FOIBE || La strage di italiani insabbiata dal governo

La questione delle stragi delle Foibe e il “silenzio della politica italiana di quegli anni” , da qualche anno è diventato un elemento centrale nel dibattito pubblico che viene ad originarsi sul web durante alcune manifestazioni della memoria, volte a non dimenticare, i crimini di guerra compiuti durante la seconda guerra mondiale. Il tema delle Foibe è spesso utilizzato in modo improprio, estraendo quegli avvenimenti dal contesto storico in cui si verificarono, mi riferisco al silenzio politico oltre che ovviamente alle stragi.

Possiamo sintetizzare il tutto in questa breve frase, dietro l’insabbiamento degli eccidi delle foibe, si celano profonde ragioni di stato e politiche, legate al principio di reciprocità. Più espressamente, procedere nel dopoguerra con i processi a carico die criminali di guerra Jugoslavi, avrebbe implicato processi analoghi contro criminali di guerra italiani (responsabili di crimini in Jugoslavia) tra cui anche nomi illustri, come Gabriele D’annunzio.

La neonata repubblica Italiana, che stava godendo in quel momento dell’immagine di “brava gente vittima del fascismo e di Mussolini” non poteva e non voleva rischiare di rivangare il proprio passato, di ammettere una complicità estesa, soprattutto nelle periferie coloniali, con il regime. Per cui, la dove possibile, bisognava insabbiare.

Ripulire le mani degli italiani però non è l’unica ragione, vedremo infatti che vi era in sentito timore che lo scontro giuridico ed i processi politici avrebbero potuto prolungare il conflitto ben oltre la sua fase di belligeranza armata, e per l’Italia che giocava un ruolo strategico nel Mediterraneo per effetto di un nuovo ordinamento mondiale che andava delineandosi, era di vitale importanza, mantenere il più possibile rapporti “pacifici” con i vicini Jugoslavi, il cui collocamento geopolitico era ancora incerto.

Tante ragioni quindi, politiche, strategiche, storiche, riassumibili nel concetto di “ragion di stato” spinsero la classe politica dell’epoca ad insabbiare tutto.

Ho avuto la possibilità, qualche anno fa, di recuperare un vecchio “intervento” di Giulio Andreotti, risalente al febbraio 2007, un intervento che segue di 3 anni l’istituzione della giornata della memoria per le vittime delle foibe e che, in un modo o nell’altro, ci dice tanto.

Integrerò la dichiarazione di Andreotti con alcune spiegazioni, estratte dai miei appunti inerenti un ciclo di lezioni all’Università di Pisa risalente al 2016, in modo da rendere il più chiaro possibile cosa accadde sul piano politico nell’Italia a ridosso della seconda guerra mondiale e l’inizio dell’età repubblicana, tra il 1945 ed il 1948.

“Credo sia mio dovere intervenire perché questa espressione di riferimento ad un lungo silenzio può essere equivoca. Ho vissuto quel periodo e quindi lo conosco direttamente e vorrei dire perché noi abbiamo coscientemente evitato di fare di quell’argomento un motivo che dividesse.”

L’intervento di Andreotti è una risposta all’intervento dell’allora presidente del Senato Franco Marini sulla questione delle Foibe, in cui Andreotti spiega perché all’epoca (nell’immediato dopoguerra) l’argomento fu a suo dire “coscientemente evitato“. Andreotti ricordiamo che, prima di essere un politico di lunga data, protagonista quasi indiscusso della prima repubblica, fu uno dei più giovani membri dell’Assemblea Costituente, uno dei pochi a dire il vero a non avere un passato politico tra le fila del Fascismo.

“Certamente eravamo ispirati da due fattori: innanzitutto, non doveva essere un motivo di polemica interna, perché i Comunisti Italiani non c’entravano niente”

Credo le sue parole siano fin troppo chiare, e non diano molto spazio ad interpretazioni, eravamo in un momento , nel 45, di grande fermento politico, una fase di transizione storica a cavallo tra la fine della seconda guerra mondiale e l’inizio della guerra fredda, le prime tensioni tra le due superpotenze vincitrici della guerra iniziavano a manifestarsi in maniera concreta e apertamente dichiarata, e di conseguenza iniziavano anche le prime pressioni internazionali per limitare l’azione politica dei gruppi e partiti più vicini all’una o l’altra parte, in particolare si cercava di arginare, nel mondo occidentale e in Italia, quelle formazioni in qualche modo vicine all’unione sovietica, era quindi impossibile affrontare un tema che riguardasse un paese comunista come la Jugoslavia, senza che le sue responsabilità ricadessero di riflesso sui comunisti italiani, che però, come osserva e ricorda lo stesso Andreotti, non c’entravano nulla.

“in secondo luogo vi era un dovere di cercare quanto più possibile di instaurare con un Paese vicino, con il quale vi era stato più di un motivo di grandissimo contrasto, un clima di comprensione che guardasse al futuro e non al passato.”

In questo passaggio Andreotti fa un tacito riferimento alla “clausola di reciprocità”, un cavillo giuridico utilizzato dall’Italia nell’immediato dopoguerra per prendere le distanze dai crimini del nazismo, e “proteggere” gli italiani da un destino analogo a quello dei condannati a Norimberga.

Sono anni in cui il dibattito internazionale sui crimini di guerra e contro l’umanità è particolarmente acceso, e allo stesso tempo oscuro, non ci sono in quel momento organi di diritto internazionale universalmente riconosciuti, non c’è la Corte di Giustizia Internazionale o la Corte Penale internazionale, e il tribunale speciale di Norimberga, nel suo tentativo di fare giustizia si è presto trasformato in un tribunale dei vincitori sui vinti, che fece venir meno uno dei principi fondamentali del diritto, ovvero la non retroattività di un crimine. Passaggio che però fu necessario vista la brutalità senza precedenti dei crimini nazisti.

A livello giuridico un tale operato fu necessario per punire quelli che erano i crimini, più che evidenti, compiuti dal regime Nazista, che de facto, nell’ordinamento giuridico dell’epoca tecnicamente non erano crimini, poiché compiutisi in modalità e portata totalmente nuova e non prevista da nessun codice nazionale o internazionali. Inoltre, nella Germania Nazista, e successivamente nell’Italia Fascista, tutto ciò era legale.

In quel meccanismo criminale, messo in atto dai regimi Nazi-fascisti, furono coinvolti numerosi ufficiali militari e leader politici italiani, tra cui molti “eroi del fascismo” che in seguito avrebbero voltato le spalle al fascismo e supportato Pietro Badoglio, tra cui lo stesso Badoglio, che in Africa aveva compiuto quelli che dopo Norimberga potevano essere definiti crimini di guerra e contro l’umanità, e lo stesso valeva per molti degli italiani che avevano occupato e amministrato l’area balcanica durante la guerra.

Con la fine della guerra iniziano a diffondersi in tutti i paesi coinvolti, numerose liste di “criminali di guerra”, la Francia prepara la lista dei criminali stranieri attivi in Francia, così come avrebbe fatto la Germania, la Russia, la Polonia, l’Italia e la Jugoslavia.

La maggior parte dei nomi presenti in quelle liste erano ufficiali tedeschi, ma nelle liste non c’erano solo loro, c’erano in realtà molti italiani, ma non mancarono accuse nei confronti di francesi, jugoslavi, britannici, statunitensi, russi ecc.

Alcuni nomi erano presenti in diverse liste, e per semplicità e convenienza politica, si decise di condividere quelle liste, ordinare i criminali per nazionalità e procedere caso per caso, nazione per nazione, attraverso tribunali nazionali che avrebbero avuto il compito di giudicare e punire i propri criminali di guerra, in altri termini l’Italia avrebbe dovuto giudicare e punire i criminali italiani, la Francia i francesi, la Jugoslavia i jugoslavi ecc, ed è proprio qui che entra in gioco la sopracitata “clausola di reciprocità”, prevista dai codici militare, in particolare quello italiano e che permetteva all’Italia di processare i propri criminali di guerra a condizione che i criminali accusati dall’Italia, fossero a loro volta processati, di conseguenza se in Jugoslavia non fossero stati avviati dei processi, l’Italia non avrebbe processato i propri criminali, e viceversa, perché la Jugoslavia processasse i propri criminali, chi aveva commesso crimini in Jugoslavia doveva essere processato.

Tuttavia, Italia, Francia e Jugoslavia in primis che vedevano tra i propri criminali numerosi nomi legati alla politica post bellica, volevano evitare di andare a processo e questo cavillo era esattamente ciò di cui avevano bisogno tutti, poiché avrebbe garantito un’importante scappatoia, in particolare all’Italia e alla Jugoslavia.

La maggior parte dei criminali jugoslavi erano coinvolti direttamente nel neonato governo di Tito, e Tito non avrebbe mai smantellato la nuova classe dirigente del neonato stato di Jugoslavia “solo” per obbligare l’Italia a processare i propri criminali di guerra. E lo stesso valeva per l’Italia.

“Ritengo quindi che il silenzio sia stato più che giusto e che siano state molto opportune le parole dette. Ognuno, del resto, ha la propria opinione e guai se dovessimo avere tutti la stessa! Dal momento che l’ho vissuto, però so che la grande maggioranza degli italiani di quelle zone riteneva di dover guardare verso il futuro e non creare dei solchi che aggravassero ulteriormente la situazione”

L’ultima parte dell’intervento di Andreotti si riferisce alla crescente tensione tra l’Italia e la Jugoslavia nell’immediato dopoguerra, sulla questione del territorio Istriano, di Trieste e parte dell’odierno Friuli, poiché queste regioni che l’Italia rivendicava, durante la guerra furono “liberati” dall’occupazione nazi-fascista, dalle milizie di Tito prima dell’arrivo degli alleati, e di conseguenza alla fine della guerra la Jugoslavia di Tito rivendicò il proprio controllo su quell’area territoriale, che l’Italia aveva occupato alla fine della prima guerra mondiale.

Entrambe le parti volevano quelle regioni e come è facile intuire, ne scaturì una profonda crisi diplomatica che avrebbe sottoposto quelle aree (soprattutto Trieste) ad un controllo internazionale.

In Italia, che aveva partecipato a due guerre mondiali per assicurarsi il controllo di quelle regioni, c’era una profonda volontà politica di mantenere l’unità nazionale e riportare sotto il controllo italiano almeno una parte dei territori controllati da Tito a partire dal 1943 e alla fine, solo una parte di essi tornò effettivamente all’Italia, dopo quasi un decennio di controllo internazionale dell’area di Trieste, terminato nel 1954.

 La mancata Norimberga italiana

Il mancato processo dei criminali “comunisti” che massacrarono oltre 300.000 italiani tra i mondi del carso, del Friuli e della Dalmazia, attraverso gli eccidi delle Foibe, fu un atto politico, largamente voluto dalla politica italiana del secondo dopoguerra. Una politica che antepose le ragioni di stato alla giustizia.

L’Italia avrebbe potuto fare pressioni e richieste alla Jugoslavia affinché avviasse dei processi contro i responsabili degli eccidi, ma non lo fece, anzi, scelse apertamente di non farlo, per tante ragioni, la prima di queste riducibile nella volontà di proteggere se stessa e l’Italia.

Quanto alle vittime delle foibe e gli eccidi stessi, questi furono un crimine d’odio raziale e intolleranza, imperdonabile, che si fondò sulla generalizzazione e che venne oscurato per quella stessa ragione. Per i criminali di guerra Jugoslavi, gli Italiani occupanti erano tutti criminali nazifascisti, complice di quel regime che per vent’anni, in quelle regioni, aveva sottratto terre agli indigeni rastrellato, stuprato, massacrato e umiliato la popolazione locale, in nome della superiorità dell’Italia Fascista. E quella rabbia, quel risentimento, quel desiderio di vendetta, si abbatté su tutti, colpevoli e innocenti, ed è questo ciò che va ricordato, perché quei crimini vanno condannati per ciò che furono. Rappresaglie generalizzate contro gli Italiani, non perché Italiani, ma perché gli Italiani fino a quel momento erano stati Fascisti.

Omettere questa parte della vicenda, significa fingere che gli Italiani da un giorno all’altro, dismisero le camice nere e diventarono tutti brava gente, significa passare una mano di spugna su 20 anni di crimini compiuti in Italia e fuori dall’Italia, e fingere che non sia mai successo.

Le vittime delle Foibe non erano tutti criminali fascisti, e anche se lo fossero stati, non meritavano di essere massacrati in modo così brutale e disumano, ciò che meritavano, tutti, era un processo che giudicasse e punisse i criminali Italiani e Jugoslavi, e assolvesse gli innocenti, ma quel processo, come abbiamo visto, non c’è stato e anzi, è stato volutamente insabbiato, da Italia e Jugoslavia, per ragioni di stato. E a tale proposito, possiamo dire che quell’insabbiamento fu forse la prima (e non unica) “porcheria” commessa dall’Italia repubblicana in nome delle ragioni di stato.

Bibliografia

WE THE PEOPLE || Il ruolo delle masse popolari nella storia

Il consenso delle masse popolari fu fondamentale per l’ascesa al potere di Ottaviano, che grazie al ad esse e all’appoggio del senato, poté governare e fino a trasformare in maniera profonda e radicale la struttura amministrativa e istituzionale di Roma. Esse furono determinanti nella trasformazione del culto di Iside, da culto proibito a culto prima tollerato e poi addirittura ufficialmente praticato dall’imperatore Vespasiano, e in tempi più recenti, le masse popolari si sarebbero dimostrate estremamente significative per l’affermazione di movimenti come il Nazional Socialismo, che avrebbe portato alla presa di potere di Adolf Hitler in Germania.

Determinare e capire qual è il ruolo storico delle masse popolari rappresenta una delle grandi problematiche della storiografia contemporanea, di forte ispirazione marxista, ed è al contempo, una tematica di estrema attualità.
Secondo il marxismo ortodosso, le masse popolari hanno un ruolo centrale nel determinare le grandi correnti ed i grandi eventi della storia, esse sono presentate come uno dei motori più potenti della storia, se non addirittura, il solo, vero cuore pulsante della storia, esse sono anonime, senza volto ne nome, ma costituiscono la base da cui i grandi protagonisti della storia hanno potuto elevarsi e ricoprire il posto di rilievo per cui sono divenuti noti. In quest’ottica la storia non è determinata dalle azioni di pochi grandi uomini, ma dall’operato e dal lavoro di milioni di uomini che nell’ombra hanno permesso a quei pochi uomini di essere ricordati.
Napoleone non sarebbe Napoleone senza gli eserciti al suo seguito, senza i soldati pronti a morire per quegli ideali, Colombo non avrebbe scoperto le Americhe senza il suo equipaggio, e così per Hitler, Lienin, Washington, Cromwell, Garibaldi, Ottaviano, Carlo V, il Saladino ecc ecc ecc.
Questa visione storiografica come dicevamo è di forte ispirazione marxista, e sarà centrale nel dibattito pubblico e accademico soprattutto negli anni successivi alla seconda guerra mondiale e per tutti gli anni cinquanta e sessanta, e in larga misura almeno fino ai primi anni novanta.
Ma prima di Marx, le masse popolari, cosa come erano viste dagli storici e che ruolo avevano nella storia?
Per lungo tempo, almeno fino alla seconda metà del diciottesimo secolo, le masse popolari erano considerate in maniera estremamente marginale e quasi insignificante sul piano storico e storiografico. Tutto questo però, inizia a cambiare con l’illuminismo e con l’affermazione della classe borghese, qui Marx potrebbe storcere il naso di fronte a queste mie parole, e pure, se le masse popolari, operaie e contadine, da un certo momento in poi, hanno potuto assumere una propria identità di fronte alla storia, questo è proprio grazie all’affermazione della classe operaia, la cui pretesa di attenzioni dalla società tradizionale, ed il desiderio di penetrare in quel mondo elitario, fino ad allora territorio esclusivo della nobiltà, ha portato ad uno stravolgimento degli equilibri tale da permettere anche alle masse popolari di entrare in quella storia di cui erano sempre state parte, come attori silenziosi, celati nell’ombra dei grandi avvenimenti, e in questa analogia con il teatro, le masse popolari possono essere percepite come l’esercito invisibile di tecnici, truccatori, costumisti ecc ecc ecc che anonimi si muovono dietro le quinte, permettendo allo spettacolo di andare avanti.
Gli ideali illuministici avrebbero portato all’affermazione dell’individuo e all’indipendenza delle colonie americane dal dominio britannico, creando così uno stato libero dal’antico dominio nobiliare, costruito e guidato per la prima volta nella storia da una leadership totalmente borghese; uno stato, dove la ricchezza ed il potere non erano predeterminati dalla nascita, ma frutto di lavoro, di volontà, e capacità (e anche un po dalla fortuna) dei singoli individui. Insomma, una nazione in cui un taglia-gole e un contrabbandiere potevano sedere al tavolo con gli uomini più potenti della nazione, senza che questi li guardassero con disprezzo. Qualcosa di analogo era già avvenuto a Roma, dove la grande mobilità sociale avrebbe permesso al nipote di un esattore, di accedere alle più alte vette politiche, fino a diventare Re, Console e Imperatore.
All’indipendenza americana avrebbe fatto seguito in europa, con qualche decennio di distanza, la rivoluzione francese e con essa l’avvento di Napoleone Bonaparte, che potremmo definire come l’uomo in grado di incarnare gli ideali rivoluzionari, e soprattutto l’uomo in grado di esportare, su larga scala, quegli stessi ideali. Napoleone avrà fama e fortuna in tutta europa e a suon di battaglie combattute dal Popolo per i Popoli, potrà mettere in ginocchio l’aristocrazia tradizionale, almeno fino al momento della sua sconfitta. Ma la sconfitta di Napoleone non significa e non può significare un ritorno al passato, i suoi contemporanei sono consapevoli che il mondo era cambiato, troppi anni erano passati tra il 1789 ed il 1814 affinché si potesse tornare al passato senza conseguenze, in quegli anni del sangue era stato versato per la libertà e per l’uguaglianza, figli non divennero mai padri, e madri videro cadere i propri figli per quel sogno di libertà; i nobili non potevano più governare mossi dai propri capricci, devono ascoltare o almeno provare ad ascoltare il popolo, un popolo che non avrebbe esitato un solo istante a scendere nuovamente in piazza e impugnare le armi contro i propri sovrani, e così sarebbe stato 1820, 1830 e in fine nel 1848.
Il 1848 è il momento decisivo, è lì che si sarebbe compiuta la magia, la rivoluzione del 48 rappresenta l’affermazione definitiva della volontà popolare sulla nobiltà, e non è un caso se il 12 Febbraio del 48 a Londra sarebbe stato pubblicato il manifesto del partito comunista. I moti del 48 esplodono più o meno nello stesso periodo e si espandono rapidamente in tutta europa, ma al di la della nazione e dei popoli in piazza, la richiesta, anzi, la pretesa è sempre la stessa, i popoli d’europa chiedono un parlamento eletto a suffragio universale ed una carta costituzionale scritta dal parlamento e non concessa dal sovrano. Queste richieste rappresenteranno l’ultimo chiodo sulla bara dell’antico regime, che da oltre 50 anni, tenta in vano di sopravvivere.
Da qui in avanti le masse popolari avranno la capacità, conquistata nelle piazze e con le armi, di nominare e deporre sovrani, di stabilire l’entrata o l’uscita da una guerra, si pensi in questo senso alla Russia, le cui rivoluzioni del 1917 sono forse il punto più alto del potere politico determinato dalla volontà popolare, e ancora, si pensi all’ascesa al potere di Hitler o la deposizione del Re d’Italia e la conseguente nascita della Repubblica italiana.
Il 1945 e con esso la fine della seconda guerra mondiale segnano una temporanea interruzione, almeno nel mondo occidentale, di questa sorta di età dell’oro delle masse popolari. I crimini commessi in Europa dal Nazismo (e non solo), producono un drastico cambiamento di rotta. Si afferma a livello politico l’idea che la volontà popolare da sola non è in grado di governare un popolo, poiché da sola, ha permesso ad Hitler di governare in Germania, con tutte le conseguenze che ciò avrebbe comportato, gli storici di stampo liberale vedono nei fascismi europei e nell’unione sovietica il fallimento del potere popolare, sottolineando i limiti delle sue capacità di giudizio. Ci si rende conto che le masse popolari, soprattutto le plebi rurali, contadini e operai, possono essere facilmente plagiate e manipolate, fino al punto in cui queste arriveranno a credere ad ogni sorta di bufala propagandistica raccontata loro dal manipolatore di turno. Contemporaneamente i pilastri della terra iniziano a radicarsi nelle roccaforti economiche e finanziarie del pianeta, così, il lungo diciannovesimo secolo, iniziato con l’indipendenza americana e l’affermazione della borghesia sull’aristocrazia, si conclude con la seconda guerra mondiale, donando alla civiltà occidentale, una nuova aristocrazia dal “sangue verde”, figlia dell’indipendenza americana e il cui potere è legittimato da un nuovo dio denaro.
Lo spostamento del potere dalle masse popolari alla nuova borghesia capitalistica, è un processo in corso fin dalla rivoluzione americana, ma dopo la seconda guerra mondiale, e soprattutto con il fallimento dell’esperienza del socialismo reale nell’Unione Sovietica, subirà un accelerazione tale da trascinare in poco più di un decennio, il mondo intero (o meglio, gran parte parte del mondo) in un ottica capitalistica.
Il potere, soprattutto in europa è andato progressivamente rifugiandosi in meccanismi e istituzioni sovranazionali, delegando sempre di più e sempre più spesso, le scelte per il proprio futuro. Così, all’alba del terzo millennio, tra guerre, calamità naturali e crisi economiche, come forze reazionarie spinte da un’apparente perdita di potere decisionale, ritornano degli echi del Volksgeist, lo spirito del popolo, e lentamente le masse, aiutate dal web, tornano in piazza, ma a differenza del passato, le piazze del terzo millennio sono virtuali, in cui tutto è più rapido, tutto è più immediato, e la manipolazione più efficace. Qui, i nuovi Hitler più semplicemente che in passato, possono creare i propri squadroni, militanti, pronti a rivendicare, per se stessi e in nome del popolo, un posto centrale nel determinare l’evoluzione storica del mondo, nascono così sempre nuovi e più numerosi movimenti popolari di fede ipernazionalista e individualista, camuffati da movimenti collettivi e sociali. Questi movimenti rivendicano il benessere e la dignità dell’uomo, e si ripropongono di creare equità sociale, ottenendo facili consensi, ma paradossalmente, per raggiungere i propri fini, sistematicamente negano, nelle loro stesse intenzioni, benessere, dignità ed equità sociale, a minoranze etniche e religiose.
E così, in quei movimenti, le cui parole offuscata ed ubriacano le menti dei popoli, risorgono gli ideali che negli anni più oscuri del novecento, avevano portato alla sistematica distruzione di vite umane, dimenticando troppo facilmente i crimini del Nazismo furono anche i crimini del popolo tedesco, oltre che di tutti i popoli europei del mondo, ma soprattutto, per citare la Hannah Arendt, furono i crimini della stupidità umana, una stupidità che oggi come allora è molto diffusa, una stupidità che deriva dall’incapacità di vedersi realmente nei panni dell’altro.
I nostri antenati hanno peccato di superficialità, permettendo e la loro più grande colpa è quella di essersi opposti al nazismo, ma anzi, di averlo sostenuto e appoggiato, nonostante i suoi programmi ed i suoi piani, furono ampiamente esposti e largamente condivisi per molto tempo, prima che la guerra iniziasse per ragioni unicamente politiche.
Il consenso popolare ha permesso ad Hitler, Napoleone, Ottaviano e molti altri, di governare indisturbati (o quasi) mentre privavano di significato le istituzioni repubblicane. Il popolo li sosteneva perché in grado di proteggere il proprio popolo, la propria nazione, da ogni interferenza esterna, e mentre si presentavano al popolo come baluardi della nazione, se ne impossessavano, creando degli imperi e instaurando monarchie o dittature.
Il nostro mondo e il nostro tempo sono avvolti da quelle stesse tenebre che settant’anni fa distruggevano l’europa, non con le bombe, non con gli aerei, ma con le idee, e se allora l’europa perdeva la propri umanità trasformando gli uomini in numeri, oggi come allora, si costruiscono muri ideologici, culturali e fisici, nati per dividere gli uomini dagli altri, quelli che noi non siamo, quei muri portano il mondo occidentale a voltarsi dall’altra parte quando un uomo, uno degli altri, non è più un uomo ma un clandestino, e può morire in mare, in un tunnel o in un furgone, muore di fame perché ha perso il suo lavoro o una bomba ha distrutto la sua casa.
Quei muri privano gli uomini della propria dignità di essere umano, e distruggono ancora una volta il potere del popolo, concentrandolo nelle mani di opportunisti e manipolatori, pronti a costruire sulle macerie della nostra civiltà in crisi.
La storia ci ha insegnato l’estremizzazione di movimenti popolari e nazionalistici può portare ad una sola inevitabile conclusione, la fine di ogni ordinamento repubblicano e democratico, e la concentrazione di poteri straordinari nelle mani di un singolo uomo, sia esso Ottaviano, Cromwell, Napoleone, Hitler, Stalin, Putin o Trump.

L’ascesa al potere di Ottaviano Augusto

Il cesaricidio, ovvero l’assassinio di Gaio Giulio Cesare da parte di Bruto e altri cospiratori, avvenuta alle idi di marzo del 44 a.c. (15 marzo 44 a.c.), segna l’inizio dell’ascesa politica di Gaio Giulio Cesare Ottaviano, ma procediamo con ordine.

Dopo la morte di Cesare, Marco Emilio Lepido e Marco Antonio stringono un’alleanza militare volta ad eliminare i cesaricidi, al tempo Lepido, già pretore nel 49 e governatore di spagna dal 48 al 47, si trovava a Roma con il suo esercito, un esercito che dopo le riforme dell’ordinamento militare di Gaio Mario era diventato un esercito mercenario, professionista, stipendiato e fedele prima al proprio comandante (ma soprattutto a chi versava loro il soldum) e poi a Roma. La presenza a Roma di Lepido ed il suo esercito lo poneva in una situazione di vantaggio rispetto ai cesaricidi, e grazie all’alleanza con Marco Antonio, già luogotenente di Cesare e suo erede militare, ottenne la carica di Pontifex Maximus (pontefice Massimo), precedentemente ricoperta da Cesare, si trattava della più alta carica religiosa e conferiva a chi la ricopriva, il pieno controllo del diritto romano, impegnandolo nella regolazione dei fasti, nel redigere annualmente la tabula dealbata e gli annales pontificum.

L’alleanza tra Lepido e Marco Antonio era percepita dal senato come una minaccia all’ordine repubblicano, forse persino più grande della minaccia precedentemente rappresentata da Cesare, in quanto Marco Antonio puntava a costituire a Roma una monarchia di stampo orientale, progetto dovuto al suo forte legame con l’oriente, in particolare con l’Egitto di Cleopatra.
Per frenare questo progetto monarchico e limitare il potere dei due, il senato doveva trovare il modo di privare Marco Antonio del proprio esercito, esercito che aveva “ereditato” da Cesare. Decisero quindi di portare in italia Gaio Giulio Cesare Ottaviano, erede materiale del tesoro di Cesare, in possesso quindi dell’oro necessario per pagare i soldati di Marco Antonio, consapevoli che, la sua presenza in italia avrebbe fatto vacillare la fedeltà dell’esercito nei confronti di Antonio.

Gli astuti membri del senato erano certi di poter controllare il giovane Ottaviano e di riuscire ad utilizzarlo come strumento per ripristinare l’ordine repubblicano, e conseguentemente dell’autorità e i privilegi del senato, ma Ottaviano si sarebbe rivelato molto più astuto del previsto e soprattutto, molto più difficile da controllare.

Ottaviano si sarebbe alleato inizialmente con il senato contro Marco Antonio e Lepido, successivamente si stipulò un accordato privato con i due cesariani, durante un incontro organizzato da Lepido, che si proponeva come mediatore tra i due eredi di Cesare. L’incontro sarebbe avvenuto nei pressi della colonia romana di Bononina (Bologna). Da questo incontro sarebbe nato il secondo triumvirato della storia romana, ma, a differenza del primo triumvirato tra Cesare, Pompeo e Crasso, questo triumvirato non sarebbe rimasto a lungo un accordo privato, e il 27 novembre del 43 a.c. con la Lex Titia, il patto fu ufficializzato ed istituzionalizzato, ottenendo valore legale, nominando i membri Triumviri Rei Publicae Constituendae Consulari Potestate (Triumviri per la Costituzione della Repubblica con Potere Consolare, abbreviato come “III VIR RPC“) e sarebbero rimasti in carica per una durata di cinque anni.

Prima che venisse varata la Lex Titia, il senato vide nell’accordo tra Ottaviano, Antonio e Lepido, un rischio per la repubblica, mobilitando di conseguenza i consoli Irzio e Penza contro gli eredi di Cesare. Ne seguì una dura battaglia che si sarebbe conclusa con il trionfo di Ottaviano e Marco Antonio, ed il successo militare avrebbe portato alla ratifica della Lex Titia.

Il ruolo “privilegiato” degli eredi di Cesare agli occhi dei soldati e della popolazione, unita al carisma di Ottaviano e Marco Antonio, avrebbe rapidamente messo in secondo piano la figura di Lepido, e durante la battaglia di Filippi, Ottaviano e Marco Antonio avrebbero marciato alla testa dei propri uomini, contro gli ultimi cesaricidi rifugiatisi in Grecia, mentre Lepido fu lasciato in Italia.
Dopo la Battaglia di Filippi, il triumvirato fu rinnovato per altri 5 anni, secondo i nuovi accordi presi a tra Ottaviano e Antonio a Brindisi nel 40.a.c. e suggellati dal matrimonio tra Marco Antonio e Ottavia minore, sorella di Ottaviano.
La nuova divisione territoriale lasciava a Lepido il governo dell’Africa, Antonio invece rinunciava alla Gallia per ottenere il pieno controllo sull’Oriente e Ottaviano manteneva il controllo dell’Illirico estendendo il proprio potere all’intero Occidente.

Tra il 39 ed il 36 Ottaviano si sarebbe scontrato in Sicilia contro Sesto Pompeo, durante la guerra avrebbe chiesto l’aiuto di Lepido che però lo avrebbe tradito accordandosi con Pompeo. La poca fedeltà di Lepido nei confronti di Ottaviano, gli sarebbe costata la fiducia dell’esercito che lo avrebbe abbandonato, costringendolo ad implorare il perdono di Ottaviano prima di uscire definitivamente dalla scena politica romana e ritirarsi a vita privata al Circeo dove sarebbe rimasto fino alla morte nel 12 a.c.

L’uscita di Lepido dalla scena politica segna la fine del triumvirato formale del triumvirato che si comporrà d’ora in avanti di soli due membri, sempre più in conflitto tra loro a causa della divisione territoriale ed i successi militare contro pirati illirici e parti.
Antonio ormai relegato in Egitto avrebbe sposato la regina Cleopatra, ripudiando la moglie romana (sorella di Ottaviano) e abbandonando progressivamente le tradizioni ed i costumi romani per adottare quelli orientali, e quando Antonio deciderà di lasciare in eredità ai figli di Cleopatra, i territori orientali di Roma, provocherà l’ira del senato che, appoggiato da Ottaviano, entrerà in guerra contro l’Egitto.

La guerra di Egitto si conclude nel 31 a.C. con la battaglia di Azio dove Ottaviano riuscì a sconfiggere le truppe di Marco Antonio. In seguito alla sconfitta di Azio, Cleopatra ed Antonio si toglieranno la vita e l’oriente sarebbe passato nelle mani di Ottaviano che avrebbe trasformato l’Egitto in provincia romana, privandolo così dell’autonomia di cui aveva goduto fino a quel momento ed unificando tutti i possedimenti romani sotto il suo controllo.

Ottaviano si ritrova quindi ad essere il padrone assoluto dello stato romano, anche se formalmente roma è ancora una repubblica e ufficialmente Ottaviano non aveva ricevuto alcuna investitura, ma poté governare al sicuro, poiché e la sua vittoria contro Marco Antonio, fu interpretata come una vittoria dell’Italia e della romanità, sull’oriente.

Negli anni che seguirono alla vittoria di Azio, Ottaviano ricevette dal senato numerose onorificenze e privilegi, lasciando però intatta la natura repubblicana di roma. In fine, come già accaduto a Cesare prima di lui, gli fu offerta la dittatura a vita, ma Ottaviano a differenza di cesare rifiutò tale investitura, mostrando al popolo romano di agire in rispetto della Repubblica e non in funzione di un potere personale.

Il 16 gennaio del 27 a.c. Ottaviano restituì formalmente al senato del popolo romano i poteri straordinari che aveva ottenuto durante la guerra contro Marco Antonio, ricevendo in cambio il titolo di console, che doveva essere rinnovato annualmente ed aveva una potestas con maggiore auctoritas rispetto agli altri magistrati (consoli e proconsoli) che gli garantiva il diritto di veto in tutti i territori di Roma e che non lo assoggettava ad alcun veto da parte di qualunque altro magistrato. Ricevette anche l’imperium proconsolaris sulle province “imperiali” ovvero le province in cui era necessario un comando militare, ottenendo di fatto il comando di tutto l’esercito romano, l’imperium proconsolaris aveva durata decennale e sarebbe stato rinnovato nel 19 a.c.
In fine, ma non meno importante, ottenne il titolo di Augustodegno di venerazione e di onore“, che avrebbe sancito la sua posizione sacra, fondata sul consensus universorum di Senato e popolo romano. Gli fu inoltre concesso di utilizzare il titolo di Princeps “primo cittadino” e gli fu garantito il diritto di condurre trattative con chiunque volesse, e il diritto di dichiarare guerra o stipulare trattati di pace con qualunque popolo straniero.

La concentrazione di tutti questi poteri e privilegi nelle mani di Ottaviano Augusto segna, secondo la storiografia, la fine dell’età Repubblicana e l’inizio dell’Impero Augusteo, facendo di Ottaviano il primo Imperatore della storia romana, anche se, va detto che per molto tempo gli storici non si sono riferiti ad Ottaviano ed i suoi successori con il titolo di Imperatore, ma utilizzando il termine Augustus. Sottolineando la natura ancora una volta innovatrice di roma, il cui sistema politico era formalmente una monarchia, ma di fatto, non lo era ancora.

Braccio di ferro tra Donald Trump e la Corte Suprema

Il braccio di ferro giuridico tra la Donald Trump e la corte suprema, più politico che giuridico, sulla legalità di alcune decisioni presidenziali non è certo priva di precedenti. Sono numerosi i casi in cui giudici federali sono intervenuti per bloccare l’iniziativa presidenziale i cui ordini esecutivi e decreti erano in contrasto, più o meno aperto, con la costituzione.

Non sorprende quindi che l’ordine esecutivo per l’espulsione e il divieto di ammissione di alcune minoranze religiose, per motivi di sicurezza nazionale, abbia scatenato la risposta di alcuni giudici federali, secondo i quali quell’ordine andava in conflitto con diverse parti della costituzione, in particolare con il primo emendamento, nel quale si stabilisce che l’america è una nazione laica, in cui è possibile professare liberamente ogni culto religioso.

Tra le ragioni del presidente però una legge sull’immigrazione del 1954 in cui si stabilisce che il presidente può limitare l’immigrazione impedendo l’accesso al paese qualora un determinato gruppo di immigrati, possa rappresentare un pericolo per la nazione, secondo i giudici federali tuttavia, questa legge non garantirebbe una libera uscita al presidente poiché in un successivo emendamento questa stabilisce che la limitazione non può avvenire per ragioni etniche, religiose, ecc, aggiungendo inoltre che, le ragioni prese in considerazione dal presidente per attuare l’espulsione ed impedire l’accesso, sono puramente frutto di un suo pensiero personale, prive di alcuna prova empirica o scientifica.

Secondo i giudici federali inoltre, ne il presidente, ne il congresso, hanno l’autorità politica per legiferare in materia religiosa, in quanto, secondo il primo emendamento, gli stati uniti d’america sono una nazione laica, e priva di una religione di stato, definire “minoranza” una o l’altra religiosa, significa de facto stabilire una gerarchia religiosa, al cui vertice vi è un culto di stato, non ufficializzato, e questo sarebbe in contrasto con il primo emendamento della costituzione.

 

In questo lungo braccio di ferro politico più che giuridico, tra il presidente Donald Trump e i giudici federali, il presidente ha rivendicato l’autorità presidenziale garantitagli dallo spoils system, per far pulizia ai vertici del sistema giuridico statunitense, nominando Neil Gorsuch, un giudice conservatore vicino all’ideologia presidenziale di Trump, nuovo giudice della corte suprema.

Questa decisione rappresenta a tutti gli effetti un intromissione politica nel sistema giuridico, il cui compito dovrebbe essere quello di garantire la giustizia e l’equità per ogni uomo sul suolo americano, indipendentemente dal suo status sociale, dal suo lavoro, dalla sua fede religiosa e politica e soprattutto dalla sua posizione, sia esso un immigrato o il presidente degli USA, la legge dovrebbe essere uguale per tutti, ma Trump non sembra essere di questa idea.

Secondo il presidente e il nuovo giudice Gorsuch, uno straniero in terra straniera non gode di alcun diritto civile, sociale e politico. Su questo punto la cancelliera tedesca Angela Merkel ha ricordato al presidente Trump che gli USA hanno firmato la convenzione di Ginevra, ed è compito della nazione ospitare rifugiati politici da zone di guerra, e quindi, quei rifugiati godono dei diritti civili riconosciuti loro dalla convenzione di Ginevra, e secondo alcuni giudici federali anche dalla costituzione.
Trump dal canto suo invoca ancora una volta l’autorità presidenziale, che in tempo di guerra, permette al presidente di scavalcare la legge e la costituzione al fine di salvaguardare la nazione, invocando poteri straordinari che autorizzerebbero la presidenza a prendere decisioni in campi che normalmente non sarebbero di sua competenza. In queste dichiarazioni si può leggere tra le righe un agghiacciante e drammatica svolta autoritaria del presidente eletto, mostrando una strada oscura e su un terreno spinoso. La nomina di un giudice della corte suprema a lui favorevole, cosa che rientra nei suoi poteri ordinari, potrebbe essere vista dalla magistratura come un attacco al sistema giuridico da parte del presidente, e del suo sconfinamento in campi fuori dalla sua autorità, con il conseguente avvio di una procedura di impeachment.

Due minuti e mezzo alla mezzanotte || L’Osservatorio

In questo articolo, pubblicato da Lawrence Krauss e David Titley sulla opinion page del new york Times, si osserva come, quest’anno, gli autori del Bulletin (il bollettino degli scienziati atomici), sembrerebbero intenzionati a far avanzare ulteriormente l’orologio dell’apocalisse verso la mezzanotte.
Per la prima volta dall’istituzione del Doomsday Clock, le ragioni dell’avanzamento delle lancette, vanno ricercate principalmente tra le dichiarazioni di una singola persona, ovvero, il neoeletto presidente degli stati uniti d’america Donald Trump.

Con questo avanzamento, l’orologio attualmente fisso sui 3 minuti alla mezzanotte, raggiungerebbe i 2 minuti. L’unica altra volta che l’orologio è stato così vicino alla mezzanotte fu nel 1953, in un momento di grande tensione internazionale tra USA e URSS, entrambe in possesso di ordigni termonucleari, e sull’orlo di un conflitto nucleare.

In questa serie di grafici pubblicati sulla pagina dell’orologio del bulletin http://thebulletin.org/doomsday-dashboard, vengono mostrati i vari “fattori” che possono influenzano lo spostamento delle lancette da parte della comunità scientifica.

L’ultimo avanzamento importante delle lancette è avvenuto nel 2015 ed ha portato l’orologio da -5 a -3

“Il rapido cambiamento climatico, la proliferazione e modernizzazione globale degli armamenti atomici continuano a costituire un enorme rischio per l’esistenza dell’intera umanità, e i leader politici hanno fallito nell’agire per proteggere la popolazione dall’imminente catastrofe.

Tuttavia, il potere simbolico dell’orologio non è stato molto efficacie, e le crescenti tensioni nel mondo verificatesi negli ultimi 2 anni, hanno portato gli scienziati del bulletin ad un nuovo avanzamento.

L’insurrezione della nuova minaccia rappresentata dallo Stato Islamico con i numerosi attentati in Europa e nel mondo, l’elezione del neo presidente statunitense Donald Trump e il considerevole numero di eventi catastrofici nel mondo

Questa volta le lancette sono state spostate di +0,5 minuti, portando l’orologio a 2 minuti e mezzo dalla mezzanotte.

Secondo la dichiarazione ufficiale, pubblicata sul portale del bulletin

IT IS TWO AND A HALF MINUTES TO MIDNIGHT
For the last two years, the minute hand of the Doomsday Clock stayed set at three minutes before the hour, the closest it had been to midnight since the early 1980s. In its two most recent annual announcements on the Clock, the Science and Security Board warned: “The probability of global catastrophe is very high, and the actions needed to reduce the risks of disaster must be taken very soon.” In 2017, we find the danger to be even greater, the need for action more urgent. It is two and a half minutes to midnight, the Clock is ticking, global danger looms. Wise public officials should act immediately, guiding humanity away from the brink. If they do not, wise citizens must step forward and lead the way.  See the full statement from the Science and Security Board on the 2017 time of the Doomsday Clock.”

DUE MINUTI E MEZZO ALLA MEZZANOTTE
Negli ultimi due anni, la lancetta dei minuti del Doomsday Clock rimase fissato a tre minuti prima dell’ora, il momento più vicino alla mezzanotte sin dal 1980. Nelle ultime due conferenze annuali sull’orologio, il Consiglio della scienza e della Sicurezza ha avvertito: “La probabilità di catastrofe globale è molto alta, e le azioni necessarie per ridurre i rischi di disastro deve essere preso quanto prima” Nel 2017, il pericolo è aumentato, la necessità di interventi è più urgente. Si tratta di due minuti e mezzo a mezzanotte, il tempo stringe, il pericolo globale incombe. Funzionari pubblici più saggi dovrebbero agire immediatamente, guidando l’umanità lontano dal baratro. Se non lo fanno, saggi cittadini devono farsi avanti e aprire la strada. Vedere la dichiarazione completa del consiglio Scienza e la Sicurezza sul tempo 2017 del Doomsday Clock”.

Hitler fuggito in argentina , la bufala che a volte ritorna.

La teoria della fuga di Hitler in Argentina è una bufala persistente. Prove storiche e scientifiche, incluse analisi dentali e ossee, confermano il suo suicidio nel bunker di Berlino.

Uno degli argomenti storici più fortunati, più abusati e discussi su internet, molto probabilmente riguarda il destino di Adolf Hitler dopo la seconda guerra mondiale ed il crollo del Reich, e secondo varie teorie del complotto, il dittatore tedesco sul finire della guerra simulò la propria morte e fuggì in Argentina.

Dietro la teoria di Hitler in Argentina

Riguardo alla fuga di Hitler in Argentina, circolano diverse teorie, per lo più alimentate dalla “segretezza” relativa al luogo di sepoltura della salma di Hitler, alcune indagini condotte negli USA, soprattutto negli anni 50 e 60, per rintracciare diversi Nazisti fuggiti proprio in argentina e alcune testimonianze.

Nel 2016, come ogni anno, l’FBI ha declassificato numerosi documenti e fascicoli e tra questi alcuni rapporti e documenti relativi alle indagini compiute negli anni 50 e 60 per rintracciare fuggiaschi nazisti in Argentina, articoli di giornali dei primi anni 50 e testimonianze misteriose.

Sulla base di queste informazioni, il 5 maggio 2016, il portale di controinformazione cospirazionista AnonHQ ha rilanciato una versione della storia, per cui Hitler sarebbe fuggito in Argentina dove sarebbe morto serenamente di vecchiaia molti anni dopo.

Di seguito uno dei “documenti” che dimostrerebbero la teoria della fuga in Argentina di Hitler.

Nell’articolo di AnonHQ appare anche una foto di un anziano uomo affiancato ad una foto di Hitler, asserendo che si tratti della stessa persona.

Stando alla ricostruzione di AnonHQ, il suicidio di Hotler ed Eva Braun non solo sarebbe stato simulato, ma la successiva fuga in argentina, sarebbe stata favorita dagli USA, nella persona di Allen Dulles, all’epoca direttore dell’OSS ( Office of Strategic Services) agenzia smantellata nel 1945 e sostituita nel 1947 dalla CIA.

Secondo questa ricostruzione, finché Hitler è stato in vita, FBI e CIA avrebbero cercato di insabbiare la verità, nascondendo il dittatore tedesco e offrendogli protezione e l’Italia in questa particolare diramazione, giocherebbe un ruolo importante grazie a personalità come Licio Gelli, maestro venerabile della loggia P2, che sappiamo aver avuto forti legami, sia con alti funzionari USA che con Juan Domingo Perón, Gelli fu uno dei pochissimi italiani ad essere stato invitato al giuramento di Regan nel 1981, ma questa è un altra storia.

Tornando alla teoria di Hitler in Argentina, secondo la ricostruzione di AnonHQ gli USA avrebbero simulato la morte di Hitler, aiutato il dittatore a fuggire a bordo dell’u-boat tedesco U-530 fino in argentina. In seguito avrebbero mostrato al mondo un sosia di Hitler, morto con un colpo alla testa e nascosto il cadavere affinché non potesse essere identificato.

Fotni sulla morte di Hitler

Sebbene la teoria di AnonHQ sia molto affascinante, la storiografia ufficiale, soprattutto alla luce di recenti scoperte, non ha dubbi a riguardo, quando Berlino cadde in mano agli alleati, poco prima che questi penetrassero nel Bunker in cui si erano rifugiati Hitler, Eva Braun e altri collaboratori del führe, il dittatore nazista, con l’acqua alla gola, probabilmente più spaventato dalle torture che avrebbe ricevuto se fosse caduto in mano sovietica che non della morte, si tolsero la vita, e come lui molti altri ospiti del bunker.

Questa versione, va detto, che per molti anni ha sofferto di un enorme problema di verificabilità, si è basata infatti principalmente sui rapporti e le dichiarazioni ufficiali degli alleati che entrarono nel Bunker, documenti che tuttavia erano parziali, incompleti e spesso in larga parte censurati per via del contenuto delicato e strategico delle informazioni che contenevano, soprattutto in un momento di crescente tensione tra USA ed URSS, inoltre, non è mai stato possibile verificare effettivamente che la salma attribuita ad Hitler fosse effettivamente del dittatore tedesco, poiché, per ragioni di sicurezza, si preferì tenere segreta la collocazione del corpo.

Il motivo per cui non è mai stato rivelato dove sarebbe stato tumulato Hitler è dovuto ufficialmente alla preoccupazione che tale luogo, se noto, potesse diventare un luogo di culto, ipotesi non infondata se consideriamo cosa è successo a Predappio con la tomba di Mussolini.

Oltre ai documenti ufficiali, la storiografia contemporanea ha utilizzato anche altre fonti documentarie, in particolare documenti privati, lettere, diari e testimonianze dirette e in alcuni casi indiretta (ovvero di seconda mano) dei militari, dei loro commilitoni e dei civili, che all’epoca, per ragioni diverse e che sarebbe inutile elencare, avevano avuto accesso al bunker di Berlino. In fine, ci sono articoli di giornali e tantissimi altri documenti che per semplicità faremo rientrare nelle testimonianze dirette o di seconda mano.

Se i documenti militari si portano dietro il difetto della parzialità dovuta a censure e classificazioni, le testimonianze si portano dietro un altro difetto, quello dell’errore, della parzialità legata alla memoria distorta, oltre alla natura sostanzialmente tendenziosa delle informazioni permeate di giudizi ed osservazioni personali, pertanto poco utili, per non dire dannose, ad una corretta ricostruzione.

Ma del resto il lavoro della ricerca storiografica consiste proprio in questo, nel navigare in un mare di informazioni contrastanti e parziali, in cerca di una verità verificabile.

Partendo da queste fonti, e facendo riferimento alla versione ufficiale comunicata dalle potenze vincitrici della guerra, prima la stampa e poi gli storici, sono riusciti a ricostruire gli avvenimenti, che, nell’aprile del 45 portarono alla morte di Hitler.

Cosa dice la versione ufficiale?

La storiografia ufficiale generalmente concorda con la versione ufficiale fornita dagli alleati, ovvero con la versione che vedrebbe Hitler e la sua compagna togliersi la vita nel bunker, successivamente i loro corpi furono dati alle fiamme, e quando l’armata rossa irruppe nel bunker, si ritrovò a dover fare i conti con i corpi carbonizzati di un uomo ed una donna.

Oggi siamo abbastanza sicuri che uno dei corpi carbonizzati ritrovati nel bunker appartenesse ad Hitler, e che la teoria della fuga in Argentina, è fondamentalmente infondata, o meglio, sappiamo che negli ultimi mesi della guerra numerosi gerarchi nazisti fuggirono in Argentina, e questo lo sappiamo fin dagli anni 50, inoltre, durante il processo di Gerusalemme ad Adolf Heichmann, venne fornita una precisa e puntuale ricostruzione della modalità con cui i fuggiaschi nazisti riuscirono a lasciare la Germania.

Per quanto riguarda i resti carbonizzati, siamo quasi certi appartenere ad Hitler, per diverse ragioni, già tra il 1945 ed il 1948, vennero pubblicati, o comunque messi a disposizione della storiografia, innumerevoli documenti personali di Hitler, tra questi, la sua cartella clinica, estremamente preziosa e ricca di informazioni, soprattutto radiografie, per via dei suoi numerosi problemi di salute. In sostanza quindi, abbiamo un abbondanza di radiografie di Hitler, tra cui quelle della sua bocca e dei suoi denti.

L’identificazione tramite impronta dentale è nota fin dal XIX secolo, ed è utilizzata come tecnica forense fin dal 1897 circa, tuttavia, la falsificazione dell’impronta dentale, è tutt’altra cosa, ancora oggi, nel 2025, è qualcosa di estremamente complesso, e 80 anni fa, nel 1945, non esisteva la tecnologia per poter “clonare” un impronta dentale, e anche se fosse esistita, di sicuro tale tecnologia non era presente nel bunker di Berlino.

È inverosimile che Hitler e gli USA, abbiano modificato l’impronta dentale di un sosia di Hitler, per permettere di identificare il suo cadavere carbonizzato usando l’impronta dentale. E anche se lo avessero fatto, oggi saremmo in grado di rivelare l’alterazione.

UPDATE: A tale proposito nel 2018 infatti è stato pubblicato uno studio in cui sono stati ricontrollati alcuni frammenti ossei rinvenuti nel bunker di Berlino e questi sono stati attribuiti ad Hitler, con un margine d’errore dello 0,001%, grazie ad un analisi biomedica che ha permesso di comparazione tra la mascella e le radiografie dentali di Hitler del 36.

Errori di interpretazione nell’identificazione di Hitler nel 45

Nel 1945 l’identificazione di Hitler avvenne tramite impronta dentale, ma, la tecnologia dell’epoca non permise un’identificazione al 100% (cosa normale per l’epoca in realtà, soprattutto se in presenza di resti carbonizzati e danneggiati).

La coincidenza parziale dell’impronta dentale, unita a non pochi errori di traduzione, o per meglio dire, di interpretazione della traduzione, ha generato non pochi miti sulla “presunta morte di Hitler“.

Traduzione e interpretazione del testo sono passaggi cruciali nella ricostruzione storiografica, motivo per cui, nella maggior parte dei casi, gli storici si occupano in fase di ricerca, di un epoca e di un area geografica, di cui conoscono la lingua. Senza troppi giri di parole, difficilmente troveremo uno storico che si occupa della Germania Nazista, che non conosce Tedesco e Francese.

Cerco di spiegarmi meglio con un esempio, la frase tedesca “In dem Bunker, in dem sich Hitler vermutlich das Leben nahm, wurden auch die Überreste einer Frau gefunden.” Nel passaggio da Tedesco a Russo, o Inglese, o francese, e poi ad altre lingue, può variare, non poco, soprattutto se la traduzione avviene per la stampa.

Questa frase, che letteralmente significa “Nel bunker dove si presume che Hitler si tolse la vita, furono ritrovati anche i resti di una donna”, può facilmente diventare, “Nel bunker dove si presume che Hitler si tolse la vita, furono ritrovati i resti di una donna” .

Le due traduzioni differiscono tra loro solo in una parola, quella parola tuttavia è determinante per comprendere l’intera frase. Nel primo caso, la presenza di “anche”  lascia poco spazio all’immaginazione, tra i resti del bunker furono ritrovati anche i resti di una donna, in perfetto accordo con la versione ufficiale che vorrebbe Eva Broun togliersi la vita nel bunker insieme ad Hitler, e la conseguenza logica di questo è che nel bunker, oltre ai resti di Hitler, ci fossero anche i resti di una donna.

Nel secondo caso la cosa si complica, in quanto l’assenza di “anche” apre due possibili scenari, il primo in cui nel bunker furono trovati “i resti di una donna” e il secondo in cui nel bunker non vengono ritrovati resti di un uomo.

Prendiamo un altro esempio, “nel bunker furono ritrovati i resti solo di una donna carbonizzata” , questa frase pur essendo “corretta” perché l’unico corpo femminile carbonizzato ad essere stato rinvenuto nel bunker fu quello di Eva Braun, mentre l’altro corpo carbonizzato, quello di Hitler, era di un uomo, di conseguenza la donna carbonizzata effettivamente era solo una. Ma questa frase può essere interpretata anche in un modo diverso, e suggerire che oltre al corpo di Eva Braun, nel Bunker non furono trovati altri corpi carbonizzati.

Questi esempio rappresentano dei casi limite, presentano errori di interpretazione evidenti e facilmente riconoscibili, ed in casi reali le differenze sono sostanzialmente più sfumate e ruotano principalmente attorno ai diversi significati che può avere una singola parola.

Per quanto riguarda il caso Hitler, l’esempio che abbiamo fatto in realtà è molto veritiero, perché il mito della fuga di Hitler parte proprio da questi passaggi. Si passa dal raccontare del ritrovamento del corpo “anche di una donna” sulla stampa dell’epoca, a fonti più recenti che parlano del ritrovamento del “corpo di una donna”, fino ad arrivare ad articoli cospirazionisti in cui si parla del “solo corpo di una donna”.

Quell’anche dimenticato, che si perde nei meandri del tempo e delle innumerevoli traduzioni, forse un banale errore forse qualcosa di più intenzionale, ha fatto più danni di quanto si possa immaginare, perché de facto è alla base di buona parte dei miti sulla fuga di Hitler in Argentina sul finire della guerra.

Molti continuano a pensare che Hitler non sia morto suicida insieme ad Eva Bown nel Bunker di Berlino, ma sia riuscito a fuggire dalla Germania, aiutato dalla CIA e trovando asilo in Argentina e “la prova cruciale” della riuscita fuga risiede nel fatto che, nel bunker tra i resti e le macerie, trovarono i resti di una donna carbonizzata.

Ora, non serve certamente l’acume di Sherlock Holmes per dedurre che, se in un bunker ci sono un uomo (Hitler) ed una donna (Eva Broun) e questi si tolgono la vita, nel bunker ci saranno i resti di una donna.

Mettiamo in discussione la teoria della fuga

Come abbiamo visto, abbiamo sufficienti prove scientifiche per collocare il corpo senza vita di Hitler e nel bunker di Berlino quando gli alleati fecero irruzione e confutare definitivamente la teoria della fuga.

La teoria si fonda su informazioni parziali e domande senza risposta suscitate dalla versione ufficiale, tuttavia, quella stessa teoria, presenta molte più domande senza risposta della versione ufficiale.

Secondo la teoria Hitler trovò un sosia, cosa non difficile, lo uccise e diede fuoco al corpo per rendere difficile l’identificazione. Un piano brillante, se non fosse che l’identificazione tramite impronta dentale è stata effettuata comunque, poiché le fiamme hanno sì danneggiato, ma non compromesso la possibilità di identificare il corpo.

In effetti dando fuoco al corpo, ha reso impossibile recuperare il DNA di Hitler, ma nel 1945 non si utilizzava il DNA per identificare un corpo senza vita, anche perché quella tecnica si sarebbe diffusa quasi 40 anni più tardi, a partire dagli anni 80. Non c’era alcun motivo per Hitler di bruciare il corpo del suo sosia per distruggere il DNA (come molti sostengono). Al più, se avesse voluto simulare la propria morte, avrebbe dovuto compromettere l’identificazione tramite impronta dentale, all’epoca unico elemento in grado identificazione di un corpo non riconoscibile ad occhio nudo.

Per simulare la propria morte, sarebbe stato molto più funzionale ed efficace, minare il bunker e non lasciare alcuna traccia. Ciò che invece la teoria della fuga in argentina propone è un complesso sistema di specchi e leve, estremamente articolato e fragile, che cerca di rendere impossibile l’identificazione attraverso tecniche che sarebbero state introdotte mezzo secolo più tardi, ed utilizza tecnologie avanzate e sofisticate, che 80 anni più tardi non sarebbero state comunque disponibili, per manipolare un corpo in modo che potesse essere scambiato per il suo.

Conclusioni

Senza girarci troppo attorno, nei documenti dell’armata rossa pubblicati (parzialmente) nel 45 e in forma integrale negli anni 90 (anche se con alcuni passaggi cancellati) si evince chiaramente che nel bunker furono ritrovati i resti carbonizzati di due persone, un uomo ed una donna, l’uomo è stato identificato con Hitler attraverso l’impronta dentale, e in studi più recenti, una comparazione tra frammenti ossei e radiografie degli anni 30 hanno confermato tale ipotesi, la donna invece, se bene non è stato possibile identificarla al 100% a causa delle peggiori condizioni dei resti, è molto probabile che fosse Eva Broun.

In ultima istanza, nel bunker furono ritrovati anche i resti di un cane e anche se la Germania nazista faceva largo uso delle unità cinofile, questi non erano in alcun modo utili alla sopravvivenza e funzionamento di un bunker, tuttavia, nel bunker di Berlino era presente un singolo cane, non militare ma civile, che dai resti è stato identificato come il cane personale di Hitler.

Per quanto riguarda l’ipotesi di camuffamento e alterazione del corpo nel bunker, per prendere per buona la teoria della fuga, dovremmo assumere che Hitler fece uso di tecnologie più avanzate di quelle disponibili nel XXI secolo, per modificare l’impronta dentale di un sosia, e prese precauzioni per impedire l’identificazione tramite DNA (introdotta quasi mezzo secolo più tardi), insomma, per prendere per buona la teoria della fuga, dobbiamo assumere che Hitler venisse dal futuro.

Il Culto di Iside a Roma

In età Romana, il culto isiaco (culto per la dea Iside) si diffuse, a più riprese, in tutte le parti dell’impero.
In Italia, il culto della divinità egizia si sviluppò prevalentemente in età imperiale, frutto del contatto diretto tra l’impero e la cultura egizia, ed ebbe una diffusione di gran lunga maggiore rispetto a quello di Dionisio (Bacco) e Cibele (culti di origine Greca, ben più noti e popolari nell’immaginario collettivo).

Iside è considerata la dea della natura, della fecondità, la madre di tutte le cose, la dea universale. Questa divinità fu identificata da numerosi popoli antichi, come spesso accadeva, con nomi diversi. In Grecia ad esempio fu identificata in Era, Demetra, Afrodite, Selene, Io.
Iside, Osiride e il figlio Horus formano la triade suprema della religione egizia (una triade che, secondo alcune letture, può essere idea originaria di quella che sarebbe poi diventata la “trinità” cristiana). Insomma, la figura mitica di Iside (e ciò con cui era identificata più che la divinità stessa) è all’origine di numerosi altri miti, misteri e riti, diffusi in gran parte dei popoli antichi e delle civiltà precristiane.

Fatta questa premessa, molto approssimativa, sulla “storia delle religioni” (se vi interessa la mitologia vi rimando alla pagina Mitologicamente Grivitt se invece amate l’egittologia vi rimando a Djed Medu – Blog di Egittologia) ciò che mi interessava approfondire, è l’impatto culturale che il culto di Iside ha avuto sulla storia Romana (e di conseguenza, su tutto ciò che ne è venuto dopo), e visto che il culto di Iside ha potuto germogliare nella Roma prima repubblicana e poi Imperiale grazie a Cleopatra, che ricordiamo essere una “devota adoratrice del culto di Iside”. Possiamo asserire senza difficoltà che qui si parlerà anche dell’impatto culturale che Cleopatra ebbe su Roma.

Dico “anche” perché in realtà già prima di Cleopatra, tra il 239 ed il 169 a.C. Claudio Ennio per primo, istituì a Roma il culto isiaco, incontrando un grande favore popolare, cosa che suscitò le ire dell’aristocrazia romana ed l’effetto negativo di mobilitare il senato contro il culto isiaco; De facto portando ad una sorta di messa al bando del culto nel 64 a.C, perseguitando eventuali adepti di tale culto. Nonostante ciò il culto di Iside continuò a diffondersi clandestinamente nell’ultima repubblica, qui arriviamo a Giulio Cesare e Marco Antonio.

Come è noto dalla tradizione romana, durante la guerra civile tra Marco Antonio e Ottaviano, per il predominio politico e militare su roma, Marco Antonio, a causa della sua unione con Cleopatra e la vicinanza ai culti orientali (che altro non significa che, Antonio era divenuto un adoratore di Iside) e la conseguente lontananza culturale dalla tradizione romana, fu abbandonato sia dal senato che dall’opinione pubblica, dall’altra parte Otttaviano, professandosi “campione della tradizione Romana” nel rispetto della legge e dei costumi tradizionali, fu legittimato, a livello pubblico e politico, a procedere contro Antonio, in quanto dal 64 a.c. il culto di Iside era “perseguitato e fuori legge”.

Per queste stesse ragioni, già prima dello scontro tra Antonio e Ottaviano, più precisamente con Cesare e Bruto, i cesaricidi furono considerati “Liberatori di Roma”, per vari motivi politici (ben noti e che qui citeremo appena) in quanto assassino di un aspirante Monarca e in quanto, con l’assassinio di Cesare si restituiva Roma alla repubblica, ma fu anche liberatore “culturale” di Roma, in quanto, uccidendo Cesare, amante di Cleopatra, vicino ai culti Orientali e quindi ad Iside.

La persecuzione del culto isiaco tuttavia non sarà permanente, e anzi, con l’avvento di imperatori come Vespasiano, diventerà non solo legittimo, ma anche ufficiale, al punto che l’imperatore stesso farà coniare, nel 71 d.C, una moneta su cui sarà riprodotta su un lato l’immagine di Iside-Sothis a cavallo del cane e circondata da sei stelle. Questa moneta sarà ripresa in età severiana, quando l’imperatore Settimio Severo fece erigere un tempio dedicato ad Iside nel cuore storico di roma, presso il Campo Marzio, sulla cui facciata era raffigurata la moneta coniata dall’imperatore Vespasiano (creando quindi anche un ponte storico e culturale tra i due imperatori, ma questo è un altro discorso).

In conclusione, per gran parte della storia di Roma, il culto di Iside fu professato nell’ombra o alla luce splendente del sole, questo destino fu comune a molti culti religiosi, compreso il cristianesimo che passò dalla persecuzione più dura, al diventare culto imperiale.

Fonti :

F.Dunand. Le cult d’Isis dans lebassin oriental de la Méditerranée.3 voll. Leiden.Brill.
F.Trotta. I culti non greci inepoca sannitica e romana.L’evo antico.Electa.

Storia Roma, Crescita e Declino di un impero millenario

La storia romana è una storia millenaria fatta di uomini giusti e tiranni, che vede protagonista la più longeva civiltà della storia dell’uomo, è stata modello e fonte di ispirazione per qualunque altro popolo vissuto dopo la sua fine.

Nella sua fase primordiale fu una monarchia, che divenne una repubblica unica nella sua forma, e poi, si trasformò in un impero che avrebbe condizionato l’evoluzione politica dell’intera europa per oltre duemila anni.

Romolo, Numa, Tullio Ostilio, Anco Marcio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo, ultimo re, che secondo la tradizione fu esiliato dalla città, e dopo di lui Roma avrebbe giurato che mai più sarebbe stata governata da un monarca, portando così, alla nascita della più grande repubblica mai conosciuta.

La particolarità della Repubblica romana sta nel suo equilibrio di forze determinata da Senato, Consoli e Magistrati, i quali, rappresentavano la perfetta combinazione delle tre forme di governo preesistenti, ovvero l’oligarchia, di cui era impregnato il senato, la monarchia, di cui i due consoli erano un espressione, e la democrazia, manifestata dalla pubblica elezione dei magistrati.
Questo equilibrio però era tutt’altro che stabile, e le lotte di potere tra l’una o l’altra carica non mancarono di turbare questo equilibrio, “fortunatamente” l’ascesa al potere di numerosi uomini giusti (ma anche aspiranti tiranni) portò ad un sempre maggiore equilibrio, puntando sempre di più verso la parità sociale di tutte le classi di censo, dai più ricchi ai più poveri, includendo anche chi non possedeva altro che se stesso.

Roma in questo senso si dimostrerà molto elastica dal punto di vista sociale, alimentando il sogno di un ascesa sociale (che oggi banalmente chiameremmo, il “sogno americano”) dove un uomo, di umili origini, che non possiede altro che se stesso, può arricchirsi fino a diventare l’uomo più potente dell'”impero” più potente dello stesso imperatore. E di “uomini nuovi” esterni alla tradizione politica che riuscirono a scalare le vette del potere, la storia politica e militare di Roma ne sarà piena, e tra i tanti, un nome risuona su tutti, quello del nipote di un esattore, e figlio di un usuraio, che divenne Tribuno Laticalvo (la seconda carica più alta di una Legione) poi Questore di Creta e Cirene, Pretore in Germania Magna ed in fine Imperatore, in seguito al trionfo nella guerra civile che esplose dopo l’assassinio di Caligola, ed il suo nome era ovviamente Tito Flavio Vespasiano.

Ma Vespasiano non fu l’unico protagonista della storia romana ad avere “umili origini” , e stare qui ad elencarli tutti richiederebbe più tempo del dovuto. Ma va sicuramente menzionato il ruolo centrale che i Liberti dell’imperatore Claudio, ebbero nell’amministrazione della “burocrazia” imperiale, ricordando che i liberti erano schiavi liberati, e quindi degli ex schiavi, che dal non possedere nulla, neanche se stessi, si ritrovarono ad amministrare per Claudio, l’Impero, ricoprendo alcune delle cariche più prestigiose del loro tempo, de facto, degli ex schiavi erano tra gli uomini più potenti dell’impero.

La grande mobilità sociale, caratteristica dell’età repubblicana subì un ulteriore accelerazione in età imperiale, con la progressiva estensione della cittadinanza latina e successivamente romana, a tutti gli abitanti dell’impero, alimentando parallelamente la crisi sociale ed economica, iniziata con la riforma mariana dell’esercito nel primo secolo avanti cristo, che trasformava l’esercito da volontario in mercenario, e che, se in fase di conquista era autosufficiente e perfettamente in grado di auto-alimentarsi, in tempi di pace o comunque durante le fasi statiche o difensive della storia territoriale di Roma, la sua natura mastodontica, dovuta alla presenza tra le fila di roma di migliaia di soldati ai quali l’impero doveva fornire cibo, acqua, vino ed un compenso, si dimostrò sul lungo periodo un peso più che una risorsa, conducendo all’inevitabile collasso di un sistema semi millenario.

Il declino di roma a questo punto ci appare come inevitabile, serviva solo un capro espiatorio che dichiarasse la fine dell’impero, ormai attraversato da secoli di stanziante deterioramento, e questo annuncio avvenne per mano di Odoacre che, conquistando e saccheggiando Roma, poté dichiarare ufficialmente la fine dell’impero Occidentale.

Dal quarto secolo infatti l’impero era stato diviso tra occidente ed oriente, e se bene i due “imperi” rappresentassero un unica entità statale, in pratica seguirono realtà evolutive diverse, sia sul piano politico militare che sul piano culturale, e così, mentre ad oriente un nuovo impero prendeva forma vestendo i tradizionali colori di Roma, Roma sprofondava su se stessa, divorata da un evoluzione fuori controllo che l’avrebbe portata a superare i confini politici impregnando culture e popolazioni diverse che in quegli anni iniziavano a definirsi, segnando così l’inizio del Medioevo e con esso, dei processi formativi dei futuri stati nazionali.

Il Mito di Carlo Magno. Chiacchierata con lo storico Davide Esposito

Carlo Magno, un uomo, un simbolo, un mito. Le sue gesta hanno ispirato innumerevoli poeti e cantori e la saggistica storica pullula di testi riguardanti la sua biografia, e spesso il mito di Carlo Magno ha preso il sopravvento sulla vita e la storia di questo personaggio incredibile, centrale nelle dinamiche che avrebbero portato alla definizione dell’europa così come la conosciamo.

Ho avuto modo di tenere una lunga ed interessante chiacchierata telefonica con Davide Esposito, laureato in storia e specializzato in storia medievale all’Università degli studi di Napoli Federico II, attualmente impegnato in un dottorato di ricerca in quella stessa università.

Ho telefonato a Davide per un intervista incentrata sul suo saggio storico, intitolato “il mito di Carlo Magno: alle origini della società francese” derivato dalla sua tesi di laurea magistrale, ma non sono riuscito a trascrivere fedelmente le risposte, di conseguenza, in questo articolo cercherò di riassumere il più fedelmente possibile la nostra conversazione telefonica, e per farlo è opportuno ricostruire i motivi che hanno spinto Davide nel concentrare i propri studi sul di Medioevo e sulla figura di Carlo Magno.

Cominciamo quindi con l’individuare la base su cui poggia l’intera tesi e di conseguenza il suo libro.

Ho chiesto a Davide di spiegarmi cosa ci fosse alla base del suo rapporto con il medioevo, e nel rispondermi mi è stato citato Marc Bloch, probabilmente lo storico più autorevole e celebre del secolo scorso, e la sua “la società Feudale“, come ispiratore di quell’interesse e passione che lo avrebbero spinto a studiare e approfondire le dinamiche medievali. Questo interesse si è poi evoluto in qualcosa di più ampio, un interesse nel comprendere le dinamiche e le strutture della nostra società, e in questo mi citava Mauro Pesce, secondo il quale, le discipline umanistiche dovrebbero avere una funzione sociale, una funzione volta a comprendere meglio la nostra società. Potremmo quindi dire che secondo Pesce, studiare il medioevo può servire a migliorare la propria vita quotidiana.

Fatta questa premessa sulle origini degli interessi di Davide per il Medioevo, è giunti il momento di soffermarci sul tema centrale del libro, ovvero, il Mito di Carlo Magno.

Secondo lo storico Anthony Smith, esiste nel medioevo un “mitomotore” , una sorta di radice comune costituita da simboli, usi, costumi ecc ecc attorno a cui si sarebbero sviluppate e formate le future identità nazionali. Questa tesi è molto interessante e allo stesso tempo molto discussa e in alcuni casi criticata, un interessante critica a questa tesi è stata mossa dallo storico italiano Giuseppe Serchi, ed è proprio dalla critica di Serchi che parte il lavoro di Davide il quale si inserisce nella questione ipotizzando nella sua tesi che Carlo Magno sia il Mitomotore alla base della successiva cultura ed identità francese.

Nel suo saggio si sofferma sul ruolo politico assunto dal mito di carlo magno soprattutto nel dodicesimo e tredicesimo secolo, nell’orbita della propaganda Capetingia impegnata nella ricostruzione di un’antica linea dinastica, volta a creare quello che al termine del medioevo sarebbe divenuto lo stato nazionale francese o per meglio dire, il regno di Francia.

Possiamo osservare che in questa lettura del mito di Carlo Magno, la letteratura assuma un ruolo soprattutto politico che rende difficile la separazione tra storia, mito e propaganda, e proprio la propaganda politica nei secoli centrali del basso medioevo diventa un elemento centrale, cardine di quello che è attualmente il lavoro di ricerca di Davide, il cui dottorato di ricerca è incentrato sulla natura politica e propagandistica della Chanson de Jerusalem in cui viene narrata la presa di Gerusalemme durante la prima crociata.

Il Mito di Carlo Magno alle origini della società france è attualmente disponibile solo in formato digitale, se vi interessa potete acquistarlo cliccando qui

Davide Esposito – Il mito di Carlo Magno

Chi era Claudio Pavone? lo storico che per primo parò di guerra civile

Il 29 Novembre 2016 è venuto a mancare Claudio Pavone, uno dei più grandi storici italiani del ventesimo secolo, uno di quegli storici che ha lavorato per tutta la vita all’ombra dei riflettori, senza mai salire sul palcoscenico in cerca di fama e acclamazione, Claudio Pavone è stato in un certo senso un vero e proprio “topo di biblioteca” o nel suo caso forse sarebbe meglio dire, d’archivio poiché è lì, negli archivi di stato e negli archivi storici, che ha condotto la maggior parte delle proprie ricerche riguardanti soprattutto la storia della politica.

Una volta, a lezione, il professor Pavone disse “ogni evento pubblico, ogni fenomeno sociale, ogni fenomeno di massa è per sua stessa definizione un fenomeno politico” e quindi la storia della politica è, per sua stessa definizione, una storia pubblica, è la storia delle masse, della società che assume consapevolezza di se, e quale epoca se non il secolo XX può essere esemplare per questo tipo di studi. Non è quindi un caso se gli studi di Pavone hanno riguardato soprattutto la storia politica nel ventesimo secolo.

Claudio Pavone è stato uno storico e archivista italiano e a lui va riconosciuto (tra gli altri e innumerevoli meriti) il merito di aver inaugurato il dibattito italiano sulla questione della resistenza, parlando per primo di Guerra Civile italiana, nonostante le avversità e la censura dell’allora PCI, la cui fede marxista impediva di accettare l’idea di una guerra civile italiana preferendo parlare di guerra di resistenza, individuando come soggetto i partigiani e le milizie nazifasciste, più che gli italiani impegnati in una lotta contro altri italiani. Pavone ha vissuto gran parte della propria vita e della propria attività di ricerca in anni dediti alla “caccia alle streghe”, ha vissuto e studiato nel secondo dopoguerra e durante quasi tutta la guerra fredda, ma nonostante ciò, ebbe la forza intellettuale di sottolineare la natura interna di quella guerra che tra il 1943 ed il 1945 afflisse e insanguinò l’italia e tormentò gli italiani, usando coraggiosamente il termine Guerra Civile, e incorrendo, di conseguenza, in numerosi tentativi di censura e attacchi politici.

Non molto tempo fa ho ho avuto modo di leggere, durante una serie di Live estive, uno dei suoi saggi più importanti e celebri, “Una guerra Civile, saggio storico sulla Moralità nella resistenza”, ed ho avuto la fortuna e il privilegio di legge non solo la prima edizione, ma una delle edizioni personali del professor Pavone, la copia che per anni aveva custodito (neanche troppo gelosamente) nel proprio ufficio dell’università di Pisa, e che poco prima della pensione aveva donato alla biblioteca universitaria. Una guerra civile è il saggio con cui,  all’inizio degli anni novanta, Claudio Pavone scandaglio ogni momento di quel biennio turbolento che corse tra il 1943, anno del tanto discusso armistizio e dell’instaurazione della RSI, ed il 1945, anno dell’effettiva fine della guerra civile italiana.

Ho deciso di scrivere questo post oggi per ricordare e rendere omaggio all’uomo, l’intellettuale e lo storico, di cui, la stampa italiana (fatta eccezione per qualche breve nota su Repubblica e Corriere) sembra essersi dimenticata, probabilmente perché, come dicevamo in apertura il suo nome non è mai stato troppo sotto i riflettori. Ma da suo, in qualche modo allievo, poiché ho anche io sostenuto un esame sotto la sua docenza, ho sentito il bisogno di parlarne, e oggi, da storico consapevole del fatto che, il suo contributo allo sviluppo del pensiero storico in Italia è stato tra i più importanti del secondo dopoguerra, non posso non ricordarlo con ammirazione, affetto e stima.

Ernesto de Martino || L’opera a cui lavoro

Approccio critico e documentario della Spedizione etnologica in lucania, a cura di C.Gallini, argo, Lecce 1996 pp.11-8

Credo che per illustrare e chiarire il significato culturale dell’opera a cui lavoto e i suoi rapporti con la vita d’oggi, sia opportuno dare alla mia esposizione un andamento quasi autobiografico, narrando le fasi attraverso le quali quel significato culturale e quei rapporti mi si sono venuti faticosamente chiarendo fino al grado di consapevolezza che oggi ho raggiunto. Ho pensato che questa forma espositiva era da preferirsi, perché solo così non sarebbe andata smarrita quella drammatica tensione fra pensiero e vita a cui la mia generazione si è trovata esposta e che ha logorato la nostra giovinezza; e perché solo così lasciava il dramma ancora aperto, con la congiunta possibilità di nuovi sviluppi.

Mi permetterò pertanto di rifarmi all’ambiente storico in cui cominciò a fermentare il primo disegno della mia opera. Si era negli anni fra la guerra di Spagna e la seconda guerra mondiale, quando noi giovani della piccola borghesia meridionale trovavamo nelle cospirazioni di tipo mazziniano e nei giuramenti da Giovane Italia la prima forma concreta per testimoniare a favore della libertà. In quegli anni Carlo Levi scopriva Cristo fermo ad Eboli, mente noi a Bari rendevamo visita al vecchio Croce neella villa Laterza sulla via di Carbonara. Eppure proprio in quegli anni in cui si era maturata in me la tenace avversione aii fascismi europei, cominciarono anche le prime riserve e insoddisfazioni verso il mondo col quale il gruppo liberale-mazziniano di Villa Laterza faceva la diagnosi della crisi della nostra civiltà. Mi sebrava che qualche cosa sfuggisse a quel modo di valutazione, ma dovetti percorrere un lungo e avventuroso cammino prima di chiarire a me stesso quali ne fossero propriamente i limiti. Un primo passo innanzi lo feci quando mi resi conto che il filo che mancava all’ordito era il filo del “mondo primitivo”. In naturalismo e storicismo nell’etnologia, uscito nel 1941, ma pensato appunto in quegli anni, si legge, p.12:

La nostra civiltà è in criso: un mondo acena ad andare in pezzi, un altro si annunzia. Naturalmente, come accade nelle epoche di crisi, variamente si atteggiano le speranze e variamente si configura il “quid maius” che sta per nascere. Tuttavia una cosa è certa: ciascuno deve scegliere il proprio posto di combattimento, e assumere le proprie responsabilità. Potrà essere lecito agire male: non operare, non è lecito. Ciò posto, quale è il compito dello storico ? Tale compito è sempre stato, ed ora più che mai deve essere, l’allargamento dell’autocoscienza per rischiare l’azione”.

Il mio interesse per l’etnologia nacque dunque come un aspetto dell’interesse che provavo per la mia stessa civiltà, come un tentativo di dominare nella prospettiva storiografica stati d’animo e modi di sentire arcaici ancora immediatamente operosi nel moderno, e presenti nella nostra vita politica e morale, così come nella letteratura e nelle scienze. Mi sembrò a quel tempo che il “lato oscuro” distendesse la sua ombra sul mondo luminoso della ragione e della storia, impegnando variamente il nostro orbe culturale: la psicanalisi nella scienza, l’attivismo nella filosofia, il decadentismo nella letteratura e nel costume, il misticismo razzismo nella politica mi apparivano i documenti più appariscenti di questo impegno sinistro, e altresì la prova che mancava, per entro la nostra civiltà, una vera coscienza storiografica dell’arcaico. Lo storicismo crociano, alla cui scuola ero stato educato, confermava nel fatto questo limite del nostro umanesimo, perché se copiosi erano stati i frutti della nuova storiografia italiana in tanti domini culturali, il dominio delle civiltà primitive e dei loro istituti restava escluso da qualsiasi influenza storicistica. L’opera alla quale mi accingevo, mi si configurava pertanto, non solo come liberazione della civiltà moderna dal “lato oscuro dell’anima” (liberazione da effettuarsi mercé la storia delle civiltà primitive), ma altresì come incremento e come sviluppo della stessa metodologia crociana della storia, e quindi come allargamento, del limite umanistico, che avvertivo nella “filosofia dello spirito”.

p.14 Naturalismo…

Invitiamo gli Schrifthistoriker e i metodologi della storia a riflettere sul fatto che la metodologia crociana, nata da una vivacissima esperienza della storia, raccomanda la sua vitalità e il suo incremento al continuo commercio con nuovi problemi storici”.

Per rendere concreto il mio proposito, dovevo anzitutto saggiare la consistenza metodologica della storiografia tradizionale, e questo feci nella raccolta di saggi che porta il titolo Naturalismo e storicismo nell’etnologia.

Ciascuno di questi saggi mi dava occasione di battere in breccia un aspetto saliente del naturalismo etnologico. Il saggio critico sul prelogismo di Lévy-Bruhl costituisce una polemica contro l’irrazionalismo e il misticismo nella considerazione dell’arcaico: l’incomprensione storiografica degli istituti primitivi si rivela qui nel modo più crudo, e veniva in un certo senso codificato attraverso l’ipotesi di una mentalità prelogica, incomprensibile per definizione e che al più si poteva rivivere dopo essere stata convenientemente “suggerita”.

Il saggio sulla “prima forma di religione” mi dette occasione di valutare criticamente un mal posto problema del naturalismo etnologico, e cioè la pretesa di farci assistere all’ingresso dell’uomo nella storia: invece di tentare la ricostruzione delle civiltà primitive per entro le categorie del giudizio storico, il naturalismo etnologico pretendeva di farci assistere alla nascita in tempo di queste stesse categorie, cioè pretendeva assurdamente di uscire dallo stesso pensiero storiografico giudicante, e di toglierlo ad oggetto di ricerca. Era proprio il caso del Barone di Münchhausen che voleva sollevarsi dallo stagno nel quale era caduto tirandosi il codino della capigliatura! Infine il saggio sulla scuola storico-culturale mi dette occasione di sottolineare il fatto che l’aggettivo “storico” era qui usurpato, perché ordinare la massa confusa dei fatti etnologici in cicli culturali con una certa diffusione nello spazio, con una certa successione nel tempo, e con rapporti casuali definiti, costituisce “filologia” non “storia”, stimolo per l’anamnesi ma non ancora anamnesi storiografica in atto. Come il criterio stilometrico di Lutoslawski per l’ordinamento dei dialoghi platonici non è certo la storia del pensiero di Platone, così la tecnica empirica suggerita da Graebner, dal Pinard, dallo Schmidt per ordinaare spazialmente e cronologicamente le civiltà primitive non è ancora storia di quueste civiltà. Infine il saggio sulla scuola storico-culturale mi offrì l’occasione per fare giustizia di un’altra aberrazione del naturalismo etnologico, e cioè la pretesa di una storia che fosse al riparo da qualunque opzione filosofica. La identità di filosofia e storia e la risoluzione della filosofia nel momento metodologioco della storiografia furono fatte valere nel settore etnologico, dimostrando che la pretesa di scrivere una storia delle civiltà primitive senza opzioni filosofiche si risolveva di fatto nell’accettare la più scorretta filosofia del senso comune, il più crasso, più ingenuo e più dogmatico realismo.

Dopo il prologo metodologico di Naturalismo e storicismo nell’etnologia mi restava di esercitare lo storicismo in media res, cioè nella ricerca storiografica effettiva. L’analisi di una serie di istituti magici mi portò a scoprire che la mafia poteva essere interpretata come un sistema di guarentigie volte a difendere la presenza da rischio di non esserci nel mondo. Nacque così il Mondo Magico, nel quale si prendeva coscienza della limitazione umanistica che aveva fin’ora impedito la memoria storica del maghismo: l’unità della presenza era stata sempre concepita dalla civiltà moderna come un dato ontologico, normale, valido per tutti i tempi e tutti i luoghi, e che fove veniva meno, in questo o quell’individuo, aveva soltanto un significato meramente psicologico, o addirittura di deviazione patologica dalla norma. Sfuggiva alla civiltà moderna la possibilità di una storia della presenza, la possibilità di istituti storici definiti nati per combattere la labilità della presenza, e indirizzata a salvare la presenza nella storia. Successivamente venni in chiaro che dalla presenza storicamente non integrata, che non resiste al divenire e che rischia di esserne travolta in una coinonia indiscriminata, in una caos senza compenso, procedendo anche tutti i temi culturali propri della vita religiosa: solo che mentre nella magia la presenza labile cercava di istituire una serie di guarentigie per esserci in qualche modo nel mondo storico, nella religione la presenza si votava al paradossale tentativo di salvarsi dalla storia, di esinguere il ritmo del divenire.

Questo corso di pensieri, che ebbe la sua espressione nel Mondo magico, proseguì il suo svolgimento sotto la spinta di altre esperienze. Cominciò lentamente a reagire sulla mia vicenda mentale la considerazione del mondo contadino meridionale. Impegnato nel processo di emancipazione realedi quel mondo, le esperienze che ne traevo non potevano alla lunga restare senza effetto profondo sulla mia opera di studiioso, non potevano non invitarmi a unificare in me l’intellettuale e l’uomo politico. Del mondo contadino meridionale fu accreditata un’immagine che lo voleva rassegnato e dolente nella sua storica immobilità. Ricordate come si apre Cristo si è farmato a Eboli di Carlo Levi ?

P1…

Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare la Storia. Spinto qua e là alla ventura, non ho potuto finora mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini, di tornare fra loro, e non so davvero se e quando potrò mai mantenerla. Ma, chiuuso in una stanza, e in un mondo chiuso, mi è grato riandare con la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Statom eternamente paziente; a quella mia terra senzaconforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte”.

Per Levi la Lucania contadina è essenzialmente il paese del mito, il paese che vive da sempre esperienze che sono al riparo dalle grandi correnti della storia, esperienze che si collegano agli spiriti che sono nell’aria, alle potenze che si celano nelle bestie e negli uomini. Riflettendo sulle pagine di Levi mi resi conto che la sua interpretazione del mmondo contadino era sostanzialmente errata.

Anzitutto se la “civiltà cristiana” ha così poco permeato di sé il Mezzogiorno contadino, se Cristo si è fermato a Eboli, ciò costituisce un fatto storico che deve trovare la sua spiegazione in un limite interno all’umanesimo cristiano. In secondo luogo, come ho mostrato in Note lucane, il Mezzogiorno contadino, almeno nei suoi sstrati più avanzati, aspira a vincere il limite umanistico della civiltà cristiana, il mondo che vive oltre Eboli è impegnato a superare il cippo condinario piantato dalla civiltà di Cristo – come si potrebbe dire capovolgendo l’immagine di Levi. In terzo luogo 8e fu questo lo spunto critico più ricco di conseguenze) proprio quelle esperienze contadine che sembrano fuori dal tempo, e quasi al riparo dalla storia, rinviano in realtà a drammi sociali storici concreti, da cui procedono istituti umani definiti.

Levi, p68, a proposito di un becchino, banditore comunale e incantatore di lupo:

Una notte, non molto tempo prima, qualche mese o qualche anno, non potei farglielo precisare, poiché le misure del tempo erano, per lvecchioincantatore, indeterminate, egli tornava da Gaglianello, la frazione, e, giunto su un poggio, che è di fronte alla chiesa, il Timbone della Madonna degli Angeli, aveva sentito in tutto il corpo una strana stanchezza, e aveva dovuto sedersi in terra, sul gradino di una cappelletta. Gli era stato poi impossibile alzarsi e proseguire: qualcuno llo impediva. La notte era nera, e il vecchio non poteva discernere nulla nel buio: ma dal burrone una voce bestiale lo chiamava per nome. Era un diavolo, installato lò tra i morti, che gi vietava il passaggio. Il vecchio si fece il segno della croce, e il demonio cominciò a digrignare i denti e a urlare di spasimo. Nell’ombra il vecchio distinse per un momento una capra sulle rovine della chiesa saltare spaventosa, e scomparire. Il diavolo fuggì nel precipizio, ululando. – Uh! Uh! – gridava dileguandosi: e il vecchio si sentì ad un tratto libero e riposato, e in pochi passo tornò in paese”.

Mondo Magico, p 91 …

“In un’area di diffusione che compprende (almeno in base agli accertamenti finora eseguiti) la siberia artica e subartica, il Nord-America e la Melanesia, è stato osservato una singolare condizione psicologica in cui molto spesso cadono gli indigni, quasi vi fossero naturalmente disposti. Questa cndizione, chiamata Latah dai Malesiami, Olon dai Tungusi, Irkunii dagli Yukagiri, Amurak dagli Yakuti, Menkeiti dai Koriaki, Imu dagli Ainu è stata osservata e descritta da parecchi autori. Nello stato latah, così ocome è descritto da Sir Huge Clifford, l’indigeno pere per periodo più o meno lunghi, e in grado variabile, l’unità della propria persona e ll’autonomia dell’io, e quindi il controllo dei suoi atti. In questa condizione, che subentra in occasione di una emozione o anche soltanto di qualche cosa che sorprende, il soggetto è esposto a tutte le suggestioni possibili”.

Levi, p.137 esperienze del manovale Carmelo Coiro

Levi racconta il suo incontro con un “monachicco” in una grotta durante i lavori di un cantiere edile. I “monachichi” sono spiritelli bizzarri che tormentano le persone con scherzi e stranezze”.

Mondo magico, p.110…

“[Secondo i gruppi tungusi, gli spiriti vengono dallo sciamano durante il periodo oscuro della giornata, e alcuni spiriti non possono essere addotti e non si piò trattare con essi durante il giorno. Questo vale non solo per gli sciamani ma anche per gli altri]. Presso i Manciù lo sciamanizzare è effettuato durante le ore della notte : [È ben noto agli studiosi di maghismo sciamanistico che la esigenza delle tenebre trova talora espressione nella costruzione ufficiale di luoghi scuri ad hoc per le pratiche sciamanistiche, o anche la utilizzazione di recessi oscuri esistenti]”.

Questo paeallelismo dei documenti, che rinviavano a un modello storico idealmente identico pur nella loro distanza spaziale e nella varietà delle situazioni culturali, dette in me l’avvio a tutta una serie di pensieri.

In primo luogo si imponeva il riconoscimento che il mondo storico dei miei contadini, per ciò che esso presenta di arcaico e di “arretrato”, è lo stesso dei popoli primitive delle civiltà etnologiche. Nell’uno e nell’altro appare la stessa situazione esistenziale, la stessa disintegrazione della presenza rispetto alla storia, e pertanto gli stessi drammi culturali magico-religiosi. Nell’uno e nell’altro caso appare la stessa condizione di soggezione rispetto alla natura, la stessa mancanza di un piano umano per dominare l’ordine naturale. E nell’uno e nell’altro appare la stessa soggezione sociale rispetto alla civiltà cristiana, che ora mi rivela il suo limite interno per la sua qualità di civiltà borghese: che i portatori più qualificati di questa soggezione fossero i questori o i prefetto, come accade per il mezzogiorno contadino, o i funzionari e gli amminstratori di coloniali come accadde per le popolazioni etnologiche, è una differenza irrilevante che non altera la sostanziale identità.

In secondo luogo il dramma esistenziale magico che che avevo narrato nel Mondo Magico mi apparve necessariamente legato a una condizione subalterna di esistenza, onde religione e magia nascevano come riflessi di questa condizione: proprio perché questi uomini non erano di fatto cittadini della storia, la loro presenza era storicamente non integrata, e culturalmente erano impegnati a esserci in qualche modo nella storia attraverso la magia o a salvarsi dalla storia attraverso la religione. In tal modo, attraverso queste esperienze vive, in parte politiche e in parte culturali, entravano nella prospettiva marxzista della storia, o almeno in un suo aspetto fondamentale.

In terzo luogo il naturalismo dell’etnologia e del folklore tradizionale mi si dichiararono come espressione del limite umanistico interno della “civiltà borghese”: proprio perché i popoli coloniali e semicoloniali e gli stati subalterni dei paesi colonizzati non vivevano per entro la coscienza culturale borghese come mondo di uomini ma piuttosto come mondo di cose, come natura padronneggiabile e sfruttabile, non poteva mancare una etnologia storicistica borghese.

In quarto luogo mi si chiarì che la esigenza di una etnologia e un folklore storicistici eea nata in me come momento rischiaratore del processo di emancipazione reale che, su scala mondiale, portava il mondo che vive oltre Eboli a varcare il cippo condinario della civiltà di Cristo. Restava intatta la persuasione espressa in Naturalismo e storicismo che il compito dello storico nell’odierna crisi della civiltà è quello di allargare l’autocoscienza storiografica per rischiarare l’azione. Ma l’azione era diventata ora la trasformazione della società borghese in quella socialista, la partecipazione attiva alla emancipazione della sicietà borghese in quella socialista, la partecipazione attiva alla emancipazione reale di centinaia di migliaia di uomini su scala ecumeenica, e l’allargamento dell’autocoscienza significava appunto che la memoria storica del mondo primitivo si accendeva nel momento stesso in cui quel mondo diventava per entro la coscienza culturale moderna un problema per l’azione emancipatrice.

Il problema arcaico della salvezza della presenza nella storia o dalla storia acquistava rilievo storiografico nel momento stesso in cui un grande movimento ecumenico di emancipazione reale degli oppressi era immpegnato a sradicare le condizioni di esistenza che per così lungo corso di evi avevvano alimentato quel problema. La situazione ierogonica, da cui rampollano necessariamente magie e religioni, si distendeva nella dimensione della comprensione dtoriiografica nel momento stesso in cui la situazione ierogonica come tale diventava oggetto di una prassi destinata a sopprimerla, integrando gli uomini, tutti gli uomini, nella storia umana. Così ho unificato un una superiore unità i miei interessi scientifici e quelli pratico-politici: e l’opera a cui lavoro la sento ora legata au n grande movimento ecumenico che stringe insieme tutto il mondo che vive oltre Eboli.

Mi piace per chiudere questa mia conversazione leggendo una poesia di un poeta dilettante molisano, Eugenio Cirese.

Eugenio cirese (Fossalto, 1884 – Rieti, 1955) è stato anche studioso di Folklore e raccoglitore di caanti popolari. Il suo lavoro ha avuto una notevole influenza sul figlio Alberto Mario Cirese, che sarà uno dei fondatori della antropologia post-bellica. Non è stato possibile risalire alla poesia a cui fa riferimento de Martino.

Attualmente ho in animo di organizzare soedizioni in équipe.

Per quel che mi concerne da queste spedizioni dovrebbero risultare una parte del materiale documentario per un’opera sulll’angoscia della storia, cioè sulle forme di vita culturale che nascono da questa angoscia.

 

Bibliografia

Sud e Magia, ernesto de Martino, Edizione speciale con le fotografie di F.Pinna, A,Gilardi e A.Martin e con l’aggiunta di altri testi e documenti del cantiiere etnologico lucano. A cura di Fabio Dei e Antonio Fanelli, Donzelli 2015, pp 170-176

Trump non ha vinto le elezioni, è la Clinton ad aver perso.

Questa infografica è molto interessante, mostra i risultati delle elezioni presidenziali nei USA, dal 2008 ad oggi.

Il primo dato interessante a mio avviso è quello legato al numero di elettori Repubblicani, numero che nel 2008 sfiorava i 60 milioni, nel 2012 li superava appena è nel 2016 torna a sfiorarli.
Insomma un dato espressivo di continuità e coerenza potremmo dire da parte dell’elettorato che resta fedele al partito e agli ideali di partito , indipendentemente dal candidato.
Guardiamo ora il dato degli elettori Democratici, nel 2008 si sfiorano i 70 milioni, nel 2008 superano di poco i 65 milioni e nel 2016 sfiorano i 60 milioni.

Questo dato è molto significativo perché mostra una iniziale fiducia, potremmo dire, in Obama, che è andata diminuendo nel tempo, per via della crisi economica/finanziaria , per la politica estera e tanti altri fattori che non staremo qui ad elencare.
Obama, nel 2008 era un volto abbastanza nuovo, certo, aveva una lunga e brillante carriera politica alle spalle, ma di fatto era in uomo nuovo, che con lavoro, impegno e dedizione era giunto ai vertici del potere USA. Una storia personale completamente diversa invece è quella di Hilary Clinton, nome più che noto all’elettorato statunitense. Questa notorietà comporta una problematica inevitabile. Gli americani, e soprattutto gli elettori democratici, conoscevano o comunque credevano di conoscere, molto bene, quella che sarebbe stata, nell’atto pratico e al di là delle promesse elettorali, la linea d’azione di un eventuale presidenza della Clinton.

Queto elemento è estremamente importante ed è il principale fattore di distinzione tra lei e Obama nel 2008.
Come già detto, n 2008 otto Obama era un “volto nuovo“, nel 2012 era un volto noto, e questa notorietà, unita al precedente mandato ha comportato una perdita sostanziosa dei propri elettori, che molto probabilmente hanno preferito esimersi dal voto, notiamo infatti che, nel 2012, se da una parte gli elettori Democratici sono in calo rispetto al 2008, i Repubblicani restano pressoché invariati, non vi è quindi un anomalo cambio di fede politica. Questo calo dell’elettorato democratico continua ulteriormente nel 2016 scendendo a 60milioni circa, un numero sicuramente importante ed elevato, che di fatto regala alla Clinton un centinaio di migliaia di voti in più rispetto al suo avversario Trump ma che nella realtà politica statunitense, non hanno il peso necessario per la conquista di uno stato e dunque ininfluenti al fine delle nomina presidenziale.


Cosme possiamo dedurre da questi dati ?

Questi risultati lasciano alla politica statunitense e soprattutto al partito Democratico un importante lezione. Innovazione, rinnovazione e cambiamento sono elementi fondamentali per la sopravvivenza degli USA e del partito Democratico, senza questi elementi, inseguendo una politica statica di tipo tradizionale, proponendo le solide idee che poi non verranno messe in pratica, proponendo i soliti volti e nomi, la sfiducia continuerà a crescere portando ad una sempre maggiore astensione dei propri elettori.

Tra il Barack Obama del 2008 e Hilary Clinton nel 2016 ci sono 10 milioni di voti. 10 milioni di Americani che non hanno votato perché , molto probabilmente non si sentivano abbastanza rappresentati na l’uno o l’altro candidato (metto in mezzo anche Trump).

Lo stesso discorso può essere applicato anche al partito Repubblicano, dove però, la fede di partito e non nell’uomo (o la donna) sembra essere notevolmente più radicata.
In conclusione, Donald Trump ha vinto queste elezioni quasi a tavolino, conquistando la base elettorale del partito Repubblicano, circa 60 milioni di elettori, ma no uno di più. Dall’altra parte, Hilary Clinton ha faticato nel conquistare anche la sola base “storica” del partito Democratico, e non so fino a che punto ci sia effettivamente riuscita.
Un ultimo dato da tenere in considerazione, il popolo americano conta circa 317 milioni di persone, di cui circa 2/3 in età per votare. L’elettorato complessivo degli stati uniti si aggira appena al di sotto dei 200 milioni.
N 2008 , la più sentita e partecipata delle elezioni degli ultimi 10 anni, hanno votato circa 130 milioni di Americani, nel 2016, dieci milioni (di democratici?) in meno, ovvero, 120 milioni, e questo ovviamente è molto significativo.

Spero di non avervi annoiato troppo con queste osservazioni, se il post è stato interessante vi invito a condividere e lasciare un pollice in su, se avete domande invece, usate pure i commenti

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