Sabato 15 Novembre 2025, su Il Giornale è uscito un articolo a firma Roberto Vannacci, in cui l’eurodeputato della Lega ed ex generale italiano racconta la propria verità sul fascismo, l’articolo si intitola per l’appunto “Vi racconto la mia verità sul fascismo”.
Già che l’articolo propone una lettura soggettiva del fascismo è qualcosa di profondamente sbagliato e antistorico, da cui, probabilmente, persino Indro Montanelli, padre de Il Giornale, che fascista lo è stato davvero quando il fascismo governava l’Italia, ne avrebbe preso le distanze.
Si tratta di un articolo carico di contraddizioni ed errori, permeato da una narrazione soggettiva e parziale della storia italiana, in particolare del ventennio fascista. Un articolo che si apre e chiude con una serie di parole e pensieri vuoti che contraddicono tutto ciò che viene detto nel mezzo.
Vannacci contesta il “pensiero unico” chi lo contesta evidenziando allo stesso tempo le nostalgie e simpatie di Vannacci, per un sistema che si regge sul pensiero unico. Il Fascismo. Nostalgie e simpatie che ammette tra le righe e mai direttamente, ma che non contesta, non nega, e che rivendica nel difendere i propri eroi, che eroi non furono, i militari della Decima Mas, che per l’Italia Repubblicana furono criminali di guerra, traditori e disertori.
Il cuore dell’articolo è attacco diretto a chi, come me, ha contestato i suoi continui sproloqui e le sue affermazioni errate, mistificatrici e parziali sul Fascismo, un fascismo che Vannacci dimostra di non conoscere e non comprendere.
Vannacci sostiene che tra il 1923 e il 1938, Mussolini venne eletto e governò nel rispetto dello Statuto Albertino. Questa affermazione è apparentemente vera, ma non lo è del tutto, e serve comprende il contesto di quegli anni, la realtà storica e politica di quegli anni, il come e perché venne eletto e rieletto. Tutti dettagli che per Vannacci non sembrano rilevanti. Ciò che per lui conta è che Mussolini venne eletto e nominato capo del governo. Che quella nomina venne estorta, che le successive elezioni furono una farsa in cui agli italiani era consentito scegliere tra votare per il fascismo o essere pestati, o uccisi di fronte alla propria famiglia, non sembra essere un dettaglio rilevante.
A questi si aggiunge un gravissimo e pericolosissimo utilizzo di anacronismo, concetti e modelli che in quel mondo non erano in uso.
Vannacci prova a tracciare un parallelo tra la nostra costituzione e lo Statuto Albertino, la “costituzione” del regno d’Italia, ed applica in questo parallelismo principi repubblicani e concetti propri della nostra democrazia, tra cui in primis il peso, il significato e il valore di una costituzione che non era presente in quell’Italia. Vannacci guarda a quel sistema politico, quello del regno d’Italia, che era profondamente diverso dal nostro, come se si reggesse sugli stessi meccanismi che l’Italia repubblicana ha adottato proprio perché quel sistema aveva permesso l’ascesa di Mussolini e del Fascismo.
Vannacci nel proprio intervento dice che Mussolini venne eletto e governò nel rispetto dello Statuto Albertino, ma omette di dire che dal 23 al 38, venne eletto non per effetto di un voto libero, e che governò con la forza, sulla base di leggi scritte dai Fascisti, che si sovrapponevano totalmente allo statuto albertino e che modificarono profondamente sia lo lo statuto che le istituzioni italiane dell’epoca. Omette di dire che il parlamento venne depotenziato prima con la Legge Acerbo(che per inciso, fu una legge voluta e scritta non solo dai Fascisti) e poi con altre riforme tra cui l’istituzione del Gran Consiglio del Fascismo avvenuta nel gennaio del 23, a pochi mesi dalla Marcia su Roma.
Parlando della marcia su Roma sostiene che questa “non fu un colpo di stato” ed è vero, la marcia in se non fu un colpo di stato, ma per completezza storica e nell’ottica di una narrazione chiara, imparziale, oggettiva e fattuale, Vannacci dovrebbe dire che la marcia fu parte del colpo di stato Fascista, fu un tassello essenziale al colpo di stato.
Vannacci racconta la Marcia su Roma come un momento unico che ebbe un inizio e una fine, scollegato dal tempo e dal mondo, scollegato dalla politica di quegli anni, e in questa narrazione faziosa, omette di dire che quei circa 15.000 fascisti accorsi a Roma, e ampiamente fomenti dal Congresso di Napoli, erano andati a Roma per fare un colpo di stato, con l’intento di fare un colpo di stato. Erano partiti per prendere il potere e governare sull’Italia, che il re fosse d’accordo o meno. Vannacci non dice che Mussolini si recò dal re chiedendo di governare, non perché avesse il sostegno della maggioranza dei parlamentari, anche perché non aveva la maggioranza del parlamento dalla propria parte e all’atto pratico i fascisti erano una minoranza quasi del tutto irrilevante in quel parlamento, ma perché fuori dalle mura di Roma vi erano a suo dire 40.000 uomini, anzi, 40.000 fascisti, pronti a marciare su Roma, saccheggiare la città, deporre la monarchia e prendere il potere.
Mussolini non diventò capo del governo perché uscito “vincitore” dalle elezioni, ma perché minacciò il re, e il re ignavo Vittorio Emanuele III, cedette a quelle minacce pur di mantenere i propri privilegi.
Vannacci omette di dire che nei 20 anni successivi il Re venne esautorato da qualsiasi ruolo e compito, mantenne formalmente il potere di nominare e deporre il capo del governo, ma non esercitò quel potere prima del 1943.
Si limita a guardare alla Marcia come un evento assestante, scollegato da tutto ciò che portò alla marcia su Roma. E in questo non posso non chiedermi come sia possibile che un ex generale, che per formazione e addestramento dovrebbe essere abituato a guardare al quadro completo, in questa circostanza, e molte altre, non riesca ad avere una visione d’insieme, non posso non chiedermi se si tratti di incompetenza, ignoranza o malafede.
Vannacci in questo racconto mistifica e racconta un fascismo che semplicemente non esiste e non è mai esistito, che non è mai stato reale, se non nei ricordi distorti dei nostalgici di quel periodo e nella narrazione propagandistica che i fascisti sopravvissuti al regime, ci hanno propinato per decenni.
Si chiede sconcertato “come mai tanto accanimento per aver riportato l’opinione di uno studioso e per aver elencato fatti riscontrabili e facilmente verificabili tramite la consultazione di archivi o, magari, di qualche libro non facilmente reperibile nelle scuole”, fingendo di non comprendere la reale motivazione delle critiche mosse verso di lui. Ciò che è stato contestato non l’aver riportato dei fatti, ma che i fatti da lui riportati sono stati riportati in modo fazioso, e sarebbe sufficiente un minimo sforzo per verificare che ciò che dice non corrisponde alla realtà storica. Viene contestato per aver citato alcune osservazioni di Francesco Perfetti, perché quelle osservazioni sono decontestualizzate e stravolgono completamente ciò che lo storico ha scritto nelle proprie opere. Se da una parte è vero che anche Francesco Perfetti, come molti altri storici italiani, sostiene che la marcia su Roma non fu un colpo di stato, è anche vero che lo stesso Perfetti, non separa totalmente la Marcia su Roma dal colpo di stato fascista, ma la ricolloca al posto che le spetta, quello di elemento di pressione sulla monarchia, che contribuì al colpo di stato, e di elemento propagandistico per la costruzione del mito fascista. Vi è una profonda differenza tra ciò che Perfetti ha scritto sul fascismo, e ciò che Vannacci dice Perfetti abbia scritto sul fascismo, quasi come se non avesse idea di cosa Perfetti abbia detto, e citandolo impropriamente.
Vannacci attacca i propri contestatori che gli chiedono una narrazione onesta e completa sul fascismo, poiché nella propria mistificazione Vannacci tende ad omettere, a non dire, a decontestualizzare, e per lui questo è il fatto grave, che gli venga contestata una narrazione parziale. Su Il Giornale Vannacci scrive
“L’accusa è implacabile: perché ha omesso di parlare del contesto, delle violenze, delle squadracce, dei manganelli, dell’olio di ricino, della dittatura, del delitto Matteotti, dell’Aventino e, così, ha giustificato una delle più vergognose pagine di storia che l’Italia abbia vissuto facendo apparire le leggi razziali (da me mai nominate) come democratiche e condivise. Quindi: condanna per “non aver detto“.
E se si limitasse a non dire, forse non ci sarebbe neanche troppo di cui parlare, il problema è che nella propria narrazione Vannacci non dice, e ricostruisce sulla base di elementi assento, fornendo una narrazione totalmente alterata della realtà storica. Il suo non dire non è un semplice assente, diventa negazione di passaggi fondamentali, una negazione che stravolge completamente la realtà storica dei fatti che cita. Un quadrato, se privato di un lato, non è più un quadrato, diventa una linea segmentata separata in tre parti, e con un ulteriore modifica, un triangolo equilatero. Ma un triangolo e un quadrato sono figure geometriche diverse. Così come lo sono la realtà storica, verificabile, e la narrazione propagandistica di Vannacci.
Per Vannacci, la tesi dell’accusa è “alquanto strampalata” poiché, a suo dire, cita “fatti storici incontrovertibili” , ma non è vero, e nel dire questo mente, mente perché i “fatti incontrovertibili” di cui parla sono irreali, alterati e privati di elementi che li definiscono.
Dire che Mussolini non uccise Matteotti è indubbiamente vero, ed è innegabile, non è stato Mussolini ad uccidere materialmente Matteotti, ma ciò non toglie che la morte di Matteotti dipese da Mussolini, che ordinò ad una banda di picchiatori, criminali e assassini, il rapimento e pestaggio del deputato. Il fatto che Mussolini non fosse presente non lo discolpa dall’aver ordinato e finanziato quel rapimento e quella aggressione, non vuol dire che non partecipò attivamente all’insabbiamento del caso, o che non che incontrò, la sera stessa del rapimento e dell’omicidio, nel proprio ufficio al Ministero degli Interni, Amerigo Dumini, che Matteotti lo aveva effettivamente pedinato, rapito, pestato e ucciso. E questo lo sappiamo dai registri del ministero degli Interni.
Vannacci punta il dito contro chi lo accusa di giustificare le leggi razziali scrivendo “Anche la tesi secondo cui avrei giustificato le leggi razziali del 38 asserendo che sono state approvate, come effettivamente lo sono state, da un Parlamento e firmate da un re ha del grottesco.”
C’è ancora una volta una lettura anacronistica dei fatti che sovrappone le nostre istituzioni democratiche alle istituzioni del fascismo. Se da un lato è vero che le leggi razziali, nel regno d’Italia, furono legittime (nel senso di legali), perché appunto leggi prodotte dallo stato, non è propriamente vero che vennero approvate da un parlamento, poiché nel settembre del 38 il parlamento del regno d’Italia non era un “parlamento”, non discuteva le leggi che produceva, non permetteva la contestazione delle leggi che produceva e si limitava ad approvare le leggi che il gran consiglio del fascismo gli diceva di approvare, e allo stesso modo il Re, si limitava ad approvare le leggi che il gran consiglio gli diceva di approvare, sotto la costante minaccia di deposizione da parte dei fascisti che obbligava il re a sottostare ad un istituzione che teoricamente, era subordinata all’autorità del re. Ciò detto, nel rispondere alla contestazione per cui Vannacci giustificherebbe le leggi razziali, rimane un profondo non detto, ossia la presa di distanza dello stesso Vannacci dalle leggi razziali. Leggi che si limita a dire “erano legittime”. E si, erano “legittime” nel senso di legale, ma ciò non toglie che furono qualcosa di vergognoso, da condannare, rinnegare e da cui prendere le distanze in modo totale, assoluto, e senza ambiguità di sorta.
Vannacci continua dicendo che “Le azioni, gli atti, le leggi non sono giuste o sbagliate in base a chi le intraprende, a chi le approva o a chi le promulga. Sono vergognose in base a ciò che stabiliscono” questo è forse l’unico passaggio del suo intervento che mi sento di condividere, le leggi non sono giuste o sbagliate perché scritte da uomini giusti o malvagi, lo sono per il proprio contenuto. Principio che però, lo stesso Vannacci tende ad applicare in maniera discrezionale.
Superata la parentesi dignitosa, Vannacci precisa che “In Italia, grazie a una legge della Repubblica approvata dal Parlamento, lo stupro era considerato un reato contro la morale sino al 1996.” Senza troppi giri di parole, questa dichiarazione è falsa, poiché la legge a cui fa riferimento Vannacci, ovvero l’articolo 544 del codice penale, rimasto in vigore fino al 1996, non è stato scritto ne approvato dal parlamento della repubblica Italiana. Tale articolo, così come tutto il codice penale, è stato “ereditato” dal precedente Codice Rocco, ovvero il codice penale introdotto dal fascismo nel 1930.
Vannacci parla anche del “delitto d’onore“, articolo 587 del codice penale, abrogato nel 1981), anche in questo caso ereditato dal codice rocco, anche in questo caso risalente al 1930.
In entrambi i casi quindi non leggi della repubblica, ma leggi di epoca fascista, sopravvissute (insieme all’intero codice Rocco) in età repubblicana per una questione di necessità, con l’istituzione della Repubblica, non era possibile riscrivere totalmente il codice penale dall’oggi al domani, si decise quindi di mantenere il codice Rocco, con alcune modifiche, demandando agli anni a venire l’epurazione di eventuali norme incompatibili con la nuova costituzione italiana, come i sopracitati articolo 544 e 587, che il parlamento dell’Italia repubblicana, già dagli anni 60, cercò di abrogare. La storia di questi articoli è molto interessante perché in entrambi i casi la Democrazia Cristiana ed il Movimento Sociale Italiano, si opposero nettamente alla loro abrogazione poiché contrari, alla morale cristiana e alla tradizione italica.
Come giustamente dice Vannacci, le leggi non sono giuste o sbagliate in base a chi le scrive, ma per ciò che contengono, e in questo caso abbiamo delle leggi sbagliate che qualcuno ha strenuamente difeso per oltre 20 anni in nome della tradizione, e tra loro, anche persone che si dicevano apertamente eredi del Fascismo.
L’articolo di Vannacci continua con un altro errore, sostiene che ad essere condannato per legge sia un periodo storico, ciò non è vero, anche perché non ha alcun senso “condannare per legge un periodo storico”. Ciò che è condannato per legge è il fascismo, che in Italia governò con la forza e istituì un regime dittatoriale, un sistema politico che considera la violenza un valore e l’eliminazione materiale degli oppositori un dovere.
Vannacci sostiene che non si può condannare a prescindere quegli anni, ed è vero, non si può condannare a priori ciò che accadde tra anni 20 e 30 del novecento senza conoscere la storia di quegli anni, e dice il vero Vannacci quando sostiene che tale periodo va contestualizzato. Il problema è che chi non contestualizza ciò che accadde in quegli anni è proprio Vannacci ed è Vannacci stesso, in quello stesso articolo, a puntare il dito contro chi chiede di contestualizzare quei “fatti” a suo dire “incontrovertibili” che cita in maniera arbitraria e decontestualizzata.
Segue a questa parentesi, quello che non posso definire se non come un delirio nostalgico, in cui citando Alain de Benoist, sostiene che la società moderna basata sul trionfo del pensiero unico, non risparmia neanche la storia. E lo dice chi chiude alle diversità, chi rifiuta l’integrazione, chi non accetta il confronto, chi fa un uso arbitrario, soggettivo e parziale della storia, per ragioni politiche e propagandistiche.
L’articolo, nel proprio insieme, si configura come un trionfo di disonestà intellettuale, carico di contraddizioni e deliri, che guarda con ammirazione a momenti cupi e oscuri della storia italiana, che tra le righe legittima la dittatura fascista, pur non dicendolo direttamente, ma ripetendo che “il governo di Mussolini era legittimo”. La stessa giustificazione che a Norimberga venne utilizzata da molti imputati, e che la corte ritenne non una valida argomentazione.
L’Italia del dopoguerra, nel tentativo di pacificare il conflitto sociale derivato dalla secessione voluta dai fascisti a sostegno dell’occupazione Naziasta, immersa in una rinnovata paura del comunismo sovietico, ha concesso l’amnistia a molti uomini, tra cui numerosi criminali, che negli anni hanno continuato a lavorare contro la Repubblica nel tentativo di restaurare lo stato fascista che li aveva plasmati. Uomini che come Giorgio Almirante e Juno Valerio Borghese hanno provato in ogni modo a corrodere le istituzioni democratiche e prendere il potere con la forza. Tali individui, va ricordato, sono considerati da personaggi come Vannacci (e voglio sperare non da Vannacci) degli eroi, dei riferimenti da seguire, dei modelli da imitare.
Vannacci attacca i propri contestatori perché promotori del pensiero unico, ma poi difende e giustifica le azioni di uomini che ritengono sia giusto picchiare a morte un deputato perché aveva osato contestare una legge proposta dal proprio partito. E non mi riferisco al delitto Matteotti, ma a deputati della Repubblica Italiana in corpo alla Lega, il partito di Roberto Vannacci, mi riferisco ad Igor Iezzi, ad oggi ancora vice-capogruppo vicario della Lega alla Camera dei Deputati, che in questa Legislatura, in aula, nel 2024, ha aggredito, ferito e minacciato il deputato Leonardo Donno del Movimento 5 Stelle.
L’articolo di Vannacci si intitola “vi racconto la mia verità sul fascismo” e per tutto l’articolo incalza contro chi chiede una narrazione oggettiva, fattuale e contestuale del fascismo, ritenendo che la propria interpretazione parziale e soggettiva debba essere non solo accettata, ma anche imposta come verità dogmatica.
















