Quel giorno d’aprile in cui l’italia aspettava i propri figli, partiti come soldati e non ancora tornati | Storia Leggera

Il 25 Aprile, il giorno della celebrazione della liberazione, l’autentica pasqua laica della tradizione della nuova repubblicana e antifascista.

Qualche giorno fa, mentre sceglievo la canzone da cui partire per questo articolo, una cara amica ha pubblicato su Instagram la foto di un glicine in fiore e vedendo quella foto mi è venuta in mente una canzone che adoro e che è perfetta per questa rubrica, soprattutto in questo periodo dell’anno e quindi voglio ringraziare questa cara amica per aver involontariamente influenzato la scelta di questa canzone.
La canzone che ho scelto è “quel giorno d’aprile” contenuta nell’album L’ultima Thule di Francesco Guccini e ci racconta proprio quel giorno d’aprile del 1945, quel giorno d’aprile che ha segnato in un certo senso l’inizio della fine della guerra civile italiana, iniziata in seguito all’armistizio del settembre 1943, e che ha rappresenta uno dei passaggi più forti, dolorosi e importanti della recente storia italiana. Quel giorno ci viene raccontato attraverso gli occhi di un bambino e la canzone attinge ai ricordi di infanzia dello stesso autore accompagnandoci in un viaggio lungo tutta la storia italiana, un po come il film Forrest Gump ci ha raccontato quarant’anni di storia americana attraverso gli occhi e la vita del protagonista.

Quel 25 aprile, il futuro presidente della repubblica Sandro Pertini, che nel 1943 insieme a Pietro Nenni e Lelio Basso aveva contribuito a riportare il socialismo in Italia con la costituzione del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, partecipò attivamente agli eventi e alle manifestazioni che di li a poco avrebbero portato alla liberazione dell’Italia dall’occupazione nazifascista.

«Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire.»

Proclama dello sciopero generale, Sandro Pertini, Milano, 25 aprile 1945.

All’epoca Pertini, insieme a Luigi Longo, Emilio Sereni e Leo Valiani, presiedeva il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia(CLNAI) la cui sede si trovava a Milano e proprio a Milano e da Milano, quel 25 aprile, fu organizzata e annunciata l’insurrezione generale che avrebbe portato alla liberazione del paese.

In realtà la liberazione su larga scala era già cominciata da qualche tempo, la ritirata delle forze nazifasciste era già in atto e con essa era in atto la distruzione sistematica di infrastrutture, impianti industriali e campi che avrebbero condannato l’Italia a fame certa e ad una lunga e lenta ricostruzione che fu resa meno insostenibile grazie agli aiuti dell’European Recovery Program. Prima di Milano il CLNAI aveva indetto scioperi e insurrezioni anche in altre città del nord Italia, in particolare a Bologna che si era liberata il 21 aprile e a Genova che si era liberata il 23 aprile, ma Bologna, Genova e le altre città liberate erano solo delle città occupate dalle forze nazifasciste, Milano invece era diversa, Milano era qualcosa di più, Milano era un simbolo dell’occupazione Milano era una delle roccaforti del comando nazifascista e la sua caduta fu molto più significava delle altre, la caduta di Milano significava in qualche modo la sconfitta delle forze nazifasciste, rappresentava la fine dell’occupazione perché Milano era in qualche modo la testa del serpente e una volta tagliata, una volta liberata, il corpo sarebbe morto, si sarebbe arreso.

Dopo la caduta di Milano le insurrezioni in tutta Italia si intensificarono e in meno di una settimana si giunse all’effettiva liberazione del paese il 1 maggio 1945 l’Italia intera era stata liberata. Ma questa liberazione non era stata facile e costrinse uomini, donne e bambini a compiere scelte difficili e dolorose, in particolare la liberazione di Milano si concluse nel sangue e avrebbe portato, tra le altre cose, alla cattura di Benito Mussolini, avvenuta il 27 aprile ad opera della 52° Brigata Garibaldina.
Come sappiamo Mussolini sarebbe stato condannato a morte e giustiziato in meno di ventiquattro ore e tra gli uomini che firmarono e votarono la sentenza, c’era anche anche il sopracitato Sandro Pertini, tuttavia, va detto che il trattamento che la 52° brigata riservò all’ex primo ministro italiano fu tutt’altro che brutale e nell’ultimo scritto di Mussolini redatto a Germasino, sopra Dongo, il 27 aprile 1945, si può leggere:

“La 52a Brigata Garibaldina mi ha catturato oggi venerdì 27 aprile nella Piazza di Dongo. Il trattamento usatomi durante e dopo la cattura è stato corretto”

Dall’ultimo scritto di Benito Mussolini, Germasino, 27 aprile 1945

La brutalità e la barbarie sarebbero sopraggiunte soltanto dopo l’esecuzione, con l’esposizione del cadavere a modi trofeo.

Il 25 aprile 1945 segnava la vittoria della resistenza sull’occupazione straniera e sarebbe diventata, una delle feste nazionali più importanti, se non addirittura la più importante dopo la festa della repubblica e nella sua celebrazione è stato possibile gettare le basi di una nuova Italia, di una nuova tradizione e di un nuovo folcklore italiano, quello di un Italia che è risorta dalle proprie ceneri come una fenice, un Italia che ha riconquistato la propria dignità perduta ed ha ritrovato un onore quasi dimenticato, è un Italia fatta di paesi finalmente in festa, che può salutare i soldati tornati dalla guerra e lentamente può ritornare alle stanze della propria vita quotidiana, come i fiori nei prati e come il vento di aprile.

Ma è anche un Italia speranzosa e dolorante che in quei giorni di aprile e di inizio maggio si affacciava insistentemente alle proprie finestre e passa ore intere sull’uscio delle case e nei cortili, nell’amara speranza di rivedere i propri cari, in attesa di vedere apparire all’orizzonte i propri padri, figli e mariti partiti volontari per la guerra, partiti come soldati non ancora tornati, partiti come partigiani per la resistenza, partiti per essere uomini liberi e senza pretesa di diventare eroi, e in quei giorni non si aspettavano eroi, perché non c’erano eroi, c’erano solo ma padri, mariti e figli che tardavano a ritornare.

Per molti quella speranza sarebbe sfumata, perdendosi nel tempo avvolta dal fuoco e dal fumo di un camino, offuscata dai litri di vino versato per festeggiare e anche un po’ per dimenticare, versato per non pensare, per non capire, per non accettare la realtà e restare aggrappati all’amaro pensiero che un giorno i propri cari sarebbero tornati, ed averebbero raccontato di fronte a quel camino le mille avventure vissute. Ma quel giorno, per migliaia di italiani, non sarebbe mai arrivato, furono a migliaia le famiglie che non rividero mai più i propri cari, perché caduti prigionieri o giustizia sul posto chissà dove, chissà quando e chissà da chi, solo perché avevano scelto di essere uomini liberi, solo perché avevano scelto di combattere per la libertà di tutti, per la propria terra e senza pretesa di essere ricordati come eroi quella libertà l’avrebbero pagata con la propria vita.

La seconda Weimar Italiana – Storia Leggera

Nostra signora dell’ipocrisia di Francesco Guccini è una canzone che pesa come un macigno, soprattutto in questo periodo, è una canzone vecchia di un quarto di secolo ma sembra scritta l’altro ieri, non so se per via dell’ambientazione pasquale o per il fortissimo parallelismo tra la politica italiana odierna e quella dei primi anni novanta e diventa un brano agghiacciante, quasi un campanello d’allarme se si considera il preesistente parallelismo tra la politica italiana dei primi anni novanta e la politica tedesca della repubblica di Weimar.

Forse pubblicare il primo articolo di una nuova rubrica il lunedì di pasquetta non è stata la mia idea migliore, ma alle conseguenze di questa sconsiderata scelta penserò in un altro momento, per ora, voglio approfittare della particolarità di questa giornata, dell’atmosfera pasquale che permea l’aria, per iniziare col botto, per iniziare con una canzone che è un colpo di cannone sparato nello, sparato nell’addome quasi come se fossimo degli artisti circensi, ma l’addome che questa palla di cannone va a colpire non è un addome forte è tonico, quasi scultoreo, è invece un addome rigonfio dalla quantità abnorme di cibo consumato nel pranzo di pasqua e che indomito non teme i fiumi di vino e le montagne di carne che come in un rito di passaggio si appresta a consumare in questa giornata di festa, preludio al quasi religioso digiuno serale, un digiuno che quasi come da tradizione è avvolto da uno strano silenzio occasionalmente interrotto dal lento e inesorabile grugnito di qualcuno che forse ha mangiato e bevuto troppo.

Le immagini proposte da nostra signora dell’ipocrisie, queste immagini pittoresche e al limite del grottesco, fortemente contrastanti tra loro, ad un primo sguardo possono far sorridere o impallidire, soprattutto se non si va a rompere l’illusoria bolla che le avvolge e nasconde ogni cosa. Ma se la bolla esplode, se la maschera di un ormai lontano carnevale viene sollevata, allora possiamo riuscire ad intravedere la realtà, possiamo dare uno sguardo al vero volto di questa canzone, del mondo e del tempo che va a raccontare. Ciò che vediamo sollevando la maschera è una matassa caotica e indistricabile, metafora del temibile caos politico che nei primi anni novanta, come un boa constrictor stava schiacciando l’Italia tra le sue spire letali e riportava nell’aria lo spettro di un altro mondo e di un altro tempo, riportando nell’aria i pensieri, le angosce, le ansie e le paure di un passato oscuro e dimenticato forse troppo in fretta. Tra le spire del serpente lo spettro di Weimar cavalcava sull’Italia.

All’inizio degli anni novanta, l’Italia e più in generale l’intera umanità, stava entrando in una nuova epoca globale che succedeva ad un lungo conflitto psicologico, una guerra combattuta indirettamente e che per oltre quarant’anni aveva contrapposto due mondi, due modi di vivere e di pensare, delineando un preciso ordine internazionale in cui i confini tra l’uno e l’altro mondo erano netti e ben visibili, in alcuni casi, come a Berlino erano materiali, tangibili, erano veri e propri muri invalicabili. Ma la fine della guerra fredda aveva cambiato ogni cosa, aveva abbattuto quei muri e il mondo intero doveva affrettarsi a riorganizzarsi per trovare e definire un nuovo ordine internazionale che potesse sostituire il precedente. Per queste ed innumerevoli altre ragioni, tantissimi altri storici dell’epoca indicato il 1991 come un punto di rottura tra due diverse epoche storiche, Eric Hobsbawm in particolare contribuì forse più di tutti a creare l’immagine di un secolo breve che iniziava con la prima guerra mondiale e terminava con la dissoluzione dell’unione sovietica, e ciò che c’era dopo, era soltanto un futuro misterioso e incerto. Un futuro che ad un primo e superficiale sguardo mostrava la fine della guerra fredda e la dissoluzione dell’Unione Sovietica come il punto di partenza di un mondo libero da guerre e conflitti, qualcuno addirittura osava ipotizzare la fine della storia e della geografia mentre sognava la nascita di un governo mondiale, qualcun altro, forse più realista, forse con i piedi troppo saldi in una storia umana fatta di incontri e scontri di civiltà, prestava più attenzione ai nuovi e più delicati equilibri internazionali che si stavano formando, osservando che quel positivismo epocale sarebbe presto sfumato lasciandosi alle spalle molti delusi a causa della natura precaria ed incerta di quegli stessi equilibri.

L’Italia di quegli anni, l’Italia dei primi anni novanta, non è ovviamente estranea a questi cambiamenti epocali, soprattutto perché per ragioni geografiche e politiche aveva giocato un ruolo quasi centrale nelle dinamiche della guerra fredda e tra i tanti, era forse il paese che più di chiunque altro era riuscito a trarre un vantaggio reale e dalla rivalità che contrapponeva USA ed URSS. L’economia italiana per oltre 40 anni era si aveva approfittato, in larghissima misura, delle dinamiche dalla guerra fredda e la sua fine comportava la perdita di enormi introiti economici e finanziari per il paese. Introiti e finanziamenti non sempre totalmente cristallini o leciti, ma la cui presenza aveva giocato un ruolo certamente importante nel definire l’assetto economico del paese.
Va da se che la situazione del bel paese all’indomani dello scioglimento dell’Unione Sovietica è molto cupa ed incerta inoltre i forti scossoni che la politica interna aveva subito negli ultimi anni, tra stragi di mafia e scandali legati al finanziamento illecito dei partiti, si erano abbattuti sulla vecchia politica italiana come una tempesta e la vecchia classe dirigente del paese si era ritrovava in una posizione non ottimale, l’atmosfera politica dell’Italia era confusa, era cupa e le folle chiedevano un rinnovamento della stessa classe, così, giorno dopo giorno, domenica dopo domenica, tra le elezioni del 1992 e quelle del 1994 l’Italia visse una lunga quaresima, fatta di digiuni, confessioni, esili volontari, stelle cadenti e nuove stelle nascenti che in quegli anni costruirono la propria carriera politica in maniera minacciosa, puntando il dito ed attribuendo alla vecchia politica la responsabilità di qualsiasi cosa, guerra puniche comprese. Così, quando furono chiamati a scegliere tra Gesù e Barabba, chi per un motivo, chi per un altro, gli italiani scelsero Barabba.

In questo biblico caos istituzionale qualche artigiano di notizie riusciva ad intravedere i tasselli di un drammatico passato che non apparteneva al nostro paese, ma che presentava numerose assonanze alla realtà politica che si stava vivendo in quegli anni. Il caos e l’instabilità politica dell’Italia nei primi anni novanta ricordava forse troppo sfacciatamente il caos e l’instabilità politica vissute dalla Germania all’indomani della prima guerra mondiale, nel periodo compreso tra il 1919 ed il 1933 e col senno di poi, qualcuno sbarrava gli occhi scorgendo, temendo e ricordando il drammatico epilogo della repubblica di Weimar.

Tra il 1992 ed il 1994, nasceva una versione tutta italiana della repubblica di Weimar e questa esperienza avrebbe traghettato il paese per un quarto di secolo, verso una nuova e analoga situazione di caos istituzionale e politico, in cui la “nuova classe dirigente” del 1994 era diventata l’immagine della vecchia politica, i vecchi nuovi astri nascenti erano le nuove stelle cadenti e nuove stelle nascenti iniziavano a costruire la propria carriera politica, in maniera minacciosa e puntando il dito attribuendo alla vecchia politica la responsabilità di qualsiasi cosa, guerra puniche comprese, facendo proprio il vecchio slogan per cui il responsabile era sempre e soltanto di qualcun’altro.

Il futuro di questa nuova ondata di caos e instabilità politica, tutt’ora in evoluzione non è stato ancora dipanato, speriamo soltanto che nostra signora dell’ipocrisia non ci conduca ad una nuova “domenica delle salme”.