La vita sessuale di un Frate del Medioevo | Decameron +18

La vita sessuale nel medioevo, era tutt’altro che noiosa e piatta.
Se bene esistessero molte regole che provavano a limitarla, nella realtà, quelle regole rimanevano fuori dalla camera da letto, e a meno che qualcuno non volesse rischiare di dar scandalo, il più delle volte, tutto si risolveva nel silenzio generale.

E se vi dicessi che i frati, nel medioevo, avevano una vita sessuale decisamente molto attiva, se vi dicessi che il voto di astinenza era rispettato meno del voto di povertà?

Ma soprattutto, cosa mi rispondereste se vi dicessi che a parlarcene, tra gli altri, c’è anche Giovanni Boccaccio, con il Decameron?

Si, avete letto bene, proprio il Decameron di Boccaccio, quello “noioso” che si studia a scuola… la verità è che il Decameron non è affatto noioso, si tratta invece di un opera ricca di ironia, in cui si fa satira, a tratti anche demenziale, e che, nelle sue novelle, presenta numerose scene di erotismo, scene che imbarazzerebbero persino il marchese de Sade, Bukowsky, d’Annunzio e Pauline Réage… e non sto esagerando.

Del resto la cornice dell’opera parla chiaro, i protagonisti sono un gruppo di dieci giovani, ragazze e ragazzi, di bell’aspetto, in piene esplosione ormonale, che vivono isolati in campagna, senza supervisione di adulti. Questi giovani trascorrevano il proprio tempo tra canti, balli, giochi … e non solo.

La maggior parte delle novelle più piccanti, hanno come ambientazione e protagonisti, frati, suore e preti, figure ampiamente presenti nel mondo di Boccaccio e luoghi che lo stesso Boccaccio è solito frequentare. Del resto Boccaccio, per le proprie novelle, attinge a piene mani alla società in cui vive, racconta il proprio mondo e il proprio tempo, raccontando le usanze e dando voce ai “pettegolezzi” di corridoio… e non solo.

Ma ho scritto anche troppo, e vi rimando al video in cui parliamo della vita sessuale dei Frati nel Medioevo.

Per onor di cronaca, va precisato che esistevano numerose regole che limitavano e regolavano la vita sessuale in età medievale, regole che, se applicate, prevedevano spesso, punizioni molto dure per l’una o l’altra parte coinvolta.

L’adulterio non era consentito dalla legge, così come esistevano numerose regole che vietavano la sodomia, termine che includeva numerose pratiche erotiche e di autoerotismo.

Tuttavia, difficilmente prima del XV secolo esplodono scandali di natura sessuale e le vicende vengono portate all’attenzione di un giudice che, messo al corrente dei fatti è chiamato ad eseguire la legge. Questo perché già all’epoca gli scandali non piacevano a nessuno e, quando possibile, si finiva per risolvere nel privato o per insabbiare il tutto.

Lo stesso Boccaccio, nelle proprie novelle, il più delle volte, fa sì che il tutto si risolva “senza arrecar danno e senza umiliazioni” con la Badessa che, con in testa le braghe del prete, dice alle monache che è impossibile resistere ai piaceri della carne, o come il marito della donna che, tornato a casa in anticipo da un viaggio di lavoro, trovandola a letto con il proprio amante, per il quale l’uomo aveva un debole, decise di unirsi ai due e all’indomani, accompagnando il giovane, disse di non saper se quella notte era stato dei due “moglie o marito” .

Star Wars, una Storia che parla di Storia – Gli Skywalker

Star Wars è un opera epocale, fa parte della nostra storia, Star Wars è immerso nella storia e ci parla di storia, attraverso scene di fantasia, ripropone eventi e momenti della storia reale. Dal Cesaricidio ai discorsi di Norimberga.

Il mondo di Star Wars è un mondo pieno di riferimenti alla storia reale, sia in termini narrativi, che nella costruzione dei personaggi che, non meno importante, nella regia di alcuni momenti. Celebre è la foto di Luke, Han Solo e Chewbecca che sfilano dopo aver distrutto la morte nera, comparata all’immagine dei capi del terzo reich in parata, o ancora più forte, l’immagine del discorso di incitamento al Primo Ordine sulla Base Starkiller, che ripropone la stessa regia, con un discorso molto simile, a quello di Hitler a Norimberga.

Lo stesso ordine 66, potrebbe ricordare a qualcuno la “notte dei lunghi coltelli” del 34.

Ma di Star Wars e i riferimenti e parallelismi tra l’impero e il terzo reich, ne è pieno il web, voglio quindi raccontarvi qualcosa di diverso e che forse non sapevate su Star Wars.

La famiglia Skywalker è la Gens Iulia

Se preferite, gli Skywalker passati al lato oscuro, attingono a piene mani alla storia Romana e la dinastia Giulio Claudia.

Ma facciamo un passo indietro, l’ascesa del senatore di Naboo, Sheev Palpatine, prima alla carica di Cancelliere Supremo della Repubblica, e successivamente ad imperatore, è stata costruita partendo dalla vita di Giulio Cesare, riproponendo in chiave fantasy le trasformazioni che, nel primo secolo avanti cristo, portarono alla trasformazione di roma nel primo Impero del Mediterraneo.
La scelta del titolo di cancelliere supremo, non è ovviamente casuale, è l’ennesimo riferimento al terzo reich, ma è anche altro, è l’incastro perfetto tra il mondo germanico degli anni 30 e 40 e il mondo romano antico, a cui la germania nazista, così come il fascismo, credevano di ispirarsi, rielaborandone alcuni passaggi.

L’ascesa di Sheev Palpatine come credo saprete, non è narrata nella saga originale, ma è frutto della seconda trilogia, in questo ciclo di film i riferimenti al mondo romano, più che al mondo germanico, abbondano e, a differenza di quello che alcuni ipotizzano, non sono un introduzione postuma, ma al contrario, sono presenti, in modo non troppo velato, già nella trilogia originale, ben nascosti tra altri riferimenti storici a cui l’universo narrativo di Star Wars ha attinto a piene mani.

Non voglio che questo post diventi un lungo elenco di riferimenti storici in Star Wars, se però vi interessa approfondire, possiamo farci una rubrica o, ancora meglio, vi consiglio di recuperare il saggio “Star Wars and History” di Nancy R.Reafin e Janice Liedl, dove trovate tutto, purtroppo non è mai stato tradotto in italiano ed è abbastanza costoso, ma vi lascio comunque qualche link per acquistarlo nel canale telegram delle Offerte Storiche.

Tornando al topic, come vi anticipavo, i membri della famiglia Skywalker passati al lato oscuro, attingono a membri della dinastia Giulio Claudia, e allora, andiamo per gradi e vediamoli nel dettaglio.

Abbiamo già detto che Palpatine è Cesare, ma, a meno che non ci venga rivelato qualcosa che non sappiamo nel prossimo film, Palpatine non è uno Skywalker, ma è l’uomo che introduce il primo Skywalker al lato oscuro, in qualche modo “adottando” il giovane Anakin, così come Cesare “adottò” il giovane Ottaviano, rendendolo suo erede, Ottaviano va detto che non è un personaggio a caso che Cesare adottò per simpatia, era pur sempre il figlio di Azia Maggiore, sorella di Gaio Giulio Cesare.

Il personaggio di Anakin Skywalker, parte da Ottaviano, e ne ripropone i drammi e la travagliata vita giovanile, combattuta tra vita privata, politica e vita militare, Ottaviano è molto legato a Cesare, così come Anakin è molto legato a Palpatine, ma Ottaviano è anche anche molto vicino al Senato, così come Anakin è vicino all’ordine Jedi e potrei andare avanti ancora per ore nel raccontare le analogie tra i due.

Come Star Wars ci insegna, Anakin, per molti anni, non avrebbe saputo dell’esistenza dei suoi eredi, e Luke e Leia, non sarebbero mai entrati a far parte della vita di Anakin/Darth Vader, e dunque, per loro, non c’è spazio nella dinastia Giulio Claudia, discorso invece ben diverso per la successiva generazione di Skywalker.

Ben Solo, figlio di Leia e Han Solo, si lascia corrompere dal lato oscuro, ma non totalmente, e in modo abbastanza ambiguo, confuso, perverso. Ben Solo, per compiere il proprio destino assassinerà suo padre, esattamente come sembra che Caligola assassinò Tiberio… ovvero infilzandolo con una spada laser durante un abbraccio.

(si ok, forse caligola non usò una spada laser, si pensa più ad un cuscino o del veleno, ma vabbè, non è che dovete puntualizzare ogni cosa, se avesse avuto una spada laser sono sicuro l'avrebbe utilizzata)

Tiberio è il passaggio intermedio tra Ottaviano e Caligola, ed è un uomo che crede nei valori della repubblica, è un uomo che libera i propri schiavi ed affida ai propri liberti l’amministrazione dello stato romano, ma è anche un uomo che negli ultimi anni di vita, secondo fonti a lui vicine, di rango senatorio e avverse alla figura di Caligola, sembra stesse meditando per la dissoluzione dell’impero e il ripristino della Repubblica, volendo potremmo quasi associare Tiberio ai personaggi di Luke e Leia, (se bene non sia esattamente così, Luke e Leia abbiano un ispirazione storica molto diversa e lontana nel tempo, nel caso ne parleremo in altri post), mentre Ben, lui è Caligola, almeno nella prima fase della propria vita, quando è allievo di Luke, ma, dopo aver abbracciato il lato oscuro, diventa Nerone, e vive gli stessi drammi gli stessi conflitti familiari e la stessa “follia”, chiamiamola così.

Piccola considerazione personale su ciò che accadrà al mondo di Star Wars dopo “L’ascesa di Skywalker”.

Sapendo che il destino degli Skywalker è legato a quello della dinastia Giulio-Clausia, e sapendo che Ben, è l’ultimo degli Skywalker (o almeno così sembrerebbe), personalmente credo che l’epopea di Star Wars, o meglio, la saga degli Skywalker, si concluderà allo stesso modo della dinastia Giulio Claudia.

Con la caduta, dell’ultimo imperatore della Gens Iulia, il senato romano ha mantenuto la struttura imperiale, ed un senatore ha preso il potere, se bene per un breve periodo, prima che una nuova guerra civile infiammasse l’italia e portasse alla nascita di una nuova dinastia imperiale, la dinastia Flavia.

Lo stesso credo che accadrà al mondo di Star Wars, che ovviamente continuerà ad esistere anche dopo la “fine” degli Skywalker, così come Roma ha continuato ad esistere dopo la fine della Gens Iulia.

Annales, Il dibattito senza fine sulla narrazione storica

Storia, Microstoria, Macrostoria, è da un po’ che si discute su questi tempi, soprattutto in funzione all’opera di narrazione e divulgazione messa in atto da personaggi come Alberto Angela, che, con leggerezza e un linguaggio giocoso, si sono imposti come interpreti e divulgatori, e, a tal proposito, è esemplare il caso di Alessandro Barbero, che, con il proprio linguaggio, riesce a raccontare storia e storie, di uomini, donne, frati, mercanti e cavalieri, espressione materiale di intere epoche e della vita ordinaria, e straordinaria, in quei mondi ormai passati.

Vi sono però non pochi detrattori, non tanto di Alessandro Barbero che, nonostante tutto, è pur sempre un docente universitario con in attivo decine e decine di pubblicazioni di altissimo valore, al quale nulla si può dire, poiché schermato e protetto da un curriculum più che eccellente. Quanto per Alberto Angela, divulgatore e narratore popolare, la cui carriera è percepito più che altro, come presentatore che parla di storia, senza però essere un addetto ai lavori.

Al di la di quello che è il curriculum di Alberto Angela, e di quelli che sono i suoi titoli, nei suoi programmi, lui non è un deus ex machina, senza il quale il programma non va avanti, e ciò che viene raccontato, si basa su documentari realizzati da professionisti e i suoi lunghi e appassionati interventi, ricordiamo, sono monitorati, revisionati e corretti da un comitato scientifico d’eccellenza, di cui fa parte, tra gli altri, anche Alessandro Barbero.

Fatta questa lunga premessa di carattere generale, il nocciolo della questione è il metodo narrativo, per i detrattori della divulgazione storica, è un “errore” narrare la storia partendo dall’aneddotica e dalle piccole cose, da storie ordinarie di uomini comuni, per raccontare un passato che è molto più grande e complesso, e sarebbe più consono, utilizzare un metodo più “scolastico“, raccontando soprattutto i grandi eventi, le grandi ideologie e le grandi battaglie.

Questo metodo narrativo, parliamo di narrazione non di ricerca, in cui ci si focalizza sui grandi eventi, sulla macro storia per intenderci, è un metodo, che è stato dimostrato essere inefficace e a tratti noioso. E una divulgazione , una narrazione noiosa, sarete d’accordo con me, non è una buona divulgazione. Se io sto ascoltando qualcuno che mi racconta qualcosa, e nel raccontarlo mi annoia, a me ascoltatore, non rimarrà nulla di quel racconto. E queste osservazioni, non sono figlie di quest’epoca televisiva, ma vengono dal secolo scorso.

Negli anni 20 del novecento, per essere più precisi, nel 1924, lo storico francese Marc Bloch, insieme al suo collaboratore e caro amico, Lucien Febvre, fondò la rivista Les Annales, una rivista destinata a fare storia e scuola, tanto che, ne sarebbe proprio derivato il termine “scuola degli annales”. Marc Bloch che noi conosciamo come l’autore dell'”apologia della storia o il mestiere di storico” uno dei saggi più iconici e fortunati del settore, e siamo soliti raccontare Bloch come uno storico del medioevo, un medievalista, perché la sua opera più importante (da non confondere con la più famosa) è dedicata allo studio della Società Feudale, tipica del medioevo, ma che in realtà, si spinge ben oltre il medioevo.

Marc Bloch, oltre ad essere uno studioso di storia, noi oggi sappiamo essere anche un personaggio storico, non tanto perché celebre nel settore per i suoi libri, ma perché, durante la seconda guerra mondiale, si unì alla Resistenza francese e combatté contro gli invasori nazisti, ma Bloch vive il proprio tempo da uomo comune, e la sua esperienza di vita, insieme alle sue teorie sul mestiere di storico e il lavoro eccellente, di ricostruzione della società feudale, che rendono il suo libro uno dei più completi e accurati, nonostante sia stato pubblicato quasi un secolo fa, ci insegnano che forse, lui aveva ragione.

Bloch racconta la società feudale, un grande tema epocale che attraversa diverse epoche, caratterizza il medioevo e gran parte dell’età moderna, è l’incarnazione di quell’ancient regime di cui spesso sentiamo parlare in contrapposizione alla società borghese figlia del XIX secolo, nella quale oggi siamo immersi, e pure, Bloch ha raccontato questo intero sistema economico, sociale e ideologico, partendo dalla vita quotidiana degli uomini, delle donne, dei frati, dei mercanti e dei cavalieri, che vivevano in quel mondo.

Discutere di micro-storia e macro-storia, oggi, alla luce di oltre mezzo secolo di dibattito sulla scuola degli annales, dibattito iniziato nel 1924 con la fondazione della rivista e continuato almeno fino al 1975, e, in alcuni ambienti fino agli anni 90, significa non avere alcuna conoscenza di natura storiografica, il che si riduce al conoscere della storia, nomi, luoghi e date, ma non sapere realmente cosa è successo in quei luoghi, a quegli uomini, in quel preciso momento.

La scuola degli annales è stata rivoluzionaria nel processo di studio e analisi storiografica ed ha gettato le basi per la costruzione di un efficace narrazione storica, che permettesse agli spettatori degli show televisivi, ascoltatori di programmi radiofonici e podcast e lettori di libri di carattere divulgativo, di avvicinarsi a quegli eventi, di entrare in empatia con quelle vicende, di appassionarsi a quegli episodi e di apprezzarne la natura viva, vivace, dinamica e avvincente.

Partendo dalla vita dell’uomo comune, in un determinato momento storico, possiamo trarre tante informazioni sul mondo in cui vive, un esempio eccellente in tal senso, ci viene fornito da Carlo Ginzburg, con il “formaggio e i vermi” in cui racconta la vita di Domenico Scandella, un mugnaio friulano del XVI secolo.

In questo saggio, Ginzburg come già detto, ci racconta la vita di un mugnaio, un uomo che che macinava la farina, di certo non un grande protagonista del suo tempo, e pure, la vita di Menocchio, così viene chiamato nella sua comunità, è estremamente significativa per comprendere le dinamiche sociali dell’area friulana del XVI secolo, il suo ruolo di mugnaio ci dà un indicazione su quelli che erano gli equilibri economici della comunità, ci racconta inoltre il clima politico di quel tempo e quali erano le ideologie politiche e religiose dominanti in quel mondo.

Ginzburg ci mostra che vi è un vero e proprio abisso tra una storia racconto, in cui si comprende il mondo passato e le sue dinamiche, ed una storia di avvenimenti, una storia evenemenziale, in cui gli avvenimenti sono il cardine e riducono la storia ad una successione di nomi, luoghi e date.

Questi temi, sono i temi della “battaglia degli annales” che videro contrtapposta la scuola degli annales alla storia-politica tra il 1924 ed il 1975, e non è un caso se, il dibattito iniziato con la fondazione della rivista Les Annales, termina nello stesso anno in cui venne pubblicato il formaggio e i vermi, opera che avrebbe consacrato Ginzburg come uno dei padri e rinnovatori della Micro Storia.

In conclusione

Personalmente credo che quella polemica, oggi, al netto di tutto quello che è stato detto e scritto, sia abbastanza inutile e puerile, perché parte dall’assenza di una conoscenza storiografica di base e da un concetto, a mio avviso sbagliato. Parte dall’idea che alcuni uomini e personaggi sono nella storia e altri no, cosa che Ginzburg e Bloch prima di lui, ci hanno dimostrato non essere vera, Domenico Scandella è tanto nella storia quanto Carlo V.

Per i detrattori della microstoria e sostenitori della storia evenemenziale, bisognerebbe parlare di grandi eventi e grandi uomini, ma la verità è che quei grandi avvenimenti non sarebbero stati tali se non ci fosse stato un substrato di uomini comuni che, nella miseria delle proprie vite, coltivavano campi, tenevano in funzione mulini e forge, producevano grano, pane e armi, con cui i grandi signori banchettavano e stringevano alleanze e combattevano guerre.

Ed è qui la vera differenza tra gli annales e la storia evenemenziale. La scuola degli annales e la microstoria ci insegnano a partire dal basso, per ricostruire le dinamiche di un epoca e comprendera a pieno, Ginzburg parte da Menocchio, per ricostruire il fenomeno dell’Inquisizione, diversamente, la storia evenemenziale parte dall’inquisizione, e si ferma all’inquisizione, ignorando quel substrato nascosto che è, a mio avviso, il vero motore della storia.

Bella Ciao è una canzone di Destra

Bella ciao il canto partigiano per eccellenza, un canto che i partigiani non cantavano, e che nel tempo è diventato un simbolo della sinistra, pur raccontando concetti nazionali che tradizionalmente sono associati alle idee di destra.

Il titolo di questo post è una provocazione ovviamente, però pensateci, fate finta, per un attimo, di dimenticare o di ignorare tutto quello che sapete o credete di sapere sui partigiani e sulla resistenza, ovvero l’ambiente in cui è nata questa canzone. Estrapolata dal contesto storico in cui è stata concepita, quel che rimane è una canzone che parla di unità nazionale, un brano che racconta un concetto di patria, una patria che qualcuno ha tradito, consegnando la patria ad un invasore straniero, è una canzone che racconta un popolo unico, unito e unitario, mobilitato contro quell’invasore straniero.

Questa canzone è l’emblema del nazionalismo, concetto che nella storia recente appartiene più ai movimenti di destra che a quelli di sinistra (tradizionalmente di visione più internazionalista).

Bella Ciao in realtà non è una canzone di destra, ne una canzone di sinistra, è semplicemente un canto popolare, che parla al popolo di un popolo che si trova a confrontarsi con il fascismo reale.

Questo brano racconta un concetto di patria e di antifascismo e nel farlo, ci ricorda qualcosa qualcosa di semplice, qualcosa che un tempo sapevamo e che abbiamo dimenticato, ovvero che Patria e Antifascismo, non sono concetti di destra o di sinistra, ed è per questo che nel tempo, Bella Ciao è diventata un fenomeno Globale.

Fine della premessa, ora parliamo della canzone e della sua vera genitrice, la guerra italica del 1943-1945.

Le due Italie

Tra il 1943 ed il 1945 l’Italia, come è noto, fu attraversata da un grande conflitto interno, che intrecciava insieme le tre componenti della guerra sociale, della guerra civile e della guerra di resistenza o liberazione, questa divisione tripartitica del conflitto, è stata formulata per la prima volta da Claudio Pavone, lo storico italiano che ha introdotto il concetto di guerra civile applicato al conflitto italico interno alla seconda guerra mondiale, e in quel conflitto, coesistevano diverse energie.

Vie erano due forze straniere in gioco, nell’Italia settentrionale gli ex alleati tedeschi che, non rispettando l’armistizio italiano, passarono dall’essere una forza alleata ed amica ad una forza ostile, vi erano poi, nell’Italia meridionale, gli ex nemici angloamericani, vincitori del conflitto e ai quali il legittimo governo italico e il capo dello stato, il re, si erano arresi.

Nel mezzo, vi erano simpatizzanti dell’una o dell’altra potenza straniera, mobilitati in diverse configurazioni. Vi erano due italie, una monarchica nel meridione ed una finta repubblica controllata dal terzo Reich nella parte settentrionale del paese, che prendeva il nome di Repubblica Sociale Italiana, vi era poi da un lato una parte dell’alta borghesia italica, in debito e fedele al Fascismo, che scelse di schierarsi con RSI e vi era una parte dell’alta borghesia italica che vedeva nell’alleanza con gli USA, nuovi orizzonti commerciali ed una potenziali interessi economici, vi era una classe popolare, operaia e contadina, che vedeva nell’unione sovietica un futuro radioso, migliore della realtà popolare conosciuta durante il ventennio fascista, ma anche una folta schiera di operai e contadini che grazie al fascismo non avevano sofferto la fame ed avevano avuto, per così dire e ai quali, in fondo, delle limitate libertà politiche e civili del regime, non importava molto, in fondo loro erano bianchi e cattolici, e non gli serviva altro.

La terza Italia

Vi era poi il grande gigante dormiente, degli italiani a cui non importava nulla di tutto ciò, quell’enorme massa insipida di italiani, pronti a dichiararsi fascisti, comunisti, cattolici, atei e liberali, e se le necessità lo avessero richiesto, si sarebbero dichiarati tali, contemporaneamente.

L’Italia tra il 1943 ed il 1945 è forse il luogo più confuso, caotico e imprevedibile del pianeta, ma anche il paese più rassicurante del mondo, poiché, nonostante la guerra, quel paese era certo che avrebbe seguito i vincitori, o comunque i migliori offerenti, senza fare troppe domande, ma questo è solo un modo edulcorato per descrivere mamma Italia, la grande proletaria, come il paese più opportunista e inaffidabile della storia.

E nella propria sterminata ipocrisia morale, gli italiani che parteciparono attivamente a quella guerra deforme e ambigua, produssero tanti canti popolari, alcuni guardavano a destra, altri guardavano a sinistra, altri ancora guardavano l’orizzonte, e poi, vi è quel capolavoro nazional popolare che avrebbe avuto successo soprattutto dopo la guerra, e che era l’incarnazione perfetta dell’essere italico, mi riferisco a Bella Ciao, una canzone il cui testo, assolutamente meraviglioso, avrebbe potuto competere e probabilmente vincere il festival di Sanremo, perché nelle sue parole andava bene per chiunque.

Che si stesse combattendo un conflitto sociale o una guerra civile, che fosse una guerra di resistenza o liberazione, che il nemico, l’invasore, fosse angloamericano o teutonico, Bella Ciao, andava bene per chiunque.

Poi però è successo che qualcuno quella guerra l’ha vinta, e qualcun altro l’ha persa, ed è anche successo che, una classe politica, si appropriasse indebitamente di quell’opera popolare dalle origini sconosciute.

Chi ha scritto il testo di Bella Ciao?

Noi non sappiamo chi ha scritto il testo di Bella Ciao, sappiamo però che durante la guerra non la cantava nessuno, e non è un caso se all’epoca questa canzone non venisse cantata.

Gli italiani, durante la guerra civile no la cantavano, perché il suo testo era fin troppo criptico, e non era chiaro chi fosse realmente l’invasore.

Non vi è alcun dubbio sul dove sia nata questa canzone, il suo testo è nato nel mondo partigiano, e, chiunque abbia scritto il testo di questo brano, l’ha fatto con in mente una precisa idea di patria e di nazione. Certo, è il 1943, e un intera generazione è nata ed è cresciuta nel mito della patria italica, una nazione, fiera, forte e orgogliosa, una nazione che era stata tradita e abbandonata dal resto del mondo e che aveva dovuto rialzarsi e farsi da sola, dopo la prima guerra mondiale.

Bella Ciao nasce dalla mente di uomini e donne che non stanno vivendo una guerra civile, il nemico descritto e temuto in questa canzone, non sono altri italiani, non nasce da chi stava vivendo una guerra sociale, non è una canzone che contrappone il popolo all’elite aristocratica o borghese, è invece un canto di resistenza, che racconta un unico popolo, diviso da idee politiche, che si sente morire per un grande tradimento subito, ma che in fondo sa di essere un unico popolo e sa che gli italiani nelle città, nei villaggi, sui monti in appennino, anche se avevano scelto di sposare cause diverse, erano pur sempre italiani, erano in fondo sempre fratelli.

Questa canzone, ha un enorme valore patriottico, nazionale e nazionalista, nata in un momento in cui il paese Italia, era estremamente frammentario e diviso, soprattutto, è una canzone che, raccontando un concetto di patria, non trova molto spazio nella visione internazionalista sovietica, insomma, e questo è molto significativo, perché dona alla canzone un carattere certamente antifascista, ma di un antifascismo ampio e reale, che non aveva un unico e preciso colore. A differenza di altri canti popolari che, durante la guerra civile ebbero maggior successo, Bella Ciao, non era una canzone che strizzava l’occhio al mondo sovietico/comunista.

Bella Ciao dopo la Guerra

Passano gli anni, cambiano le stagioni, nell’Italia post bellica nasce e cresce una nuova generazione, la prima generazione libera dal fascismo e non è un caso se, nella seconda metà degli anni sessanta, tra fenomeni di massa e rivoluzioni culturali immerse nel contesto generale della guerra fredda, Bella Ciao esplode e si afferma, inserendosi di prepotenza, nella memoria collettiva di un paese che non aveva ancora fatto e mai avrebbe fatto, i conti col passato.

L’attività politica di una certa classe politica negli anni cinquanta e sessanta, che si è impossessata dei simboli della resistenza e del concetto di antifascismo, hanno tinto di rosso la resistenza, il CLN e dato una connotazione politica ad un canto nazionale e fortemente nazionalista, come Bella Ciao, una canzone che, per le sue parole, oggi dovrebbe trovare il proprio spazio, nei cori di militanti di movimenti Nazionalisti, e pure, quei movimenti, quelle forze, quelle energie che premono con forza sul concetto di nazione, quasi si sentono offesi e ripudiano, un canto che tra le sue parole racconta proprio l’unità nazionale durante una guerra contro un ex amico, traditore, divenuto da un giorno all’altro un invasore straniero.

Il Boom Economico di inizio OTTOCENTO

La rivoluzione industriale non è solo la macchina a vapore, ma è un insieme di scoperte e innovazioni nel settore produttivo che hanno prodotto una frattura epocale negli equilibri economici mondiali. Improvvisamente, avere “la terra” non significava più essere ricco e potente e anzi, nella maggior parte dei casi, avere la terra, non significava assolutamente nulla.

Una delle introduzioni più importanti di quest’epoca, che nelle sue fasi iniziali viaggia parallelamente alla rivoluzione francese e l’età napoleonica, riguarda lo zucchero, nello specifico la lavorazione dello zucchero.

Lo zucchero fino a quel momento era prodotto a mano, da legioni di schiavi, nelle colonie, ma la rivoluzione industriale cambiò tutto, e introdusse un metodo per la produzione industriale dello zucchero, partendo dalla Barbabietola da zucchero.

Produrre zucchero dalla barbabietola da zucchero non era difficile, sapevano farlo anche gli antichi, ma, l’innovazione di fine settecento, permetteva di produrre da una singola barbabietola, molto più zucchero, in molto meno tempo, e richiedeva l’impiego di molte meno persone.

Di fronte a questa nuova tecnologia, le piantagioni di canna da zucchero nelle colonie, che basavano la propria produzione sulla manodopera di schiavi, sembrava qualcosa di primitivo e soprattutto, economicamente poco conveniente.

Perché produrre zucchero nelle colonie, se pur con una manodopera quasi a costo zero, e importarlo in europa, era comunque costoso, produrlo in europa, con un costo di produzione leggermente più alto, ma abbattere completamente le spese per il trasporto in mare, nell’economia generale, rendeva lo zucchero più economico, talmente economico che, nel giro di qualche decennio, i tradizionali acquirenti di zucchero (aristocratici e borghesi), non furono più in grado, da soli, di assorbirne l’intera offerta, così il prezzo dello zucchero iniziò progressivamente a calare.

Siamo agli inizi del XIX secolo, l’europa è attraversata da fermenti rivoluzionari e alle sue porte si affaccia lo spettro di una crisi economica totalmente nuova e inaspettata, una crisi da sovrapproduzione (tipiche del post rivoluzione industriale), ma lo zucchero a buon mercato, ci rivela Marc Bloch, non produce questa crisi e anzi, al contrario, produce una spinta inaspettata.

La grande disponibilità di zucchero nei mercati europei lo rende accessibile alle masse popolari, che iniziavano a configurarsi come masse popolari ed improvvisamente lo zucchero, un tempo usato solo per addolcire bevande amare come caffè o cioccolata, ora era un bene di massa, un bene di consumo che trovò rapidamente applicazione in molteplici campi, segnando una rivoluzione nella pasticceria, ma anche nelle procedure di conservazione del cibo, in particolare della frutta, nascono ad esempio le confetture, ma anche il Ketchup ed il caramello, che possiamo definire (agli inizi del XIX secolo) come marmellate di pomodori e di zucchero.

Ma non finisce qui, perché il boom economico di inizio ottocento avrebbe avuto anche altri effetti, politici e sociali, e avrebbe cambiato per sempre il mondo.

Ma non ve ne parlerò qui, vi rimando invece al video, uscito proprio ora sul mio canale Youtube

I Medici, il declino della serie TV

La terza stagione de I Medici snatura totalmente la serie, banalizzandola e livellandola verso il basso. La prima stagione de i Medici era a suo modo un capolavoro, la terza stagione, sembra la versione ad alto budget di Elisa di Rivombrosa

I Medici, nel nome della famiglia, questo è il titolo della terza stagione della fiction Rai sulla famiglia de Medici, ma forse un nome più adatto sarebbe I Medici di Rivombrosa, perché questa stagione, almeno dai primi episodi, mi ricorda più Elisa di Rivombrosa che la prima stagione de I Medici che personalmente ho apprezzato, nonostante i molti difetti e le forzature storiche finalizzate ad una narrazione avvincente.

Purtroppo in questa stagione il livello qualitativo, generale, della serie si abbassa, si abbassa tanto, livellandosi verso il basso, in un modo tale che, le scelte stilistiche e le esigenze narrative, non possono e non riescono a spiegare.

La prima stagione rappresentava, a mio avviso, un giusto compromesso tra accuratezza storica e intrattenimento, mentre nella terza, l’equilibrio, già alterato nella seconda stagione, è totalmente saltato, restituendo al pubblico una serie che va avanti per inerzia e grazie al titolo importante che porta, ma la cui qualità generale è solo un lontano ricordo e in questo post, vi spiegherò perché non ho apprezzato i primi episodi di questa stagione.

La prima stagione de I Medici, che raccontava parte della vita del capostipite della signorile famiglia fiorentina, Cosimo de Medici, è stata un successo non troppo inaspettato, la serie era caratterizzata da una storia avvincente, personaggi carismatici come Contessina De Bardi, che ha conquistato i cuori di gran parte degli spettatori, con un cast internazionale e attori diretti in modo sapiente.

Questi elementi, che hanno fatto la fortuna della serie, anche di fronte a qualche buco di trama e forzatura storica di troppo, che nel contesto risultava gradevole, una serie di grande intrattenimento, dal respiro internazionale, che dava allo spettatore ciò che voleva … un Richard Madden in costume medievale, interpretare un Cosimo de Medici in un arco temporale di oltre 30 anni, al centro di intrighi, tradimenti, scontri e colpi di scena, per quanto possano esserci colpi di scena in una serie che si ispira al mondo reale e alla storia reale.

Tutti questo, nella seconda stagione, ispirata alla figura di Lorenzo de Medici, il più celebre esponente della famiglia fiorentina, è venuto a mancare, la narrazione ha perso di spessore, il carisma dei personaggi è andato scemando, i colpi di scena sono stati ridicoli, e, il cambio di regia che ha visto passare le redini della serie dalle mani del regista italo americano Sergio Mimica-Gezzan alle mani degli sconosciuti Jon Cassar e Jan Maria Michelini è stato percepito è stato percepito e decisamente poco apprezzato dal pubblico che, si è detto abbastanza contrario ad alcune scelte stilistiche e narrative… come quella volta che un uomo, senza scudo è stato colpito al petto da una lancia durante una giostra e ne è uscito totalmente illeso… qui andiamo ben oltre la sospensione dell’incredulità.

Nella seconda stagione, ne hera l’antagonista principale della narrazione, Iacopo Pazzi, e di lui ricordo solo che era interpretato da Sean Bean, vi giuro, ho dovuto cercare su google che personaggio interpretasse, perché non lo ricordavo, per non parlare di papa Sisto IV interpretato da Raul Bova che viene presentato come un ridicolo personaggio minore, facilmente manipolabile e senza personalità … Sisto IV, uno dei pontefici più controversi della storia, considerato un “machiavellico” genio della politica, capace di tessere trame fitte e talmente intricate da confondere qualsiasi rivale, un uomo che la storia ha raccontato come due uomini distinti, tanto era grande e inesplorabile la sua intelligenza, e tanto era incomprensibile la sua mente, che viene ridotto ad un inetto.

Va però spesa una nota in favore di questo personaggio nella terza stagione, poiché il ruolo di papa Sisto passa nella terza stagione da Raul Bova a John Lynch, e questo potrebbe riflettere un cambio significativo nella sua personalità… vedremo.

Nessuno dei personaggi della seconda stagione de I Medici, ha lasciato qualcosa di se al pubblico, e mentre ricordo ancora con entusiasmo la scena di Contessina che irrompe a cavallo in palazzo vecchio durante un consiglio, non ricordo assolutamente nulla, nessuna scena, della seconda stagione, se non forse l’ultima sequenza, in cui i pazzi vengono gettati dalle finestre del palazzo della signoria.

E arriviamo quindi alla terza stagione, sono andate in onda solo due episodi, e tanto mi basta per trarre le conclusioni su questa serie, che a questo punto possiamo certificare essere stata prolungata in modo innaturale, ben oltre la propria prefissata conclusione.

Se i Medici fosse rimasto alla prima stagione, l’avrei amata, se avesse mantenuto lo stile della prima stagione, l’avrei amata comunque, nonostante le distorsioni storiche, perché ne avrei riconosciuto il valore di serie tv di alto profilo e che ha come obbiettivo finale l’intrattenimento e non l’istruzione del pubblico. Purtroppo però, così non è stato e alla seconda, discutibile, ma comunque tollerabile stagione, se n’è aggiunta una terza che, nei primi episodi, appare non all’altezza della prima stagione.

Questa stagione, dalle promesse, sembra potenzialmente avvincente, è ambientata in un momento di grande fermento nella storia fiorentina e italica, e ruota attorno ad una delle più grandi crisi che la famiglia medicea, nella figura di Lorenzo de Medici, abbia mai affrontato, una vicenda dalla quale, non vi anticipo nulla sulla serie, e anzi, vano di 10 anni più avanti rispetto a quella che ipotizzo sarà la fine di questa stagione, in termini storici la famiglia de Medici ne sarebbe alla fine uscita vittoriosa e trionfale, accrescendo enormemente il proprio potere e la propria influenza internazionale. Questo posso dirlo, pur non avendo ancora visto gli ultimi 6 episodi della stagione, perché è comunque una serie che si ispira ad una narrazione storica e non serve che veda la serie per sapere che alla fine, nel 1498, Savonarola verrà ucciso in malo modo dal popolo fiorentino, e che nel 1513 Giovanni de Medici, il figlio quartogenito di Lorenzo de Medici e Clarice Orsini, sarebbe asceso al soglio pontificio, assumendo il nome di papa Leone X.

Che quindi la terza stagione de I Medici, terminerà con una nuova primavera della famiglia, posso dirlo senza timore di spoilerare nulla, e posso anche dire che, almeno che nella produzione non siano completamente impazziti, questa stagione non giungerà ai momenti da me citati, ma rimarrà ancorata al periodo 1482-1487, quando Savonarola giunge per la prima volta a Firenze. Sarebbe stupido, per non dire ridicolo, accorpare insieme questa fase della storia medicea, estremamente intensa e vivace, alle successive.

Per quanto riguarda la stagione in se, mi riservo di vedere tutta la stagione per un giudizio definitivo, basandomi sui primi due episodi, posso dire di non apprezzarla. Non l’apprezzo perché non è all’altezza della stagione precedente, che a sua volta non era all’altezza della prima stagione.

Quando l’avventura de i Medici è iniziata, quando ho visto la prima stagione, ne ero entusiasta, questa serie è stata presentata al mondo come una grande fiction storica, che narrava le vicende di una delle più importanti famiglie italiche del XV secolo, in modo abbastanza accurato, e la serie faceva esattamente questo e il fatto che vi fossero delle incongruenze e forzature storiche dettate da esigenze narrative, era più che tollerabile. L’ho detto in video, l’ho detto in live, l’ho detto in decine di post, l’accuratezza storica, se danneggia l’intrattenimento, per me è più che sacrificabile. Nella seconda stagione, l’accuratezza è passata diminuita, e, cosa più grave, il livello qualitativo generale della stagione è sceso, e a quel punto, il valore “storico” di una serie che viene presentata come una docu-fiction inizia a diventare incisivo.

Se la serie è bella, se la storia è avvincente e i personaggi sono carismatici, profondi e riesco ad entrare in empatia con loro, non mi importa troppo se Papa Sisto IV è presentato come un inetto, ma se la storia è noiosa e ripetitiva, se i personaggi non sono carismatici e risultano piatti, allora il fatto che papa Sisto IV venga presentato come un inetto, mi da oltremodo fastidio e da quel che si può percepire dai primi episodi della terza stagione, ci troviamo proprio in quest’ultimo caso.

Come anticipavo però, il papa Sisto della terza stagione è un uomo diverso dal Sisto della seconda, è un uomo più maturo, con una maggiore esperienza politica, ma soprattutto, interpretato da un attore diverso che, voglio sperare, essere una manifestazione visiva del cambio della personalità dell’uomo. Voglio sperare che ci sia una motivazione più profonda nella sostituzione di Bova con John Lynch rispetto alla differenza d’età. Ricordiamo che Richard Madden ha interpretato Cosimo de Medici a 16 e 40 anni, non credo che invecchiare un attore con del trucco sia un operazione così complicata da giustificare il cambio di un attore.

Il ruolo di Papa Sisto è uno di quelli che guardo con maggiore attenzione e spero possa essere una discriminante che mi porterà a rivalutare questa stagione che, per il momento, da quanto emerso dalla visione dei primi due episodi, non mi sta entusiasmando, nonostante lo sfondo storico sia uno dei più ricchi e vitali che la fiction abbia mai conosciuto, e ci siano in scena personaggi come Lorenzo il Magnifico, Gian Galeazzo Sforza, Papa Sisto IV, Innocenzio VIII e Savonarola.

Mi sorprende e un po’ ma non troppo, scoprire che in scena, almeno per il momento, non figura il ruolo do Ferdinando I di Aragona, nonostante abbia legami di amicizia con la famiglia Orsini, con la famiglia Sforza e con i pontefici Sisto IV e successivamente Innocenzio VIII.
Credo però che il motivo principale dell’assenza di Ferdinando sia il suo peso, Ferdinando I di Aragona sarebbe in questa narrazione un personaggio molto ingombrante, e credo che sia stato escluso dalla narrazione, dando spazio ai suoi emissari e feudatari, che invece compaiono in gran numero, e in ruoli minori.

Ad ogni modo, il mio giudizio finale sulla terza stagione de I Medici, resta in sospeso della conclusione, per il momento mi sta deludendo, ma potrebbe rifarsi. Aspetto di vedere come evolverà il ruolo di Papa Sisto e di Savonarola.

Se dovessi esprimere un voto, credo che non assegnerei oltre la sufficienza, forse un 6 di incoraggiamento, che però può facilmente diventare un insufficienza, un 4 o anche meno, se non dovesse esserci un evoluzione reale dei personaggi, da Bruno Bernardi a Papa Sisto, passando per Lorenzo e Savonarola.

L’uomo nel deserto

La Bibbia può ancora insegnarci qualcosa? A mio avviso si, se letta in prospettiva storica essa rappresenta un compendio senza tempo, di errori da cui avremmo dovuto imparare qualcosa.

Storie e insegnamenti da un mondo arcarico, ormai anacronistico, dai cui errori possiamo imparare ancora molto.

La Bibbia può ancora insegnarci qualcosa? A mio avviso si, se letta in prospettiva storica essa rappresenta un compendio senza tempo, di errori irripetibili e principi morali, da cui avremmo dovuto imparare qualcosa molto tempo fa.

Nella Bibbia, il libro dei numeri, scritto intorno al V secolo a.c., riporta un racconto, ambientato durante l’esodo nel deserto e relativo al violare il sabato, che, per il popolo di dio, era un peccato gravissimo.

“Mentre i figli d’Israele erano nel deserto, trovarono un uomo che raccoglieva legna in giorno di sabato. 33 Quelli che lo avevano trovato a raccoglier legna lo portarono da Mosè, da Aaronne e davanti a tutta la comunità. 34 Lo misero in prigione, perché non era ancora stato stabilito che cosa gli si dovesse fare. 35 Il SIGNORE disse a Mosè: «Quell’uomo deve essere messo a morte; tutta la comunità lo lapiderà fuori del campo». 36 Tutta la comunità lo condusse fuori dal campo e lo lapidò; e quello morì, secondo l’ordine che il SIGNORE aveva dato a Mosè.”

Libro dei Numeri 15.32-36

Precisiamo che non siamo una pagina che si occupa di mitologia, teologia o religione, noi qui parliamo di storia, e allora, contestualizzare storicamente questo episodio, che molti utilizzano per attaccare e criticare la bibbia e che, da un punto di vista prettamente storico, ci dice tantissimo sulla storia di Israele e forse anche sull’attualità.

Come anticipavo, questo racconto presente nel libro dei numeri è stato scritto intorno al V secolo, non sappiamo esattamente quando, ma la stima più accreditata, lo collocherebbe tra VI e V secolo a.c.

Questa collocazione temporalmente è fondamentale per contestualizzare storicamente questi versi.

Nello specifico, è un periodo molto particolare, è il periodo delle conquiste persiane del medio oriente, ricordiamo che nel 539, Ciro II di Persia entra trionfante a Babilonia, è quindi un momento di grande fermento e turbamento per una regione in cui ci sono molti popoli diversi, per lo più popoli in guerra tra loro, inoltre ci troviamo in un epoca in cui, più che in altre, i vincitori erano legittimati ad imporre la propria cultura sui vinti, cancellando in modo più o meno ampio, l’identità dei vinti.

Questo, per popoli non particolarmente avvezzi alla guerra, come ad esempio per il popolo di Israele, è un vero e proprio dramma storico, e rappresenta una minaccia reale alla sopravvivenza stessa di quello o quell’altro popolo e per un popolo non guerriero con una forte impronta identitaria, caratterizzato da una tradizione molto chiusa, oserei dire blindata, in cui non è possibile per lo straniero integrarsi e che non è disposta a scendere a compromessi per adattarsi alla civiltà dello straniero conquistatore, il dramma storico è ancora più grande.

La civiltà israeliana rientra perfettamente in questo caso, nella loro civiltà non c’è spazio e non c’è posto per il diverso, per l’altro e, questa mancanza di spazio, viene legittimata in modo tradizionale, attraverso lo strumento del mito che produce l’inserimento di racconti (come quello del raccoglitore di legna nel deserto) che hanno il compito preciso di attribuire alla volontà divina, l’obbligo di allontanare chiunque non sia loro.

Da un punto di vista prettamente storico, questo episodio è solo uno dei tanti che evidenzia il grande problema del popolo di Israele, ovvero la sua incapacità, totale, di relazionarsi e integrarsi con gli altri e, per molti storici, questa chiusura al mondo è uno dei motivi principali per cui nei secoli, molti popoli, hanno iniziato a non tollerarli particolarmente e nei casi più estremi a perseguitarli, poiché, nel momento in cui “loro” hanno alzato delle barriere e posto un clima di conflitto e intolleranza con gli altri, anche gli altri, hanno risposo alla stessa maniera, alzando altrettanti muri e ponendo un clima di religiosa intolleranza e conflitto e, visto che gli altri erano molti di più e spesso meglio armati, il più delle volte hanno avuto la meglio su di loro, ritornando al passaggio biblico, questi si traduce in un messaggio ormai anacronistico “finché siete in tanti, lapidate chi non rispetta le vostre leggi, quando siete in pochi, fuggite a nascondervi nel deserto“.

Due millenni e mezzo dopo però, come dicevo, questo messaggio è anacronistico, è primitivo, lo stesso popolo di Israele ha avuto modo, nella propria storia, di sperimentare la magia dell’intreccio di civiltà, producendo in quei rari momenti di convivenza pacifica con gli altri, opere meravigliose che hanno gettato le basi per il futuro.

Ed oggi questo messaggio biblico dovrebbe essere letto in una prospettiva storica, arricchito dagli oltre duemila anni che sono trascorsi da quando è stato elaborato in forma scritta, per darci un insegnamento nuovo positivo “dallo scontro con il diverso può nascere solo morte, sofferenza e distrione, per l’uno, l’altro ed entrambi, quindi, finché hai una posizione di vantaggio insegna, quando non puoi insegnare, impara.”

Questa “nuova” elaborazione non è proprio recentissima in realtà, e anzi, ha i suoi anni alle spalle, è un interpretazione che nasce dalla carnificazione del divino, ovvero nel momento in cui il dio ebraico si fa uomo e porta un nuovo messaggio all’umanità intera, abbattendo quindi quel muro etnico ancestrale, scardinando le divergenze e le differenze storiche e culturali, in un epoca e in un mondo, quello romano, che si fondava sul principio di apprendere dagli altri ciò che gli altri avevano di migliore e di più efficiente, è un interpretazione che si evolve e si radica, per molti secoli anche e soprattutto nel mondo islamico, dove, l’amore per la conoscenza ed il sapere, unito alla capacità di imparare dal diverso, hanno portato alla nascita delle grandi biblioteche islamiche, alla cui sommità si erigeva la dimora del sapere, un luogo di conoscenza in cui saggi provenienti da tutto il mondo conosciuto, misero insieme le proprie conoscenze portando la civiltà umana ad un livello superiore, gettando le basi per quelle che sono le moderne conoscenze scientifiche e preservando gran parte del sapere del mondo antico che, in europa, veniva abraso per recuperare pergamena.

La casa dove è nato Adolf Hitler diventerà un commissariato di polizia

La casa in cui è nato Hitler, dopo anni di polemiche, diventerà un commissariato di polizia, speriamo solo non diventi un covo di agenti neo-nazisti

La casa in cui sembra essere nato Adolf Hitler, che da anni è oggetto di polemiche a causa dei continui “pellegrinaggi” di gruppi neo-nazisti che si recano sul luogo per rendere omaggio al luogo natale del Führer, dopo anni di polemiche ha trovato una propria dimensione nella città austriaca, diventerà la nuova sede del commissariato di polizia.

Per anni l’edificio è stato oggetto di numerose critiche e polemiche che ruotano attorno a i raduni neo-nazisti che hanno come epicentro l’edificio, il governo austriaco per tanto ha deciso di espropriare l’abitazione, versando ai proprietari circa 812 mila euro, e l’intento originale era quello di demolire l’edificio, tuttavia, è stato osservato trattarsi pur sempre di un edificio storico, risalente al XIX secolo, e il fatto che in quel luogo sia nato Hitler, non dovrebbe pregiudicare il valore storico della struttura. Cosa fare dunque?

Da quando l’edificio è stato acquistato nell’ormai lontano 2017, sono passati alcuni anni e alla fine, il governo ha trovato un intesa con la comunità locale e le associazioni per la tutela del patrimonio culturale locale.

L’edificio continuerà ad esistere, verrà ristrutturato e rimodernato, senza che queste modifiche alterino l’aspetto originale della struttura, ma aggiunge il ministro dell’interno austriaco, che, per evitare futuri pellegrinaggi neo-nazisti, la struttura verrà destinata alle forze dell’ordine e trasformata in un commissariato di polizia.

“Attraverso l’utilizzo di questa casa da parte della polizia intendiamo dare un segnale non fraintendibile del fatto che questo edificio verrà per sempre sottratto alla memoria del nazionalsocialismo”

Il ministro Wolfgang Peschorn è assolutamente certo che questa destinazione “sottrarrà per sempre l’edificio alla memoria del nazionalsocialismo” e non ci resta che sperare che sia così e che non vi siano infiltrazioni di gruppi politici di estrema destra tra le autorità che stanzieranno in quel luogo. Diciamo pure che sarebbe poco “carino” se tra qualche anno saltasse fuori che gli agenti che richiedono di essere assegnati a quel commissariato, anno particolari simpatie per alcuni gruppi politici, e il mio auspicio è che il governo e la polizia austriaca, saranno molto selettivi nel destinare agenti a quel commissariato e che verranno presi seri provvedimenti disciplinari nel caso dovessero scoprire che, agenti schierati politicamente, chiederanno l’assegnazione a quel commissariato, e sono pronto a scommettere che in molti chiederanno di essere assegnati lì.

Emanuele Filiberto annuncia il ritorno della Famiglia Reale … ma si tratta di alta moda.

Emanuele Filiberto di Savoia annuncia il ritorno della famiglia reale.
Ne parliamo in termini storici.

Da casa Reale a casa di alta moda, il passo è breve, servono solo 70 anni di esilio, un pessimo gusto e consulente marketing che sfrutta il clima di tensione politica per promuovere il nuovo brand di alta moda “famiglia reale”.

“Buonasera a tutti gli italiani, ho il dovere di annunciare ufficialmente il ritorno della Famiglia Reale. È tempo di tornare a respirare la tranquillità, la fiducia e l’eleganza di cui abbiamo fiducia oggi più che mai” esordisce così il video messaggio di Emanuele Filiberto di Savoia su Twitter in cui l’erede di casa Savoia lancia un messaggio politico all’italia e, rivolgendosi agli italiani, chiede?Propone? un ritorno alla monarchia “In momenti di complessità un Paese ha bisogno di una guida stabile. Che porti fiducia e che sia da esempio. Di questo e altro voglio parlare al Paese[…]Guidata da un forte senso del dovere, la Famiglia Reale si pone l’obiettivo di tutelare i cittadini per guardare al futuro con rinnovato ottimismo. Grazie a tutti. I reali stanno tornando[…]messaggio alla nazione” il tutto accompagnato dall’hashtag #irealistannotornando.

Il post di Emanuele Filiberto è stato oggetto di forti critiche, soprattutto di natura politica e questo stesso post è nato come una critica alle potenziali implicazioni politiche dei tweet, tuttavia, recenti aggiornamenti, mi costringono ad aggiorna il post e fare una doverosa premessa. Sembra che i Tweet di Emanuele Filiberto non abbiano finalità politiche, sembra invece trattarsi di una campagna marketing per promuovere il nuovo brand “familiare” di alta moda, firmato casa Savoia, come spiegato dall’amico David Puente su Open.

Donna seminuda, inseguita da uomini armati durante il Pogrom di Leopoli

Con progrom, un termine di derivazione russa, generalmente si indica un insurrezioni popolare contro alcune minoranze etniche/culturali/religiose, ed è generalmente perpetuato da gruppi di ultra-nazionalisti, nelle regioni dell’europa orientale.

Ci troviamo a Lwowski (Leopoli), per ora, non vi dirò quando. Nella foto possiamo vedere una donna, ebrea, seminuda e sanguinante, inseguita da alcuni “uomini” e non credo serva spiegare quali sono le loro intenzioni o quale sarà il destino della donna, ma se proprio vi tenete, inizia con uno stupro e finisce con la un omicidio morte.

La colpa della donna? a quanto pare, essere nata donna Ebrea, a Leopoli, tra il 1881 ed il 1945, ed essere stata adulta durante un Poogrom.

“Pogrom” è una parola di derivazione russa che significa “devastazione” ed indica generalmente sommosse popolari ai danni di minoranze etniche e religiose, in particolare tra il 1881 e il 1943, nel mondo ai confini con la russia, si verificheranno numerosi pogrom/insurrezioni popolari, di matrice antisemita.

La popolazione ebraica di alcune città come Lwowski o Černobyl, nel novecento, fecero i conti con diversi pogrom, di matrice antisemita, alcuni dei quali in un clima sovietico ed altri, in un clima da terzo reich.

Nella foto, assistiamo alla ferocia di un pogrom, attraverso le sue vittime, vediamo una donna seminuda inseguita da uomini in armi, ma vediamo anche altro, oltre agli uomini vediamo anche bambino, con in mano un bastone, che insegue la donna divertito, il bambino è evidente dal suo sguardo che non sta capendo cosa sta accadendo in quel momento, ma avrebbe assimilato quell’odio, attraverso quello che per lui era un momento di gioco.

Non ho ancora detto quando la foto è stata scattata e non l’ho fatto per un motivo, scene come questa, ce ne sono state a migliaia, sia nel 1918, durante il Pogrom di Lwowski, ad opera dei polacchi, sia nel 1941, dopo l’ingresso degli Einsatzgruppen tedeschi nella città, ad opera dei collaborazionisti del Terzo Reich.

Nell’ottobre del 1918, geograficamente parlando, Lwowski si trova in Polonia, tuttavia, quell’anno, ad ottobre, fu creato il Consiglio nazionale ucraino di Leopoli, guidato da Jewhen Petruszewycz, un nazionalista ucraino che nel proprio suo manifesto proclamò la nascita della “Repubblica popolare dell’Ucraina occidentale”.

Jewhen Petruszewycz nella sua azione politica riconobbe l’esistenza di numerose minoranze nazionali, tra cui quella ebraica, cosa eccezionale ed estremamente rara per il tempo, poiché, non esistendo una nazione ebraica, gli ebrei non erano riconosciuti come un popolo da quasi nessuna nazione in europa.

Il 1 novembre 1918, venne creato a Leopoli il distretto ebraico, in cui, inizialmente era presente un presidio armato di milizie ebraiche filo ucraine, di circa 200 uomini e circa 100 civili (per lo più donne, anziani e bambini).

Leopoli, non va dimenticato, in questo momento è una città spaccata in due, attraversata da scontri armati tra due gruppi di nazionalisti, da una parte la città è “ucraina” e dall’altra parte è “polacca”, ed è proprio in questo clima di violenza, di divisione ed intolleranza, che iniziarono i problemi per la comunità ebraica di Leopoli o Lwowski o Lviv.

Senza dilungarmi troppo, gli ebrei, che erano riconosciuti come popolo dall’Ucraina, vennero accusati dalle milizie polacche di aver cospirato insieme alle milizie ucraine contro la Polonia, e si finì in pochissimo tempo a scaricare sulla popolazione ebraica ogni sorta di responsabilità per qualunque disastro mai avvenuto a Lwowski negli ultimi mille anni o giù di lì, innescando un escalation di violenza che si tradusse in un insurrezione popolare, di nazionalisti polacchi, contro gli ebrei di Leopoli.

Non conosciamo il numero esatto delle vittime, sappiamo però che almeno 2000 ebrei vennero assassinati e circa 4000 vennero ridotti in fin di vita, inoltre i testimoni parlano anche di numerosi stupri, spesso avvenuti in strada e sotto gli occhi di bambini.

Sappiamo inoltre che in quel momento, Leopoli era la terza città “polacca” per numero di cittadini ebrei, stando ai registri cittadini dell’epoca, Leopoli ospitava circa 100.000 ebrei. Sempre secondo i registri della città sappiamo anche che, nel 1941 (più di 20 anni dopo) a Leopoli vivevano circa 200.000 ebrei, e questo secondo dato ci porta al “secondo” pogrom di Leopoli, ovvero quello del 1941.

Il pogrom iniziò il 25 luglio 1941, quando, in seguito all’omicidio del leader ucraino Symon Petliura, circa 2.000 ebrei persero la vita, in alcuni scontri “civili” in cui gli ebrei di Leopoli vennero attaccati da nazionalisti polacchi di lingua tedesca, collaborazionisti del Terzo Reich e costituiti in milizie cittadine armate. Sappiamo dai testimoni che moltissimi ebrei vennero costretti a marciare, sotto la minaccia delle armi, fino al cimitero ebraico o alla prigione di Lunecki, dove vennero assassinati. Questi eventi sono noti come “I giorni di Petliura“, e rappresentano sono solo l’inizio di ciò che sarebbe successo di li a poco alla popolazione ebraica di Leopoli.

Non troppo tempo dopo infatti, i collaborazionisti del terzo reich aprirono le porte della città alle truppe tedesche e agli einsatzgruppen, che entrarono in città ed istituirono dall’8 novembre 1941 il ghetto ebraico di Lwowski, in pratica una parte della città venne recintata, sorvegliata da guardie armate e all’interno del lungo corridoio in filo spinato, sarebbero stati rinchiusi circa 100/120 mila ebrei, tra il novembre del 41 e il giugno del 43.

Se ricordate, poco fa ho detto che nel 1941 la popolazione ebraica di Leopoli era di circa 200.000 persone, ma nel ghetto di Leopoli ne sarebbero finite circa 100 mila, ed è curioso notare che, centomila, è anche il numero degli ebrei di leopoli nel 1918. Questo dato ci dice molte cose, ma lascio a voi le dovute deduzioni.

Torniamo però alla foto che mi ha permesso di aprire una parentesi sui pogrom di Leopoli, del 1918 e del 1941. Sono partito da quella foto, ed ho voluto raccontare entrambi gli episodi perché sono collegati attraverso il bambino presente nella foto.

La fotografia è stata scattata durante il Pogrom del 1918, e come dicevo, quel bambino avrebbe assimilato quella violenza, quell’intolleranza, quell’odio viscerale per la popolazione ebraica, attraverso il gioco. Quel bambino è cresciuto odiando gli ebrei e da adulto, 20 anni dopo, quando si è trovato di fronte uno stato, come il Terzo Reich, che gli parlava di superiorità della razza ariana, e prometteva lo sterminio ebraico, avrebbe compiuto determinate scelte che lo avrebbero spinto ad arruolarsi volontario nelle milizie filo naziste, diventando un collaborazionista polacco del Terzo Reich.

Ho voluto raccontare entrambi i pogrom anche per un altro motivo, il pogrom di leopoli del 1918 è spesso indicato come un pogrom di matrice “sovietica”, anche se, come abbiamo visto, non è esattamente così.

Il motivo per cui spesso si parla del pogrom del 1918 come di un pogrom di matrice sovieticha è in parte dovuto al termine “pogrom”, è un termine russo e questo sposta automaticamente l’attenzione sull’Unione Sovietica, del resto, il pogrom del 1941, non sempre è chiamato pogrom. Inoltre, nel 1918 esisteva l’unione sovietica già, ma a differenza del 1941, non esisteva il Terzo Reich, e se è vero che, se si parla di ebrei nell’Unione Sovietica, questi, almeno fino agli anni 80 furono fortemente discriminati e spesso perseguitati ed è altrettanto vero che la Russia è ha dato i natali al falso storico dei protocolli dei Savi di Sion, è anche vero che, nonostante l’URSS sia stata una nazione fortemente antisemita, praticava l’antisemitismo lontano dai riflettori, e non lo sbandierava nelle piazze.

Tutte queste teorie speculative alla fine della fiera significano poco o nulla, e c’è un unico elemento realmente significativo in tutta la vicenda, ovvero che gli artefici del Pogrom del 1918 non furono militanti bolscevichi e filo-sovietici, ma nazionalisti polacchi di lingua tedesca.

E a mio avviso è importante sottolineare che proprio questi gruppi, negli anni trenta, avrebbero sposato totalmente le teorie antisemite del nascente nazional-socialismo tedesco, al punto da produrre un nuovo pogrom di matrice antisemita, al fianco delle SS, nel 1941, pogrom che avrebbe portato all’occupazione nazista di Leopoli e la nascita del ghetto ebraico della città.

Lei (non) è Giorgia, ma era una Donna che lottava per i dei diritti civili.

Durante una manifestante per i diritti dei gay di fronte al Weinstein Hall, nel campus della NYU (Università di New York) nello stato di New York, la fotografa Diana Davies scattò questa foto che sarebbe diventata l’immagine simbolo di quella manifestazione e delle lotte per i diritti civili.

fonte : https://digitalcollections.nypl.org/items/510d47e3-57d9-a3d9-e040-e00a18064a99#/?uuid=510d47e3-57da-a3d9-e040-e00a18064a99

Questa immagine semplice, nella sua semplicità ci dice tantissimo e lo fa attraverso un cartellone, con quelli che non sono solo degli slogan, ma la base di quello che sarebbe diventato il manifesto per le lotte per i diritti civili, e leggendo tra le righe di quelle poche frasi, ci viene detto che orientamento sessuale, colore della pelle, etnia di appartenenza, panorama culturale di riferimento, titolo di studio o rango sociale, non significano assolutamente nulla quando si parla di diritti civili.

Appartenere all’una o all’altra categoria non deve precludere nessun tipo di diritto civile poiché, gli esseri umani se bene siano diversi e vi siano differenze tra uomo e donna, tra ricco e povero, queste differenze che danno identità, sono o meglio, dovrebbero essere nulle di fronte alle leggi.

Era il 1970 quando questo pensiero esplodeva nelle strade e nelle piazze di tutto il mondo, sembra ieri, e pure, da allora è passato quasi mezzo secolo e in questo mezzo secolo, quell’idea che essere diversi non precludesse l’accesso ai diritti civili, sembra essere sparito, ed oggi, nelle piazze, si grida non più alla richiesta di maggiori diritti per tutti, ma alcuni chiedono minori diritti per gli altri…

Era il 1970, il mondo occidentale stava conoscendo un progressivo processo di emancipazione della donna e delle minoranze etniche e di genere, nel mondo sovietico in teoria non ve n’era bisogno poiché sulla carta era già così, oggi però, quel processo sembra essersi interrotto bruscamente.

Era il 1970 e sette anni dopo, in italia, sarebbe nata Giorgia, una donna, una madre, bianca, cristiana, una donna che oggi può scendere in piazza e parlare da un palco grazie alle lotte e le battaglie per i diritti civili degli anni 50, 60 e 70, battaglie che in italia hanno incontrato l’avversione del Movimento Sociale Italiano, i cui fondatori sono considerati dalla signora Giorgia come dei Patrioti e di cui, il suo partito è figlio (come evidenziato dal richiamo alla fiamma tricolore, storico simbolo dell’MSI).

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