Sono laureato in storia contemporanea presso Unipi.
Su internet mi occupo di divulgazione, scrivo storie di storia, geopolitica, economia e tecnologia.
Qualche giorno fa, in seguito alla scomparsa del premio nobel per la letteratura Dario Fo, il web è stato invaso da articoli in cui si ricordava e attaccava lo scrittore per il suo “oscuro” passato tra le fila dei “repubblichini” e successivo approdo post bellico nell’antifascismo.
Un cambio di bandiera radicale per un uomo dalla tormentata vita politica, che negli anni lo ha sballottolato letteralmente a destra e sinistra.
Da questi innumerevoli articoli e post comunque è nato un interessantissimo che ripropongo qui proverò a ripercorrere brevemente. E completezza allegherò a questo articolo un articolo di Enzo Tresca, pubblicato il 08 Febbraio 1978, in cui si presenta la “spiegazione” ufficiale fornita dallo stesso Dario Fo, per spiegare il proprio arruolamento tra le fila della RSI (Repubblica sociale Italiana, nota anche come Repubblica di Salò).
Stando alle dichiarazioni dello stesso Fo, Dario si unì alla RSI come “infiltrato” del movimento antifascista. Un incarico molto delicato e soprattutto molto rischioso, se fosse stato scoperto la sua vita sarebbe finita di colpo.
All’epoca dell’istituzione della RSI nel 1943, ovvero dopo la firma dell’armistizio, Dario Fo, nato nel 1926 aveva circa 17 anni, e quali che fossero le sue motivazioni, molto probabilmente la sua “scelta” fu influenzata dall’estero.
C’è però un grande problema, dell’incarico era molto rischioso e delicato, un infiltrato oltre le linee nemiche è una risorsa preziosissima e strategicamente importante, quale folle comandante l’avrebbe affidata ad un ragazzo senza alcuna esperienza condannandolo a morte certa ? Ma soprattutto come fece Fo a sopravvivere in quegli anni senza essere scoperto ?
Stiamo comunque parlando di un giovane ragazzo abbastanza gracile, non certo di 007.
Ad ogni modo, nella RSI dal 1943 al 1945 circa vivono sostanzialmente due tipi di italiani, quelli che hanno scelto di essere lì e quelli che non avevano scelta, perché nati in quelle terre e non poterono fuggire o perché trasportati lì forzatamente durante un qualche rastrellamento nell’Italia centro settentrionale o comunque non troppo più a sud della linea Gustav tra Volturno e Pescara, ed è tra questici uomini condotti con la forza in campi di lavoro che possiamo trovare molte delle “spie” della resistenza.
Tornando alle dichiarazioni di Fo, sembrano non esserci tracce di un trasferimento forzato al Nord, e il motivo della sua presenza nella RSI sembra legato ad una scelta personale. Sembra dunque che Fo abbia scelto di seguire e sostenere il “governo leggittimo del duce” per poi diventare , a guerra finita , un acceso sostenitore del movimento antifascista.
Questa conversazione radicale avvenuta nell’ultimissima fase della guerra, desta non pochi dubbi. Tuttavia sembra non esserci alcuna prova che possa dimostrare la veridicità di una o l’altra.
Per fare chiarezza in merito bisognerebbe spulciare ciò che resta dei registri di guerra della RSI e del Reich in Italia, per scoprire come Dario Fo giunse oltre i confini della linea Gotica che segnava il confine meridionale della Repubblica Sociale Italiana, e l’area di competenza del Feldmaresciallo tedesco Albert Kesselring, tra marea di Massa-Carrara ad ovest e Pesaro sulla riviera Adriatica ad est.
Concludendo, Dal punto di vista storiografico, le numerose dichiarazioni contraddittorie dello scrittore costituiscono un interessante punto di partenza per una ricerca di questo tipo, in grado di far chiarezza su quello che fu un fenomeno potremmo dire “tipico” dell’italia e degli italiani durante il biennio di guerra civile tra il 1943 ed il 1945. Molti uomini, soprattutto i più giovani, nati e cresciuti durante gli anni del regime, erano stati indottrinati ad una visione politica di un certo tipo, che dava loro un senso di appartenenza ed unità. Con la fine della guerra tuttavia, la condanna morale imposta a quel sistema politico si tradusse in un una potenziale messa al bando di chi si fosse dichiarato in qualche modo legato agli ideali del regime.
Va precisato che il ventennio fascista aveva plasmato intere generazioni di italiani, organizzando il ritmo delle loro giornate, e ridefinendo gli aspetti propri della cultura italica oltre che i rapporti sociali. Il militarismo si era insediato in ogni aspetto della società e della vita quotidiana, e quando il fascismo cadde, quella cultura non non cadde con esso, ma sopravvisse, trascinandosi tra i fanghi della guerra civile e ancora oltre, rimanendo assopita nella quotidiana memoria degli italiani nati e divenuti adulti in quegli anni.
Quando la guerra finì, si decise di condannare il fascismo ed i fascisti per i crimini compiuti in circa vent’anni di governo, ma questa condanna non si tradusse realmente in una vera epurazione degli ex-fascisti dall’organismo dello stato, anche perché almeno fino al 1943 “tutti erano stati fascisti” . La vera epurazione arrivò non nel 1945 o nel 1948 ma iniziò quasi vent’anni dopo, con la fine degli anni sessanta e settanta, ovvero quando iniziarono ad affermarsi sulla scena politica ed intellettuale italiana, uomini e donne, nati e formatisi in età repubblicana o che comunque avevano subito poco l’influenza e l’indottrinamento del fascismo.
Non è dunque un caso se nel 1978 Dario Fo e come lui moltissimi altri uomini di rilievo si sentiranno in dovere di condannare ufficialmente l’esperienza fascista, eventualmente giustificando il loro passato tra le camice nere. Un passato che in quegli anni poteva essere problematico, soprattutto per le figure di spicco della nuova cultura italica che in quegli anni prendeva forma.
Qualcuno parla di errore giovanile, qualcuno di incoerenza, qualcuno di sopravvivenza e adattamento al cambiamento, ma quale che sia la verità, probabilmente non lo sapremo mai, poiché non conosceremo mai i veri sentimenti e pensieri di un uomo. La sola cosa che possiamo fare è continuare a studiare, cercando di interpretare al meglio i segni e le testimonianze che ci sono state lasciate, scavando sempre più a fondo nel tentativo di ricostruire il momento di quella scelta nella sua interezza, e solo così, forse, potremmo sapere perché quell’uomo fece quella determinata scelta.
Quest’anno il Premio Nobel per la letteratura è stato assegnato da un autore, e per la prima volta da un musicista che apprezzo tantissimo, e fin dal primo momento in cui ho sentito della sua candidatura ho sperato che fosse lui a ricevere il prestigioso riconoscimento che negli anni ha premiato innumerevoli eccellenze. Il Nobel segna di fatto l’affermazione ultima, in questo caso per un autore e di un musicista, è l’ultimo tassello di un lungo percorso, di crescita che ha scandito la maggior parte della sua vita.
Il premio Nobel per la letteratura di questo 2016 è stato assegnato a Robert Allen Zimmerman, per chi non lo sapesse, è il vero nome di Bob Dylan, un uomo che con le sue parole e la sua musica ha saputo ispirare intere generazioni.
Molti considerano Dylan il padre della musica d’autore e della canzone impegnata, in effetti è probabilmente il cantautore impegnato più celebre in assoluto, tuttavia non è stato il primo, e grazie proprio al suo contributo e alla sua influenza ncertamente non sarà l’ultimo.
La musica d’autore americana, internazionale e anche quella italiana, deve a Bob Dylan un enorme tributo. Qualche tempo fa insieme a Michele Salaris abbiamo tenuto una diretta streaming su Youtube intitolata “Dylan & Son’s” in cui abbiamo parlavato di quanto e come Dylan avesse influenzato alcuni dei più autorevoli cantautori (italiani e non) segnando di fatto una nuova rotta per la storia della musica, rendendola qualcosa di più che un semplice strumento di intrattenimento, trasformandola in ciò che probabilmente, in fondo era sempre stata, ovvero, uno strumento di comunicazione, dei più immediati ed efficaci per raccontare una storia, e Dylan con le sue storie, con le sue parole ha descritto il mondo in cui viveva, la realtà più cruda di un mondo che stava cambiando, diventando in un certo senso uno dei pilastri di quei fermenti che sul finire degli anni sessanta iniziavano a diffondersi nelle nostre piazze e università, contaggiaando milioni di giovani e studenti di tutto il mondo.
Non sono così folle da indicare Dylan comme la sola ed unica colonna portante del sessantotto, quei fermenti esistevano e sarebbero esplosi comunque, a prescindere dal cantautore, Dylan semplicemente incalanò ciò che stava accadendo attorno a lui e sfidando le regole del mercato e i gusti degli americani (e non solo) divenne uno dei primi portabandiera di quel fenomeno culturale che in quegli anni iniziava ad avanzare.
Dylan cavalcò nell’avanguardia culturale di quegli anni, ponendosi alla testa di un esercito disarmato e intenzionato a cambiare il mondo, e Dylan stesso divenne uno dei simboli di quella generazione, riuscendo a sopravvivere al suo tempo per portare i suoi interrogativi fino a noi, e per molte generazioni a venire la sua musica continuerà a risuonare finché gli uomini avranno orecchie per ascoltare, poiché la risposta a quegli interrogativi, come disse lo stesso Dylan in una delle sue più celebri canzoni “the answer my friend is blowin in the wind“.
In quegli stessi anni, in quel vento, dispiegava le sue ali alzandosi in volo un altra grande forza, “parole che dicevano, gli uominii son tutti uguali”, questa forza avrebbe alimentato quello stesso vento caldo e avrebbe continuato a soffiare fino a quando gli uomini non avessero imparato ad ascoltare quelle parole, e, solo in quel momento quel vento avrebbe potuto finalmente posarsi, ma purtroppo, ancora oggi, quelle parole sono ignorate, costringendo quel vento a soffiare ancora.
Molti hanno criticato l’assegnazione del Nobel per la letteratura ad un “cantante”, reputando altri autori, soprattutto poeti e scrittori, decisamente più adatti a quel riconoscimento altissimo.
Io credo invece che non vi sia uomo più adatto di Robert allen Zimmerman, per ricevere il premio nobel per la letteratura nel 2016.
Credo che non vi sia uomo più adatto perchè le sue canzoni e le sue parole sono oggi più attuali che mai, poichè la miseria e la devastazione dell guerra, già cantate da Dylan nei primi anni sessanta, continuano ad affliggere ed insanguinare il nostro mondo, costringendo milioni di persone a fuggire e lasciare la propria terra, la propria casa, che ormai non è più una casa, ma un cumulo di macerie, e con essa tutti i propri averi, in cerca di un posto migliore in cui sopravvivere.
Quegli stessi uomini, donne e bambini in fuga dagli orrori della guerra, nel lungo pellegrinaggio perdono ogni cosa, compreso il proprio nome, e la propria storia… questi uomini senza volto diventando semplicemente dei numeri, numeri enormi che indicano masse in movimento, private della propria umanità, che di tanto in tanto, assumono il volto di qualche bambino mai nato o annegato, mentre i poveri sopravvissuti vengono chiamati “invasori” e a causa del proprio “egoistico desiderio di sopravivenza” sono messi al bando da uomini “che difendono la propria terra“.
Nel 1962 Dylan scriveva Blowin in the Wind, la cui prima strofa in italiano farebbe più o meno così “quante le strade che un uomo farà, prima di poteressere chiamato uomo ?“…
Non credo ci sia molto da aggiungere in merito, non credo ci sia molto da spiegare, il suo significato è fin troppo chiaro, e come dicevo, fin troppo attuale, basti guardare a ciò che ogni giorno accade lungo le coste del mediterraneo e lungo le frontiere europee (e non solo), basti guardare come vengono etichettati quegli uomini, donne, vecchi e bambini che, semplicemente, hanno avuto la sfortuna di nascere “dalla parte sbagliata di un muro” un muro che cresce giorno dopo giorno, mattone dopo mattone, diventando sempre più alto.
Le muraglie costruite per mantenere fuori gli altri,”barbari invasori e raziatori“, non sono certo un’invenzione del nostro tempo, basti qui citare il celebre Vallo di Adriano, costruitoo dai Roma per tenere lontane le popolazioni celtiche a cui aveva strappato la propria terra, portando civiltà, modernità e progresso, che nessuno aveva chiesto, o ancora, la grande muraglia cinese, innalzata nel IV secolo avanti cristo per la medesima ragione, e ancora prima, le mura di cinta che proteggevano le antiche città.
Insomma, la nostra storia è piena di muri costruiti per migliaia di anni, al fine di dividere e separare gli uomini, creando la finta illusione di proteggere quallcuno dal nemico all’esterno, mentre il vero pericolo si nasconde da sempre dentro le mura.
La presenza di muri rende difficile percpire l’umanità di chi si trova dall’altra parte, ma basta un semplice sguardo dall’alto per capire che, sia dentro che fuori, vi sono uomini, donne, vecchi e bambini, e questi possono vivere insieme, basta semplicemente abbattere quei muri, ed è proprio questo che fanno da oltre sessant’anni le canzoni di Dylan, ci ricordano che ogni muro può essere abbattuto.
Qualche giorno fa mi è capitato di leggere un articolo di Rino Camilleri, pubblicato su Il Giornale intitolato “L’Impero romano ? cadde per le poche nascite e i troppi stranieri” l’articolo si basa sul libro “Gli ultimi giorni dell’impero romano”, un romanzo spacciato per saggio storico, scritto da Michel De Jaeghere, un giornalista francese, che sta facendo discutere la Francia per il presunto legame con l’attualità.
Non ho avuto modo di leggere il libro e se le premesse sono quelle esposte nell’articolo di Camilleri non sono molto interessato a leggerlo.
In questa sede mi limiterò a dare una risposta critica all’articolo e indirettamente al libro.
Per chi conosca un minimo la storia romana, saprà che la scala sociale sia in età imperiale che repubblicana, e addirittura in età monarchica, era molto dinamica, diciamo pure che il famoso “sogno americano” dove il figlio di un contadino può ambire a diventare presidente degli stati uniti d’america, all’epoca era il sogno romano, poiché anche l’ultimo degli schiavi, poteva ambire a migliorare la sua condizione e ascendere alle più alte cariche dello stato, non dimentichiamo che sotto Tiberio, i suoi liberti (ex schiavi dell’imperatore liberati) controllavano la burocrazia imperiale.
Certo, non era “facile” ma neanche impossibile.
Allo stesso modo gli stranieri, saranno un elemento fondamentale per l’ascesa e la crescita di Roma che già in età monarchica, vedrà tra i suoi re, un certo Tarquinio Prisco, e se detto così può non avere nulla di strano, le sue origini danno molto a cui pensare. Tarquinio Prisco, a differenza dei suoi predecessori non aveva origini Sabine ma Etrusche, di fatto era un forestiero che giunto a Roma si era arricchito fino a diventare talmente influente da ascendere alla monarchia.
Aggiungo un ultimo esempio, questa volta non politico, ma semplicemente economico, e che tocca da vicino il mondo religioso e il personaggio biblico di San Paolo, nato Saulo di Tarso. Stando al racconto Biblico, San Paolo una volta arrestato fu condotto a Roma per essere giustiziato, e fu giustiziato a roma perché cittadino romano. Paolo/Saulo non era nato a Roma, e come lui nessuno della sua famiglia probabilmente neanche erano mai stati nella capitale imperiale, e pure la sua famiglia era una famiglia romana.
L’esempio di Paolo è importante per ricordare che anche un forestiero poteva ottenere, conquistare o comprare la cittadinanza romana, e non solo negli ultimi anni dell’impero, ma già nella prima età imperiale e anche in età repubblicana.
L’immigrazione e la grande mobilità della società romana non sono la causa della sua fine, ma bensì la causa della sua ascesa. E trovo inammissibile che in un articolo (e spero nel libro non sia così, ma purtroppo non avrò mai modo di scoprirlo) di questo tipo, non si faccia alcun riferimento alla più grande e insostenibile delle spese che l’impero era chiamato a sostenere, ovvero il mantenimento dell’esercito permanente, una risorsa che per lungo tempo si era auto alimentata durante l’età delle espansioni, ma che da un certo momento in poi, divenne troppo costosa, rendendo necessarie diverse manovre di svalutazione della moneta, aumento della tassazione, e svendita della cittadinanza romana.
La causa del crollo di Roma, secondo questo articolo/libro, ha a sua volta una causa scatenante, ben precisa, e nota da tempo, che tuttavia non viene citata nell’articolo, creando confusione e caos.
Continuando a ragionare su questa linea, se davvero fosse vera l’ipotesi della fine dell’impero a causa della forte immigrazione, causata dai costi eccessivi dello stato romano, e soprattutto dell’esercito, allora, la riforma dell’ordinamento militare, realizzata da Gaio Mario tra il secondo ed il primo secolo avanti cristo, rappresenterebbe l’inizio della fine dell’impero romano, una fine iniziata prima ancora che Roma potesse raggiungere la sua massima espansione territoriale.
Questa situazione alquanto paradossale, solleva inevitabilmente molti dubbi sulla tesi di Michel De Jaeghere e del suo collega italiano Rino Camilleri, che probabilmente colpiti dall’enfasi del momento, hanno dato una lettura frettolosa e anti storica dei fatti.
Personalmente reputo la tesi poco mal concepita e soprattutto mal esposta, epurata di numerosi elementi fondamentali per la comprensione di una problematica estremamente ampia, e infinitamente più complessa di come viene proposta (nell’articolo) quale la fine dell’impero romano, una problematica talmente ampia che è impossibile ridurla ad uno ed un solo ed unico elemento.
Temo che, nella frettolosa euforia del momento, dettata dalla possibilità di dare una “motivazione storica” all’intolleranza e alle attuali crisi umanitarie, sempre più diffuse ai confini dell’europa, unita al desiderio di proporre un articolo provocante e soprattutto acchiappa click, il giornalisti non abbia effettivamente letto le oltre seicento pagine del testo di De Jaeghere, ne sfogliato un qualsiasi altro libro sulla storia di Roma, arrivando a proporre un articolo fuorviate, basato su un libro, temo dettato dalle medesime motivazioni.
Come dicevo, non ho avuto modo di leggere “Gli ultimi giorni dell’impero romano” e non credo di voler spendere più di 35 euro per acquistare un saggio storico, che propone una tesi anti storica.
Se amate la musica di Springsteen vi consiglio la lettura di Badlands. Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni di Alessandro Portelli.
Ho avuto modo di assistere alla presentazione del libro e scambiare qualche parola con l’autore, uno storico appassionato, attualmente docente di letteratura anglo americana presso l’università degli studi di roma La Sapienza.
Alessandro Portelli, storico e critico musicale, autore del libro Badlands edito Donzelli
Il rock prima di Springsteen per quanto trasgressivo e audace era ancora impregnato di un certo tipo di poetica, che disegnava un mondo incantato e fiabesco, ma con Springsteen quel mondo va in frantumi e nuovi temi, decisamente più “maturi” e disincantati, più vicini alla quotidianità del ceto medio americano, irrompono nelle radio e sul palco donando un nuovo volto a quel genere musicale trasgressivo che fino a quel momento si era connotato di fasti ed eccessi fin troppo lontani dalla realtà.
Nella musica del Boss per la prima volta i sogni sono chiamati a fare i conti con la realtà rompendo la magia e l’incanto di quel mondo onirico descritto da mille canzoni, quel mondo che tutti sognavano ma che in pochi, per non dire nessuno, potevano avere.
Parafrasando le parole di Alessandro Portelli, prima di Springsteen tutti scopavano senza conseguenza, nessuna ragazza rimaneva incinta, nessuno si ammalava, nessuno aveva bisogno di lavorare, erano tutti felici e spensierati, come dei piccoli Gianni Morandi mentre andavano a comprare il latte, poi però quei ragazzi iniziano a crescere, e non c’è più la mamma a dar loro i soldi per andare a prendere il latte, e quel momento è il momento in cui arriva Springsteen che con le sue canzoni fa quel passo in più, si rompe la magia e si piomba nella cruda realtà. Il sesso non è più privo di conseguenze.
Nonostante ciò Badlands non è un libro che parla di musica, non solo almeno, ma usa la musica e nello specifico la musica e le canzoni del Boss per tracciare un ritratto della storia sociale e della cultura americana a partire dagli anni settanta fino ad oggi, mostrando la realtà che si cela oltre il velo dell’illusione, mostrandoci la vera america, quella vissuta e sudata tra campi e fabbriche, da contadini e operai, insomma, l’america del ceto medio che non possiede auto di lusso ma auto di seconda mano e vive in mastodontici condomini con così tanti appartamenti da rendere impossibile conoscere persino il nome dei propri vicini.
Il 7 aprile del 1498, il popolo fiorentino si rivolta contro il predicatore Girolamo Maria Francesco Matteo Savonarola, rivolta che avrebbe portato alla sua morte per impiccagione e successivamente fu messo al rogo, il 23 Maggio di quello stesso anno. Ma chi era Savonarola e perché i fiorentini arrivarono ad odiarlo così tanto ?
Per rispondere a questa domanda occorre fare un asso in dietro di oltre un decennio e tornare al 1487, anno in cui lasciò, all’età di 35 anni, il convento di San Marco che lo aveva accolto fin dal suo arrivo nella firenze medicea nel 1482. Prima di giungere a Firenze Savonarola aveva vissuto in un altra illustri città, roccaforte di una delle grandi famiglie mecenate dell’epoca, la natale Ferrara, dove la sua famiglia si era trasferita fin dal 1440, ma non fu l’unica, e prima di stabilirsi definitivamente a Firenze nel 1490, Savonarola viaggiò in molte città dell’italia centrosettentrionale.
Suo nonno Giovanni Michele Savonarola, uno dei più illustri luminari della medicina quattrocentesca, docente nell’università dell’originaria Padova e successivamente all’università di Ferrara, incarico che gli avrebbe permesso di legarsi alla famiglia d’Este, diventando Archiatra (una sorta di protomedico) personale di Niccolò III d’Este.
Alla scomparsa di suo nonno avvenuta nel 1468, Girolamo Savonarola fu introdotto allo studio delle arti liberali da suo padre Niccolò Savonarola. Tra le sue letture più appassionate vi furono i dialoghi di Platone, a cui dedico un appassionato commento purtroppo distrutto dallo stesso Savonarola, probabilmente perché non reputava se stesso nella posizione di poter commentare un classico del calibro di Platone. Col progredire dei suoi studi il giovane studente ferrarese si avvicinò ai testi aristotelici e al tomismo.
Nell’aprile del 1475 Girolamo Savonarola lascia la casa paterna e la natale Ferrara per entrare nel convento di San Domenico Bologna. Qui viene introdotto al noviziato dall’abate Giorgio da Vercelli e l’anno successivo sarà ordinato Suddiacono e per volontà dei suoi superiori indirizzato allo studio della teologia per diventare predicatore domenicano, nel 1482 sarebbe tornato a Ferrara giusto il tempo di ricevere la nomina che avrebbe segnato la sua vita, il 28 aprile 1482 fu nominato lettore del convento fiorentino di San Marco.
Qui, nella Firenze Medicea del 1482 inizia la storia nota di Girolamo Savonarola, il predicatore domenicano che si scagliò contro la decadenza e la corruzione della chiesa, i cui “cattivi pastori” si erano macchiati di crimini e peccati imperdonabili, omicidi, lussuria, sodomia, idolatria, credenze astrologiche, simonia, eccetera eccetera eccetera.
Ma procediamo con ordine, come dicevamo, Girolamo Savonarola giunge a Firenze con l’incarico di lettore del convento di San Marco, la cui parte monumentale fu progettata e realizzata dall’architetto Michelozzo, l’edificio sarebbe stato modello e della biblioteca laurenziana di firenze, mentre oggi è sede del museo nazionale di San Marco. Tornando a Savonarola, il suo accento romagnolo appariva barbaro alle forbite orecchie dei ricchi mecenati fiorentini, tra cui Lorenzo di Piero de’ Medici, meglio noto come Lorenzo il Magnifico, e come avrebbe scritto lo stesso Savonarola :
“io non aveva né voce, né petto, né modo di predicare, anzi era in fastidio a ogni uomo il mio predicare” aggiungendo poi che “ad ascoltare venivano solo certi uomini semplici e qualche donnicciola”.
Nonostante ciò, seguono anni di predicazioni itineranti, tra Firenze e San Gimignano in terra senese, poi, nel 1487 un importante evoluzione nella sua carriera “ecclesiastica”, Girolamo Savonarola viene nominato maestro nello Studium generale presso il convento di Domenico a Bologna, luogo in cui aveva conseguito i propri studi, nel quale sarebbe rimasto soltanto per un anno, poi, nel 1488 una nuovo incarico, questa volta nella natia Ferrara, dove fu assegnato al monastero di Santa Maria degli Angeli.
Il lavoro in monastero permise al Savonarola di muoversi e spostarsi più frequentemente che mai, non a caso, tra il 1488 ed il 1490 anno del suo ritorno a firenze, su richiesta esplicita di Lorenzo, Girolamo Savonarola predicò in numerose città tra cui Brescia, Modena, Piacenza e Mantova.
Come preannunciato, nel 1490 Lorenzo de Medici richiede esplicitamente al generale della compagnia dei frati predicatori l’assegnazione di “Hieronymo da Ferrara“.
Questa nuova esperienza in terra fiorentina sarà, almeno inizialmente, molto più fortunata e longeva, rimarrà infatti nella città medicea fino al momento della sua morte, condannato da quella stessa città che aveva invocato il suo ritorno, ma a questo arriveremo più avanti.
Fin dal suo ritorno Savonarola ottenne molto successo con le sue prediche, ascoltato e apprezzato soprattutto da poveri, scontenti, e soprattutto dagli oppositori della famiglia de Medici. Questo perché nelle sue prediche Savonarola non temette di denunciare la decadenza e la corruzione della chiesa, e non mancò di chiamare in causa, lanciando numerose accuse a governanti e prelati.
Il Magnifico più volte ammonì il frate domenicano affinché non continuasse su quella linea, ma il rinnovato spirito del predicatore era infiammato dai suoi più fedeli ascoltatori e seguaci, e ciò lo spinse a continuare imperterrito su quella strada che lo avrebbe condotto al priorato nel convento di San Marco nel 1492, quello stesso anno, il 5 aprile, un fulmine colpì la lanterna del duomo, l’avvenimento fu letto come un cattivo presagio dal superstizioso popolo fiorentino, presagio sembrò confermato dalla morte del signore della città Lorenzo de Medici avvenuta appena tre giorni più tardi. Qualche mese dopo, il 25 luglio morì anche Papa Innocenzio VIII, succeduto da Rodrigo Borgia che assunse il nome di Alessandro VI.
Rodrigo Borgia sembrava incarnare tutto ciò contro cui Girolamo Savonarola aveva sempre predicato, eppure quest’uomo dalla dubbia moralità era il nuovo pontefice, vicario di Dio in terra, capo e alla guida della chiesa cattolica romana.
Quasi contemporaneamente, a partire dal 1494, il re di Francia, Carlo VIII di Valois inaugurò una serie di campagne militari in Italia, campagne che Niccolò Machiavelli avrebbe definito, le “horrende guerre d’italia“. In questa sede non indagheremo ulteriormente le campagne d’Italia e la discesa dello stesso Carlo di Valois in Italia, ci basti sapere che nel 1495 Savonarola incontrò Carlo VIII di ritorno in Francia, questo incontro, avvenuto su iniziativa di Savonarola e destinato a ricevere parole di rassicurazione per il destino di Firenze, pare abbia suggerito a Ludovico Sforza detto Il Moro, signore di Bari, un’elaborata congiura per mettere fine ai legami tra Firenze e la Francia e strumento inconsapevole della congiura fu proprio Girolamo Savonarola.
La congiura ordita da Ludovico avrebbe al crescente rancore della popolazione fiorentina nei confronti del frate domenicano, e secondo alcuni, sarebbe alle origini della sua caduta. Senza disperderci troppo, cerchiamo di capire cosa accadde.
Ludovico il Moro denunciò di aver intercettato due lettere di Savonarola, probabilmente per screditarlo, una delle quali era indirizzata a Carlo VIII. La congiura pare abbia avuto successo e Girolamo Savonarola fu scomunicato nel 1497.
Per quanto riguarda la scomunica alcune teorie ipotizzano un intromissione nella vicenda di Cesare Borgia, figlio del papa Alessandro VI che, grazie all’aiuto di alcuni alti prelati a lui molto vicini, riuscì a produrre una falsa Scomunica, tuttavia questa teoria non è stata ancora dimostrata e di fatto si tratta di solo di una teoria, molto discussa e certamente molto affascinante, ma per il momento priva di basi documentarie, la cito in questo articolo soltanto perché considerata da molti come una nuova verità, e rappresenta sicuramente un interessante campo di indagine che coinvolge numerosi studi, filologici oltre che storici.
Tornando a Girolamo Savonarola, una volta perso l’appoggio francese e ufficialmente scomunicato, le antiche accuse politiche lanciate contro la famiglia de Medici, gli si rivoltarono contro. Al termine delle guerre d’Italia il partito dei Medici erano tornato al potere, mentre i Medici erano ancora in esilio e e non avrebbero messo piede a firenze prima del 1512. Savonarola, ormai in rovina sul piano politico, godeva soltanto dell’appoggio di qualche frate e dei “disperati” di Firenze, e una volta scomunicato, fu processato e condannato per eresia.
Stando alle cronache del tempo Savonarola ed alcuni frati si barricarono nel convento di San Marco, tentando in vano di resistere all’arresto avvenuto il 7 aprile del 1498 e meno di due mesi più tardi, il 23 maggio 1498, fu condannato a morte per impiccagione e successivamente messo al rogo.
La scorsa estate, nella regione di Kirov, in Russia centro settentrionale, è stata fatta una delle più grandi scoperte legate alla seconda guerra mondiale.
Un ritrovamento impressionante di quella che si presentava come una mastodontica fossa comune, risalente agli anni della guerra, dalle indagini sui corpi potrebbero arrivare tantissime nuove informazioni, qualcuno azzarda l’ipotesi che alcune pagine di storia legate a quegli avvenimenti potrebbero essere riscritte.
Per ora una cosa è certa, migliaia di uomini creduti dispersi in battaglia, ora potranno finalmente tornare a casa per riposare in pace.
L’oscura scoperta ha riacceso immediatamente il ricordo dei Gulag, rigidissimi campi di concentramento, volti ad ospitare detenuti e prigionieri politici e di guerra, disseminati un po ovunque tra le regioni più rigide del vasto impero sovietico, la cui esistenza tenuta segreta per molti anni ha alimentato numerosi miti sull’effettiva natura di quei campi, di cui, ancora oggi si discute su quanti effettivamente fossero e quanti prigionieri ospitarono nei numerosi anni di attività.
Tralasciando la parentesi gulag, e soffermandoci sulla recente scoperta, ho deciso di parlarne con un po di ritardo rispetto all’ufficializzazione della scoperta perché, prima di esprimermi in merito volevo essere sicuro di ciò che è stato effettivamente trovato e qualche giorno fa è stata annunciata un’importantissima scoperta collaterale che mi ha convinto a parlarne, qualche settimana fa, sono stati identificati i resti di un soldato italiano tra le migliaia di ossa depositate in quella fossa comune.
L’uomo in questione si chiamava Lazzarotti Giulio, classe 1922, originario di parma, era soldato del regio esercito al servizio del corpo degli Alpini, disperso dal 20 gennaio 1943, in seguito alla battaglia di Nowo Postolajowka, nel corso della quale molti soldati italiani e tedeschi caddero prigionieri dell’armata rossa.
La vita di Giulio sembra finire in quella data, mentre la sua famiglia continua ad aspettare il suo ritorno, un ritorno che probabilmente non si sarebbe mai compiuto.
La lunga attesa della famiglia Lazzarotti tuttavia è finalmente giunta a termine quando recentemente il suo corpo è stato identificato nella fossa comune di Kirov.
Al di la della drammatica storia personale di Lazzarotti e la sua famiglia, è importante chiedersi, perché Kirov ? dove si trova e come hanno fatto Giulio e gli altri soldati impegnati nella campagna di Russia, ad arrivare fino a lì ?
Kirov si trova a circa 800KM a nord-est da Mosca, a molti chilometri di distanza dalle linee nemiche, e ben nascosta all’interno dell’immenso territorio dell’impero sovietico.
Da queste prime informazioni preliminari è facile dedurre che probabilmente la regione ospitasse un centro di detenzione e prigionia per prigionieri di guerra, c’è però un enorme punto interrogativo che aleggia su questo ipotetico centro, Giulio era disperso, e come lui gran arte delle vittime ritrovate in quella fossa comune, teoricamente, la convenzione di Ginevra del 1899 imponeva ai vari paesi aderenti, ivi compresa l’Unione Sovietica, di stilare una lista di prigionieri detenuti nei propri campi di prigionia, e fornire questo elenco alla croce rossa internazionale, va tuttavia detto che, durante la seconda guerra mondiale e non solo, era comune la pratica di omettere alcuni nomi dalla lista di prigionieri, e in alcuni casi estremi, si verificava l’omissione stessa di interi campi di detenzione e prigionia.
Nel caso specifico del campo di prigionia di Kirov, la sua esistenza è nota da tempo, così come il presunto numero di prigionieri contenuti al suo interno. Prima di questa scoperte le stime parlavano di 1.136 prigionieri italiani, di cui si ha una traccia documentaria e di cui si conoscevano i nomi, tuttavia, tra quei nomi però, sembra non figurasse quello di Giulio Lazzarotti. Questa omissione (o errore di trascrizione) apre la porta ad infinite possibilità, e le speculazioni in merito non mancano. Tra le tante, le ipotesi più plausibili ed interessanti sembrano essere due.
La prima ipotesi fa riferimento ad un ipotetico campo nascosto al resto del mondo, di conseguenza il numero reale dei prigionieri di Kirov andrebbe ricalcolato e quasi certamente accresciuto di diverse migliaia di unità.
L’altra ipotesi, a mio avviso interessante, fa riferimento ad una prematura morte di alcuni prigionieri, non abituati alle temperature estreme della Russia settentrionale in pieno inverno, in questo senso la battaglia di Nowo Postolajowka avvenuta il 10 gennaio del 1943 è perfettamente collocata nello scenario, e alcuni soldati feriti più o meno gravemente potrebbero non essere sopravvissuti al lungo viaggio di oltre 1000 chilometri che li avrebbe condotti al lontano e rigido campo di prigionia.
Se questa ipotesi fosse vera, significherebbe che Giulio e presumibilmente tutte le migliaia di uomini ritrovati nella fossa comune, sarebbero morti prima di giungere al campo, e ciò giustificherebbe la loro assenza dai registri ufficiali.
Quale che sia la verità soltanto il tempo e nuove ricerche potranno rivelarlo.
La guerra fredda è conclusa da oltre un quarto di secolo ed il disgelo sta finalmente portando alla luce elementi chiave per risolvere antichi misteri, risalenti alla seconda guerra mondiale.
L’8 aprile 1933 il Western Australia è chiamato alle urne per votare un referendum secessionista per uscire dal Commonwealth Australiano, sorprendentemente i secessionisti riescono ad ottenere la vittoria e pure, quella secessione democraticamente votata, non è mai avvenuta.
Lo scorso 19 Agosto Jack Peacock ha pubblicato un interessantissimo articolo, ed una splendida analisi della vicenda, ispirato dai recenti avvenimenti del Brexit, per sollevare una questione importante. Più volte nella storia i movimenti secessionisti ed indipendentisti sono riusciti ad ottenere una votazione per una possibile indipendenza e se in alcuni casi questi sono riusciti effettivamente ad ottenere la vittoria e successivamente conquistare la tanto agognata indipendenza, altre volte, dinanzi alle urne, la popolazione ha scelto per il mantenimento dello status quo.
Ma c’è un caso, un precedente storico estremamente curioso ed interessante, quello del Western Australia, che, come già detto, l’8 aprile 1933 votò per la propria indipendenza, riuscendo a conquistare la vittoria, tuttavia il progetto secessionista sarebbe arenato a causa di una errata valutazione da parte del movimento u quello che sarebbe stato l’atteggiamento Britannico nei confronti del suo impero.
Vi lascio alla lettura della traduzione dell’articolo di Jack Peacock, accompagnandolo in chiusura con una mia chiusura al suo intervento.
Il referendum di quest’anno sulla partecipazione del Regno Unito dell’Unione Europea e quello tenutosi nel 2014 sull’indipendenza della Scozia sono solo gli ultimi di una lunga serie di eventi simili. Mentre la Scozia si è unito il Quebec (1995) votò per lo status quo, mentre altri, come la Norvegia (1905) e Montenegro (2006) hanno votato in favore della separazione. Un tema che sembra comune a tutti i referendum è che alla fine gli elettori ottenere ciò che votano per. Una maggioranza per la separazione significa separazione. Eppure ci sono eccezioni a questa regola. L’8 aprile del 1933, il Western Australia ha votato a favore della secessione dal Commonwealth Australiano, tuttavia, ancora oggi, a distanza di oltre ottanta anni, continua a farne parte.
Vine dunque da chiedersi, cosa ha permesso di ignorare la volontà democraticamente espressa dal popolo? E che cosa ha significato per l’Australia e il suo rapporto con l’impero britannico?
Lo spirito indipendente del Western Australia è apparso nel momento in cui ha ottenuto il diritto all’auto-governo. Questo è avvenuto nel 1890, un anno dopo il discorso di federalizzazione iniziata. Non volendo rinunciare alla sua sovranità di nuova acquisizione, l’Australia Occidentale non ha partecipato alla convenzione costituzionale del 1891 e solo sporadicamente e senza troppa convinzione ha preso parte a convenzioni successive.
Il movimento secessionista ha sempre sostenuto che il Western Australia è stato educato al federatismo e in un certo senso questo è vero. E ‘stata una corsa all’oro a determinare da che parte sarebbe andato l’ago della bilancia. I coloni accorrevano da est, portando con se le proprie opinioni pro-federali, e quando hanno sentito che il governo australiano occidentale era contro la federazione, hanno dato il via ai vari movimenti separatisti. Così il Western Australia rappresentava una scelta per l’intera Australia: Rifiutare la federazione potenzialmente vedere le proprie terre, ricche di oro, staccarsi, alternativamente accogliere la federazione, significava mantenere la sua integrità territoriale. Hanno quindi optato per la federazione. Ma non ci volle molto tempo prima che gli australiani occidentali cominciassero a rimpiangere quella decisione.
Prima della fine del 1902, il parlamento australiano ascoltò i primi inviti ad una nuova proposta secessionista. Nel 1919, il Sunday Times (uno dei giornali più importanti del Western Australia) avevano assunto un atteggiamento apertamente secessionisti e si svolsero manifestazioni pubbliche. Il movimento ispirò politici, poeti e musicisti e ricevette anche il sostegno da parte dei governi della Tasmania e Sud Australia, che, proprio come il Western Australia, minacciavano referendum secessionistici. Quando l’elettorato del Western Australia andò alle urne, il 68 per cento dei votanti votò a favore della secessione.
Eppure la tanto attesa e votata secessione non è mai avvenuta. Nel giro di pochi anni la fede secessionista ha mandato in frantumi l’impero britannico e con esso il movimento secessionista australiano si sbriciolò.
Allo stesso tempo, come il referendum, il Western Australia ha tenuto elezioni statali. Nonostante l’enorme sostegno da parte del movimento, l’elettorato ha votato contemporaneamente contro il governo liberale pro-indipendenza per eleggere il partito laburista pro-unione, che prontamente cercò di mettere in stallo il processo di secessione. Ma il nuovo governo non riuscì a frenare completamente la scissione e dopo un anno di dithering, infine, portato avanti un piano per raggiungere l’indipendenza.
Il metodo che hanno scelto per raggiungere questo obiettivo è stata la realizzazione di una petizione di 500 pagine pieno di mappe, argomenti e la volontà democraticamente espressa dal popolo. L’idea era quella di consegnare questa petizione al Parlamento britannico che, si suppone, dovrebbe approvare una legge che concedeva loro l’indipendenza. Una delegazione guidata da Keith Watson, presidente della Lega secessionista Dminion, lasciò Perth per Londra con molto clamore e tutti si aspettavano che le cose sarebbero andate avanti senza intoppi.
La petizione è stata presentata ad entrambe le Camere del Parlamento nel dicembre 1934 ed è stato formato un comitato congiunto per esaminarla. Ma il compito del comitato non era quello di giudicare i meriti del caso per la secessione; il suo compito è stato quello di determinare se il Parlamento britannico avesse o meno il diritto di ricevere la petizione. Questo è stato un terribile errore di valutazione da parte dei secessionisti nel giudicare l’atteggiamento della Gran Bretagna rispetto al suo impero.
La Conferenza Imperiale 1926 aveva portato alla Dichiarazione Balfour (che ha portato a 1931 Statuto di Westminster). La dichiarazione effettuata un passaggio importante; ha dichiarato la Gran Bretagna e le sue Domini:
comunità autonome all’interno dell’impero britannico, pari a stato, in alcun modo subordinata l’un l’altro in ogni aspetto della loro affari interni o esterni, anche se uniti da un comune fedeltà alla Corona, e liberamente associati in qualità di membri del Commonwealth britannico.
La Gran Bretagna aveva effettivamente rinunciato a qualsiasi controllo sui domini. Ciò significava che la Gran Bretagna non sarebbe più stata nella condizione di interferire. Il Comitato misto ha quindi respinto il ricorso del Western Australia perché semplicemente il parlamento britannico non aveva alcuna autorità per riceverlo. Il Western Australia avrebbe dovuto negoziare con il parlamento Australiano a Canberra, che tuttavia non era incline ad ascoltare.
“La storia ricorderà questo come la più grande e più spregevole abdicazione di tutti i tempi”
-Keith Watson
è stata la risposta di Keith Watson alla relazione della commissione mista. Anche l’anti-secessionista, il Premier di stato Filippo Collier sostenne che non era la fine della questione e ha predetto che se non fosse avvenuta un importante riforma costituzionale, il Commonwealth australiano non sarebbe durata altri dieci anni.
La lega Dminion non ha accettato immediatamente la relazione della commissione mista, continuando a fare pressioni e spingere per un dibattito Parlamentare. Tra gli altri fu interrogato anche il primo ministro Ramsay MacDonald, che non si pronunciò in risposta. Le autorità britanniche erano in fase di stallo e non successe nulla. Questa situazione scoraggiò Watson e la sua delegazione, che, una volta tornato in Australia promise di continuare la lotta, ma lo stato d’animo in Australia occidentale era cambiato.
Era iniziata una forte ripresa economica e l’opinione popolare aveva accusato l’incompetenza della delegazione Watson per la mancata indipendenza. Così, proprio come la vita in Australia occidentale ha cominciato a guardare ad un futuro più luminoso, la reputazione dei secessionisti era stata intaccata.
Nel 1935 La Lega Dominion propose un disegno di legge al parlamento australiano occidentale chiedendo una separazione unilaterale, ma l’interesse stava svanendo. Lo stesso anno, il Sunday Times annunciò un cambio di proprietà, con un nuovo editore ed una nuova ideologia di fondo. Senza il sostegno di questo giornale, il movimento di secessione si ridusse a nulla.
Se la Lega Dominionn avesse presentato una dichiarazione unilaterale di indipendenza già nel 1933, probabilmente il risultato sarebbe stato diverso, ma la storia non è fatta da se e da ma, non esistono alternative ed il passato non può essere modificato.
La leggerezza e la superficialità con cui il movimento secessionista portò avanti la sua battaglia, una battaglia che secondo il referendum era già stata vinta in partenza, portò il progetto indipendentista ad arenare, sbriciolando la fiducia nel movimento e il movimento stesso. Questi eventi rappresentano un importante lezione, ed un più che evidente precedente storico a situazioni analoghe, non basta vincere un referendum per ottenere quanto richiesto, ma continuare a lavorare seriamente e con impegno a quel progetto affinché questi dia i suoi frutti. In questo caso il movimento secessionista non ha svolto un buon lavoro, scontentando il proprio elettorato, non a caso, all’indomani della vittoria al referendum, lo stesso movimento non conquistò la presidenza.
Oggi, ad oltre un secolo dalle prime istanza indipendentiste, il Western Australia è ancora parte importante ed integrante del Commonwealth Australiano, i cui fermenti indipenentisti sono solo un lontano ricordo.
Articolo originale di Jack Peacock, pubblicato il 19 agosto 2016 sulla rivista History Tooday, Cliccare qui per leggere l’articolo originale in lingua inglese.
Il termine idolo ha molte applicazioni e soprattutto diverse definizioni, che se pur affini tra loro, differiscono in diversi punti.
Tra le varie definizioni di Idolo presenti nel dizionario italiano, la sua definizione estesa è sicuramente quella più interessante, un idolo non è altro che un oggetto o un entità che gode di un’ammirazione e/o di una dedizione gelosa o fanatica.
La definizione di idolo dunque va di pari passo con quella di fanatico e di fanatismo, di fatto il fanatico è una persona dominata dal fanatismo (sempre secondo il dizionario della lingua italiana) ed il fanatismo non è altro che una forma di “Intollerante, esclusiva e acritica sottomissione a una fede religiosa o politica, spesso causa d’intolleranza, e talvolta di violenza, nei confronti di chi ne professa una diversa.”
In entrambe le definizioni siamo inseriti all’interno della sfera religiosa o politica e in questo mio ragionamento voglio proporre un estensione, se così la si può chiamare, del paradigma politico, andando a lavorare sulla figura dell’idolo e del fanatismo digitale.
Per sviluppare il mio ragionamento farò largo uso delle argomentazioni e delle osservazioni di due importanti antropologi europei, da una parte Rudolph Otto, storico delle religioni autore del monumentale Das Heilige (il sacro) pubblicato nel 1917 e dall’altra Ernesto de Martino, antropologo, o per meglio dire etnologo italiano, padre dell’antropologia ed etnologia italiana, autore di Sud e Magia, un saggio antropologico incentrato sullo studio della tradizione magica in Lucania, terra che l’etnologo napoletano avrebbe studiato per gran parte della sua vita, ma mettiamo ora da parte Ernesto de Martino e torniamo al soggetto di questo mio intervento, ovvero l’idolo Digitale.
Iniziamo col definire cosa intendo esattamente con idolo digitale, e perché si è resa necessaria questa premessa con riferimenti a due importanti antropologi del secolo scorso.
L’elemento cardine di questa discussione è l’ampliamento degli elementi identificativi dell’idolo e se al tempo di de Martino e Otto questi elementi erano legati unicamente alle sfere della religione e della politica, oggi esulano da questi ambiti per dilagare in altri lidi quali possono essere il mondo delle arti, dello spettacolo dello sport e come nel nostro caso, nel mondo digitale.
L’idolo digitale al pari dell’idolo religioso e ancora di più dell’idolo politico, è di fatto un individuo o un portale che “gode di un’ammirazione e/o di una dedizione gelosa o fanatica” e non è affatto un caso se sul web abbiamo a che fare soprattutto con “fandom” ovvero comunità di Fan, termine che ricordiamo derivare dall’inglese Fanatic ovvero Fanatico. Il cerchio dunque potrebbe chiudersi qui, l’idolo digitale non è altro che una nuova espressione del fanatismo, già conosciuto nel mondo dello spettacolo in gran parte del secondo ventesimo, esportato in nuovi contesti.
C’è però una differenza sostanziale tra gli “idoli canori e televisivi degli anni sessanta, settanta, ottanta e novanta” ed i nuovi idoli digitali, che va oltre le opinabili capacità artistiche di uno o l’altro personaggio più o meno popolare, attorno a cui può radunarsi o meno una comunità di fan, e questa differenza è dovuta al fatto che, sempre più spesso, i nuovi idoli in maniera più o meno volontaria, finiscono con l’imporsi come modello di riferimento in un determinato settore e ciò va oltre la persona arrivando a coinvolgere anche elementi totalmente impersonali.
Caso esemplare quello di Wikipedia, l’enciclopedia libera, uno dei simboli del web e dell’informazione accessibile a chiunque, uno strumento sicuramente molto prezioso ma allo stesso tempo labile e di dubbia affidabilità, in un altro articolo qui su Historicaleye il nostro collaboratore Aramis ha dimostrato in maniera esemplare la fallacità di Wikipedia, mostrando come il lettore possa essere tratto in inganno da eventuali informazioni errate, ma ben argomentate.
È stato proprio questo articolo di Aramis e soprattutto la reazione di numerosi lettori casuali, a spingermi a ragionare sulla natura degli idoli digitali.
Nell’articolo di Aramis viene evidenziata una falla enorme nel sistema di wikipedia che per quanto possa essere uno strumento utilissimo, si presta, per sua natura, alla libera manipolazione da parte degli utenti e allo stesso tempo si presenta come portatrice di verità.
Il lettore medio, non attento alla verifica dell’informazione è portato automaticamente a prendere per vero e in maniera quasi dogmatica ciò che legge su Wikipedia (o altri portali, compreso questo) anche quando quel qualcosa di vero non ha assolutamente nulla, rassicurato dal fatto che quel portale sia “affidabile”, e quell’affidabilità è determinata dalla reputazione del portale più che dalle informazioni effettivamente riportate.
Ma cosa succede se se quell’affidabilità viene messa in discussione ? e cosa succede se qualcuno prova a sollevare un dubbio sulla sua affidabilità ?
Le reazioni riscontrate in risposta all’articolo di Aramis e del mio video “Chi corregge Wikipedia ?” sono state particolarmente aggressive e violente, arrivando ad additarci, per mantenere un parallelismo col mondo religioso, di blasfemia ed eretismo. Sembrava di essere improvvisamente ritornati nelle aule del tribunale dell’inquisizione, quasi costretti a scegliere tra l’Abiura ed il Rogo.
Mi rendo conto che questo parallelismo con tempi cupi e oscuri a qualcuno potrà sembrare eccessivo, di fatto si tratta di un esagerazione volta a sottolineare un qualcosa che per me è fin troppo evidente.
Il web e alcuni dei suoi prodotti hanno sostituito il misticismo e la magia, andando a fornire una nuova, più tecnologica, soluzione a quella che Ernesto de Martino definiva la crisi della presenza, tema appena accennato in Sud e Magia e trattato in maniera estremamente più articolata e completa in opere come “Il mondo magico: prolegomeni a una storia del magismo”.
La presenza è intesa da Ernesto de Martino come la capacità di conservare nella coscienza le memorie e le esperienze necessarie per rispondere in modo adeguato ad una determinata situazione, partecipandovi attivamente attraverso l’iniziativa personale e andandovi oltre attraverso l’azione.
La presenza demartiniana significa dunque “esserci” nel senso heideggeriano del termine e in questa sua lettura, l’uomo ha bisogno di un aiuto per superare una sorta di “crisi della presenza” nei confronti della natura e per fare ciò, per superare insomma questo senso di inferiorità nei confronti del mondo circostante, l’uomo demartiniano si rifugia nel rito e nel sacro, secondo le definizioni fornite da Rudolph Otto nel suo Das Heilege.
I riti offrono rassicuranti modello da seguire andando a costruire quella che de Martino definisce come tradizione, ma nell’era digitale, fatta di informazioni sempre più immediate, dove ognuno può fingersi esperto e dire la sua su tutto ciò che la sua mente è in grado di afferrare, l’uomo apparentemente più consapevole del complicato universo che lo circonda è sempre meno incline ad appoggiarsi a definizioni religiose ed ha quindi bisogno di un nuovo rifugio, di una nuova ritualità e di una nuova tradizione.
Questa nuova ritualità al pari della ritualità nel mondo antico, ha bisogno punti fissi, ancore nel caotico mare digitale in continuo movimento e perenne rinnovamento e questa stabilità può essere ritrovata in vecchi paradigmi adattati al mondo digitale.
Si vengono quindi a creare nuove verità dogmatiche non opinabili, alle quali si può solo scegliere se credere o non credere, senza possibilità d’appello e senza possibilità di discussione.
Nascono così gli idoli digitali, figure, simboli, personaggi e portali, la cui voce è sacra e inopinabile. Inizia qui, nell’epoca di internet, un nuovo medioevo, una nuova era di transizione fatta di fede cieca in moderni miti, mentre le verità non vere, scoppiano spargendosi d’intorno.
Approfitto della imminente uscita di uno dei titoli videoludici più attesi dell’anno, Battlefield 1, un FPS ambientato nella prima guerra mondiale, per occuparmi di un argomento abbastanza diverso dal solito, ovvero il realismo storico nei videogiochi.
Metto le mani avanti dicendo che non sono un grande videogiocatore o un appassionato di videogiochi, e che quella che seguirà sarà solo la mia opinione, un opinione che può essere condivisa o meno ma che voglio condividere con voi, e spero mi facciate sapere qui sotto nei commenti, cosa ne pensate.
É parecchio tempo che mi sto tormentando con questa la domanda
I videogiochi possono essere storicamente attendibili ?
La prima volta che mi sono interrogato in merito è stato quando Lorenzo mi ha mostrato il primo trailer di Battlefield 1 proponendomi una recensione storica del trailer, un po come fa “the great war” nel suo canale youtube. Da quel momento ho iniziato a guardare questa tipologia di video, vedendo in essa un potenziale spiraglio per il mio canale, un modo per raggiungere un pubblico nuovo e diverso, insomma, il pubblico dei videogiocatori, il pubblico dei gamer, per intenderci il pubblico degli appassionati di videogiochi.
Sentivo tuttavia che mancasse qualcosa, avevo la convinzione che qualcosa mi stesse sfuggendo e che non riuscissi a vedere il quadro completo. Ed è fondamentalmente per questo che alla fine non ho mai realizzato la recensione storica del trailer di Battlefield 1, per questo e perché ho cancellato il file prima di editare il video.
Recentemente però è stata rilasciata una open beta o comunque si chiami, di questo titolo, e guardando i primi gameplay, sono finalmente riuscito a capire cosa mi mancasse e soprattutto perché probabilmente non sarò mai nella condizione di realizzare la recensione storica di un videogioco.
Ma procediamo con ordine, e vediamo perché, per quanto mi riguarda, un buon videogioco non potrà mai essere storicamente attendibile. E soprattutto perché è giusto che sia così.
Per chiarezza ricordo ancora una volta di non essere un videogiocatore, di fatto so poco o nulla su questo mondo, e tutto ciò che conosco è dovuto alla divulgazione videoludica effettuata da canali youtube come Playerinside, Sabaku no maiku e Quei due sul server, e preciso di essermi avvicinato, non poco, a questo mondo, interessandomi soprattutto alla magia che può comunicare un videogioco.
Credo sia proprio questa la parola chiave che stavo cercando, il punto di partenza per il nostro ragionamento, la magia del videogioco, qualcosa che, per sua natura è di totalmente inconciliabile con la cruda realtà dei fatti.
Credo che un Videogioco realmente storicamente attendibile non potrebbe mai avere quella magia e in questo articolo cercherò di spiegare perché.
La cruda realtà dei fatti, la storia, per quanto possa essere affascinante è di per se molto lenta, violenta, crudele, a tratti anche disgustosa e questi elementi stonerebbero, presi così come sono, nel contesto videoludico, a meno che non si voglia realizzare un titolo disgustoso e allo stesso tempo noioso. Ma una simile idea non verrebbe neanche al più folle e visionario degli sviluppatori, poiché il videogioco, ha una sua precisa ragione d’essere e il suo scopo è quello di coinvolgere e catturare il videogiocatore, trascinandolo in un mondo dal quale è difficile non essere affascinati, ed è proprio a questo che mi riferisco quando parlo di magia del videogioco, la sua lontananza dalla realtà anche quando è estremamente verosimile.
Prendo ad esempio un titolo come il già citato Battlefield 1, si tratta di un FPS, uno spara-tutto in prima persona, ambientato nella prima guerra mondiale. La veridicità storica di questo titolo possiamo riscontrarla in tanti aspetti, o almeno così appare dalle immagini del trailer, e dai primi gameplay in beta, ma in altri aspetti, questi ultimi legati soprattutto al gameplay, inteso come esperienza di gioco, quella veridicità viene meno, crollando su se stessa e questo perché se fosse mantenuta “alta”, sarebbe probabilmente una tortura per il videogiocatore, che ricordiamo è il principale destinatario di un videogioco.
Come ha detto Synergo (del canale Youtube Quei due Sul Server) in un rapido scambio di opinioni proprio sotto un suo gameplay, la veridicità storica sarebbe la morte del gamelplay, ed è vero, e per quanto mi riguarda, non c’è nulla di più vero, perché la storia così come è, è lenta e noiosa, e in un gioco in cui bisogna sparare ai propri avversari nel minor tempo possibile e allo stesso tempo evitare di essere colpiti, è folle pensare e anche solo immaginare che possa esistere un qualche tipo di veridicità storica, nel gameplay. Perché appunto, quella sarebbe la morte stessa del gameplay, rendendo il titolo impossibile da giocare.
Un cecchino che per ricaricare il suo fucile impiega anche 10 minuti, e fa una fatica enorme per mettere a segno il bersaglio, in un titolo come Battlefield 1, è già bello che morto, e “io” ipotetico giocatore, col cavolo che sceglierei un cecchino per giocare, se nella mia partita potrò sparare al massimo uno o due colpi ogni dieci minuti, soprattutto se la partita durerà dieci minuti o già di lì.
Chiaramente quindi, un videogioco per essere realmente coinvolgente deve necessariamente scendere a compromessi, e adottare determinate convenzioni che andranno a sacrificare una certa dose di veridicità storica e di realismo, in cambio di un gameplay decisamente più dinamico e soprattutto rapido.
La veridicità storica di Battlefield 1 in questo senso non è superiore, ne inferiore, a quella di titoli che paradossalmente non sono ambientati in momenti storici precisi, e anzi, sono addirittura collocati in universi immaginari costruiti su misura per quel gioco. Penso a titoli ambientati in mondi fantasy che pur non avendo assolutamente nulla, e sottolineo, nulla, di storico al proprio interno, posso considerarli storicamente attendibili esattamente come, e magari anche più di battlefield 1.
Ma perché avviene ciò ?
Prendo ad esempio in questo caso un titolo come l’osannatissimo Dark Soul o ancora Skyrim, e perché no, anche World of Warcraft, in modo da tracciare un quadro che possa essere il più ampio possibile. E a questo punto mi direte “ma Antonio, cosa c’è di storicamente attendibile in questi titoli, soprattutto in WOW?”.
Nulla, è questo il punto non c’è assolutamente nulla e proprio per questo, lo sono, proprio come accade in alcune serie televisive e romanzi, dichiaratamente fantasy come ad esempio Game of Thrones, nel cui universo totalmente inventato e costruito a tavolino da Martin, c’è più storia di quanta non se ne possa incontrare in vero e proprio romanzo storico, che di storico ha solo la didascalia.
Ancora una volta è opportuno procedere con ordine.
Come già detto e ripetuto, per quanto mi riguarda, l’esperienza di gioco non potrà mai essere storicamente soddisfacente, perché il giocatore si annoierebbe decisamente troppo presto, ma un gioco non è fatto di solo gameplay, certo, il gameplay è probabilmente la componente principale e più importante di un videogioco, guarderei un film, leggerei un libro o ascolterei un cd se mi interessasse altro.
Ma è proprio quest’altro che può essere storicamente attendibile e soddisfacente da quel punto di vista, riuscendoci in numerosissimi titoli, che non necessariamente hanno un vero e proprio background storico, ma, nella costruzione del mondo, nella rappresentazione dei rapporti di forza, degli equilibri e delle dinamiche sociali, riescono paradossalmente ad essere più storici di un gioco dichiaratamente a sfondo storico.
Non so se quest’ultimo passaggio è abbastanza chiaro, cercherò di mettere un po d’ordine magari con qualche esempio.
Un titolo come Assasin’s Creed, è, diversamente da quello che può sembrare, storicamente attendibile, non mi riferisco al gameplay per i motivi sopra citati, ne alla trama, dichiaratamente fantasticheggiante e poco realistica, ma penso agli elementi “storici” nelle ambientazioni che vanno a costituire lo sfondo della nostra avventura.
Abbiamo ambientazioni precise, ben definite nel tempo e nello spazio, e in quelle ambientazioni, se rivolgiamo lo sguardo oltre il nostro personaggio, possiamo osservare precise dinamiche sociali, tra popolo e nobili, tra mercanti e pirati, tra operai e capitalisti, ecc ecc ecc, e cos’è la storia se non l’insieme delle dinamiche e delle trasformazioni sociali che coinvolgono le società umane.
Queste dinamiche sono ben descritte, ben realizzate e se bene non costituiscano l’elemento centrale del titolo, danno forma allo sfondo e all’atmosfera che si può respirare in esso, danno corpo al secondo piano e questi riempiono la maggior parte dello spazio di un titolo, anche se non sempre in maniera così invasiva da permettere al giocatore meno attento di notare certi particolari.
Sabaku no maiku nei suoi video su youtube, da molto spazio e molta attenzione allo sfondo, a ciò che si vede e intravede all’orizzonte, soffermandosi su quei piccoli e quasi insignificanti dettagli che però completano un gioco, rendendolo un bel gioco.
Questi elementi a tutti gli effetti secondari, sono, per quanto mi riguarda, una delle colonne portanti di un buon titolo, e per quanto riguarda la veridicità storica, l’unico elemento che possa realmente ospitarla al cento percento.
Nel mio discorso voglio quindi dividere il videogioco in tre parti distinte, alcune delle quali possono essere storicamente attendibili, altre non possono e non devono assolutamente esserlo.
Come già detto e ripetuto mille volte in questo mio ragionamento pubblico, non sono un videogiocatore e le mie conoscenze in materia sono abbastanza limitate, ma per questo discorso credo/spero più che sufficienti.
Le tre parti in cui voglio dividere il gioco sono, il gameplay, la trama e d il mondo in cui il gioco è ambientato.
Per quanto riguarda il sistema di gioco e il gameplay, come già detto in maniera più che abbondante, per motivi pratici questi non può assolutamente essere storicamente attendibile, a meno che no si stia giocando ad un simulatore di vassalli nel X secolo.
Per quanto riguarda la trama, la questione sulla possibile veridicità storica diventa di gran lunga più complessa, e se da una parte, in una campagna singleplayer la veridicità storica può essere presente, accurata e magari anche divertente, senza insorgere in particolari problematiche, diventa un ostacolo bello grosso nel momento in cui si passa ad un potenziale multiplayer andrebbe a limitare tantissimo, oserei dire troppo, le possibilità del giocatore.
In questo caso la veridicità storica, come nel caso del gameplay, ucciderebbe la competizione, rendendo di fatto il titolo ingiocabile. Prendo ancora una volta ad esempio Battlefield 1, ipotizzando di scegliere la Russia, un ipotetico giocatore sarebbe obbligato ad abbandonare il gioco verso la fine, senza alcuna possibilità di vittoria, e chi sceglierebbe mai la Russia, la Germania, l’impero Austro Ungarico o l’impero Ottomano , se, l’unica possibile conclusione in un contesto di realismo storico è la sconfitta ?
Tutti sceglierebbero di giocare con Francia, Gran Bretagna e USA. Al massimo potrebbero scegliere l’Austria Ungheria e giocarsela contro l’Italia, ma alla fine dovrebbero comunque perdere la guerra.
E se si considera che in una competizione, per quanto la partecipazione possa essere sicuramente importante, alla fine si gioca per vincere, ed ecco allora che il realismo storico applicato alla trama, diventerebbe un ostacolo insormontabile, letale per il videogioco e il videogiocatore.
Arriviamo infine all’ultimo dei tasselli che compongono un videogioco, il mondo in cui un determinato titolo è ambientato, questo può effettivamente essere “realistico” ? Deve sottostare a precise convenzioni affinché il titolo sia godibile ? In questo caso credo che il realismo storico possa presentarsi in maniera dirompente, ed essere accurato fin nel minimo dettaglio, senza inficiare la godibilità del titolo.
La presenza di un mondo storicamente realistico arricchito da elementi grafici in linea con il tempo e lo spazio in cui siamo proiettati, possono costituire un interessante e ricco background in cui vivere la nostra avventura. Questi elementi che vanno a costruire il sottofondo narrativo possono, e in alcuni casi devono, essere perfettamente coerenti con l’epoca in cui è ambientato il titolo, andando quindi a stabilire e definire i rapporti e le convenzioni sociali che regolano quel mondo, più o meno simile con il nostro mondo in un determinato periodo storico, e questo senza alcun tipo di conseguenze sul gameplay.
In conclusione, un buon videogioco, che sia realmente giocabile, non potrà mai essere storicamente attendibile al 100% e ci sarà sempre bisogno di una qualche convenzione che andrà a modificare la percezione di un determinato momento storico, tuttavia, qualunque variazione nel mondo in cui è ambientato andrà semplicemente a creare un nuovo mondo, storicamente “coerente” con se stesso, e sostanzialmente indipendentemente dal realismo del titolo, poiché ciò che conta in un videogioco è la sua giocabilità, e sfido chiunque a giocare con un protagonista lebbroso o colpito dalla dissenteria, mentre è impegnato a schivare secchiate di piscio gettate dalla finestra, e tutto questo durante un inseguimento necessario per completare la propria missione.
Durante il periodo estivo mi sono dedicato alla lettura, o meglio alla rilettura dell’opera autobiografica del presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama , intitolata “I sogno di mio padre”.
Vi lascio di seguito il link per acquistare il libro qualora foste interessati alla lettura, prima di procedere con la mia prima, spero interessante, recensione dell’opera.
Il libro in se è molto interessante e soprattutto molto evocativo, tra le sue pagine è possibile ripercorrere gli anni della giovinezza di Barry (questo il nome che ha utilizzato almeno fino agli anni del liceo) Obama, passando dall’innocenza dell’infanzia alla ribellione adolescenziale e la presa di coscienza di se.
La biografia si divide in quattro diverse parti, ognuna delle quali racconta un selciato della vita sua e dei suoi familiari. Tra le prime pagine viene presentato il suo misto e confuso nucleo familiare, partendo dai suoi nonni, passando a sua madre ed i vaghi ricordi giunti fino a lui attraverso i racconti materni di suo padre, il cui spettro accompagnerà tutta la vita di Obama.
Segue poi un inquadramento della vita hawaiana, condita con teneri e dolci aneddoti nei quali viene mostrato l’amore incondizionato dei suoi nonni, ed in fine, il trasferimento, al fianco di sua madre e del nuovo compagno in Indonesia.
Lì Obama vivrà e crescerà in un ambiente molto diverso da quello dell’isola natale, e lì, vedendo una rivista in cui era raffigurato un innovativo metodo di sbiancamento della pelle, iniziano a maturare i primi dubbi riguardo la propria identità.
Da questo momento in poi possiamo dire che si apre la parte credo più importante dell’opera, e probabilmente della vita di Obama (e per certi aspetti di ogni essere umano) ovvero la ricerca di se stessi, la ricerca della propria identità, che, in casi al limite come quello del futuro presidente americano, può essere particolarmente complicata. In queste pagine Obama è come “balto”, metà cane, metà lupo, senza una precisa identificazione sociale, letteralmente “sa soltanto quello che non è”.
Obama era cresciuto e vissuto come un bianco, ma la sua pelle era di un altro colore, questo particolare raramente si era mostrato negli anni hawaiani, ne, a maggior ragione in Indonesia, ma al suo ritorno, ancora di più quando si sarebbe trasferito a Los Angeles per studiare all’università, la sua natura di meticcio, lo avrebbe portato inevitabilmente a scontrarsi con la realtà.
Negli anni a Los Angeles, minuziosamente descritti nella seconda parte del libro, Obama è costretto realmente ad affrontare se stesso, arrivando anche a toccare il fondo, prima di poter finalmente vedere la luce in fondo al tunnel e scoprire esattamente chi fosse.
In questi anni le esperienze vissute sono spesso molto forti e al limite, e porteranno il giovane Barack ad utilizzare il nome paterno ed esplorare diverse realtà, i cui sentieri lo avrebbero condotto dinanzi a se stesso, permettendogli di maturare e sviluppare finalmente una propria e precisa identità, identità fondamentale nella costruzione di un sua scala di valori che andrà a definirsi sempre di più negli anni della vita nell’Illinois affrontata nelle ultime parti del libro.
Terminati gli studi Obama si trasferisce a New York, per poi trovare lavoro come coordinatore di quartiere a Chicago, una città nuova, simile e allo stesso tempo molto diversa da Los Angeles. Qui, un giovane ma più maturo Obama dovrà fare i conti con una nuova realtà, che con le sue agghiaccianti verità avrebbe generato nuovi sentimenti in un giovane che ormai aveva vissuto sulla sua pelle mille vite differenti.
Obama era nato in una famiglia medio borghese, aveva vissuto la sua prima infanzia non nel lusso, ma nel benessere, in seguito, il trasferimento in Indonesia è stato vissuto come un passo indietro, in una casa decisamente più povera di quella dei propri nonni, ma lì, il trasformismo e del suo patrigno impegnato in una assennata scalata sociale, permise ad Obama di vedere la trasformazione di una fattoria in una villa, poi di nuovo alle Hawaii, questa volta in un appartamento condominiale insieme ai suoi nonni, ed in fine, la realtà della discriminazione e del ghetto californiano, prima di trasferirsi in una città di operai, dove nero era sinonimo di povertà, discriminazione e disagio.
In quei luoghi, Obama incontra faccia a faccia le comunità e le autorità politiche, impegnandosi in opere di rivalutazione e riqualificazione di aree urbane più simili a discariche che quartieri residenziali.
Nell’ultima parte del libro Obama riscopre ed incontra la propria famiglia dal lato paterno, venendo finalmente a conoscere la verità su suo padre, un uomo fedele ai propri principi, principi per i quali era stato acclamato come un eroe nazionale e poi, al cambio della guardia, messo al bando e costretto ad una vita di sofferenze e miseria, prezzo da pagare per la propria integrità morale.
Un uomo tutto d’un pezzo con un sogno che amava il suo paese, la sua gente e la sua terra più di se stesso, e questo amore lo avrebbe lo avrebbe trasmesso indirettamente ai suoi figli, e più di tutti, a quel figlio americano, lasciato in fasce perché richiamato in patria a ricostruire il proprio paese.
Questo è “i sogni di mio padre” un opera illuminante che racconta la vita di Barack Obama e come quella vita non sia stata perfetta, trascorsa alla ricerca di se stesso e della propria identità.
Credo che fosse quello lo scopo primo e forse unico di questo libro, definire la propria identità, e leggendo o meglio, rileggendo quelle pagine, vivendo quei ricordi non miei, e rivivendo contemporaneamente i miei ricordi, ho potuto effettuare lo stesso lavoro introspettivo, andando a ridefinire e comprendere meglio me stesso.
Internet ha almeno trent’anni, la sua storia ufficiale inizia agli albori degli anni novanta e da allora la sua presenza nel mondo e nella società è stata sempre più importante. Oggi internet rappresenta un terreno fertile per nuove imprese, il punto di origine di nuovi progetti e start-up, fulcro di un mondo sempre più selvaggio e senza regole con importanti risvolti anche sul piano politico, il mondo digitale è in continua espansione, fin dagli anni novanta, e il suo futuro, nonostante oggi il web abbia basi più solide, continua ad essere incerto.
Il destino del Web è avvolto da ombre e mistero, allo stesso tempo sinonimo di libertà e anarchia, ma anche di regole di comportamento dettate da aziende private sempre più potenti e influenti in ogni campo. Allora, in questo caos generale che avvolge il web, forse, conoscere la sua storia, o almeno l’ultima parte della sua storia, può essere un buon modo, per conoscere meglio lo strumento che più di tutti oggi determina le nostre vite.
Il 6 agosto 1991 nasceva ufficialmente, presso il CERN di Ginevra il Web, inizialmente riservato alla ricerca scientifica, la comunicazione e lo scambio di informazioni ad altissima velocità, ed il 26 aprile del 1993 il Web si aprì al pubblico diventando il nucleo embrionale del più grande, vasto e selvaggio World Wide Web (WWW).
La storia di internet, così come lo conosciamo (più o meno), è iniziata sul finire degli anni ottanta e inizio degli anni novanta, ma come spesso accade la storia è molto più ampia, complicata e profonda e inizia molto prima del suo inizio ufficiale.
Una storia, quella del web che inizia probabilmente con i ponti radio durante la prima guerra mondiale, ma forse è meglio non andare troppo in dietro e limitarci al web selvaggio e al suo più diretto predecessore, noto come Arpanet.
Nel aprile del 1993, nasceva effettivamente e Internet così come lo conosciamo, grazie alla pubblicazione del Web e la diffusione ormai capillare di personal computer in quasi ogni casa. Per circa un decennio, tra il 1993 ed il 2004 assistiamo di fatto a quella che verrà definita dagli analisti e dagli storici come “rivoluzione informatica” che avrebbe catapultato il mondo nell’era digitale, ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire da dove arriva il Web e in che direzione punta. Se il World Wide Web rappresenta, per certi aspetti, il punto di partenza dell’Internet odierno, va anche detto che il “web” è alla base del World Wide Web e che ARPANET è alla base stessa del Web. Non resta quindi che da chiederci:
Checos’è Arpanet ?
Arpanet rappresenta la prima embrionale forma di rete informatica realizzata fisicamente ed inaugurata nel 1969, il progetto costituisce la realizzazione di una visione di Joseph C.R. Licklider e Welden E.Clark, due informatici statunitensi, ricercatori del MIT che nell’agosto del 1992 pubblicarono un articolo intitolato “On-line man computer communication” con cui teorizzavano la “Intergalactic Computer Network”, si trattava di una rete informatica che permetteva la comunicazione tra computer distanti tra loro.
La teoria di Licklider e Clark fu tradotta immediatamente in un progetto reale dal Defence Advanced Research Projects Agency (Agenzia per i Progetti di ricerca avanzata per la Difesa), meglio noto come DARPA, che finanziò la ricerca volta a collegare tutti i computer e i sistemi di time-sharingin una rete continentale. Purtroppo Licklider non vide la realizzazione della sua visione dall’interno perché nel 1994 lasciò il mondo accademico ed il progetto ARPANET per accettare un lavoro alla IBM.
Come dicevamo, la rete ARPANET fu concretizzata nel 1969 con la realizzazione di quattro nodi che collegavano insieme , l’università di Los Angeles, l’università di Santa Barbara, l’SRI di Stanford e l’università dello Utah. Appena qualche anno più tardi, non molto tempo dopo nacquero i primi sistemi di trasferimento dati ovvero File Transfert Protocol, più noto come protocollo FTP e nel 1971 Ray Tomlinson della BBN inventò la posta elettronica, un innovazione che avrebbe gettato le basi per la comunicazione nell’età digitale.
Agli inizi degli anni settanta c’erano tutti gli ingredienti per la realizzazione di una rete globale, ARPANET era stata presentata al pubblico nel 1972, anche se bisognerò aspettare più di un decennio prima di vedere “un computer in ogni casa” e la rete iniziò ad espandersi anche oltreoceano, colonizzando da prima il Regno Unito, la Norvegia e l’Italia. A tal proposito, l’Italia fu il terzo paese europeo a collegarsi alla rete Arpanet, la connessione avvenne circa trenta anni fa, il 30 aprile 1986, ad opera del CNR, dalla sala macchine del Cnuce in via Santa Santa Maria 26 a Pisa.
Tornando agli anni settanta, il 1976 fu un anno importante per internet, da una parte la prima connessione ad internet dei primi paesi europei e dall’altra un evento iconico nella storia di Internet, il 26 marzo del 1976 la regina Elisabetta II fu la prima inglese a spedire un’email, fu inviata alla sede del Royal Signals and Radar Establishment.
Il 12 aprile del 1979 Kevin MacKenzie suggerì di inserire nelle email un immagine che indicasse gli stati d’animo, inventando così le Emoticon (fondamentali per il corretto funzionamento di internet).
Nel 1980 farà la sua apparizione il primo virus informatico che avrebbe fatto collassare l’intera ARPANET, quel virus rese necessaria la creazione di un sistema di controllo, che permettesse di risolvere eventuali conflitti legati alla connessione di reti differenti, e così, dall’unione di ARPANET, la rete CYCLADES (progetto francese) e la rete DCA, con l’introduzione dei protocolli TCP e IP, questa primordiale “internet” si configurava come la prima rete di reti informatiche, un insieme di network e sistemi collegati tra e regolati da alcuni protocolli (i protocolli TCP/IP sono ancora oggi in uso).
Nel 1991 il ricercatore Tim Berners-Lee pubblicò il primo sito web della storia presso il CERN (ancora on-line) all’indirizzo http://info.cern.ch/hypertext/WWW/TheProject.htmle progettò il protocollo HTTP (HyperText Transfer Protocol).
Questo protocollo permetteva la lettura di file ipertestuali non sequenziali, che attraverso un sistema di rimandi chiamati hyperlink (meglio noti come link) permettevano di saltare da un punto all’altro saltando da un punto all’altro. Questi file erano consultabili attraverso un Browser, il primo (e all’epoca unico browser disponibile) è stato Mosaic sviluppato dal NCSA dal 1992 al 1997 quando uscì di scena lasciando il passo ai più fortunati Netscape ed Internet Explorer, protagonisti sul finire degli anni novanta di una vera e propria guerra informatica ribattezzata dalla stampa come “la battaglia dei Browser“.
All’inizio e per gran parte degli anni novanta va precisato che internet era un luogo molto diverso da come siamo abituati a conoscerlo, decisamente più ostile e selvaggio, una vera e propria giungla digitale, popolata da link ipertestuali tra i quali era facile perdersi. Nel 1994 fecero la loro apparizione le prime directory di ricerca, si trattava di pagine web strutturate come dei veri e propri elenchi di siti, che riportavano in ordine alfabetico la maggior parte dei siti web noti agli autori delle varie directory, gli elenchi erano aggiornati manualmente e trovare qualcosa al loro interno era tutt’altro che facile, ma di certo non impossibile. La vera e propria rivoluzione di internet avvenne con il 1998 quando Larry Page e Sergey Brin, all’epoca due studenti della Stanford University fondarono Google, il primo motore di ricerca, un sito web destinato a rivoluzionare internet in una maniera talmente profonda da legare il concetto stesso di motore di ricerca all’esistenza di Internet. E probabilmente monte start-up informatiche di successo, nate all’indomani del 1998 non si sarebbero imposte nelle nostre vite in maniera così forte e dirompente se non fossero esistiti Google ed i motori di ricerca.
Se quindi dovessimo ripercorrere in pochi passi la lunga storia di internet potremmo dire che, nell’1962 Joseph C.R. Licklider ipotizzò una rete informatica in grado di collegare insieme ogni computer del pianeta e tredici anni più tardi, nel 1975, Steve Wozniak Steve Jobs immaginarono un computer in ogni casa, queste due visioni complementari entrarono definitivamente in contatto quando nel 1993 il web, nato nel 1991 da Tim Berners-Lee in seguito alla pubblicazione della prima pagina web, divenne di pubblico dominio, permettendo ad ogni macchina/computer, presente in ogni casa, di accedere ad internet attraverso la linea telefonica. In fine, nel 1997 Larry Page e Sergey Brin con Google misero ordine in quel caotico mondo che era l’internet delle origini, spalancando definitivamente le porte porte dell’era digitale alle soglie del nuovo millennio.
Al termine del periodo di scontri tra greci e persiani, più noto come Guerre Persiane, la situazione in Grecia era più critica che mai, al pari del periodo della guerra fredda dell’età contemporanea, le varie Polis si erano riunite, attorno alle due maggiori città che avevano combattuto i persiani, in due leghe, la lega di Delo e la lega del Peloponneso, che puntavano all’espansione e l’imposizione su tutta la Grecia dei rispettivi modelli culturali di riferimento.
Ma facciamo un passo in dietro.
I persiani sono stati sconfitti nello scontro finale di Platea dal generale spartano, oltre che Reggente di Sparta, Pausania(Pausania fu reggente di Plistarco, figlio di Leonida, dopo la morte di Leonida e di suo fratello nello scontro presso le Termopoli) il quale era un forte sostenitore della democrazia, e avrebbe pagato a caro prezzo il suo credo politico.
Ad Atene, Temistocle,già arconte nel 491, fa si che vengano costruite 180 nuove trireme con i proventi delle miniere d’argento del Laurion e fece trasformare la baia di Falero nel porto militare di Atene, promettendo la nascita della Lega di Delo. Nel 471 sarebbe stato accusato di avere atteggiamenti tirannici e quindi allontanato da Atene, costretto in esilio si stabilì nella non lontana Argo. Durante il suo esilio, aiutò Pausania a promuovere la democrazia nel Peloponneso e procurò ad Atene il controllo sull’Ellade.
Sparta, di regime Oligarchico, non vedeva di buon occhio la democrazia, in quanto riduceva il suo potere nel Peloponneso e nel 471/469 Pausania e Temistocle vennero accusati di aver stretto alleanza con la Persia, accusa che sfociò nella pena capitale, Temistocle fuggì a Magnesia, presso la corte di Artaserse, mentre Pausania si rifugiò nel tempio di Atene Calcieca, dove le guardie non poterono arrestarlo, così l’Eforato ordinò di murare le porte del tempio, lasciando che l’eroe di Platea morisse murato vivo.
Ad Atene nel frattempo Cimone aveva sostituito Temistocle, e durante la sua carica, ottenne numerose vittorie contro i persiani, tra queste la Battaglia sul fiume Eurimedonte in Asia minore fu una delle sue più importanti vittorie. Venne però anch’esso accusato di aspirare alla tirannide ed allontanato nel 461, fu sostituito da Pericle, che avrebbe trasformato la lega di Delo in un vero e proprio impero coloniale, mentre, dall’altra parte, Sparta assumeva una posizione centrale nella lega del Peloponneso.
Atene stringe alleanza con Argo e la Tessaglia, fece costruire una solida rete di mura tra Megara, Atene e il porto di Nisea. Callia stratega Ateniese, ottiene una pace con i persiani, nota come pace di Callia. A questo punto Atene non è più direttamente minacciata dai persiani, mentre sparta vive una crisi interna ed è costretta nella terza guerra Messenica.
Pericle, consapevole della superiorità della flotta ateniese, si impegna per la liberazione dell’Egeo, con successiva colonizzazione ateniese, e questo interferiva con le grandi Polis marittime di Corinto ed Egina –alleate di Sparta e città parte della lega del Peloponneso-. Egina e Corinto attaccano la flotta ateniese, Egina viene assediata e poco dopo entra a far parte della lega di Delo. Corinto assedia Megara, ma l’ateniese Mitanide rompe l’assedio. A questo punto Atene costruisce una nuova rete di mura tra Atene, Prieo, la baia di Falero. Sparta invece invade la Beozia. Mentre l’Acaia si allea con Atene.
Sul fronte egiziano, la spedizione di liberazione ateniese fallisce, e Cimone torna dall’esilio, concordando un tregua quinquennale, Argo però, rompe l’alleanza con Atene.
Nel 448 sparta interviene a Delfi contro i focesi, nella “seconda guerra sacra“.
Tebe appoggia rivolte oligarchiche in Beozia. La Tessaglia rimane così l’unica alleata di Atene, successivamente nel 446 il re spartano Pleisanotte invade l’attica, ma non attacca Atene, provocando così la fine dell’impero ateniese.
Viene concordata una nuova pace trentennale, pace che terminerà quando Atene mostrerà interesse negli scambi con la Magna Grecia. Si riuniscono dunque i rappresentanti della lega del Peloponneso, per decidere come reagire, ed il Re spartano Archidamo parlerà in favore della pace, nonostante ciò, si decise per un ultimatum verso Atene. Atene rifiutò le condizioni, ricordando i meriti contro i persiani, e si preparò per lo scontro, dall’altra parte re Archidmo, preparò l’assedio di Atene che ha inizio nel 431. Pericle da parte sua, sapeva bene che non avrebbe potuto fronteggiare il più potente esercito spartano, fece così rientrare tutta la popolazione entro le mura della città, rifornendo la città dal mare.
La flotta ateniese attaccò le coste del Peloponneso e conquista l’isola di Egina, Archidamo invece richiede aiuto estero , ma gli viene rifiutato. Sparta tenta anche di conquistare Megara ed Epidauro, ma fallisce.
La guerra continua per procura anche nelle colonie della Magna Grecia, dove si combattono Reggio e Siracusa, ed Atene interviene nello scontro di Milazzo prendendo Messina. Gli scontri tra Sparta ed Atene si estendono su tutto il continente greco, al punto che Atene bloccherà la baia di Pilo in Messenia nel 425, mentre lo spartano Brasida conquisterà Anfipoli nel 422 (anfipoli era la maggior fornitrice di legname per la flotta ateniese). Con la conquista della città, il generale ateniese Tucidide è costretto ad abbandonare la città.
Successivamente Cleone tenterà di riprendere Anfipoli, ma cadranno in battaglia sia lui, sia Brasida. Nicia ottiene una pace, perché entrambe le Polis erano stanche da uno scontro di 10 anni ed una pestilenza, ma gli alleati non rispettano la tregua, e gli scontri si spostano in sicilia, dove Seleinutte è in guerra contro Segesta.
Atene interviene al fianco di Segesta, poiché Alcibade (nipote di Pericle ed uno dei capi ateniesi) puntava a conquistare la Sicilia.
Nel 415 la flotta ateniese salpa per la sicilia guidata da Alcibade, Nicia e Lamaco. Alcibade viene però accusato di aver mutilato le statue di Hermes, e gli viene imposto di tornare in patria per essere condannato, ma si rifiuta e si rifugia a Sparta diventando consigliere.
Nel 413 lo scontro in sicilia è quasi vinta dagli Ateniesi, ma Sparta interviene al fianco di Siracusa, rovesciando le sorti dello scontro.
In Grecia, Sparta organizza un nuovo assedio di Atene, questa volta però chiedendo in anticipo l’alleanza dei Persiani, quest’alleanza porterà un potente esercito terrestre (quello spartano) ad assediare Atene, e la flotta persiana a contrapporsi a quella Ateniese.
lo scontro si conclude in appena dieci anni, e nel 404 Atene esce sconfitta dalla battaglia di Egospotami, dove le ultime Trireme Ateniese vengono affondate.
Un contingente di opliti spartani occuperà Atene, e verranno istituiti 30 nuovi arconti, noti come i trenta tiranni, che rimarranno in carica appena un anno, prima che Trasibulo riporti la democrazia ad Atene.
Con la sconfitta di Atene, e l’istituzione dei trenta tiranni, si concludono il trentennio di guerre tra Sparta ed Atene, iniziato nel 431 noto come “Guerre del Peloponneso”.
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