Il primo bombardamento aereo della Storia

1 novembre 1911, l’italia era nel vivo della guerra italo turca, e Giulio Gavotti, un aviatore italiano, in questa data alle prime luci dell’alba partì a bordo del proprio monoplano Etrich Taube, un monoplano di fattura tedesca, ufficialmente per un operazione di ricognizione che, per iniziativa individuale dell’aviatore, si trasformò nel primo bombardamento aereo della storia.

Va detto che, prima del 1911 i dirigibili erano già stati utilizzati per operazioni offensive, e quindi c’erano già stati dei “bombardamenti aerei” tuttavia, nel 1911 , per la prima volta, l’offensiva fu portata a termine da un aereo-plano e non da un dirigibile, ed è proprio l’uso dell’aereo-plano l’elemento di novità che avrebbe cambiato per sempre il volto della guerra, segnando un punto di non ritorno nelle operazioni belliche.

Del bombardamento aereo del 1911 durante la guerra italo turca abbiamo molte informazioni e numerose fonti, una in particolare ci permette di ricostruire quei momenti, attraverso la testimonianza diretta di Giulio Gavotti, all’epoca un semplice aviere che da poco aveva terminato il corso di allievo ufficiale a Torino con il 5º reggimento “Genio Minatori” , dopo questa operazione, la carriera di Gavotti sarebbe decollata portandolo fino al grado di Tenente Colonnello, ma questa è un altra storia.

Il resoconto dettagliato degli avvenimenti del 1 novembre ci viene fornito da Gavotti, oltre che dal rapporto missione ufficiale, anche da una più interessante lettera, indirizzata al padre e che, vista la ricchezza di informazioni sul volo, si presume essere stata scritta nella stessa giornata del 1 novembre 1911. In questa lettera Gavotti scrive.

"Ho deciso di tentare oggi di lanciare delle bombe dall'aeroplano. È la prima volta che si tenta una cosa di questo genere e se riesco sarò contento di essere il primo."

Da queste prime parole possiamo osservare che Gavotti è perfettamente conscio di ciò che sta per fare, il suo obbiettivo è quello di mettersi in mostra con i propri superiori, lui è perfettamente consapevole di ciò che sta per compiere e, a discapito di quello che molti pensano, la sua azione non è stata improvvisata, ma anzi, è stata pianificata, se bene non sia chiarissimo quanti i superiori di Gavotti sapessero effettivamente delle sue intenzioni. Dal rapporto missione emerge una certa ambiguità lessicale, e probabilmente la sua era un operazione clandestina o comunque.

Il testo della lettera comunque continua dicendo che sarebbe quella mattina del 1 novembre era partito alle prime luci dell’alba “Appena è chiaro sono nel campo. Faccio uscire il mio apparecchio.” Aggiunge poi che, nell’abitacolo, se così lo si può chiamare, ha inchiodato un contenitore in cuoio “Vicino al seggiolino ho inchiodato una cassettina di cuoio; la fascio internamente di ovatta e vi adagio sopra le bombe con precauzione.”

Capiamo, da queste parole che è tutto molto amatoriale, forse troppo amatoriale, tuttavia, risulta strano e poco chiaro, come abbia fatto l’aviere Gavotti ad entrare in possesso di quattro bombe Cipelli. “Queste bombette sono sferiche e pesano circa un chilo e mezzo. Nella cassetta ne ho tre; l’altra la metto nella tasca della giubba di cuoio.” in questo passaggio ci viene data un informazione molto significativa sul tipo di ordigni di cui dispone, si tratta, come anticipato, di tre bombe “Cipelli”, uniche bombe in dotazione al regio esercito nel 1911, di forma sferica ad avere il peso di circa 1,5Kg e, il passaggio successivo ci conferma ulteriormente essere bombe Cipelli, poiché ci dice “In un’altra tasca ho una piccola scatoletta di cartone con entro quattro detonatori al fulminato di mercurio” e, le bombe Cipelli, erano attivate da detonatori esterni che andavano combinati alla bomba perché questa potesse essere innescata, diversamente da altre bombe che invece avevano un detonatore integrato.

Gavotti ci fornisce poi una serie di informazioni più o meno dettagliate sulla propria posizione e sul proprio itinerario “…Arrivo fin sopra la “Sicilia” ancorata a ovest di Tripoli dirimpetto all’oasi di Gurgi poi torno indietro passo sopra la “Brin”, la “Saint Bon” la “Filiberto” sui piroscafi ancorati in rada.”, ma l’informazione più interessante riguarda l’altitudine a cui avrebbe volato, “Quando ho raggiunto 700 metri mi dirigo verso l’interno”

Gavotti ci dice di volare ad un altitudine di circa 700 metri, e che prende quota sul mare per poi seguire il proprio itinerario nell’entroterra, oltre le linee nemiche, questi dati sono molto interessanti perché ci dicono molto sul volo e quello che è in qualche modo lo stato d’animo dell’aviatore, ci comunicano infatti eccitazione ma anche determinazione e tensione, oltre che voglia di riuscire nell’impresa e questo desiderio di successo si traduce nella decisione di volare a bassa quota ovvero a circa 700 metri, probabilmente per riuscire a colpire con maggiore precisione i bersagli.

Un monoplano Etrich Taube dell’epoca, stando alle informazioni tecniche della Igo Etrich, poteva volare fino a 2000 metri di altitudine, ma poteva spingersi anche più in alto e per le operazioni di ricognizione, generalmente era previsto un volo a circa 1500 metri, quasi al limite delle possibilità del Taube.

La lettera continua e da qui in avanti, sembra più un rapporto missione che una lettera informale al padre, Gavotti scrive “Oltrepasso la linea dei nostri avamposti situata sul limitare dell’oasi e mi inoltro sul deserto in direzione di Ain Zara altra piccola oasi dove avevo visto nei giorni precedenti gli accampamenti nemici (circa 2000 uomini).”

Arrivati all’altezza dell’oasi Gavotti si prepara all’azione offensiva “Con una mano tengo il volante, coll’altra sciolgo il corregile che tien chiuso il coperchio della scatola; estraggo una bomba la poso sulle ginocchia.” poi “Cambio mano al volante e con quella libera estraggo un detonatore dalla scatoletta e lo metto in bocca. Richiudo la scatoletta;”

L’azione che ci viene descritta è estremamente cinematografica, è una scena che abbiamo visto in centinaia di film, c’è questo giovane aviatore, solo nei cieli sopra i campi del nemico che con una mano pilota il proprio mezzo aereo e con l’altra, estrae il primo ordigno, lo innesca e guardando fuori dall’aereo-plano cerca di individuare un possibile bersaglio “metto il detonatore nella bomba e guardo abbasso. Sono pronto.”

Gavotti è vicinissimo al nemico, ci dice nella lettera, di trovarsi a circa un chilometro dall’oasi e già riesce ad identificare le sagome delle tende tende arabe, “Vedo due accampamenti vicino a una casa quadrata bianca uno di circa 200 uomini e, l’altro di circa 50.”

Queste informazioni sono per alcuni troppo accurate per la distanza che, secondo la lettera, in quel momento lo separava dal campo, non sappiamo se si tratti di una stima e dunque Gavotti abbia visto gli accampamenti e ipotizzato il numero di uomini che, sulla base della propria esperienza, potevano trovarsi nel campo, o se invece si tratti di un espediente narrativo, volta ad enfatizzare il momento, in fondo, si tratta pur sempre di una lettera al padre e non di un vero e proprio rapporto missione. Nel rapporto missione non vi è alcun riferimento a questo passaggio quasi acrobatico.

In ogni caso, la lettera continua “Poco prima di esservi sopra afferro la bomba colla mano destra; coi denti strappo la chiavetta di sicurezza e butto la bomba fuori dall’ala. Riesco a seguirla coll’occhio per pochi secondi poi scompare. Dopo un momento vedo proprio in mezzo al piccolo attendamento una nuvoletta scura.”

L’azione continua ad essere estremamente cinematografica, vediamo questo pilota che strappa la chiavetta di sicurezza dell’ordigno e lancia fuori dall’abitacolo per poi vederlo svanire, a causa delle piccole dimensioni dell’ordigno e della distanza crescente tra l’ordigno e l’aereoplano, ma poi, ecco che si giunge al momento decisivo, l’ordigno tocca il suolo ed esplode, il pilota vede una nuvola di fumo nero alzarsi dal campo, l’esplosione esalta l’aviatore e allo stesso tempo turba l’equilibrio del campo, che certo non immaginava cosa stava accadendo. Prima d’allora non era mai successo nulla di simile, prima d’allora nessun’aereo da ricognizione aveva mai sganciato bombe.

Il racconto di Gavotti continua e ci dà un altre informazioni, ci dice che nonostante il successo in realtà l’obiettivo a cui aveva mirato è stato mancato, ma ciò nonostante è soddisfatto del risultato e decide quindi di ripetere l’esperimento, lanciando altre bombe “Io veramente avevo mirato il grande ma sono stato fortunato lo stesso; ho colpito giusto. Ripasso parecchie volte e lancio altre due bombe di cui però non riesco a constatare l’effetto. Me ne rimane una ancora che lancio più tardi sull’oasi stessa di Tripoli.”

In questo passaggio Gavotti ci ha ha detto qualcosa che in realtà già conoscevamo, questo tipo di azioni si porta dietro molta imprecisione, Gavotti è stato fortunato, molto fortunato, probabilmente la sua conoscenza delle leggi della fisica gli hanno permesso di stimare e calcolare ad occhio il momento esatto in cui lanciare l’ordigno affinché questo potesse avvicinarsi il più possibile al bersaglio.

Conoscendo infatti l’altezza, la velocità e la direzione dell’aereo, per un ingegnere con una formazione da aviatore non doveva essere troppo difficile calcolare la traiettoria del lancio, e il caso volle che Gavotti fosse proprio un ingegnere con una formazione da aviatore e probabilmente questa stessa azione, portata avanti da un qualsiasi altro aviere, non avrebbe avuto lo stesso risultato.

Queste fortuite coincidenze non sappiamo quanto siano fortuite e quanto siano coincidenze, per quanto ne sappiamo, l’intera operazione fu un azione individuale, ma possiamo immaginare che forse, Gavotti fu scelto, proprio per l’insieme delle proprie esperienze, come campione ideale per questo test.

Dalla lettera al padre Gavotti appare molto soddisfatto del successo ottenuto e ansioso di riferire l’esito dell’operazione ai propri superiori “Scendo molto contento del risultato ottenuto. Vado subito alla divisione a riferire e poi dal Governatore gen. Caneva. Tutti si dimostrano assai soddisfatti”

Le ultime parole della lettera sono molto particolare ed interessante, se si trattasse di un iniziativa individuale Gavotti sarebbe colpevole di aver rubato degli ordigni, di aver portato avanti un azione offensiva senza autorizzazione e di aver messo a rischio un aereo del regio esercito, tutti fattori che lo avrebbero portato di fronte alla corte marziale, ma noi sappiamo che Gavotti venne celebrato come eroe di quella guerra e che ricevette, per le proprie azioni, una medaglia d’argento per il valore militare, e questo ci fa supporre che, nonostante non esistano ordini scritti, questa operazione fu autorizzata dall’alto.Album dei Pionieri della Aviazione italiana, Roma 1982 Stampato presso Tipolitografia della Scuola di Applicazione A.M. – FI 1982.

Gli sports meccanici, Roma, 15 maggio 1933;
G. Dicorato, G. Bignozzi, B. Catalanotto, C. Falessi, Storia dell’Aviazione, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1973.
R.G. Grant, (ed. italiana a cura di R. Niccoli), Il volo – 100 anni di aviazione, Novara, DeAgostini, 2003,

I sette migliori generali di Napoleone Bonaparte

Chi furono i sette migliori generali di Napoleone Bonaparte?

Stavo cercando un modo diverso per parlare di Napoleone, ed mi sono detto, quale modo migliore per parlare di Napoleone, senza parlare di Napoleone, se non attraverso gli uomini e le donne che hanno reso grande il minuto generale francese?

Pensando che fosse una buona idea ho cominciato a cercare del materiale sui suoi generali e mi sono imbattuto in una striminzita classifica di quelli che sono i suoi migliori generali, e mi sono detto, perché non partire da lì, da questo elenco di nomi, per raccontare l’esercito di napoleone visto dal dietro le quinte?

I generali che seguirono Napoleone furono tutti eccezionali, la “Grande Armée“, l’esercito napoleonico, a differenza di un qualsiasi altro esercito europeo di inizio XIX secolo, era guidato da generali fuori dal comune, uomini che si erano distinti sul campo di battaglia e che arrivarono alla testa degli eserciti per merito e non per diritto di nascita. Detto molto semplicemente, Napoleone non avrebbe mai affidato il comando dell’esercito al nipote di suo cugino, o al principe ereditario di poggibonsi, come invece facevano , almeno inizialmente, i suoi nemici.

Ad Austerlitz, la Grande Armée ha ragione dei propri nemici, proprio perché, tra le altre cose, i suoi generali erano abili strateghi che si erano formati sul campo di battaglia, mentre, dall’altra parte, ad avere l’ultima parola sulle scelte strategiche da compiere, tra gli altri, c’era il principe Alessandro I di Russia, che, se bene avesse studiato tecniche e strategie e probabilmente aveva una conoscenza teorica di gran lunga superiore a quella degli uomini di Napoleone, all’atto pratico non aveva mai combattuto, non sapeva cosa significasse cavalcare nel fango sotto i colpi d’artiglieria del nemico e non sapeva cosa significasse vedere il proprio compagno morirgli tra le braccia, annegato dal proprio sangue che lentamente gli riempiva i polmoni.

Napoleone, va detto, aveva un rapporto speciale con i propri generali, non propriamente definibile un rapporto di fiducia quanto di stima e di rispetto.

Napoleone sa che non può fidarsi di nessuno, sa perfettamente che i suoi generali lo servono fedelmente e con efficienza soltanto per il ritorno, in termini economici, politici e di prestigio, che ne hanno, e sa perfettamente che se le cose dovessero mettersi male, potrebbe ritrovarseli tutti contro, ma sa anche che quegli uomini sono dei soldati, sa che hanno un codice d’onore e sa che finché lui avrebbe tenuto fede alla parola data, loro, i suoi generali, avrebbero fatto altrettanto.

Nelle prossime sette settimane quindi, partiremo da qui, da questa dimensione di stima e diffidenza, di lealtà ed opportunismo, di carisma e fredde decisione, per guardare più da vicino, i sette migliori generali di napoleone.

Sono sette e non cinque, dieci, quindici o venti, semplicemente per una questione di tempi, e di liste precompilate, come vi anticipavo, partirò da una “classifica” che non ho elaborato io, in cui si parlava dei cinque migliori generali di Napoleone, lista alla quale ho voluto aggiungere di mia iniziativa altri due nomi, che a mio avviso meritano di essere citati.

Questi generali che ora andrò a presentarvi e che approfondiremo nelle prossime settimane, sono i “migliori” non in termini assoluti, anche perché stabilire chi è stato il migliore credo sia impossibile, tuttavia, sono i “migliori” sulla base di una semplice questione statistica, ovvero, sono i generali che hanno conseguito quelle che sono state le più grandi, inaspettate e importanti vittorie della Grand Armée.

Per intenderci, parliamo dei generali di Napoleone che hanno avuto ragione dei propri nemici ad Austerliz, Eylau, Jena, Hamburgo, Ulm, Valencia, Zaragoza, Zurigo, ecc ecc.

Il primo generale da citare è Michel Ney, detto il coraggioso, Ney è uno dei due generali che ho aggiunto io alla lista, perché è uno dei pochissimi generale di Napoleone, ad aver conseguito una vittoria significativa durante la fase di ritirata dalla Russia nel 1812. Mentre gli altri generali si ritiravano causa freddo e fame, Ney, insieme ai suoi uomini assediava e conquistava Smolensk.

Ma di Ney, che fu definito dai contemporanei come il più coraggioso tra i coraggiosi, e di cui Napoleone disse essere “indispensabile” sul campo di battaglia, parleremo la prossima settimana.

Ney guida le truppe alla conquista di Kowno in un dipinto di Denis-Auguste-Marie Raffet conservato al Museo del Louvre

Il secondo generale da citare in questa veloce rassegna di apertura, è Nicolas Jean-de-Dieu Soult che Napoleone definì “il miglior manovriero d’Europa”. Stando ai resoconti, Soult fu determinante nella vittoria bonapartista sia ad Austerlitz che a Jena, e sembra che proprio dopo Austerlitz, sia entrato nelle grazie dell’Imperatore, anche se comunque già in quell’occasione aveva servito come Generale.

Il maresciallo Soult discende, sotto gli occhi di Napoleone Bonaparte, dal colle dello Zurlan per prendere il comando dei suoi uomini all’inizio della battaglia di Austerlitz e guidare l’assalto all’altopiano del Pratzen

Il terzo generale di cui parleremo è Louis Alexandre Berthier, lui è uno dei pochissimi “figli d’arte” che incontriamo tra gli alti ranghi dell’esercito di napoleone. Berthier era figlio del tenente colonnello Jean Baptiste Berthier del corpo degli ingegneri topografici. Luis Alexander va detto che non fu l’unico Berthier a diventare un generale di Napoleone, ben tre dei suoi cinque fratelli infatti ascesero al rango di generale sotto napoleone, e qualcuno potrebbe giustamente mettere in discussione ciò che dicevamo in apertura a proposito della carriera meritocratica nella Grande Armée, se non fosse che i fratelli Berthier avevano dimostrato il proprio valore e le proprie capacità sul campo, durante la rivoluzione e servendo sotto Lunkor e La Fayette, in particolare Louis Alexandre Berthier era stato capo dello stato maggiore di Lunkor e La Fayette, ed aveva combattuto fianco a fianco, spalla a spalla, con il giovane Bonaparte.

Louis Alexandre Berthier e due dei suoi fratelli, durante una battaglia della campagna d’italia, dipinto di Louis-Francois Lejeune

Louis Gabriel Suchet, è l’altro generale che ho inserito io nella lista, lui era un uomo totalmente alieno al mondo militare, era figlio di setaioli ed è l’esempio più iconico di soldato che fa carriera sul campo, fino a diventare generale. Suchet era un volontario nell’armata repubblicana, e nel 1793 venne promosso sul campo, al rango di Tenente Colonnello, da un suo superiore che in quel momento aveva bisogno di un tenente colonnello di cui il 4 battaglione disponeva e quella che fu quasi una promozione fortuita, segnò l’inizio della carriera di un generale che si sarebbe fatto valere soprattutto in spagna, per intenderci Suchet è uno dei comandanti durante l’assedio di Tolone e durante la battaglia di Valencia. Lui è un uomo che passerà l’intera sua vita negli accampamenti e sul campo di battaglia e per questo, purtroppo, di lui ci sono giunti per lo più ritratti a matita di autori anonimi o sconosciuti.

Ritratto a matita di Louis Gabriel Suchet, realizzato sul campo, autore sconosciuto

Andrea Massena è un generale italico che servì napoleone soprattutto in italia, fu notato dal futuro imperatore soprattutto per la sua intraprendenza, elemento che in un armata “tradizionale” lo avrebbe penalizzato e probabilmente sottoposto a numerose punizioni per insubordinazione, ma per Napoleone i suoi successi e la sua fedeltà alla causa bonapartista, furono sufficienti a perdonare le iniziative della testa calda italica. Purtroppo per lui, quella stessa intraprendenza che gli aveva permesso di scalare i ranghi, fu anche la causa della sua caduta, così, dopo un sonoro fallimento in Portogallo nel 1810, la sua carriera militare, finì prematuramente e fu costretto a ritirarsi a vita privata, almeno fino al 1817, anno della sua morte.

Il generale Massena guida le sue truppe alla seconda battaglia di Zurigo, dipinto di François Bouchot .

Jean Lannes come Louis Gabriel Suchet prima di lui, è un eccellente esempio di brillante generale che non aveva nulla a che vedere con la vita militare.
Lannes era figlio di tintori e iniziala propria carriera militare come volontario della Guardia Nazionale francese, e di lui ci sarebbe così tanto, troppo, da dire. In questa sede mi limiterò a citare i suoi soprannomi, “L’Orlando dell’Armata d’Italia” e “L’Achille della Grande Armata“.
Sono due soprannomi importanti, autorevoli, che fanno riferimento alla letteratura classica e l’epica cavalleresca, e non è un caso, ma di questo ne parleremo meglio nel post dedicato a Lannes.

La battaglia di Fombio, di Giuseppe Pietro. Lannes fu uno dei comandanti francesi durante questa battaglia in italia.

Arriviamo a quello che i libri di storia annoverano come il miglior generale di Napoleone Bonaparte, ovvero Louis Nicolas Davout.
Credo che non serva specificare che quest’uomo era un generale infallibile, si dice che non abbia mai perso una battaglia, o comunque che non subì mai una sconfitta troppo dolorosa, e che dove lui combatteva la francia avrebbe trovato una vittoria.
Davout è il generale che intervenne ad Eylau nel 1807 quando ormai sembrava tutto perduto e riuscì a trasformare una certa sconfitta in una sorta di pareggio, che è considerato da molti come un incredibile successo visto l’inizio disastroso dello scontro.

Ritratto di Davout, Pierre Gautherot

Questi sono quelli che i libri di storia ricordano come alcuni dei più grandi e importanti generali di Napoleone Bonaparte, da questa prima, superficiale introduzione, abbiamo già avuto un assaggio di quanto questi uomini siano stati straordinari e come, il loro ruolo nella storia, sconosciuto ai più è stato in realtà determinante per la consacrazione dell’imperatore Francese.
Napoleone probabilmente non sarebbe nulla senza i suoi generali, e come questi stessi generali ci hanno insegnato, loro stessi non sarebbero stati nulla, senza gli uomini che li seguivano, uomini che, nella maggior parte dei casi erano volontari, figli di contadini, mugnai, fabbri, tintori, e che, si erano arruolati nella Grande Armée, spinti dal sogno di libertà e dalla promessa che forse, un giorno, sarebbero diventati grandi e potenti, come alcuni di quei generali, che certo non venivano da nobili famiglie.

Uomini come Davout hanno contribuito a consegnare a Napoleone importanti vittorie, ma allo stesso tempo, uomini come Lannes, hanno contribuito a consegnare a Napoleone un immenso esercito, con cui, Lannes, Davout e lo stesso Napoleone avrebbero potuto conquistare l’Europa.

Ed è importante sottolineare e ricordare che il modello a cui ambivano i volontari di napoleone, l’uomo con cui si immedesimavano, non era l’imperatore che comunque veniva da una buona famiglia, ma erano uomini come Lannes e Suchet, di fatto uomini comuni che avevano raggiunto il potere solo grazie alle proprie capacità.

Chi era Leopoldo II del Belgio ?

Leopoldo II del Belgio è un re dal doppio volto, apparentemente illuminato in europa, ma demoniaco in Africa

Leopoldo II del Belgio, nato Leopoldo Luigi Filippo Maria Vittori di Sassonia-Coburgo-Gotha, principe del Belgio, duca di Brabante e re dei Belgi, dal 10 dicembre 1865 al 17 dicembre 1909.

Leopoldo II del Belgio era il secondo figlio di Leopoldo del Belgio, il primo re del Belgio e soprattutto dei Belgi, e di conseguenza era un cugino, da lato materno della regina Vittoria e dal lato paterno, era anche cugino del principe consorte Alberto, marito di Victoria, e proprio durante il regno di sua cugina, trovò rifugio in Inghilterra, quando nel 1848, suo nonno, Luigi Filippo duca d’Orleans e re dei Francesi, venne deposto nel contesto della seconda rivoluzione Francese.

Il re dei Belgi

Leopoldo II del Belgio è quindi un uomo totalmente immerso nella storia del proprio tempo, conosce perfettamente le dinamiche, gli equilibri e le meccaniche dell’europa del secondo XIX secolo, e quando, nel 1865 succedette a suo padre al trono del Belgio come re dei Belgi, fu, in un certo qual’modo, costretto ad essere un re al passo con i tempi.

Aveva appreso dalla permanenza britannica i segreti per la sopravvivenza e il mantenimento della corona, ed aveva appreso dalla giovanile permanenza in francia, e da suo nonno, gli errori da non commettere se si voleva restare sul trono, inoltre, aveva appreso da suo padre, l’importanza di costruire una solida rete di alleanza internazionali, tali da rendere anche un piccolo regno come quello del Belgio, centrale nello scacchiere europeo e internazionale.

Leopoldo aveva tutte le carte in regola per essere, in europa, un grande e brillante sovrano, potremmo quasi definirlo un sovrano illuminato, che , proprio grazie alle proprie alleanze e parentele, sarebbe riuscito, nel 1884-85, durante la conferenza dell’Africa occidentale, a Berlino nota anche come conferenza di Berlino, ad ottenere per se, un piccolo pezzo d’Africa, durante il processo di ripartizione continentale tra le potenze europee.

Il re del Congo

Nel 1885 Leopoldo II del Belgio assume sulla propria testa una seconda corona, la corona di re del Belgio.

Già nella dicitura possiamo individuare un interpretazione monarchica differente rispetto alla corona belga, in Belgio Leopoldo era Re dei Belgi, per volontà del popolo del Belgio, in Congo invece, adottava una dicitura antica, quella di Re del Congo, una dicitura propria dell’ancient regime e delle monarchie assolute svanite con la rivoluzione Francese e successivamente congresso di Vienna (nel caso britannico, con la gloriosa rivoluzione e in Russia con la rivoluzione di febbraio). Insomma, una dicitura che era stata spazzata via dall’Europa con insurrezioni, rivolte, e fiumi di sangue, ma l’Africa non era Europa, l’Africa era un mondo a se, e lì, i nobili principi del mondo moderno, vennero presto a mancare.

L’imperialismo ottocentesco non appartiene solo a Leopoldo del Belgio, ma viene praticato, in maniera violenta e a tratti spietata un po’ da tutte le potenze europee, tuttavia, nel Congo di Leopoldo, ci si spinse forse un po’ troppo oltre, raggiungendo un livello di crudeltà e disumanità, che nella storia può essere associato soltanto al III Reich.

Il regno di Leopoldo I del Congo, rappresenta uno dei capitoli più cruenti, oscuri, violenti e vergognosi della storia dell’intera umanità e fu caratterizzato da una politica interna terrificante e disumana che si spinse oltre ogni limite e ogni immaginazione.

Gli orrori di Leopoldo in Congo

Mutilazioni, umiliazioni, stupri, decimazioni ecc vennero usati come strumenti punitivi, nei confronti della popolazione indigena del Congo, una popolazione che fu totalmente ridotta in schiavitù, attraverso la pratica di quello che oggi è noto come colonialismo privato, ovvero la concessione di licenze di sfruttamento territoriale a privati investitori che, in possesso di quella licenza assumevano pieni diritti sulla terra, entro certi confini stabiliti d’ufficio, e tutto ciò che si trovasse entro quei confini.

Questo tipo di colonialismo, alimentato dall’avidità del re e dei colonizzatori, ebbe come principale effetto, la reintroduzione della schiavitù in Congo, che si tradusse immediatamente in condizioni di vita e di lavoro al limite.

I colonizzatori privati di Leopoldo scoprirono ben presto che la paura era uno strumento estremamente efficace per aumentare la produttività dei propri schiavi e che, più crudeli erano le punizioni inflitte, minori erano le diserzioni, e l’unico effetto collaterale era un elevato tasso di mortalità, che però, era soppiantato da una riserva di schiavi, quasi illimitata.

Tra il 1885 e il 1909 la situazione del Congo è indescrivibile, e la popolazione indigena perde ogni tratto di umanità, poiché ridotti alla fame, costretti al lavoro continuo, perennemente incatenati, e sistematicamente mutilati e decimati.

L’apice della crudeltà venne raggiunta quando alcune compagnie coloniali svilupparono un metodo di controllo sulla popolazione indigena che consisteva nel creare coppie di lavoro, due uomini venivano incatenati insieme e se uno dei due non lavorava al giusto ritmo, l’altro era obbligato a punirlo. Queste fustigazioni avvenivano in pubblico, e purtroppo, rappresentavano solo l’inizio, di un lungo viaggio all’inferno.

Gli schiavi vennero sistematicamente mutilati e decimate, le donne vennero sistematicamente stuprate e vendute come oggetti di piacere se erano fortunate… se non lo erano, il loro destino era quello di diventare mettere al mondo nuovi figli, per alimentare le fila di lavoratori.

Nel caso non fosse chiaro cosa significa, stiamo parlando di allevamenti intensivi di schiavi, in cui le donne venivano stuprate e costrette a partorire bambini destinati a diventare schiavi. Schiavi che avrebbero iniziato a lavorare nei campi di gomma, o come servitori nelle residenze private, appena ne avessero avuto la capacità fisica, parliamo di schiavi bambini di cinque o sei anni al massimo, e di bambine stuprate al primo mestruo.

Questo è il Congo di Leopoldo I del Congo, e non c’è da stupirsi se alla sua morte la corona del Congo sarebbe svanita e il suo successore in Belgio, Alberto I del Belgio, nipote di Lopoldo II e figlio di Filippo del Belgio (terzogenito di Leopoldo I) avrebbe preso totalmente le distanze dal regno e dalla politica di suo zio, e durante la I guerra mondiale, avrebbe dichiarato il Belgio neutrale, poiché, a suo dire, di orrore e di sangue, la corona belga ne aveva già versato troppo.

Per approfondire

G. Piccolino, Vive la civilisation! Re Leopoldo e il suo Congo, https://amzn.to/320uaHw
M.Camargo Milani , Genocídio no Congo: Leopoldo II, o Imperialismo e o Holocausto Africano ( 1885-1908), https://amzn.to/2PrZrAu
M.Twain, Soliloquio di re Leopoldo. Apologia del suo ruolo in Congo, https://amzn.to/2N2oXuF
E.Hobsbawm, L’età degli imperi (1875-1914), https://amzn.to/2JzSx8y
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Chi ha inventato il Gabinetto?

John Harrington è considerato il padre del moderno Water Closet, ma tra il gabinetto di Harrington al gabinetto Water, ne è passata di acqua … nei canali di scolo

John Harrington è considerato il padre del moderno Water Closet, ma tra il gabinetto di Harrington al gabinetto Water, ne è passata di acqua … nei canali di scolo

La verità è che parlare della storia degli oggetti non è mai semplice e il più delle volte non abbiamo a che fare con un vero e proprio inventore, ma piuttosto con una serie di evoluzioni che, nel corso dei secoli, hanno portato, in questo caso, una buca nel terreno a diventare un trono in ceramica, presente in ogni casa del pianeta.

Questa è la storia del gabinetto, o per meglio dire, del gabinetto da bagno, della tazza, del water closet o wc, della toilette, scegliete pure il termine che preferite.

Faccio una premessa, in questa sede parlerò solo del gabinetto igienico, e non del gabinetto istituzionale, ma se vi interessa ho pubblicato un video su youtube in cui riassumo la storia di entrambi, nel tentativo di capire come, quando e perché lo stesso termine è stato associato alle più alte cariche del governo e ad una stanza che ha a che fare con operazioni fisiologiche e quotidiane
Vi lascio di seguito il video, se volete guardatelo e poi ci rivediamo qui, con la storia del gabinetto.

Come anticipavo nell’introduzione, parlando del gabinetto è difficile, se non impossibile stabilire chi sia il vero padre di questa invenzione, principalmente perché la sua funzione è quella di permettere a noi esseri umani di defecare in tranquillità, e come ogni altra creatura vivente, gli esseri umani, fanno la cacca da sempre, e la facevano anche prima che venisse inventato il gabinetto.

Prima della tazza moderna vi erano altri congegni, e prima ancora vi erano le latrine, prima ancora si utilizzavano dei buchi nel terreno e prima ancora, ci si nascondeva dietro una roccia o un cespuglio.

Se quindi intendiamo gabinetto nella sua accezione più ampia, ovvero quella di luogo in cui defecare, allora non possiamo parlare di una vera e propria invenzione, ma al massimo citare gli uomini che hanno permesso la sua evoluzione, se invece parliamo del gabinetto moderno, nella forma moderna, ovvero di un vaso in ceramica o metallo o legno, che si trova in casa e che, tramite una serie di tubi idraulici ed acqua, sfruttando la pressione idraulica, permette di trasportare i liquami al di fuori della casa, fino ad un pozzo nero o ad una rete fognaria, allora la storia è decisamente più chiara.

Partiamo quindi dalle origini, è il 1596 e l’ingegnere britannico Sir John Harington, figlioccio della regina Elisabetta I d’Inghilterra, pubblica un opera intitolata Metamorfosi di Aiace in cui viene descritto tra gli altri, il progetto di un congegno fornito da due serbatoi, il primo, più grande, era un serbatoio a torre, contenente dell’acqua ed nel progetto prende il nome di Water Closet.

Questo primo serbatoio era collegato ad un secondo serbatoio più piccolo attraverso un tubo che poteva essere aperto con un rubinetto e, una volta aperto, permetteva all’acqua di affluire dal primo al secondo serbatoio, per poi defluire all’interno di un pozzo nero posizionato più in basso rispetto ai due serbatoi. Questo secondo passaggio era controllato dalla presenza di una botola a valvola che si apriva automaticamente, grazie al peso dell’acqua, solo quando il secondo serbatoio era pieno.

Questo progetto è sicuramente molto importante, e per molti rappresenta la nascita del gabinetto moderno, tuttavia, all’atto pratico, siamo ancora molto lontani da quello che è il moderno Water e il progetto di Harrington appare più come una via di mezzo tra un bagno turco ed una tradizionale latrina che con i servizi igienici più moderni.

Nel XVIII secolo il progetto di Harrington comunque verrà ripreso e rielaborato diverse volte, per essere più precisi, dall’ingegnere francese Jacques-François Blondel nel 1732, dall’ingegnere britannico Joseph Bramah nel 1772 e dall’ingegnere scozzese Alexander Cummings nel 1775.

Le modifiche più significative sono quelle apportate da Bramah e Cummings che introdussero rispettivamente una rete idraulica che permetteva di portare i liquami all’esterno e acque chiare al serbatoio, così da poterlo ricaricare con semplicità, e successivamente, Cumming, sfruttando la rete di ingresso, introdusse un sifone a valvola che garantiva una presenza di acqua nel vaso sanitario e nelle tubature che lo collegavano alla rete fognaria o al pozzo nero, eliminando così il problema della puzza che persisteva fin dall’invenzione di Harrington e che rappresentava il più grande ostacolo alla presenza di un Water in casa.

Grazie a Blondel , Bramah e Cumming il gabinetto assume la forma e la meccanica del gabinetto moderno e, proprio con Bramah, il termine gabinetto viene associato a quello del Water, poiché luogo di destinazione dei suoi Water era proprio la sala del gabinetto, una piccola stanza adibita ad uso privato, che, dalla fine del XVIII secolo inizia ad accogliere il Water e la vasca da bagno, quando presente, donando così al termine Gabinetto (dal francese Cabinet = piccola cabina/stanza) il significato di sala da bagno e delle attività per la cura dell’igiene personale.

Se invece volete sapere quando il termine Gabinetto è stato associato alla politica, vi rimando al video pubblicato sul canale youtube.

Bianca Maria Visconti, la Signora di Milano

Biancamaria Visconti, unica erede di Filippo Maria visconti, duca di Milano, sposa del signore della guerra Francesco Sforza e madre del duca e signore della guerra, Galeazzo Maria Sforza. Chi era davvero Biancamaria Visconti? Questa è la sua storia.

L’8 Agosto 1452 Bianca Maria Visconte, scrive al marito, Francesco Sforza, in quel momento impegnato in battaglia nel bresciano, mentre lei è impegnata a Milano, a reggere il governo della città e nel mentre, partoriva il suo quartogenito.

Nella lettera scrive queste parole

“Ho aparturito uno bello fiolo”, ho scelto per lui “certi nomi de santi che ho in devotione”, ma lascio a voi l’ultima parola e vi raccomando di scegliere un bel nome, perché il neonato è proprio bruttino: “pur prego la vostra illustre signoria che se degni de pensare de metergli uno bello nome acciò che’l suplisca in parte ala figura del puto che è il più sozo de tuti li altri. De fronte et dela bocha el someglia mi et dela parucca el somiglia la signoria vostra, siché podeti pensare come el debe essere bello!”, aggiunge poi, quando lo vedrete, però, vi piacerà lo stesso e “non vi parrà troppo deforme”.

Ne segue uno scambio epistolare sulla scelta del nome del nascituro, per Francesco Sforza il nome del pargolo dovrebbe essere Carlo, anche perché in quel momento, nel Bresciano, al campo di Francesco Sforza, c’era Carlo VII, da poco asceso al rango di Re di Francia, ma, per Bianca Maria, Carlo non era un nome adeguato, anche perché in quanto Visconte, aveva una tradizione familiare ghibellina e non pochi antichi rancori con la casa d’Angiò, di cui Carlo VII era un esponente, e così, dopo non poche lettere, la signora di Milano, riuscì a convince il marito a scegliere un nome diverso per il figlio quartogenito, con tutto ciò che ne sarebbe conseguito, dal perdere l’importante alleanza con la Francia, ma di contro, nel 1464, all’età di dodici anni, il giovane Sforza Maria Sforza, ricevette in dono il ducato di Bari da Ferdinando I di Napoli .
Di fronte a tale ironia, di fronte a tale genio, di fronte a tale determinazione e fermezza, ma anche tanta tenerezza, ho deciso di parlarvi di lei, di Biancamaria Visconti, duchessa di Milano dal 1450 al 1468, anno della sua morte per malattia.

La lettera è oggi conservata presso l’ASMi, Sforzesco, PS, 1452, edita in

G.Lopez, Una signora fra due epoche, in Gli Sforza a Milano, Milano, 1978, pp 7-10, https://amzn.to/2PrtUhQ
G.Lopez, I Signori di Milano. Dai Visconti agli Sforza. Storia e segreti, https://amzn.to/32MtQNC

Leggi anche,
D.Pizzagalli, La signora di Milano, https://amzn.to/2onONzC

Tutto sommato “non” era “solo” un altro muro nel mondo.

Il muro di Berlino, 1961-1989, la storia di un mostro di cemento che nel cuore dell’europa ha divorato oltre 600 vite e diviso in due il mondo per oltre un quarto di secolo.

Quando fu e perché fu costruito il Muro di Berlino?
Quanto era alto, dove si trova, quante persone hanno provato a superarlo e quante hanno perso la vita provando a raggiungere l’altra parte?
In quanti lavorarono alla costruzione del muro, e in quanti lavoravano alla sorveglianza del muro?

Siamo davvero sicuri che questi dati abbiano una qualche importanza?

In fondo queste informazioni ci dicono solo che quel muro, era solo un muro di frontiera, ben fortificato, e che divideva in due una città, ma questo lo sapevamo già, era implicito nel suo nome, “muro di Berlino”.

Quello che queste informazioni, da sole, non ci dicono, è cosa quel muro era realmente, cosa rappresentava per chi viveva in quella città, e per chi viveva fuori da quella città. Non ci dice cosa rappresentava quel muro per chi viveva da una parte o dall’altra della striscia della morte, dalla parte giusta o dalla parte sbagliata del muro… e quale che fosse la parte giusta o sbagliata, forse non lo sapremo mai, e in realtà in termini storici, neanche ci interessa saperlo.

Una cosa è certa, trent’anni fa, il 30 novembre 1989, quel muro veniva abbattuto e la sua caduta, è stata forse l’episodio più importante del XX secolo, forse seconda solo alla fine della seconda guerra mondiale, o forse, ha rappresentato la vera fine della seconda guerra mondiale.

Ma comunque, se sono i numeri, nudi e crudi, quello che volete, eccovi serviti.

Il muro era alto 3,6 metri, fu costruito in più tornate tra il 1961 e 1975, per essere più precisi, venne costruito un primo muro al confine tra Berlino Est e Berlino Ovest nel 1961, poi rinnovato nel 1965. Più all’interno, di circa dieci metri rispetto al muro del 1961, nel 1962 venne costruito un secondo muro, poi rinnovato nel 1965.

I due, insieme delineavano il confine “orientale” e quello “occidentale” della “striscia della morte” un corridoio largo meno di dieci metri che si estendeva attorno Berlino Ovest per oltre 150Km. Il suo nome non lascia molto spazio all’immaginazione, chiunque vi mettesse piede, senza autorizzazione, andava incontro alla morte.

Il muro, ospitava circa 13 passaggi, nove dei quali collegavano Berlino Ovest a Berlino Est, i restanti quattro collegavano Berlino Ovest alla Repubblica Democratica Tedesca (RDT).

I varchi, così come tutta la muraglia erano presidiati e sorvegliati a vista, ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, da circa mille guardie di frontiera e trecento unità cinofile, coadiuvate da più di seicento cecchini, perennemente di guardia sulle oltre trecento torri di guardia. E per non farsi mancare nulla, la “death Strip” era perennemente illuminata, circondata da diversi chilometri di filo spinato ed ospitava un fossato anticarro.

Il muro era stato costruito per impedire alla popolazione tedesca ella RDT di raggiungere Berlino Ovest e da lì fuggire verso la RFT (repubblica federale tedesca), e bisogna dire che assolse egregiamente al proprio compito, poiché tra il 1961, anno della costruzione del muro e il 1989, anno della caduta del muro, solo 5000 persone riuscirono a fuggire, molti dei quali tra il 13 ed il 15 agosto 1961, quando il muro era ancora poco più che una recinzione in filo spinato. Purtroppo, va segnalato che, nel tentativo di fuggire, circa 600 persero la vita tra il ’61 ed l’89.

Va precisato che, nel periodo immediatamente precedente la costruzione del muro, tra il 1958 ed il 1961, circa 2,5 milioni di persone, lasciarono la RDT, sfruttando il ponte aereo che collegava Berlino Ovest alla RFT e il mondo occidentale.

Non conosciamo il costo complessivo del muro, sappiamo però che l’ultimo ammodernamento, del 1975, costò al governo della RDT, circa 16 Milioni di Marchi, l’equivalente di circa 50 milioni di € del 2015.

Se questi dati non vi bastano, vi consiglio di recuperare il video associato a questo post, in cui oltre ai dati nudi e crudi, vi spiego anche cosa ha portato a determinate scelte e qual’era il clima internazionale quando determinate scelte vennero prese.

Vi consiglio inoltre la lettura dell’antologia “Non si può dividere il cielo. Storie dal muro di Berlino” curata da Gianluca Falanga https://amzn.to/2BDCLFe e dei saggi, Ulrich Mählert, La DDR. Una storia breve 1949-1989 | https://amzn.to/2oZ7iuB, Gianluca Falanga, Il ministero della paranoia. Storia della Stasi | https://amzn.to/2WaToS9
Anna Funder, C’era una volta la DDR | https://amzn.to/2oeIazs, Garton Ash, Timothy, Il dossier | https://amzn.to/2JjkYaI

Cintura di Castità Medievale, la vera storia del falso storico

La cintura di castità medievale è un falso storico, di cui non si hanno fonti certe nel medioevo e il più antico riferimento a noi noto, risale al 1405, mentre la cintura più antica a noi nota è datata 1840

La cintura di castità medievale è uno dei falsi storici meglio documentati, noi oggi sappiamo perfettamente che i cavalieri e nobili del medioevo, non costringevano le proprie donne ad indossare questo strumento, ma c’è qualcosa di strano nella sua storia, una storia controversa e ricca di contraddizioni, una storia giunta fino a noi attraverso la tradizione orale, e che forse, nasconde ancora qualche segreto.

Cerchiamo allora di capire cosa si nasconde dietro la cintura di castità, o meglio, dietro il falso storico della cintura di castità medievale.

Da quel che sappiamo, fatta eccezione per opere letterarie da cui non siamo in grado di capire se si tratti di un oggetto reale o solo di un elemento folkloristico e di fantasia, il più antico documento che fa riferimento alla cintura di castità, è il compendio di tecnologia militare contemporanea dell’ingegnere militare tedesco Konrad Kyeser dal titolo Bellifortis, del 1405.

Kyeser nel suo compendio fa riferimento ad uno strumento in metallo, che chiama Congegno Fiorentino e che, stando alle informazioni in suo possesso, era fatto indossare dai Cavalieri e Mercanti fiorentini, alle proprie donne, quando partivano per lunghi viaggi di affari o per la guerra. Il congegno descritto da Kyeser è una cintura di castità a tutti gli effetti, tuttavia, lo stesso Kyeser ci dice che non ne ha mai visto uno e che le sue informazioni si basano esclusivamente su quanto riportato oralmente da alcuni militari con cui ha avuto contatto.

Congegno Fiorentino, raffigurato nel Bellifortis di Konrad Kyeser, anno 1405.

Prima di Kyeser non abbiamo praticamente nessun riferimento storico alla cintura di castità o di altri strumenti con funzioni analoghe ma nomi diversi, dopo la “pubblicazione” del Bellifortis tuttavia, il congegno fiorentino, appare più frequentemente, oltre che nelle opere di fantasia, anche nelle cronache, tuttavia, questi riferimenti non sono accompagnati da alcun manufatto.

Detto più semplicemente, tutti ne parlano, ma nessuno ne ha mai visto uno.

A partire dal XVI e in modo particolare nel XVII iniziamo ad incontrare riferimenti ad altre cinture, con forme diverse da quella descritta da Keyser e che non sono legate alla città di firenze, in particolare, nel XVII secolo, incontriamo i primi manoscritti in cui si fa riferimento alla Cintura Veneziana.

Riproduzione del XIX secolo di una Cintura Veneziana del XVII secolo

Diversamente dal congegno fiorentino, la cintura veneziana è molto più leggera, meno ingombrante, secondo le fonti del XVI secolo, erano in cuoio e metallo, riprendendo uno stile molto simile a quello delle ipotetiche cinture di castità del mondo antico, che, secondo la tradizione orale, erano interamente in tessuto o al massimo in cuoio. Secondo le fonti del XVII secolo invece, le cinture fiorentine erano interamente in metallo.

In entrambi i casi, i due fori presenti sulla cintura, che avevano il compito di permettere a chi la indossava di urinare e defecare, erano “decorati” con una dentellatura che, oltre a donare una texture particolare alle feci, rendeva sconveniente ed estremamente doloroso, introdurre qualsiasi cosa, in entrambe le aperture.

Confrontando la cintura fiorentina e quella veneziana possiamo inoltre osservare che, la cintura fiorentina descritta da Keyser, non precludeva in alcun modo, eventuali pratiche anali, diversamente dal congegno veneziano.

Come per la cintura fiorentina però, anche della cintura veneziana, oltre a qualche riferimento letterario, non se ne hanno tracce e la più antica cintura di castità “medievale” mai ritrovata, che secondo la tradizione era appartenuta a Caterina de Medici, e che per molto tempo si è creduto essere una cintura del XVI secolo, in realtà, si è scoperto essere stata forgiata non prima del 1840.

Concludendo, la tradizione orale ci racconta di cinture diffuse in tutto il medioevo e in tutta europa, le fonti documentano una possibile diffusione di cinture, limitate alla zona di firenze, a partire dal 1405, praticamente l’ultimissima fase del medioevo, e la più antica cintura mai trovata, che secondo la tradizione risalirebbe all’età moderna, è una cintura del XIX secolo.

L’ipotesi più probabile è che, nel medioevo e probabilmente anche nel mondo antico, fossero in uso si delle cinture di castità, ma che queste, avessero un ruolo prevalentemente simbolico, probabilmente delle fasce in cuoio o in tessuto, oggetti che non avevano alcun potere costrittivo su chi le indossava e anzi, che molto probabilmente potevano essere “sfilate” come delle comuni, moderne mutandine, tuttavia, nel XIX secolo, il desiderio di dipingere il mondo medievale come primitivo e la richiesta di oggetti di antiquariato da parte dell’alta borghesia, ha portato mercanti d’arte e artigiani, a produrre e forgiare falsi oggetti antichi, così da soddisfare la richiesta di antiquariato proveniente da un mondo ormai perduto.

La caduta del muro di Berlino – 9 Novembre 1989

9 Novembre 1989, una data storica, oserei dire, epocale, la data della fine di un simbolo, la data della fine di un mondo, la data dell’a fine di un epoca e dell’inizio di un sogno… o almeno, così sembrava.

“Mr Gorbachev, open this poll. Mr Gorbachev, open this gate. Mr Gorbachev, tear down this wall.”

9 Novembre 1989, una data storica, oserei dire, epocale, la data della fine di un simbolo, la data della fine di un mondo, la data dell’a fine di un epoca e dell’inizio di un sogno… o almeno, così sembrava.

Il 9 novembre 1989 cadeva per sempre il muro di Berlino, mettendo fine alla divisione della Germania in due nazioni, separate e dando il via, alla fine del dualismo del mondo occidentale contro quello sovietico.

Come dicevo, quel muro era più che un semplice muro, più di una comune linea di frontiera fortificata, ma era anche un simbolo, sia ad occidente che ad oriente.

Per gli occidentali il muro di Berlino era il muro della vergogna, innalzato dal regime sovietico per impedire ai propri cittadini, di scegliere liberamente il mondo in cui vivere.

Per i sovietici era invece l’ultimo baluardo, tangibile, contro il fascio-capitalismo americano, che millantava libertà e democrazia e nascondeva la propria vera indole, di macchina mortale produttrice di autentica povertà e miseria assoluta, e minacciava il vero mondo libero, quello sovietico.

La guerra fredda in fondo era anche e soprattutto questo, uno scontro di civiltà tra due visioni del mondo, entrambe fallate, espressione di due superpotenze che si professavano garanti di un autentica libertà contro le insidie e le minacce dei propri “nemici”, ed figli della stessa madre, l’illuminismo.

Due mondi, due fratelli separati da tempo, e che con Regan e Gorbaciv riuscirono finalmente ad incontrarsi, al suono pungente delle parole di Regan “Mr Gorbachev, open this poll. Mr Gorbachev, open this gate. Mr Gorbachev, tear down this wall.”

Ma purtroppo, non è tutto oro quello che luccica e il periodo di pace e prosperità per il mondo, che sembrava delinearsi con l’imminente fine della guerra fredda ed una crescente cooperazione tra le due superpotenze nate dalla seconda guerra mondiale, sarebbe durato poco meno di un decennio, ed oggi, trent’anni dopo l’abbattimento di quel muro, il mondo è ancora una volta diviso e sull’orlo di un conflitto imminente e terrificante.

USA si preparano ad azione militare contro la Turchia

Il dado sembra essere tratto, gli USA sembrano pronti ad un offensiva militare contro la Turchia e come volevasi dimostrare, ora che Mike Pompeo (segretario di stato USA) ha annunciato la possibilità di un azione militare statunitense approvata dal presidente Trump, le stesse persone che, appena dieci giorni fa, criticavano Trum e gli USA per aver “abbandonato e tradito i curdi” ora usano la parola Imperialismo per attaccare gli USA (continuando invece a tacere sulla politica imperialista della Russia).

Al di la delle contraddizioni degli anti-americani a cui non importa cosa effettivamente facciano gli USA, perché qualunque cosa facciano, sono in difetto, l’ipotetica e probabile azione contro la Turchia porta con se una fitta rete di conseguenze e rischia di mettere in crisi i già precari equilibri della NATO, di cui la Turchia fa parte fin dal 1952 anno della morte di Stalin e del test nucleare statunitense nell’atollo di Bikini.

Forse, prima di passare ad azioni militari, sarebbe opportuno provare a trovare soluzioni diplomatiche, e anche se Erdogan sembra non conoscere altro linguaggio che quello delle armi, sono abbastanza sicuro che non resisterebbe a lungo ad un embargo prolungato da parte delle Nazioni Unite. Certo, per un embargo totale servirebbe l’OK dell’ONU e in effetti l’ONU ha già provato a percorrere questa strada… ricordiamo che, neanche una settimana fa, l’ONU ha proposto di sanzionare la Turchia, con un embargo totale da parte dell’ONU, come previsto dall’articolo 41 dello statuto delle nazioni unite, e che la Russia ha esercitato il diritto di veto, impedendo all’ONU di intervenire.

L’ho detto e lo ripeto, stiamo assistendo ad un innaturale escalation di violenza ed uno spettacolo pietoso, di imperialismo Russo che prova a sostituirsi a quello americano, che mette in discussione il ruolo dell’ONU nel mondo, ed ora, con un possibile intervento contro la Turchia, sembra delinearsi all’orizzonte anche la fine della NATO.

Speravo in una presa di posizione dell’Europa, ma tanto per cambiare l’europa continua a comportarsi come il locandiere del vecchio West, e non si preoccupa di cosa accade fuori dalla locanda.

Nel frattempo però, fuori dalla locanda, gli USA continuano a comportarsi da sceriffo che si è appuntato da solo la spilla sul petto, ma lo sappiamo tutti che quello sceriffo è in realtà un uomo della ferrovia, e ora, a complicare la situazione, c’è la Russia che gioca il ruolo del capo dei banditi e vuole fare lo sceriffo.

E mentre il vero sceriffo, quello legittimo, l’ONU, continua a stare chissà dove, sepolto nel deserto fino al collo, con le mani legate dietro la schiena, mentre un avvoltoio volteggia sulla sua testa e qualche sciacallo non aspetta altro che un pretesto per smembrarlo e scopargli il cranio, fuori in strada, gli uomini della ferrovia e i banditi, continuano impunemente a saccheggiare i villaggi vicini e occupare la terra dei pellerossa, che in questo particolare scenario da vecchio West, vestono i panni del popolo curdo.

Ah, dimenticavo, l’intervento militare degli USA contro la Turchia, non è ancora chiaro se avverrà come azione della NATO o come azione indipendente degli USA, anche perché ricordiamo che la Turchia è un membro della NATO e questa sarebbe la prima volta nella storia che un paese NATO verrebbe attaccato da altri paesi NATO.

Che sia l’inizio della fine del patto atlantico? e se si, cosa verrà dopo?

Forse è il caso che l’Europa ponderi bene le proprie azioni, e che lo faccia in fretta, perché il tramonto della NATO lascerebbe un enorme vuoto di potere nel mondo che qualcuno dovrà riempire, e al momento, l’Europa e la Cina sono i principali candidati, ma è anche vero che la Cina non sembra interessata a ricoprire quel ruolo, mentre la Russia non aspetta altro.

Personalmente auspico un ascesa dell’Europa, ma non so quanto, in questo dato momento storico, questo desiderio possa essere realizzato da un organizzazione oggettivamente debole, ma con un enorme potenziale inespresso. Detto in soldoni, vorrei che l’Europa smettesse di girare attorno ai problemi e si decidesse, finalmente, ad affrontarli, con una politica estera comune e soprattutto con la nascita di una Comunità Europea per la Difesa, che porti a compimento quello che l’europa ha iniziato (e mai portato a termine) con la CED negli anni cinquanta.

All’epoca la CED appariva come un inutile alternativa alla NATO, ma senza gli USA, e andava in conflitto con la politica coloniale di Francia e Regno Unito, ma ora che non ci sono più le colonie e che gli USA sembrano essere sempre più interessati a scaricare la NATO, direi che le condizioni per la creazione di una nuova CED ci sono… il problema è che manca la volontà.

Dalla Dea Vesta alla vergine Maria nella civiltà romana

Il culto di Vesta è uno dei più antichi di Roma, che addirittura precede la nascita di Roma, e si lega ad uno dei miti dell’origine della città.

Secondo la tradizione, Rea Silvia, madre di Romolo, era una sacerdotessa vestale di Albalonga e, secondo Tito Livio, il culto romano della dea Vesta, istituito da re Numa, deriva direttamente dal culto di Albalonga.

Le Vergini Sacre – dal culto di vesta al cuore immacolato di Maria

Sorvoliamo sul fatto che le sacerdotesse di Vesta erano considerate “vergini sacre” e il fatto che, una di queste vergini abbia messo al mondo due figli è abbastanza anomalo per una vergine, ma sul piano mitologico è un elemento ricorrente (ricordiamo che anche il cattolicesimo racconta di un bambino nato da una vergine).

Per completezza, secondo il culto romano della dea Vesta, le sacerdotesse che perdevano la verginità o lasciavano spegnere il fuoco sacro della dea, venivano frustate, vestita di abiti funebri e portata in una lettiga chiusa, come un cadavere, venivano condotte al Campus sceleratus, presso la Porta Collina del Quirinale (entro le mura) e lì, venivano praticamente sepolte vive. Venivano fatte entrare in un sepolcro, fornito di pane, acqua, olio e latte, dal quale però le donne non potevano uscire, anche perché l’ingresso veniva murato.

Per par-condicio, il complice dell’incestus, ovvero l’uomo che si era accompagnato alla sacerdotessa, subiva invece la pena degli schiavi ovvero, fustigazione fino alla morte.

La cosa curiosa è che questa stessa pena era riservata, secondo il culto di Albalonga, alle Vestali, e dunque, in teoria è la pena che sarebbe spettata a Rea Silvia, la madre di Romolo, se non fosse fosse riuscita a fuggire e se non avesse affidato alla Lupa i propri figli, ma questa è un altra storia.

Rea Silvia e il dio Marte (dipinto di Pieter Paul Rubens)

Tornando invece alle vestali romane.

La cosa davvero interessante di questo culto è che è stato ripreso in tutte le “rinascite” di Roma.

Roma è una città particolare, che ha decisamente troppi miti delle origini, ma anche numerose rinascite.

La prima Roma è una Monarchia, la seconda Roma una repubblica e la terza Roma un impero, ed ogni volta che Roma è rinata e si è riorganizzata, ha portato con se un pezzo del mondo precedente, ed una nuova mitologia delle origini e, quasi per caso, ogni volta le origini della nuova Roma, si sono legate al culto di Vesta.

Mi spiego meglio, secondo uno dei miti della fondazione, Romolo era figlio di una sacerdotessa di Vesta, quando i re di Roma vennero cacciati e roma divenne una Repubblica, coloro che cacciarono i Tarquini da Roma e diedero origine alla Repubblica, erano devoti alla dea Vesta, dea che, per lungo tempo, è stata protettrice della repubblica e degli elettori romani, al punto che, alcune monete del primo secolo, ancora raffiguravano da un lato una sacerdotesse di Vesta e dall’altro, un elettore romano nell’atto del voto. E se due episodi possono sembrare una coincidenza, con la nascita dell’Impero, le coincidenze diventano tre, e iniziano ad essere sospette.

Proprio così, il culto della dea Vesta, viene ripreso nella mitologia del racconto delle origini, anche con la nascita dell’impero. Secondo la tradizione infatti, l’Imperatore Augusto, pochi mesi prima di morire, redasse il proprio testamento, insieme ad altri due rotoli e li consegno sigillati alle sacerdotesse di Vesta.

Può sembrare un qualcosa di marginale, se non fosse che quei due rotoli erano la “Res gestae divi Augusti” praticamente l’autobiografia di Ottaviano Augusto e delle proprie gesta, e nel terzo, nel proprio testamento, Augusto lasciava in eredità il proprio tesoro, le proprie terre, i propri titoli e il proprio potere a Tiberio dando formalmente inizio alla lunga successione imperiale, nota come dinastia Giulio-Claudia.

Il culto di Vesta ha accompagnato la nascita di Roma per ben tre volte, in età romana, ma forse ha fatto molto di più.
Come accennavo, vi sono non poche affinità tra la figura di Rea Silvia e la vergine Maria, così come vi sono moltissime affinità tra la percezione della sessualità e della donna, nel mondo Cristiano (in tutte le sue evoluzioni) soprattutto in età medievale e moderna, e nel mondo Islamico che, ricordiamo, deriva dal Cristianesimo, così come il Cristianesimo deriva dall’Ebraismo.
Ricordiamo inoltre che il culto Mariano, la venerazione della vergine Maria, nasce a Costantinopoli, storicamente nota come “la seconda Roma”.

Questa è ovviamente una speculazione, ma, se teniamo conto di questo legame simbolico tra il cristiano culto della vergine Maria e il culto romano della dea Vesta, allora è facile osservare come Roma, abbia visto ritornare il mito “rinnovato” di Vesta, prima con l’istituzione bizantina del culto mariano e poi, con l’assegnazione di Roma a sede privilegiata del potere Papale, ricordiamo infatti che, secondo la tradizione, Roma fu lasciata in eredità alla chiesa proprio dall’Imperatore Costantino, e, anche se poi si è scoperto che quel lascito è in realtà un falso storico, questo passaggio è importantissimo perché richiama il testamento di Augusto, consegnato alle sacerdotesse di Vesta.

La grande guerra del Golfo (1980-20xx)

L'era post americana sta sorgendo all'orizzonte, e come ogni grande impero in declino, anche quello americano si lascia alle spalle morte, pestilenza, guerre e miseria

Mediteraneo, Africa, Medio Oriente, ma anche Asia e America Latina. Ovunque nel mondo scorre il sangue per mano di bombe costruite in Europa, costruite da coloro che, in casa propria e nelle proprie piazze hanno gridato e gridano tutt’ora“mai più guerre”, costruite e vendute da coloro che si indignano se quelle armi vengono usate.

L’europa “vanta” più di settant’anni di pace illusoria, per noi europei, settant’anni in cui, il vecchio continente non ha vissuto e subito guerre, fatta eccezione per i Balcani negli anni novanta, si sa che i balcani sono solo sul continente europeo, non sono propriamente europa … La verità è che la “pax europea” è solo un immensa bugia che viene ripetuta, raccontata e lo ammetto, anche sognata, da oltre settant’anni, e lo dico con tutta la disillusione di una persona che ha creduto e che crede, profondamente, nell’Europa e nell’ONU, che crede nel sogno di un mondo migliore, un mondo senza guerre in cui il dialogo e la diplomazia possono risolvere i conflitti senza che si debba necessariamente fare ricorso all’uso della forza e anzi, scongiurando il più possibile il ricorso alla forza e alle armi.

Ma di fronte a questo spettacolo di morte, così esteso, così vasto, così totale da non risparmiare donne, anziani e bambini, in ogni angolo del mondo, così disumano da non riuscire ad essere accettato da chi vive in europa ed ha avuto la fortuna di nascere in un continente in cui le bombe non cadono sulle città (fatta eccezione per i Balcani negli anni novanta).
Hannah Arendt, nella prefazione alla Banalità del Male, nel raccontare il perché di quel titolo al proprio libro, racconta l’aneddoto presente nel diario Irradiazioni di Ernst Junger che, in macchina dal barbiere, racconta dei prigionieri russi che dai campi vengono mandati a lavoro, il barbiere descrive questi uomini dicendo “tra di loro devono esserci di quei furfanti. rubano il cibo ai cani”. Al che, la Arendt osserva che al barbiere non era venuto in mente che quegli uomini fossero effettivamente alla fame, per poi aggiungere che, quel tipo di stupidità era all’epoca molto diffusa in europa, non solo nel Terzo Reich, e che quella stupidità, quella incapacità di mettersi realmente nei panni degli altri era la vera e unica ragione delle azioni disumane compiute da Eichmann e da molti altri uomini nel terzo Reich.

Personalmente adoro questo aneddoto, perché è estremamente attuale, ancora oggi quel tipo di stupidità è estremamente presente in europa e impedisce a molti, tra cui diversi leader politici, di comprendere realmente la gravità di determinate situazioni e di accettare che ci sono zone del mondo in cui alcune delle cose che noi, in europa, diamo per scontate, come l’acqua corrente, l’elettricità o il dormire in un letto, sotto un tetto, senza che una bomba esploda nel cuore della notte, distruggendo tutto ciò che hai e che ami.

Questo tipo di stupidità è ciò che oggi spinge moli a criminalizzare le vittime della guerra piuttosto che i loro carnefici, e non posso far altro che dirmi deluso e amareggiato.

Deluso da un Europa che sceglie di non guardare, che sceglie di voltarsi dall’altra parte mentre con una mano vende armi a chi le usa per calpestare i diritti civili della popolazione e bombardare città e civili, mentre dall’altra si “si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità” . Sono deluso da un europa che addestra e fornisce mezzi ed armi ai trafficanti di esseri umani (e a scanso di equivoci, parlo delle milizie che costituiscono la guardia costiera libica), per impedire a chi fugge da guerre, fame e malattie, e cerca solo un futuro migliore, di raggiungere un continente che si presenta al mondo come un paradiso perduto, garante di libertà e diritti civili… ma solo se sei nato lì, da cittadino figlio di altri cittadini, in caso contrario non sei un essere umano e non hai alcun diritto.

Il 20 marzo 2003, con l’invasione dell’Iraq, è iniziata quella che per tanto tempo abbiamo chiamato erroneamente “seconda guerra del golfo“, dico erroneamente perché se vogliamo essere pignoli, è stata la realtà è la terza guerra del golfo, o forse solo un nuovo capitolo di un unica interminabile guerra tra l’Iraq e il mondo intero, iniziata il 22 settembre del 1980 con un conflitto tra Iraq e Iran, che si è poi conclusasi il 20 agosto 1988.

Ad ogni modo, che sia il terzo atto della guerra del golfo, che sia la seconda o la terza guerra del golfo, è indifferente, poiché in tutti i casi, vi è una serie di di cause ed effetti che legano insieme i vari conflitti che hanno visto protagonista l’Iraq di Saddam Hussein e il medio oriente post iracheno.

Facendo un rapido riassunto, il 2 agosto 1990 l’Iraq ha iniziato una nuova guerra, questa volta contro il Kuwait, cil causus belli è una disputa territoriale relativa lo sfruttamento di una ricca area petrolifera al confine e il fatto che l’Iraq, durante i 10 anni di guerra all’Iran, si era indebitato con mezzo mondo. Al termine di questo conflitto c’è stato poco più di un decennio di “pace apparente”, una pace armata nel cuore del medio oriente, con Saddam ben saldo al proprio trono mentre l’europa, acquistava il suo petrolio e guardava dall’altra parte ogni volta che qualche oppositore politico di Saddam Spariva, o che qualche “terrorista” veniva catturato e torturato in una qualche prigione segreta nel deserto.

Poi nel 2003 una nuova scintilla, un nuovo conflitto nel golfo con protagonista ancora una volta l’Iraq e direttamente connesso al conflitto conclusosi dodici anni prima.

Nel 1991, quando la comunità internazionale intervenne in Iraq, contro Saddam, lo fece per una ragione ben precisa, l’Iraq aveva annesso il Kuwait, violando lo statuto delle Nazioni Unite (che condanna qualsiasi atto di aggressione ad uno stato sovrano ed il Kwait era uno stato sovrano membro dell’ONU), certo, nel 2014 anche la Russia ha fatto lo stesso, aggredendo l’Ucraina e sottraendo una porzione dell’Ucraina, ovvero la Crimea, annettendola poi alla Repubblica Federale Russa, ma in quell’occasione l’ONU non è potuto intervenire poiché la Russia ha esercitato il proprio diritto di veto, bloccando ogni iniziativa dell’ONU.

Ad ogni modo, quando nel 1990 l’ONU ha dato l’OK per l’operazioni Desert Shield di supporto alle forze regolari del Kwait, poi trasformata in Desert Storm nel 1991, lo ha fatto fissando dei limiti e dei vincoli ben precisi e inviolabili per l’operazione. Desert Shield e Desert Storm avevano il compito unico di garantire il rispetto della sovranità del Kwait e il ripristino dell’autonomia e indipendenza della regione. Non dovevano però deporre Saddam, anche se, l’auspicio era che, una volta terminato il conflitto, il dittatore iracheno sarebbe stato deposto dalla popolazione irachena, cosa che non avvenne, o meglio, ci fu effettivamente una serie di insurrezioni anti Saddam, ma le forze governative alla fine riuscirono a respingere i ribelli e garantire un lungo e duraturo regno al Macellaio di Baghdad, o almeno e così è stato almeno per un po’.

Nel ’91, come anticipavo, le forze della coalizione internazionale approvata dall’ONU giunsero alle porte di Baghdad e, alla resa di Saddam, cessarono il fuoco e si ritirarono, almeno fino al 2003, quando una nuova operazione, che non aveva i vincoli e i limiti dell’ONU (e neanche l’approvazione, ancora una volta, causa veto della Russia), portò alla deposizione di Saddam Hussein.

La storia di Saddam Hussein termina nel 2003, ma non quella dell’Iraq e come tutte le storie del Medio Oriente, anche questa, ha un inizio avvolto nella misteriosa sabbia del deserto e un finale aperto, così aperto che quindici anni più tardi, ancora si aggiungono nuovi capitoli e non si riesce a vederne bene dove, come o quando finirà, mentre un nuovo padrone imperialista affonda i propri artigli sulla culla della civiltà.

20 marzo 2003, quando all’epoca la Bush e Blair decisero di intervenire in Iraq, non immaginavano cosa stavano facendo, che danno enorme all’umanità avrebbero recato e forse, se avessimo saputo prima che quella data avrebbe indirettamente portato alla nascita dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, e avrebbe dato ad uomini come Bashar al Assad ed Recep Tayyip Erdoğan, la possibilità ed una giustificazione, con tanto di copertura istituzionale internazionale fornita da Vladimir Putin, per compiere nefandezze e crimini di ogni genere, forse, Bush e Blair, ci avrebbero pensato su due volte, prima di invadere l’Iraq.

O forse no, perché in fondo, Erdogan nel 2003 era già stato eletto presidente della Turchia e Assad deteneva il potere in Siria già dal 2000, inoltre, le tensioni nella regione, le instabilità e gli equilibri precari che tenevano insieme il medio oriente erano ben noti già dal 91, per intenderci, dai tempi della “prima” guerra del golfo, guerra che rispettò i limiti dell’ONU non tanto per senso del dovere e di legittimità, ma perché all’epoca Bush e Gorbaciov erano consapevoli del’enorme rischio per l’intera umanità che avrebbero corso lasciando allo sbando l’Iraq, un tassello così grande e importante in quell’enorme e controverso puzzle, più simile ad una polveriera pronta ad esplodere che ad una regione geografica, che è il medio oriente.

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