è l’essenza stessa dell’azione collettiva e della vita pubblica. Non si tratta più semplicemente di istituzioni, di procedure, ma di un esperienza umana fondamentale, che affonda le proprie radici nella capacità degli individui di agire insieme. La politica è a tutti gli effetti uno spazio d’incontro tra individui, un luogo di dialogo e di decisioni collettive, uno spazio vitale per il funzionamento delle democrazie.

La Politeia oggi

Oggi la Politica è un concetto dinamico, ridefinito innumerevoli volte nel corso dei secoli e dalle trasformazioni storiche e filosofiche, ma alcuni elementi sono sopravvissuti nel tempo, passando, almeno in Europa e nel Mediterraneo, dalle Polis all’impero di Alessandro a quello Romano, ai regni romano barbarici a gli stati nazione e le monarchie assolute europee, per poi sfociare negli imperi risorgimentali, nei totalitarismi e giungere, in fine, alle democrazie moderne.

Della politica oggi rimane fondamentalmente un amalgama sociale, che non è solo istituzioni statali, ma anche e soprattutto movimenti sociali, organizzazioni nazionali e internazionali, è dibattiti pubblici e digitali, mantenendo nel suo insieme un focus unico ancora fisso sull’ideale aristotelico del bene comune, che la storia ha piegato e adattato rendendolo ad oggi compatibile con un mondo follemente e ferocemente interconnesso, dove il “pubblico” supera ampiamente i confini tradizionali e dove, come scriveva Sandro Pertini, «la moralità dell’uomo politico consiste nel perseguire il bene comune».

Quella linea di demarcazione tra pubblico e politico a conti fatti, non l’abbiamo trovata e questo perché la sfera pubblica e sociale è qualcosa di interconnesso, in maniera indissolubile all’esercizio politico, è politica. D’altro canto però, negare l’appartenenza alla sfera pubblica e cercare di ostacolare la natura pubblica e sociale della politica, chiudere quello spazio collettivo, baluardo della libertà e della democrazia, aiuta alla creazione di terreno fertile per i sistemi totalitari, e non è un caso se nel proprio percorso storico, uomini come Mussolini, Hitler, Stalin, e qualsiasi altro dittatore mai esistito, abbiano costruito i propri regimi partendo proprio dalla censura e il “diritto alla censura”, rivendicando per se quella stessa libertà che negavano ai propri oppositori.

Si entra qui nel paradosso della tolleranza di Popper che possiamo esprimere parafrasando Luca Marinelli nei panni di Mussolini in M il figlio del Secolo “La democrazia è una cosa straordinaria, ti da la libertà di fare ogni cosa, anche di distruggerla”, e nel farlo, concretizza la profezia platonica dei Coppieri che ubriacano il popolo assetato di libertà, permettendo alla mala pianta della tirannia di germogliare.

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Italiani Ubriachi di libertà, con a capo dei Coppieri che gliene versano quanta ne vuole.

“Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati tiranni. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia.”

Queste parole possono sembrare scritte “ieri” e pure sono vecchie di oltre duemila anni, a scriverle non è stato un capo politico, un giornalista, un “buonista”, non sono le parole di un qualche politico del Partito Democratico, di Liberi e Uguali o di + Europa, per criticare le scelte e la politica del governo Lega-M5S, ma sono state scritte da Platone nel libro VIII della Repubblica, e per quanto “vecchie”, sono parole estremamente attuali, sono riflessioni ancora oggi estremamente valide e veritiere che dipingono alla perfezione la realtà politica del nostro paese in questo preciso momento storico.

La prima volta che ho letto, o meglio, che ho ascoltato queste parole è stato ai tempi della scuola, io sono un perito informatico e nella mia scuola non c’era l’ora di filosofia, ma avevo un insegnante, Lucio di Costanzo, professore di Elettronica che era profondamente convinto che il compito della scuola non fosse solo quello di insegnarci nozioni, ma che dovesse prepararci alla vita, per lui la scuola era soprattutto scuola di vita e nelle sue ore, almeno una volta all’anno ci faceva leggere questo passaggio della Repubblica di Platone spingendoci a riflettere sul suo contenuto. All’epoca non ne comprendevo a pieno il significato, la politica non mi interessava, la prima volta che ho votato ho annullato la scheda perché mi era indifferente scegliere e preferire l’uno o l’altro partito, e quelle ore passate a leggere Platone e chiacchierare di attualità per me erano solo un ottima scusa per non studiare resistenze, condensatori, transistor e circuiti elettronici, e pure, oggi, quelle ore sono forse il ricordo più vivo e importante degli anni della scuola. A distanza di oltre dieci anni ne comprendo il valore, ne comprendo il significato e soprattutto ne comprendo l’importanza.
Se oggi ho una coscienza politica, se oggi sono uno “studioso di storia” e mi interesso di attualità e alla realtà politica è anche grazie a lui, ma non voglio annoiarvi con i miei racconti della scuola, voglio invece, con questo post, riproporre a voi alcune riflessioni sul testo di Platone, e mi scuso con eventuali puristi che si sentiranno infastiditi dal fatto che non ho riportato il testo in Greco Antico e si sentiranno offesi dal fatto che parlo di Platone senza mai aver letto o tradotto i suoi libri, ma basandomi solo su traduzioni altrui, ma come vi dicevo, sono un perito informatico, non ho mai studiato greco antico, ne filosofia antica.

Indipendentemente dalla mia superficiale conoscenza dell’opera di Platone, questo passaggio del libro ottavo della repubblica resta estremamente chiaro ed eloquente.
Oggi viviamo in un epoca di estrema libertà, una libertà tale da permettere a chiunque di esprimere la propria opinione e questo, grazie anche agli strumenti offerti dal web, come forum, blog e social network. Viviamo in un epoca talmente libera che una persona con la terza elementare può sentirsi in diritto di criticare le scelte del governo (un diritto sacrosanto, sia chiaro) e di mettere becco in questioni di cui non ha la minima conoscenza e competenza, viviamo in un epoca in cui consiglieri regionali di taluni partiti politici mettono in discussione i progressi della scienza moderna e della medicina, con campagne politiche contro i vaccini, responsabili nella loro visione, di chissà quale malattia e pure basta fare qualche rapida ricerca sul web, o in biblioteca, per scoprire che grazie alla medicina moderna l’età media della vita, nel mondo “civilizzato” si è alzata esponenzialmente nell’ultimo secolo e mezzo. Prima dell’Unità d’Italia, nel nostro paese c’era un elevatissimo tasso di mortalità infantile e l’età media si aggirava intorno ai 60 anni. A distanza di un secolo e mezzo una persona di sessant’anni è considerata ancora abile al lavoro, e ben lontana dalla possibilità di un pensionamento. Certo, anche centocinquanta anni fa a sessant’anni una persona lavorava ancora, ma parliamo di un epoca in cui si lavorava da quando si era in grado di mantenere una pala in mano e trasportare un cesto pieno, fino alla morte, non c’era pensione, non c’era riposo, c’era solo duro lavoro e tanta fame.
Oggi le cose sono profondamente diverse, nell’ultimo secolo e mezzo, il succedersi al governo e al potere, in Italia (e più in generale in Europa e nel mondo) le varie forze politiche, siano esse di destra, di centro o di sinistra, hanno ottenuto importanti conquiste volte a migliorare progressivamente le condizioni di vita e di lavoro. Non sono ovviamente mancati errori e passi indietro, né sono mancate manovre che hanno limitato le possibilità lavorative delle persone, ma nel complesso, rispetto al 1861, anno dell’unità d’Italia, ma anche solo rispetto ad un secolo fa e ancora, rispetto a 50, 30, 20 anni fa, è innegabile che le condizioni di vita e di lavoro (legali) delle persone in Italia siano migliorate. Oggi le persone dispongono di giornate più “lunghe” grazie al miglioramento dei trasporti, dispongono di una vita più lunga, grazie a medicinali e assistenza sanitaria, e qualcuno di più fortunato, se riesce ad andare in pensione dopo quarant’anni di lavoro, può finalmente godersi un po’ di meritato riposo.
Sia chiaro, è estremamente legittimo criticare quelle manovre e decisioni dei governi passati e presenti che sono andate e vanno a “limitare” tutte queste conquiste, sociali e civili, è più che legittimo criticare quelle riforme che hanno limitato le possibilità di lavoro ed impedito l’accesso alla pensione a milioni di italiani, così come è legittimo criticare quelle decisioni volte a limitare i diritti conquistati in questi anni. Penso al diritto allo studio, penso al diritto alla vita, penso al diritto di poter condividere la vita con la persona che si ama, indipendentemente dal proprio sesso ed orientamento sessuale, indipendentemente dalla propria etnia.
Ma in questo clima di liberà senza precedenti, in cui è possibile parlare di terra-piatta, di scie chimiche e di cospirazioni globali per la sostituzione etnica dell’Europa, senza però dare una concreta spiegazione delle ragioni per cui ci sarebbero queste cospirazioni, in questo clima in cui ognuno può esprimere la propria opinione, come è giusto che sia, la sete di liberà di un popolo comincia a crescere, cresce sempre di più, ed è una sete che non può essere arrestata. Con l’aumento della sete di libertà si rivendicano diritti biechi e incompatibili con quelli già riconosciuti, si rivendica il diritto al razzismo, si rivendica il diritto alla violenza, si rivendica il diritto alla libertà di parola per insultare e minacciare chi la pensa diversamente condannando il libero pensiero che per assurdo viene indicato come pensiero unico e si rivendica il pensiero unico, forzando chi la pensa diversamente a rinunciare alla propria libertà di pensiero e di espressione per sottomettersi ad un reale pensiero unico.
In questo clima di libertà senza precedenti, un giornalista che critica il governo, le decisioni e dichiarazioni di un ministro, viene querelato e minacciato dal suddetto ministro, un ministro che, come scriveva Platone qualche millennio fa, è un coppiere pronto a riempire il calice dei propri clienti, versandogli apparentemente in maniera gratuita, tutto il vino che desidera fino ad ubriacarlo e alla fine si ritrova ad avere una locanda piena di gente ubriaca che si lascia andare a pensieri e riflessioni deliranti e irrazionali, tra un conato di vomito ed una scoreggia.
In questo clima di ubriachezza, voluta dal coppiere, il coppiere diventa un benefattore, e chi invece proverà a dirgli “smettila di bere”, si trasformerà in un nemico, qualcuno che non vuole di troppo severo e ligio al dovere che vuole limitare la nostra libertà di bere e ubriacarci.
Il bevitore però non sa che alla fine lui o i suoi figli dovranno comunque pagare il conto e sarà un conto estremamente salato, fino a quel momento lui continuerà a bere ed abbuffarsi, nel solo interesse del coppiere e del proprietario della taverna/locanda. Una locanda che alla fine sarà sporca di vomito e puzzerà da far schifo, una locanda in cui magari ci sarà anche qualche rissa, qualcuna finirà presto, qualcun’altra finirà male, e l’amico, io genitore, il figlio che proverà a far smettere qualcuno di bere, probabilmente tornerà a casa con un occhio nero.

In questo clima di estrema libertà dovremmo avere al capo dei governi non dei coppieri, ma dei genitori che contro la nostra volontà ci facciano smettere di bere, per non vederci stare male, e in questa immagine il popolo appare come un figlio giovane e assetato di libertà e di vino, un giovane che non sempre riuscirà a comprendere le decisioni dei propri genitori, non subito almeno, e finché avrà chi gli versa da bere, preferirà comunque bere e allora, come scriveva Platone, “il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi (vedi reddito di cittadinanza – M5S), e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani (vedi reddito di inclusione – PD).

In questo clima di libertà senza precedenti, ancora una volta come scriveva Platone “nel nome della medesima libertà, non vi è più riguardo per nessuno” e “In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia”.

Sono passati più di duemila anni da quanto Platone ha scritto queste parole, sono passati più di duemila anni da quando queste riflessioni descrivevano la decadenza dell’antica e gloriosa civiltà ateniese che di lì a qualche anno sarebbe sprofondata inglobata, insieme a tutta la Grecia, nell’impero di Alessandro Magno prima e in quello romano poi.

Mi auguro che nella nostra epoca gli Italiani siano più razionali e responsabili degli antichi ateniesi, mi auguro che ci sia un risveglio delle coscienze degli italiani e che questi smettano di bere prima che sia troppo tardi, mi auguro che gli italiani ritornino presto a pensare con lucidità e buon senso e mi auguro che questo risveglio delle coscienze avvenga prima che la pianta della tirannia possa radicarsi troppo nel profondo nella nostra civiltà e dare i propri nocivi frutti che se mangiati avveleneranno definitivamente i cuori degli italiani, condannandoli nuovamente ad un terribile oblio che metterà a ferro e fuoco la nostra civiltà.

Si pronuncia “Necker” non Necker – quando un nome è più importante di ciò che rappresenta.

Uno dei commenti più frequenti che mi capita di leggere sotto i video del mio canale youube è “Si pronuncia “Necker” non Necker” o qualcosa di simile, prendo ad esempio nome in particolare perché il video sulla rivoluzione francese, in cui viene fatto tale nome, è probabilmente il più popolare dei video del mio canale, ma potrei fare benissimo mille altri esempi analoghi, soprattutto quando si ha a che fare con nomi o parole provenienti dal mondo antico, in particolare dal mondo greco-latino.

Ho sempre risposto a questi commenti dicendo che il modo in cui si pronuncia un determinato nome è assolutamente irrilevante ai fini storici” tuttavia, alcuni studenti mi hanno fatto notare che spesso, la pronuncia di un nome può fare la differenza tra un buon ed un cattivo voto ad un interrogazione o ad un esame, quasi come se il modo in cui viene pronunciato un determinato modo sia più importante di ciò che quel nome rappresenta.

Prendiamo ad esempio Jacques Necker, non stiamo parlando di Voldemort, di uno stregone rinnegato di cui non si può pronunciare il nome, stiamo parlando di un banchiere francese del diciottesimo secolo che fu chiamato alla corte di Versailles dal re Luigi XVI per dirigere le finanze della Francia e, a differenza di Voldemort, il suo nome possiamo pronunciarlo. Possiamo pronunciarlo senza paura di sbagliare e indipendentemente dal modo in cui lo si pronuncia, esso non cambierà ciò che rappresenta. Indipendentemente dalla sillaba in cui cadono gli accenti e dal fatto che si utilizzino accenti acuti o ottusi o non si utilizzi alcun accento, Necker rimarrà sempre un banchiere francese del diciottesimo secolo che nel 1777 fu chiamato da Luigi XVI per dirigere le finanze della Francia nel tentativo di sanare il bilancio dopo una lunga e costosa guerra contro il Regno Unito.

La sua figura centrale in quella serie di eventi che la storia avrebbe ribattezzato Rivoluzione Francese, non dipende dal modo in cui si pronuncia il suo nome, ma dalle azioni e dalle scelte che caratterizzarono la sua carica di “ministro dell’economia e delle finanze francesi”, per utilizzare un etichetta più “moderna”.

Quest’uomo è passato alla storia per essere stato convocato dal Re di Francia ed aver ricevuto l’incarico di sanare il bilancio della nazione, e dopo essere stato licenziato perché nel suo piano di risanamento era previsto un taglio alle enormi spese della casa reale, pubblicò i dati del bilancio della casa reale, rendendo noto alla popolazione parigina che, mentre il popolo moriva letteralmente di fame, il Re sprecava una fortuna in quelle che potremmo definire delle vere e proprie stronzate.

Necker rappresenta tutto questo, rappresenta il punto di partenza della rivoluzione francese e personalmente trovo folle, per non dire sbagliato o inutile, ridurre il suo ruolo nella rivoluzione in una mera questione linguistica…  “si pronuncia Necker non Necker”.

Ovviamente una corretta pronuncia del nome di un così importante personaggio storico è certamente qualcosa di apprezzabile, ma non posso accettare che la corretta pronuncia di questo o di qualsiasi altro nome possa superare per importanza ciò che quel nome rappresenta. Necker non è solo un nome, non è una stringa di simboli fonetici che appare in qualche pagina prima degli eventi della rivoluzione francese, Necker è stato un uomo, è stato un politico, è stato un economista ed è stato una figura chiave nella nascita della stessa rivoluzione francese, ed è soprattutto per questo che andrebbe studiato, è soprattutto su questo che bisognerebbe soffermarsi quando lo si incontra in un manuale, non sul modo più corretto di pronunciare il suo nome.

Studiare storia non significa studiare una successione di avvenimenti, di nomi pronunciati alla perfezione e di date precise al millesimo di secondo.
Studiare storia significa comprendere determinati avvenimenti che hanno influenzato il corso degli eventi successivi, significa comprendere le dinamiche che hanno portato quegli avvenimenti a compiersi in quel determinato modo e non in un altro.
Studiare storia significa prima di tutto comprendere la realtà del mondo e degli eventi passati, significa comprendere la realtà dei rapporti e le relazioni tra gli esseri umani, tra i popoli e le nazioni del mondo. Nomi e date hanno un valore puramente accessorio, servono soltanto a mettere in ordine questi avvenimenti, sono soltanto delle etichette, come quelle che troviamo al supermercato prima di ogni reparto e ci indicano sommariamente il genere di prodotti che incontreremo in un determinato reparto, non sono diversi dalle etichette che vicino ad ogni prodotto ci indica nome e prezzo di quello specifico prodotto. Ma un prodotto non è solo il suo nome e il suo prezzo, è molto altro.

Queste informazioni sono certamente utili, ci aiutano a non smarrirci nel supermercato e non ricevere brutte sorprese una volta alla cassa o appena tornati a casa, sarebbe impossibile fare la spesa se tutti i prodotti fossero contenuti in scatole grige, senza nome e senza prezzo. Così nomi e date ci aiutano a non perderci nella Storia, e non avere brutte sorprese, ma non sono la Storia.

Voglio concludere l’articolo “passando la parola” ad uno dei più grandi scrittori britannici dell’età moderna, mi riferisco ovviamente a William Shakespeare. Shakespeare in uno dei suoi capolavori immortali, Romeo e Giulietta, pubblicato nel 1597, si lascia andare ad alcune riflessioni analoga e al cui interno qualcuno potrebbe rivedere un certo platonismo, facendo pronunciare ad uno dei protagonisti, tale Giuletta dei Capuleti, queste “esatte” parole.

“What’s in a name? that which we call a rose by any other name would smell as sweet”

“Che cosa c’è in un nome? Ciò che noi chiamiamo con il nome rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo.”

Nella sua ingenuità Giulietta comprende quello che molti studenti e spesso insegnanti non riescono a vedere, ovvero che un nome non è altro che un nome, una semplice etichetta che ci indica qualcosa, nulla di più, e dunque anche Necker sarebbe sempre Necker, anche se lo chiamassimo in modo differente, ignorando o alterando la cadenza e l’apertura degli accenti che accompagnano il suo “complicatissimo” nome.

La quaglia di Alcibiade: gli aneddoti falsificano la storia?

Ambizioso, sregolato, egocentrico. Non aveva rivali nell’arte retorica né in quella militare, ed era capace di disegni politici di ampio respiro per il bene della sua città. Siamo intorno al 420 a.C. e stiamo parlando del capo dei democratici estremisti che, pur di opporsi alla politica conciliatoria di Nicia (divenuto influente dopo la morte di Pericle) rifiutò l’alleanza con Sparta e si adoperò per una coalizione tra Atene, Argo e altri Peloponnesiaci nemici di Sparta.

Ma c’è di più. A quanto pare Alcibiade aveva abitudini abbastanza singolari ai nostri occhi; infatti era solito passeggiare in Atene con una quaglia sotto il braccio. A svelare gli aspetti più intimi della sua vita ci pensa Plutarco, uno storico, moralista e filosofo vissuto tra il I e il II secolo d.C.. La bibliografia su Plutarco è immensa, ed è impossibile renderne conto in questa sede.

Gli studi sul ruolo degli aneddoti tra storia e biografia ripercorrono le direttrici principali delle ricerche sulla sua figura: di solito si ricostruiscono le fonti da cui ha attinto e/o lo si studia come autore affrontando il problema dei rapporti tra i generi letterari (storia, biografia, romanzo) che sembrano intrecciarsi nelle Vite con l’obiettivo di costruire un’etica specifica, quella in voga nel II secolo d.C.. Per chi fosse interessato ad approfondire, per una rapida rassegna rinvio al volume citato al punto (1) delle Fonti.

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Oggi vorrei concentrarmi sull’uso degli aneddoti. Più in dettaglio, cos’è un aneddoto e che funzione ha? Cosa può ricavare uno storico dall’uso degli aneddoti nella narrazione? Leggendo le Vite Parallele di Plutarco ci troviamo di fronte a orpelli inutili, curiosità, falsificazioni che rischiano di screditare la figura dello storico? Forse per un lettore moderno questo potrebbe sembrare un problema di second’ordine nel senso che, avendo a che fare con numerose piattaforme, curiosità e aneddoti sono un strumento utilissimo per catalizzare l’attenzione del lettore/fruitore.

Se lasciamo sullo sfondo l’evidente anacronismo implicito nel paragone, ma molto utile per chiarirci le idee, possiamo comprendere che il caso di Plutarco è più complesso. Vorrei mostrare che nelle Vite l’uso degli aneddoti non è solo una strategia letteraria o comunicativa, ma fa parte del modo in cui Plutarco intende la storia. Leggendo la Vita di Alcibiade, in assoluto la più ricca di aneddoti, possiamo farci un’idea precisa del modo in cui lavora lo storico. I primi sedici paragrafi offrono una sequenza continua di storielle giustapposte, anche senza rispettare l’ordine cronologico. Gli aneddoti vengono richiamati in alcuni momenti della vita del protagonista, principalmente nella parte del racconto dedicata al periodo dell’infanzia (anche quando sono riferiti all’età adulta hanno sempre lo stesso scopo). Già questo sembra offrirci qualche suggerimento, poiché è un chiaro indizio dell’attenzione che l’autore riserva alle caratteristiche psicologiche degli uomini di cui ripercorre l’esistenza.

Ma a dimostrare che gli aneddoti sono parte integrante della ricostruzione storica (e certamente non sono falsificazioni o elementi fuorvianti) ci pensa la filologia. Benché in greco classico il termine anekdota non venga mai usato, compaiono altre espressioni (apopthegma, apomnemoneuma, chreia) che ne ricoprono in parte l’area semantica: Plutarco le usa come sinonimi ed è interessante notare che nessuno di questi termini rinvia ad un giudizio di valore sulla forma letteraria usata. Un bel colpo per chi vede in Plutarco solo un moralista o un biografo che cerca di impressionare il pubblico, eh?

È plausibile ritenere che Plutarco si serva degli aneddoti come carburanti della narrazione, svincolandoli da qualunque riflessione o meta-riflessione sui ruoli, obiettivi e valori del racconto storico. Produce in questo modo un effetto realtà senza precedenti, inserendo un evento quotidiano nel contesto storico più generale per rappresentare i comportamenti dell’uomo politico in età classica.

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L’unico ritratto certo di Alcibiade pervenutoci (mosaico pavimentale del III-IV secolo d.C., Sparta, Museo Archeologico). Immagine di pubblico dominio.

Resta scontato che gli effetti di queste strategie comunicative vanno ben oltre le intenzioni dell’autore. L’uso massiccio di aneddoti accresce il piacere della lettura, movimenta l’azione conferendole solo accidentalmente un significato morale (e questo depone a sfavore delle letture moraliste delle Vite):ho cercato di collezionare le notizie sfuggite alla maggioranza degli storici, e anche dagli altri riferite incidentalmente, oppure rintracciabili soltanto in antiche iscrizioni votive o in decreti. […] Senza affastellare per questo una documentazione inutile; essa offre anzi una conoscenza più precisa del carattere e del temperamento (ethos e tropos) del personaggio”, (Plutarco, Vita di Nicia, 1,5).

Con l’obiettivo di svelare caratteri e temperamenti, l’aneddoto diventa un istorema, è usato come la più piccola unità di un fatto storico evitando così di pronunciare apertamente un elogio o un biasimo. In questo modo si realizza un sapiente equilibrio tra storia e racconto in cui l’aneddoto non è ridotto a una testimonianza (storica) di seconda classe, ma svela quasi la natura e le cause motrici di alcuni avvenimenti, un po’ come Diogene Laerzio nelle Vite dei Filosofi usa gli aneddoti nella loro valenza morale per incastonarli nella storia della filosofia.

Ma se in filosofia gli aneddoti veicolano un contenuto concettuale facendo dei filosofi individui fuori dal tempo, veicoli di teorie soltanto, nelle Vite di Plutarco fanno parte a tutti gli effetti della cassetta degli attrezzi dello storico e riescono addirittura a calare i personaggi nella trama di usi e costumi in cui vivono, lasciando al lettore la possibilità di giudicare e di chiedersi quale sia il senso dell’anomalia nel complesso della narrazione.

Plutarco attinge da un materiale storico che non è lui ad inventare, e del quale è tributario in tutti gli ambiti, compresa la sfera della descrizione dei modi di vita e dei comportamenti. Quello che gli è peculiare è lo sguardo con cui osserva i suoi personaggi, la riflessione etica che ne ricava, e ovviamente il magistero della scrittura. Senza Plutarco, oggi noi forse non sapremmo che Alcibiade passeggiava in Atene con una quaglia sotto il braccio, e che per compiere un atto di generosità saliva di slancio alla tribuna dell’assemblea. Ma non è stato Plutarco a inventarsi questa storia di un giovane aristocratico ateniese così amato, bensì gli stessi greci coevi di Alcibiade. È quindi un discorso elaborato in età classica che permette allo storico dei nostri giorni di comprendere i diversi aspetti della seduzione greca, e più in generale il legame che intercorre tra costume e politica“, (Pauline Schmitt Pantel, cit., p.158).

Perché allora passeggiava in Atene con una quaglia sotto il braccio? Lascio a voi la lettura delle Vite Parallele.

Fonti:

(1) Pauline Schmitt Pantel, I migliori di Atene. La vita dei potenti nella Grecia Antica, Laterza, 2009.

(2) Plutarco, Vite Parallele vol. 3, UTET.

(3) Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, Laterza.

(4) Plutarco, Vite Parallele. Nicia-Crasso, BUR.

Questioni di genere e politica nell’Atene del V secolo

Negli ultimi tempi si è parlato molto di questioni di genere, gender e teorie del genere non più solo nell’ambito della storia del femminismo (penso ai dibattiti connessi al libro di Judith Butler in cui si sostiene che il il corpo sessuato non è un dato biologico ma una costruzione culturale), ma soprattutto pensando all’educazione e alla relazione con ciò che è altro da noi, diverso.

Ma cosa si intende con genere? Perché dovrebbero esserci questioni di genere? E in che modo i risultati delle scienze sociali possono aiutarci nella comprensione delle dinamiche culturali, civiche e politiche di un’epoca? Con genere si intende una categoria sociale che prende forma in uno specifico contesto storico e istituzionale, le cui conseguenze sul piano della formazione dell’identità e delle relazioni interpersonali non sono assolute ma sempre relative al periodo cui facciamo riferimento.

Lo scopo di ogni ricerca sul genere dovrebbe essere anche questo: isolare i modi in cui si concretizza l’identità individuale per capire in che misura essa interviene nella formazione dell’identità civica e sociale. Questo ci fa capire che il problema delle questioni di genere non può che essere un momento interno al modo in cui isoliamo il genere in un preciso contesto storico.

Oggi ci pare scontato dire che cosa sia “maschile” e cosa invece “femminile”, abbiamo compreso che genere si distingue da sesso e che l’identità di genere è qualcosa che riposa non solo nella nostra costituzione biologica, ma nei nostri costrutti mentali ed interpersonali, nel modo in cui la società ci accoglie, ci riconosce o ci discrimina. Nonostante ciò, esistono ancora molte difficoltà nell’accettare ciò che non si conforma alle nostre etichette, ciò che ordinariamente – o, peggio, secondo alcuni naturalmente – dovrebbe essere maschile e femminile.

Ed è su questo terreno che l’Atene del V secolo non smette di insegnarci qualcosa; laddove infatti la distinzione tra maschile e femminile si fa più sfumata ed è socialmente accettata nella sua natura polimorfica, essa può assumere ruoli e funzioni diverse sia nel tessuto civico della polis (la città) che in quello politico. La costruzione del genere è, a tutti gli effetti, la costruzione di un modo di fare e di vivere la politica. È l’anticamera della filosofia politica in età classica.

§1- Omosessualità ed educazione alla carriera politica

Se prendiamo come esempio Plutarco notiamo subito che nelle Vite di Nicia, Alcibiade, Aristide, Temistocle, Cimone e Pericle i temi connessi a questioni di genere sono moltissimi. E non riguardano solo i rapporti omosessuali, il ruolo dell’eterosessualità e del matrimonio nella costruzione dell’immagine civica dell’individuo, ma soprattutto la definizione di uomo in quanto animale politico (la definizione è di Aristotele).

Nella Vita di Aristide Plutarco ci racconta un episodio di rivalità amorosa che ha opposto il protagonista a Temistocle; questa forma di eros era accettata e considerata lecita come momento essenziale nella formazione non tanto del semplice cittadino quanto del politico. Sono indimenticabili le pagine del Simposio di Platone in cui il giovane Alcibiade racconta della sua passione amorosa per Socrate, del gioco tra amanti in cui Socrate non manca di sottrarsi per spingere il giovane alla contemplazione del vero bene. Il valore pedagogico del rapporto omosessuale che lega un giovane a un maestro più anziano è un tratto caratteristico della paideia (o educazione) greca.

La storia di Alcibiade è una storia di sconfitte e di dissipazioni, è il fallimento della ragione, incapace da sola di modellare una vita, la vita di un uomo straordinario la cui carriera sarebbe diventata leggendaria in Atene. Eros infatti non può che essere inteso come momento interno alla conoscenza, come educazione alla filosofia e tendenza verso il bene che dai bei corpi ci spinge ad abbandonare la sfera sensibile per il bello e il bene in sé. Questo è il messaggio di Platone. La scala amoris che nel Simposio Socrate riferisce di aver sentito da Diotima tende a disinnescare il legame tra l’eros e i corpi per farne solo il momento iniziale di un percorso che, in ultima analisi, è puramente conoscitivo.

Bisogna essere temperanti nella sfera erotica come nella sfera della vita sociale e politica: il legame tra seduzione erotica omosessuale e seduzione politica è un tema caro a Platone e a Plutarco e in entrambi è presente con lo stesso obiettivo. In Platone si tratta di pensare a un insieme di virtù utili nella vita buona e nella vita politica, in Plutarco lo stesso sistema di valori a volte serve come monito, per feroci invettive o giudizi più o meno espliciti sull’operato dei singoli all’interno delle istituzioni.

Le testimonianze antiche ricordate, ad esempio, negli studi di Pauline Schmitt Pantel sembrano mostrare che l’omosessualità in Grecia era un momento essenziale dell’esperienza sociale ed educativa dell’individuo, in quanto parte integrante della costruzione dell’identità del maschio, adulto, depositario dei diritti civici. Ora, cosa resta del matrimonio e delle relazioni eterosessuali?

§2- Eterosessualità ed ordine civico

Plutarco ci racconta che molti uomini illustri in Atene avevano un debole per le donne. Cimone, Temistocle, Alcibiade e Pericle. Le donne descritte appartengono a qualunque status sociale: sono libere, etère, prostitute e spose.

Le strategie matrimoniali erano spesso decise sulla base di considerazioni economiche e di alleanze politiche, ed esisteva una discreta libertà anche per le donne di risposarsi, sempre in accordo con i rispettivi tutori: alle donne era concesso divorziare e prendere nuovamente marito a patto che il kyrios (colui che esercitava l’autorità su di lei) pronunci l’engye e le dia una dote. Il matrimonio era infatti simbolo di ordine, era un istituto in grado di arginare i rischi derivanti dalla promiscuità, e permetteva di mettere al mondo figli legittimi ed era la base per la definizione di cittadinanza. Solo con il matrimonio la polis è potuta diventare un organismo politico, il che è facilmente intuibile se si tiene presente che sfera pubblica e privata non erano ancora nettamente distinte, dunque la vita pubblica da cittadino non doveva stridere con la vita privata e il ruolo di marito. Ma esisteva una forma di eros molto potente, consumata fuori dai vincoli del matrimonio e dalla sicurezza del focolare domestico.

L’amore come agapè, come attaccamento tra Pericle e Aspasia è solo in apparenza un elemento di disordine sociale e civico. Amica dei filosofi, dotata di eccezionale intelligenza, Aspasia di Mileto influenzò in modo determinante le scelte di Pericle (l’affare di Samo e il decreto di Megara, solo per citare gli esempi più noti) e molti ateniesi, compreso Socrate, la frequentavano per imparare le tecniche dell’oratoria e per parlare di filosofia.

Cosa possiamo concludere da questa rapida carrellata? Il genere o la teoria del genere nell’Atene del V secolo era una delle declinazioni possibili della (filosofia) politica. Le relazioni omosessuali, connesse con la definizione del maschile, hanno un ruolo pedagogico e politico determinante nel periodo classico. I rapporti eterossessuali all’interno del matrimonio hanno una funzione sociale rilevante nel mantenere l’ordine e la distribuzione delle ricchezze (spesso nei testamenti si suggerivano possibili pretendenti per le nubili al fine di conservare il più possibile il patrimonio di famiglia). Il femminile ha una collocazione determinante nell’equilibrio e nell’ordine sociale: laddove la donna è moglie, essa agisce nel contesto famigliare, laddove è amante (e l’elemento sessuale prende il sopravvento), essa può fare le veci del maschio sul piano dell’educazione politica. Il ruolo di moglie, di domina della famiglia e spesso degli interessi economici legati a proprietà e schiavi, automaticamente esclude la donna dal ruolo pedagogico in politica.

Aspasia, che educa i giovani come i sofisti, è al tempo stesso una straniera, una concubina, una etèra, una madre, una donna degna dell’amore di un uomo come Pericle appunto perché possiede la saggezza. E in quanto insegnante di retorica è perfettamente in grado di governare la città, è alla pari di qualunque uomo dotato delle medesime capacità. Qui ho tracciato solo una rapida panoramica su un argomento che meriterebbe un’analisi più approfondita. Alla luce degli esempi e della documentazione analizzata nei testi indicati in bibliografia, non posso fare altro che abbracciare la tesi di Pauline Schmitt Pantel: in Atene la costruzione di genere finisce sempre con l’avere a che fare con la politica, soprattutto quando i confini tra maschile e femminile si fanno più sfumati.

Bibliografia:

(1) Violaine Sebillotte Cuchet e Nathalie Ernoult, (cur.), Problèmes du genre en Grèce ancienne, Paris, 2007.

(2) Pauline Schmitt Pantel, Aithra et Pandora. Femmes, Genre et Cité dans la Grèce Classique, Paris, L’Harmattan, Bibliothèque du féminisme, 2009.

(3) Pauline Schmitt Pantel, I migliori di Atene. La vita dei potenti nella Grecia Antica, Laterza, 2009 ► http://amzn.to/2fgDkIa

(4) Werner Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, Bompiani, 2003 ► http://amzn.to/2dykBqO

Noi creeremo quello che non è esistito…

La tesi di Jacques Pierre Brissot nel dibattito con Maximilien Robespierre sull’opportunità di entrare in guerra coi principi tedeschi

Tra il dicembre 1791 e il gennaio 1792, si svolse in Francia il celebre confronto tra J.P. Brissot e M. Robespierre sull’opportunità di dichiarare guerra ai principi tedeschi che accoglievano gli emigranti controrivoluzionari. Sullo sfondo del dibattito vi era l’ultimatum rivolto agli Elettori di Treviri e Magonza e annunciato da Luigi XVI il 14 dicembre 91’ con la richiesta di allontanare gli assembramenti di emigranti entro il 15 gennaio 92’. Nel clima di crescente sospetto verso Luigi XVI e la corte creatosi dopo la fuga di Varennes del giugno 91’ e le decisioni altalenanti prese dal sovrano nei mesi passati, l’entrata in guerra diveniva motivo di aspro confronto all’interno del fronte rivoluzionario tra chi sottolineava le opportunità e chi i rischi del conflitto.

In questo quadro si collocano i discorsi di Brissot e Robespierre alla Società degli amici della Costituzione di Parigi, ove il primo sosteneva la guerra ai principi tedeschi mentre Robespierre anteponeva alla guerra esterna la prioritaria necessità di sbarazzarsi dei nemici interni.

Se la storiografia ha sottolineato molto le tesi di Robespierre, spesso considerandole erroneamente come pacifiste (lo stesso Robespierre sottolinea più volte di volere anche egli la guerra ma solo dopo aver vinto la guerra interna), meno conosciute e considerate sono quello di Brissot.

Nei loro interventi sia Brissot che Robespierre si propongono di difendere la rivoluzione, quello che li separa non è tanto il problema della guerra o la diversa posizione all’interno del fronte rivoluzionario (più moderato il primo e più radicale il secondo), ma una diversa visione del mondo post 1789.

Da questo punto di vista, il più “rivoluzionario” è senza dubbio Jacques Pierre Brissot. Infatti, il futuro leader dei Girondini, parte dall’assunto che le rivoluzioni americana e francese abbiano creato un orizzonte culturale totalmente nuovo che si pone in discontinuità sia con i secoli dell’Ancien Régime sia con il mondo della classicità. A far data dal 1789 tutti gli esempi del passato diventano quindi obsoleti poiché la rivoluzione ha creato uomini nuovi, plasmati dai lumi e dalle nuove idee di libertà; una nuova umanità che non deve più temere i vizi dell’antico regime perché messa in guardia della nuova libera stampa; una nuova umanità che genera nuovi soldati difensori della libertà, ben diversi da quelli che lottavano per i despoti dell’antico regime.

Nell’illustrare questo nuovo scenario Brissot sottolinea una evidente discontinuità della nuova Francia con quella della Fronda. Infatti se in quel conflitto del XVII secolo “Non vi era maggior motivo di battersi per Condé che per Mazzarino”, la Rivoluzione apriva certamente un nuovo orizzonte:

Ma ora quale cambiamento di scenario! Quali vasti interessi incatenano il soldato francese alla causa della libertà! Che cos’è infatti il soldato francese? Un uomo, l’uguale degli altri uomini, al quale tutti i posti sono aperti , un uomo che conosce la propria dignità, la propria forza, i propri diritti. Non si seduce un soldato simile; non lo si seduce soprattutto quando non gli si può offrire come compenso nient’altro che l’umiliazione e il nulla dell’antico regime.”

I nuovi soldati di Francia sono quindi immuni ad ogni tradimento perché combattono per la patria e per la libertà e non più per i despoti.

Se lo scenario è totalmente cambiato, anche i modelli non possono che provenire dalle nuova storia, infatti gli esempi citati da Brissot provengono quasi tutti dalla Rivoluzione americana, i cui avvenimenti all’epoca dovevano essere ben noti ad un vasto pubblico. Allora i modelli sia virtuosi (Washington) che meschini (Arnold) sono citazioni delle note vicende d’oltre oceano alle quali Brissot aggiunge al massimo qualche personaggio della Rivoluzione inglese citando Ireton e Cromwell (ovviamente Cromwell nei suoi bei giorni ).

In questa nuova visione immaginifica del post 89’ anche la guerra non può essere più quella di antico regime, infatti:

“… la guerra della libertà è una guerra sacra, una guerra ordinata dal cielo; e come il cielo, essa purifica gli animi. In mezzo ai terrori della guerra libera l’egoismo scompare, il pericolo comune riunisce tutti gli animi; allora si esercita l’ospitalità, quella virtù dei popoli liberi.”

Se allora è cambiata la natura della guerra anche le conseguenze sono diverse e il nuovo conflitto finisce per avere un effetto igienico e rigenerante:

La guerra avrà per voi lo stesso pregio; metterà in pratica l’uguaglianza tra gli uomini, poiché solo la guerra può, confondendo e gli uomini e i ranghi, innalzando il plebeo, abbassando il fiero patrizio, solo la guerra può uguagliare le teste e rigenerare gli animi.”

La visione di Brissot assolutamente netta e tranchant viene ripresa nel secondo discorso del 30 dicembre 91’, pronunciato in risposta alla replica di Robespierre del 18 dicembre. Nel suo discorso Robespierre spiega che anch’egli vorrebbe la guerra, ma solo dopo aver sconfitto i nemici interni, poiché “la sede del male non è a Coblenza, è in mezzo a noi, è nel nostro seno”. Rifiuta invece quella che vede come la guerra della corte e del governo pronti a tradire ben presto la causa rivoluzionaria ed utilizzare la guerra solo per riportare in Francia il dispotismo e i privilegi del ancien régime. Infine vi è il timore, su cui tornerà nei successivi interventi, che qualche generale, su tutti La Fayette, possa approfittare del conflitto per instaurare una dittatura come fece Cromwell in Inghilterra.

Se il ragionamento di quello che sarà l’Incorruttibile è altrettanto brillante e ben costruito di quello di Brissot e se entrambi saranno in qualche misura premonitori dei fatti futuri, il brillante giurista e oratore Robespierre utilizza un linguaggio e un immaginario culturale ben diverso da quello di Brissot. Infatti per il leader della Montagna i punti di riferimento sono ancora quelli classici: Cesare, Pompeo, il Senato di Roma, i Bruti e Catone ecc…; e per Robespierre non fa problema citare gli esempi antichi con i moderni, ad esempio Cesare e Cromwell, e reputarli ancora buoni modelli di Historia Magistra Vitae utili anche per i tempi presenti. Da questo punto di vista se Brissot, influenzato da quanto visto in prima persona nella Rivoluzione Americana prima e Francese poi, è ormai lanciato verso una visione di una società totalmente nuova da quelle del passato nella quale i nuovi diritti viaggino di pari passo a una nuova forma mentis e alla nascita di una nuova umanità, Robespierre resta ancorato alle forme mentali dell’antico regime e al suo repertorio.

Nel corso della sua controreplica del 30 dicembre Brissot, mantiene la promessa di ribattere alle obiezioni poste al suo precedente discorso. Lo fa con una prosa più asciutta e meno aulica di quella di Robespierre, ma estremamente lucida e puntuale. La nuova logica post rivoluzionaria è qui illustrata in tutte le sue potenzialità, divenendo non solo un modello utile agli Stati Uniti e alla Francia ma un esempio da esportare, infatti questi popoli hanno creato qualcosa di totalmente nuovo e moralmente migliore in grado di contagiare gli altri popoli:

Descartes (sic) diceva: “Datemi un punto d’appoggio e solleverò il mondo”. Questa idea è ancora più vera in politica che in morale. Abbiate un punto d’appoggio per sollevare l’universo contro i tiranni e l’universo è libero; ora questo punto è trovato. Anzi! Ne esiste uno in ogni emisfero; gli Stati Uniti nell’uno, la Francia nell’altro, ecco due fabbriche eterne per la libertà generale, due rifugi per coloro che non riusciranno. Conoscete un popolo, si sente gridare, che abbia conquistato la sua libertà sostenendo una guerra straniera, civile e religiosa, sotto gli auspici del dispotismo che lo ingannava? … Ma che ci importa l’esistenza o non di un simile fatto? Esiste nella storia antica una rivoluzione simile alla nostra? Mostrateci un popolo che, dopo dodici secoli di schiavitù si sia ripreso la sua libertà. Noi creeremo quello che non è esistito …”

Per il leader dei Girondini la rottura con il passato è ormai totale, l’esperimento rivoluzionario è un unicum nella storia a cui non si possono accostare fatti o accadimenti del passato, infatti Brissot rigetta gli esempi di Robespierre in quanto non hanno più niente da spartire con il nuovo creato post rivoluzionario: che cosa vi è di comune tra Cesare e Pompeo, e i nostri generali, tra Roma e la Francia? chiede retoricamente Brissot e risponde che queste due realtà non hanno niente in comune poiché la modernità così dirompente aveva rotto i cordoni con il passato e soprattutto aveva dato il vaccino contro il dispotismo che di certo l’antichità non aveva:

Roma non aveva né clubs, né società patriottiche, né stampa, né giornali, e la tirannide diventa impossibile ovunque esistano dei clubs patriottici e la stampa; sono come tante campane moltiplicate che suonano ben presto l’allarme se il nemico compare. 

Alla luce di questo incredibile ottimismo Brissot si propone di creare secoli nuovi e nuove rivoluzioni. I tempi antichi sono ormai definitivamente tramontati e le citazioni di Robespierre ormai non appartengono più all’immaginario rivoluzionario del Girondino.

Se tutto è cambiato è allora bene che vengano i tradimenti, affinché si possano separare i patrioti dai traditori e l’unico timore e che nessuno tradisca, I grandi traditori saranno funesti solo ai traditori; saranno utili ai popoli.”

Con questo ragionamento, certamente un po’ utopico e semplicistico ma di grande carica ideale, Brissot replica con poche parole a tutte le obiezioni di Robespierre. Nella sua lunga controreplica, l’Incorruttibile dovrà mettere tutta la propria abilità oratoria per attaccare Brissot e le sue facili e ridenti vie del patriottismo, ma lo farà sul piano del realismo e della purezza arrivando ad attaccare Brissot sul piano personale; Robespierre sa infatti molto bene che non può reggere il confronto con Brissot sul piano immaginifico.

Nel frattempo anche gli eventi evolvono ed il 6 gennaio 1792 il principe elettore di Treviri promette di disperdere il raggruppando di emigranti, il nemico diventa sempre di più l’Impero austriaco, ma i partiti pro e contro la guerra esterna restano di fatto immutati.

Il 17 gennaio Brissot pronuncia un discorso pro guerra all’assemblea legislativa, il 20 torna alla Società degli amici della Costituzione per replicare ancora una volta a Robespierre.

Nell’ultimo intervento Brissot cambia in parte la sua visione delle cose alla luce del nuovo quadro internazionale. La guerra esterna resta necessaria per rafforzare la rivoluzione e colpirne i nemici esterni ed interni, ma a differenza di quando aveva assicurato nel primo discorso, ove ne prevedeva la neutralità, il nemico diviene l’imperatore austriaco. Anche rispetto alla corte Brissot ora sostiene di aver sempre denunciato la scarsa volontà di questa all’impegno bellico.

Risulta qui evidente la paura di Brissot di perdere l’opportunità la tanto agognata guerra che aveva con così tanta passione difeso. Infine il Girondino è costretto a difendersi dagli attacchi di Robespierre ed alle sue insinuazioni rispetto al suo rapporto con La Fayette.

Lo sconto tra i due Giacobini si concluderà il 26 gennaio con l’ultimo intervento di Robespierre. Il giorno prima era stato dichiarato l’ultimatum all’imperatore, ma la guerra all’Austria arriverà soltanto il 20 aprile.

Gli interventi di Brissot e Robespierre ebbero subito dignità di stampa e furono largamente conosciuti all’interno del fronte rivoluzionario. La frattura fra i due porterà proprio in quei mesi alla nascita dei partiti della Montagna e dei Girondini (ma all’epoca erano chiamati spesso Brissottini dal loro principale esponente). Il modello di guerra rivoluzionaria proposto da Brissot, nel quale i soldati marciano cantando Ah! ça ira! e diffondono le nuove idee di libertà sarà il modello che di lì a qualche anno la Francia avrebbe esportato in Europa. I nuovi eserciti rivoluzionari avranno un impatto fortissimo sul vecchio continente, contribuendo a diffondere i primi germogli della nuova Europa contemporanea.

Bibliografia

Primo discorso di J.P. Brissot alla Società degli amici della Costituzione del 16 dic 1791.

Primo discorso di M. Robespierre alla Società degli amici della Costituzione del 18 dic 1791.

Secondo discorso di J.P. Brissot alla Società degli amici della Costituzione del 30 dic 1791.