La storia del Rum, dai suoi antenati asiatici alla fortuna caraibica

Scrivere una storia completa del Rum, che tenga conto anche dei suoi illustri antenati è pressapoco impossibile, se si considera che alcuni dei suoi precursori risalgono a migliaia di anni fa.

Fin dall’antichità infatti, i popoli asiatici erano in grado di produrre una bevanda fermentata dalle canne da zucchero, questa bevanda era molto diffusa in India e nella Cina meridionale, e da lì si ritiene che si sarebbe diffusa un po ovunque, subendo negli anni alcune variazioni più o meno significative che nel XV secolo avrebbero dato vita al “nostro” Rum. Uno degli antenati orientali più “noti” al mondo occidentale è “brum”, questa bevanda dai malesi ha alle proprie spalle migliaia di anni di storia. Un altro antenato del rum giunto all’attenzione del mondo occidentale, e potrebbe essere il padre spirituale di questa bevanda, è detta “vino di zucchero” ed è descritta in un documento risalente XIV, in cui, Marco Polo parla di un “ottimo vino di zucchero” che gli venne offerto in una regione dell’attuale Iran.

Nell’Europa del XV secolo, più precisamente a Londra, sarebbe stata distillata una fermentata prodotta dallo zucchero delle colonie indiane (indie orientali), molto simile al rum, ma che ancora non era Rum così come lo conosciamo oggi, questa bevanda era una sorta di “adattamento europeo” al vino di zucchero descritto da Marco Polo. Successivamente alla scoperta delle Americhe e la colonizzazione del nuovo mondo, il vino di zucchero, sarebbe stato prodotto soprattutto utilizzando le canne da zucchero provenienti dalle “indie occidentali” dove le condizioni climatiche favorevoli e la mano d’opera a basso costo avrebbe permesso coltivazioni intensive di canne da zucchero.

In questa fase evolutiva del rum, il vino di zucchero britannico è ancora prodotto a Londra e si dovrà aspettare almeno fino al XVII secolo per avere la prima produzione di rum “americano”, così come lo conosciamo oggi, questi sarebbe stato prodotto direttamente nelle colonie caraibiche, dove gli schiavi impegnati nelle piantagioni per la coltivazione e la raffinazione dello zucchero, scoprirono che le melasse, un sotto-prodotto del processo di raffinazione, poteva fermentare in alcool.

La distillazione di questi sottoprodotti alcolici permetteva di concentrare l’alcool e rimuovere le impurità, producendo i primi veri rum e secondo la tradizione, il primo rum sarebbe stato distillato sull’Isola di Barbados.

Secondo un documento risalente al 1651

“Il maggiore intossicante prodotto sull’isola è il Rumbullion, detto anche Kill-Devil (ammazza-diavolo), ottenuto da canne da zucchero distillate, un bollente, infernale, e terribile liquore.”

La popolarità della bevanda, dalle proprietà inebrianti, molto più forte della birra, si sarebbe diffusa rapidamente nelle colonie statunitensi e per sostenere la crescente richiesta di liquore, nel 1664 sarebbe stata aperta a Staten Island la prima distilleria coloniale britannica. Non molto tempo più tardi una seconda distilleria sarebbe stata aperta anche a Boston, per poi affermarsi in florida che in breve sarebbe diventata la principale produttrice di Rum del continente americano.

La crescente domanda di Rum, implicava una crescente domanda di melassa che avrebbe viaggiato parallelamente alla crescente domanda di zucchero, molto richiesto in Europa per accompagnare bevande come il cioccolato, il tè e il caffè, e insieme la richiesta di Zucchero e di Rum avrebbe amplificato la richiesta di manodopera a basso costo, incrementando il traffico atlantico di schiavi.

 

Per produrre Rum serviva zucchero, per coltivare lo zucchero servivano schiavi e per trasportare schiavi dall’Africa alle Americhe erano necessari diversi mesi di navigazione, un periodo estremamente lungo per i marinai, che avrebbero trovato proprio nel Rum una valida e più efficace alternativa alla birra e al vino, poiché la più alta gradazione alcolica rendeva più rapido l’inebriamento e di conseguenza ai marinai era fornita una razione “minore” di rum rispetto alla birra, che sarebbe stata rapidamente sostituita dal liquore di zucchero, che era stivato in un numero minore di barili, dunque vi era più spazio per altro tipo di razioni alimentari, e questo avrebbe fatto la fortuna del rum, che si sarebbe legato in maniera indissolubile alla tradizione marinaresca nell’area caraibica.

Nel 1764 la corona britannica avrebbe emesso l’ Sugar Act, una legge che limitava l’importazione di zucchero caraibico nelle colonie americane, andando di fatto a limitare la produzione di Rum nelle colonie britanniche, secondo alcuni l’interruzione al commercio di zucchero causata dal Sugar Act potrebbe essere uno dei fattori preliminari che avrebbero portato alla rivoluzione americana. In ogni caso, la restrizioni all’importazione di rum dai possedimenti caraibici e la conseguente riduzione della circolazione del rum, avrebbe fatto la fortuna di un altro tipo di liquore, permettendo lo sviluppo del Whisky americano, o se preferite bourbon, la cui produzione avrebbe richiesto materie prime coltivate direttamente nelle colonie (poi ex colonie) americane causando il declino del Rum nell’area continentale del nord delle Americhe.

 

Fonte : 

Gabriella Baiguera, Il Piacere del Rum
Tasting Empire: Chocolate and the European Internalization of Mesoamerican Aesthetics

Avete scelto di essere audaci. Difenderò le speranze d’Europa

Grande fiducia nelle istituzioni internazionali e nella comunità europea, sembrano trasparire dalle parole del neoeletto presidente della repubblica francese Emmanuel Macron, che esordisce parlando di Audacia, si Speranza e di Europa.

“Avete scelto di essere audaci. Difenderò le speranze d’Europa”

Viviamo in un epoca in cui la fiducia nell’Unione Europea vacilla, e l’imminente uscita dall’unione della Gran Bretagna porta con se due soli possibili scenari, da una parte un effetto domino che nel giro di qualche anno potrebbe allontanare dalla comunità i paesi con un economia piu’ forte, uno su tutti la Francia, che, negli ultimi anni è stata una delle vittime privilegiate del terrorismo internazionale, e dall’altra parte, potrebbe verificarsi un consolidamento delle istituzioni europee, che avrebbero l’effetto di accelerare, o meglio, riportare a velocità ottimale, l’evoluzione comunitaria che, negli ultimi anni, ha subito un forte rallentamento, causato soprattutto dalla massiccia crisi economica, finanziaria e sociale, che, nell’ultimo decennio ha messo a dura prova anche i piu’ accesi sostenitori dell’Europa.

Già in passato, e in diverse occasioni, il “nazionalismo francese” incarnato soprattutto nella figura di Charles de Gaulle, ha rallentato la comunità europea, in alcuni casi, bloccando alcuni importanti progetti, di cui la rancia stessa era stata promotrice (come ad esempio la CED, la Comunità Europea per la Difesa) e in altre occasioni ha rallentato ed ostacolato il piu’ possibile, l’integrazione in alcuni settori commerciali che per Parigi erano considerati di vitale importanza per l’economia francese.

Marie Le Pen, sembrava incarnare quel Nazionalismo ed il suo partito sembrava rappresentare un ritorno a quel triste passato fatto di concorrenza e rivalità tra le nazioni europee, un passato in cui la Francia si scagliava “da sola” contro il mondo, temendo un rafforzamento dell’asse Londra-New York che avrebbe potuto creare un ineguagliabile polo economico/commerciale. Tuttavia, le recenti elezioni presidenziali si sono concluse positivamente per il candidato di centro sinistra Emmanuel Macron, sottolineando, almeno apparentemente, una rinnovata fiducia francese per nei confronti della comunità europea. Una fiducia francese che probabilmente deve un enorme tributo alla “sfiducia” britannica nei confronti della UE, manifestatasi lo scorso giugno con un referedum consultivo in cui è emersa un apparente volontà britannica di lasciare l’Europa, ma il Regno Unito, nonostante i suoi annunci, nonostante le sue decisioni, è ancora impantanata in una fitta rete burocratica, di cui sembra non volersi liberare, e che continua a tenere il paese legato all’UE.

La vittoria di Macron, che in campagna elettorale si è detto vicino alla comunità europea, ed ha dichiarato di voler mantenere gli impegni presi dalla Francia con la comunità europea, e continuare sulla strada dell’integrazione, nonostante l’elevatissimo livello di astensione, che ha raggiunto il picco piu’ alto dal 1969, negli anni quindi delle proteste e delle manifestazioni che seguirono la scia dei movimenti operai e studenteschi del sessantotto, con una Francia totalmente immersa in un anacronistico tentativo di mantenere vivo l’impero coloniale, che di fatto costava alla Francia piu’ di quanto non desse alla francia.

Il parallelismo tra l’ostinazione francese nel voler mantenere vivo l’impero coloniale negli anni sessanta, e quello odierno nel voler mantenere viva la comunità europea tuttavia è solo apparente, e se si guarda al 1969 è da tenere a mente che quelle elezioni furono vinte da Georges Pompidou, che subentrò alla presidenza di Charles de Gaulle.

Pompidou all’epoca rappresentò il cambiamento di rotta l’abbandono del nazionalismo francese e del gollismo, la rinuncia all’impero coloniale per puntare su qualcosa di nuovo e innovativo, Pompidou sarebbe stato un acceso sostenitore della nascente comunità europea, all’epoca costituita da diverse organizzazioni comunitarie quali la CECA, CEE, ecc. Ed è in questa fiducia di Pompidou per l’europa che vi è il reale parallelismo tra le elezioni del 1969 e quelle del 2017, ma il fatto piu’ interessante e allo stesso tempo “attuale” della presidenza di Pompidou avvenne nel 1972 quando il presidente francese propose un referendum che avrebbe permesso alla Gran Bretagna di entrare a far parte della comunità europea.

Fino a quel momento il Regno Unito si era mantenuto fuori dalle istanze comunitarie preferendo un legame piu’ solido con l’EFTA, organizzazione internazionale concorrenziale alla comunità europea, ma i risultati positivi che la comunità europea aveva ottenuto in pochissimi anni, nei vari settori in cui era impegnata, rappresentavano una ghiotta occasione per la monarchia britannica, e nel 1972 in seguito ad un referendum, fu concesso al Regno Unito di entrare a far parte della comunità europea, questo ingresso fu accolto a londra dalla promessa di una maggiore “autonomia” rispetto ad altri paesi che facevano parte della comunità, ma questa autonomia era suggellata da precise condizioni per un ipotetica uscita, uno scambio di condizioni tra Londra e Parigi che in quel momento parvero impopolari (in europa) e a tutto vantaggio di Londra, ma che, quarantacinque anni piu’ tardi, avrebbe permesso all’Unione Europea di mantenere una “linea dura” nei confronti della vicenda Brexit.

Il trionfo di Macron, unito all’attuale situazione geopolitica, unita alla necessità dell’europa di munirsi di una propria forza militare continentale, potrebbe rappresentare la scintilla in grado di riaccendere la miccia della sopracitata CED. Gli equilibri internazionali sono turbati dal dilagare di importanti minacce alla sicurezza globale, minacce che le istituzioni faticano per mancanza di risorse e volontà, a contrastare in maniera efficace, e la politica isolazionistica di Donald Trump oltreoceano, rischia di mettere in crisi l’alleanza atlantica, unica alleanza militare, esterna alle nazioni unite, sopravvissuta alla guerra fredda.

La NATO tuttavia ha un futuro incerto, e già da qualche anno (per non dire decennio), il suo ruolo nel mondo è imprecisato, al punto che, qualche tempo fa, il neoeletto presidente Trump l’ha definita “un organizzazione obsoleta”. In quell’occasione scrissi un post su facebook in cui evidenziavo le opportunità che l’Unione Europea avrebbe avuto, se, mostrandosi coesa, avesse approfittato dell’intento statunitense di ritirarsi “fuori dal mondo”. Recentemente tuttavia, il presidente Trump a rivisto la propria posizione nei confronti della NATO, probabilmente perché si è reso conto che allo stato attuale, essa rappresenta allo stesso tempo, uno scudo per l’europa ma anche, lo strumento con cui gli USA possono esercitare su scala globale la propria politica di potenza. Senza la NATO, la comunità europea non avrebbe piu’ il proprio “scudo” e si troverebbe nella condizione di dover provvedere “da sola” alla propria sicurezza, di fatto creando le premesse per la creazione di una Comunità Europea di Difesa, che, fino a questo momento è stata considerata come una “inutile doppio della Nato, ma senza l’America al suo interno“.

La comunità europea odierna rappresenta una “superpotenza” economica, finanziaria e commerciale,  ma non militare, e di fatto il monopolio della forza è nelle mani degli USA, ma se la comunità europea avesse una propria forza militare, come auspicato dagli stessi USA durante la Guerra Fredda, questi diventerebbe una superpotenza a tutti gli effetti, creando così un vero e proprio polo planetario, alternativo agli USA e all’allora URSS e oggi alla Cina. E se all’epoca, in un clima di tensione internazionale e di pace armata, questa possibilità (la nascita della CED) rappresentava un’opportunità positiva per gli USA, oggi è vista con maggiore diffidenza, poiché un Unione Europea militarmente autonoma, sarebbe sì, un alleato degli USA, ma anche, un suo potenziale rivale.

Fonti : 

Si tratta di un analisi storica di un fatto di cronaca, vi prego pertanto di non chiedetemi “le fonti” perché questa volta “non ce ne sono” o meglio, tutto quello che ho letto nella mia vita fino ad oggi, mi ha permesso di “trarre queste osservazioni”, di conseguenza, tutto quello che ho letto nella mia vita fino ad oggi sono le “fonti” di questo articolo, ma, non avendo “letto” nulla di specifico appositamente per scrivere questo articolo, vere e proprie fonti non ce ne sono.

Quanto conosciamo i Vikinghi ? secondo un sondaggio di History Channel UK, molto poco

Per celebrare il lancio di una nuova stagione del dramma epico Vikings , The History Channel UK ha condotto un sondaggio su 2.000 persone, facendo domande di carattere generale sulla storia e la civiltà dei vichinghi ed i risultati sono stati “affascinanti” ma anche inquietanti. Mediavalist.net ha riportato la percentuale delle risposte date, rivelando qual è l’effettiva percezione che le persone hanno dei vichinghi e del loro lascito a questo mondo.

Secondo il 10% degli intervistati, i Vikinghi non sono mai esistiti, al contrario, soltanto il 56% degli intervistati si è detto sicuro, al di la di ogni ragionevole dubbio, dell’esistenza dei vichinghi, dicendosi interessati all’ammontare del “patrimonio” conquistato da questo popolo durante le proprie scorribande nel europa del nord. Ma siamo sicuri che i Vikinghi appartenessero ai cosiddetti “popoli del nord” ?

Noi sappiamo che la terra d’origine della civiltà vikinga fosse la scandinavia, tuttavia, il 20% degli intervistati non sembra essere d’accordo con questa informazione ed ipotizza un diverso luogo di origine di questa civiltà, tra le più quotate figurano la Grecia, per via di un ipotetico collegamento tra la mitologia norrena e la leggenda di Ulisse, che in questa data chiave di lettura, diventerebbe il padre mitico dei popoli del Nord, l’altra ipotesi emersa da questo sondaggio è che la terra d’origine dei vikinghi fosse la steppa siberiana o la Mongolia.

 

Uno degli elementi più iconici della civiltà vikinga è la loro teatralità in battaglia, oggi sappiamo che ogni elemento del vestiario, dell’armamentario, e dei mezzi di trasporto vikinghi erano studiati per incutere terrore all’avversario, dalla Drakkar alle particolari rasature della testa, agli incendi appiccati dopo un incursione e le asce da battaglia.

Questi elementi appartengono ormai all’immaginario comune legato ai vikinghi, tuttavia, soltanto il 5% degli intervistati sapeva che i Vikinghi rasavano la propria testa per apparire più minacciosi in battaglia e solo il 25% degli intervistati sapeva che i Vikinghi hanno scritto i propri poemi, permettendo a noi, di conoscere parte della loro storia, e soprattutto la loro mitologia, il 75% degli intervistati infatti si è detto convinto che le opere “poetiche” dei Vikinghi fossero opera di “terze parti” .

 

Una delle domande riguardava l’area delle incursioni, e visto che il sondaggio è stato fatto nel Regno unito, History ha chiesto agli intervistati se, i Vikinghi avessero mai compiuto raid lungo le isole britanniche ed il 75% degli intervistati ha risposto correttamente, mentre il restante 25% si è detto certo che i Vikinghi non avessero mai saccheggiato le coste britanniche.

 

 

 

In fine, il 10% degli intervistati si è detto convinto che, l’epoca dei Vikinghi, ovvero l’epoca delle grandi incursioni vikinghe lungo le coste dell’europa del nord, (che noi sappiamo coincidere con i secoli che vanno dall’ottavo all’undicesimo) ha indicato i secoli tra il quindicesimo e il diciassettesimo, e gli anni che separano Enrico VIII da Elisabetta I, come gli anni dei Vikinghi, sfasando così la storia Vikinga di oltre otto secoli, e solo il 60% degli intervistati ha indicato l’esatto arco temporale.

Fonte : http://www.medievalists.net/2017/05/vikings-survey-quiz/

 

 

La Torre di Babele è realmente esistita ?

La Torre di Babele, la mitica torre biblica che gli uomini costruirono per arrivare a dio. Secondo il mito biblico, all’epoca della costruzione, gli uomini della regione (Mesopotamia) parlavano tutti la medesima lingua, ma dio creò scompiglio tra le genti, facendo parlare loro mille lingue diverse, così che gli uomini non riuscirono piu’ a comprendersi, e la torre non raggiunse il cielo.

Al di la del mito biblico, presentato nel capitolo undicesimo del libro della genesi, ci sono riferimenti a miti e leggende simili, che, nello stesso periodo raccontano di una torre simile nella medesima regione, come il poema sumerico “Enmerkar e il signore di Aratta“, e nel Libro dei Giubilei (10, 18-27), inoltre ci saranno riferimenti postumi anche nella letteratura e nella mitologia greca e latina, nello specifico, in se ne parlerà in alcuni frammenti di Alessandro Polistore e di Eupolemo (Eus., Præp. Ev., IX), negli Oracoli sibillini (III. 117-129), ed in fine, accennerà qualcosa, in epoca repubblicana, Flavio Giuseppe (Ant. Jud., I.4.3).

Fatte tutte le premesse filologiche del caso, veniamo quindi al punto del post, la torre di babele è solo un mito, o come spesso accade questa antica leggenda si fonda su qualcosa di reale ? è realmente esistita una torre di babele o comunque qualcosa di simile ? magari una Ziggurat così alta ed imponente da ispirare il mito ?

Secondo il dottor Andrew George della University of London, lo studio di una tavoletta risalente al sesto secolo avanti cristo e ritrovata tra i resti della leggendaria babilonia (nell’odierno Iraq) oltre un secolo fa, rivelerebbe alcune importanti informazioni, essa infatti presenta alcune interessanti incisioni, su di essa è raffigurata una mastodontica Ziggurat, la sua edificazione potrebbe aver ispirato il mito della costruzione della torre di Babele.

Va precisato che, questo genere di reperti è molto diffuso e tavolette come queste sono studiate da diversi anni, questa tavoletta in particolare è stata tradotta già nel 2011 e la sua traduzione è stata il punto di partenza di un percorso di studi e di ricerche che va avanti da diversi anni.

Va precisato inoltre che, nell’antica mesopotamia, si stima esistessero decine e decine di archivi in cui erano custodite numerose tavole di pietra, la cui natura le rende estremamente piu’ resistenti alle intemperie di qualsiasi altro supporto per la scrittura, di contro (ance se per noni forse è un qualcosa di positivo) la loro natura rocciosa imponeva grandi dimensioni e numerosi archivi, di conseguenza, gli archivi e i magazzini in cui erano custoditi crebbero a dismisura e molti sparirono, perduti nel tempo, e di fatto non sappiamo quanti magazzini di questo tipo esistessero.

 

In ogni caso, secondo un video pubblicato sul canale dello Smithsonian Magazione, lo studio di questa particolare tavoletta sembra abbia permesso a Jeff Allen del World Monuments Fund, di individuare quella che si ipotizza possa essere l’esatta collocazione della “torre di babele” o meglio, dell’imponente ziggurat descritta dalla tavoletta.

 

 

Vi rimando alla pagina facebook Mitologicamente Grivitt per approfondire il mito della torre di babele, e alla pagina facebook Lost Archeology, per avere maggiori informazioni sulla scoperta, il sito e tutte le numerose altre informazioni pervenute dalla tavoletta.

Fonte : http://www.smithsonianmag.com/videos/category/history/some-very-compelling-evidence-the-tower-of-b/

7 Blog di Storia da non perdere

Ogni studente di storia sa che c’è sempre qualcosa da imparare ed è impossibile per chiunque, condensare l’intera storia dell’umanità in una sola vita. Inoltre, la vastità del nostro pianeta, dei suoi popoli e delle sue culture, di conseguenza la vastità e la varietà delle società umane, rende impossibile una conoscenza totale della storia dell’uomo. Molte civiltà sono cresciute e cadute nelle migliaia di anni da quando gli esseri umani hanno iniziato ad interagire tra di loro, alcune di queste civiltà hanno storie avvincenti, siano esse antiche o moderne. E se si è interessati a conoscere tutte queste storie, un solo blog come historicaleye, forse non basta. Quindi, ho deciso di giocare a carte scoperte, mostrandovi una piccola parte delle mie fonti digitali, già in passato ho realizzato una serie di video sul canale youtube in cui parlavo di archivi digitali e biblioteche digitali, con questo articolo/post invece, voglio semplicemente proporvi una breve rassegna di blog che seguo e da cui spesso, traggo ispirazione per un video o un articolo.

Attenzione, i blog che seguono sono tutti in lingua inglese, non ho inserito blog accademici o di società storiche, do per scontato che quelli siano affidabili per definizione, quelli che seguono sono dei blog, come Historicaleye, nulla di più nulla di meno.

Iniziamo con il mondo antico, la storia antica è probabilmente una delle più affascinanti e avvincenti, da sempre avvolta da un velo di magia e mistero, che rende ogni narrazione, ogni evento, ogni dinamica, estremamente seducente. Il mondo classico greco, le civiltà preistoriche del vicino, medio ed estremo oriente, portano con se un sapore mistico che trascende il tempo e la storia, ma cerchiamo di mettere la fantasia e le legende da parte, e concentriamoci sulla storia reale.

  1. Il blog : Mike Anderson’s Ancient History Blog 

Questo blog sul mondo antico è uno dei miei preferiti, il suo autore Mike Anderson si diverte a comparare il mondo antico con il mondo moderno, con il nostro tempo, cercando di analizzare l’attualità con occhio storico, ho scoperto il suo blog con l’articolo “Trump in ancient world” e me ne sono subito innamorato, dopo aver letto quell’articolo ho cercato di recuperare quanti più post possibile sul suo blog, ed ho trovato semplicemente geniale, la sua capacità di analisi.

2. Il blog : Dienekes’ Anthropology

Questo blog è dedicato all’antropologia, una disciplina analitica relativamente nuova, la sua storia inizia con il colonialismo ottocentesco e si dipana in tutto il XX secolo, subendo variazioni e influenze dalle due principali scuole di pensiero, quella britannica più “antropologica” e quella francese, più “etnologica“,in entrambi i casi comunque, si guarda alle culture “primitive” per comprendere meglio il mondo antico e l’evoluzione della nostra società, ma non siamo qui a parlare di storia dell’antropologia, bensì per parlare del blog di Dienekes. La ricerca antropologica è parecchio antica e spesso si mischia con studi sociologici o studi storici, ed il blog di Dienekes cerca di fare chiarezza, divulgando e spiegando in maniera estremamente semplice, il contenuto di articoli e libri di recente pubblicazione. Qualcosa che, con un po di tempo in più, mi piacerebbe provare a fare anche qui su historicaleye.

3. Il blog : Roman Times

C’è poco da dire su Roman Times, è probabilmente uno dei migliori blog esistenti per quanto riguarda la storia romana, dico migliori blog perché, a differenza di molti altri, come ad esempio l’italiano Romano Impero, e quasi ogni altro blog dedicato alla storia romana, non si limita ad avere un carattere enciclopedico, o da manuale, ma cerca di fare chiarezza, proponendo chiare e semplici (in realtà molto complesse, ma esposte in maniera estremamente semplice) analisi storiche e storiografiche, e, cosa più importante, contestualizzando autori e fonti.

4. Il blog : Got Medieval

Uno dei miei blog preferiti per quanto riguarda la storia medievale, li seguo da tantissimo tempo e confesso di essermi ispirato spesso a loro, soprattutto per il modo di proporre e gestire i contenuti sulla pagina, questo blog è semplice, divertente e irriverente, nonostante ciò è estremamente preciso e corretto, insomma, un blog che parla di storia in maniera seria, ma senza prendersi troppo sul serio, leggerlo è un vero piacere.

Cosplay di Batman in armatura Medievale. Fonte : Superherophoto

 

5. Il blog : In the Middle 

A differenza di Got Medieval, In the Middle è un blog che si prende sul serio, forse il più “complesso” da leggere, di tutti i blog citati fino ad ora, a metà tra un blog di divulgazione ed un blog accademico. Tuttavia, i suoi post interessanti, spesso riguardanti ricerche in corso o di recente pubblicazione, lo rende a mio avviso, un elemento utilissimo per chiunque sia appassionato di storia medievale.

6. Il blog : History and Women

Ultimo blog della rassegna, ma non per importanza, anzi, forse il mio blog preferito tra tutti quelli citati fino ad ora, un blog che affronta un campo di studi estremamente recente, ovvero, la storia delle donne, La storia di genere è una storia recente, o meglio, è una storia antica come l’umanità, ma solo di recente, e per recente intendo negli ultimi trenta anni circa, è diventata oggetto di studio al pari della storia ordinata. Questo blog scava nel passato raccontando non solo la storia delle donne, ma le donne nella storia, senza scadere in eccessi retorici e senza commettere mai l’errore di valutare il passato con canoni moderni. Del resto, il nome del blog dice tutto, Storia e Donne.

7. Il Blog Djedi Medu

Il blog di Egittologia Djedi Medu, è l’unico blog italiano presente in questa rassegna, e non è un caso, questo blog è uno dei più accurati per quanto riguarda l’egittologia, proponendo articoli divulgativi e news legate alle nuove scoperte e ricerche in corso. L’accuratezza dei sui post, e la gentilezza del suo curatore, lo hanno reso in breve tempo un vero e proprio punto di riferimento in italia per quanto riguarda l’egittologia.

Menzioni d’onore vanno alla pagina facebook Lost Archeologi, che, come potete intuire dal nome, si occupa di archeologia, e al canale youtube Annaliside, curato da Annalisa Arci, autrice qui su historicaleye, dove, oltre ai temi di storia antica e storia medievale, si occupa anche di storia della filosofia.

Spero l’articolo sia stato interessante e che apprezzerete, almeno quanto me, i blog citati, e, se volete farmi un favore, dite loro che vi manda Historicaleye.

Come le università telematiche possono rivoluzionare il mondo accademico

Il ruolo della scienza e della tencologia è sicuramente un elemento centrale nella trasformazione culturale delle società umane, e fin dall’antichità sovrani e governanti hanno tentato di condurre alla propria corte gli uomini più brillanti del proprio tempo, creando in talune occasioni, vere e proprie accademie, fucine del sapere, in cui impegnare gli intellettuali del proprio “regno” nell’ostica impresa di creare la più avanzata delle civiltà.
Scienza e conoscenza non erano tuttavia promossi in maniera gratuita, e spesso i mezzi per accedere al sapere furono accessibili a pochi eletti. Gli esempi nella storia sono innumerevoli, basti citare tra i più noti, la grande biblioteca di Alessandria d’Egitto alla corte dei Tolomei, dove il sapere era custodito gelosamente e gli intellettuali impegnati al suo interno, se da un lato erano liberi di esplorare i limiti del sapere senza alcun vincolo, erano, dall’altro lato, legati in maniera indissolubile alle sorti della corona d’Egitto e della dinastia dei Tolomei, così anche per la leggendaria dimora del sapere di Baghdad, o ancora, l’italia rinascimentale, che grazie agli sforzi di alcune grandi famiglie del tempo, diede vita ad un mondo nuovo, permettendo alla civiltà europea di superare il medioevo.

In tutti questi casi tuttavia, il sapere ebbe un doppio volto, gli intellettuali, i sapienti, che vissero ad Alessandria, a Baghdad, a Firenze, Napoli, Parigi, Londra, New York, Los Alamos, ecc ecc dovettero fare i conti con la vita politica del proprio tempo, impegnando le proprie menti, per scopi politici e militari.
La storia del sapere potrebbe dirsi conclusa qui, potremmo dire che la dove vi è un accademia, la dove si insegna e si studia, la dove si concentrano menti brillanti per progettano nuove tecnologie, qualcuno, storicamente un autorità pubblica, è in attesa che i tempi siano maturi.

Ma con l’avvento dell’età contemporanea, e soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, le cose sono cambiate. La scienza, il sapere, un tempo erano esercitati al servizio esclusivo di un autorità politica o al massimo privata. Oggi non è più così, il sapere, grazie soprattutto alla diffusione di internet e delle nuove tecnologie di comunicazione è diventato realmente pubblico e accessibile a chiunque. Questa semplificazione dell’accesso al sapere porta con se il rischio (fin troppo reale) che si possa creare un informazione ed un sapere falsato e distorto, ma in questo post voglio soffermarmi agli esempi positivi, di cui credo/spero Historicaleye possa essere un esempio.

Negli ultimi decenni sono nate numerose realtà digitali in grado di rappresentare una più che valida alternativa, ai tradizionali istituti accademici e scolastici, in alcuni casi, queste comunità sono sorte negli angoli più nascosti del web, in altri, si sono sviluppate perfettamente visibili sulla superficie del web, senza addentrarci troppo nelle mille realtà nascoste nel deepweb, voglio parlare di un caso specifico, una “nuova” eccellenza italiana nel sapere e nello sviluppo tecnologico, questi è l’Università degli studi Niccolò Cusano, fondata nel 2006 a Roma come università telematica, e nello specifico della sua facoltà di Ingegneria che negli ultimi quattro anni, è riuscita a scalare la classifica Vqr (Valutazione della qualità della ricerca), stilata dall’Anvur, l’Agenzia nazionale per la valutazione del sistema universitario e la ricerca, riuscendo a raggiungere la sesta posizione. Un risultato sorprendente e impressionante che pone il “neonato” ateneo telematico, d’avanti a numerose università secolari del nostro paese.

Questo sorprendente risultato è stato raggiunto grazie all’impegno e la dedizione dei docenti e dei ricercatori dell’ateneo, il cui prestigio è rapidamente cresciuto, grazie anche e soprattutto alla partecipazione ad importanti concorsi su scala nazionale che hanno attirato importanti investitori e cosa più importante, sempre più iscritti. Si è passati da circa 20 iscritti alla facoltà di ingegneria nel 2011 ad oltre mille appena tre anni più tardi.

L’università telematica Niccolò Cusano, e come lei tante altre realtà accademiche telematiche, grazie ai propri studenti e ricercatori, hanno potuto compiere importanti investimenti e produrre innovazioni significative nel mondo accademico, mettendo in luce il vero potenziale del web, come strumento di sapere e al servizio del sapere.

 




Dall’antico al moderno : come sono cambiati i giochi olimpici ?

Come è noto, i giochi Olimpici affondano le proprie radici nel mondo antico, ma come e quanto sono cambiate le “nostre” olimpiadi rispetto a quelle dell’antica Grecia ?

Nel 2012 è stata pubblicata sul blog dell’Historical Journal of Cambridge, un intervista al dottor Chris Carey, docente di greco presso la UCL e presidente della Società ellenica. Nella sua intervista Carey spiega esattamente cosa sappiamo e come abbiamo quelle informazioni sulle olimpiadi degli antichi. Carey sottolinea che queste informazioni ci sono giunte attraverso testi poetici e in prosa, in cui si esaltava il valore degli atleti, e ci informano sulla storia del sito in cui si svolgevano i giochi oltre che sugli eventi, sui vincitori e sulle loro origini.

Leggi tutto “Dall’antico al moderno : come sono cambiati i giochi olimpici ?”

Qual è la differenza tra Sunniti e Sciiti ?

La divisione è puramente ideologica e presenta due letture/visioni inconciliabili l’una con l’altra.

La disputa ha inizio nel 632 alla morte di Maometto, detto in breve, alla morte del profeta, ci fu una lotta per stabilire chi dovesse riempire il vuoto di potere, e tra i tanti contendenti alla successione di Maometto, in due trionfarono, da una parte Abu Bakr, amico del profeta e padre di Aisha, moglie Maometto, dando origine al ramo Sunnita, secondo cui, ogni musulmano di buona fede, e abbastanza addentrato nella dottrina, potesse accedere alla carica di guida politica e spirituale dell’intera Umma, tutta la comunità islamica mondiale.
Dall’altra parte trionfò Ali, cugino e genero di Maometto, dando origine alla corrente sciita, secondo cui, alla guida politica e spirituale dell’Umma avrebbe dovuto esserci un consanguineo di Maometto, un discendente diretto della sua famiglia.

Questa differenza apparentemente minimale, è in realtà una profonda differenza sul piano politico, de facto, che avrebbe portato la corrente sunnita a diventare la principale e più diffusa corrente islamica (ad oggi circa il 90% della popolazione islamica è di fede sunnita). Questo per ovvie ragioni soprattutto politiche.

La corrente sunnita è quella che più si presta ad una possibile “carriera” politica e spirituale, chiunque si professi di fede sunnita può infatti ambire a diventare guida politica e spirituale dell’intera comunità, e più probabilmente potrà riunire sotto un unico vessillo l’Umma.
Dall’altra parte, questo progetto, per gli sciiti è molto più complesso e difficile da perseguire, poiché solo un legame di parentela reale o presunto con il profeta poteva garantire la possibilità di accedere a tale carica, in questo senso, la fede sciita, più dinastica si sarebbe ritrovata a vivere sulla propria pelle, numerose crisi e lotte politiche tra i vari eredi o presunti eredi, che ambivano alla successione di Maometto, queste lotte interne avrebbero portato alla nascita di numerose correnti minori, di cui almeno tre grandi confessioni sciita, da una parte i Duodecimani (1) (o Imamiti), da un altra parte gli Ismailiti (Settimani) e in fine i Zayditi.

I Duodecimani e Ismailiti nascono in seguito al problema della successione dell’ Imam Jaʿfar al-Ṣādiq avvenuta nel 765, il cui erede legittimo, il primogenito Ismāʿīl era morto prima di Jaʿfar al-Ṣādiq. A questo punto si aprì un problema di successione, per gli Ismailiti l’erede legittimo era Muḥammad b. Ismāʿīl, figlio di Ismāʿīl e nipote di Jaʿfar al-Ṣādiq, mentre i Duodecimani sostennero il fratello di Ismāʿīl, Mūsā al-Kāẓim, nonché figlio secondogenito di Jaʿfar al-Ṣādiq.

Per i sunniti il problema della successione dinastica, per certi versi, non si pone, l’erede legittimo non è infatti colui che condivide il sangue con il suo predecessore, ma colui che si sarebbe dimostrato più inoltrato nello studio e nella conoscenza dei testi sacri.

La grande “versatilità” politica offerta dalla fede Sunnita, l’ha resa con il passare del tempo, sempre più diffusa, fino ad arrivare, come abbiamo già detto, a coprire più del 90% della popolazione islamica mondiale, e soprattutto negli ultimi secoli, in cui gli avvenimenti europei mettevano in discussione il diritto di nascita, e professavano il trionfo della democrazia, la fede sunnita, acquisiva sempre maggiori consensi sul piano, creando leader carismatici in grado di trascinare le folle, dando vita a partiti politici di massa, come il Ba’ath o i Fratelli Musulmani, il cui principale obbiettivo politico è la riunificazione del popolo islamico.
La visione internazionalista della fede sunnita, e la sua politica molto più democratica di quanto non fosse la visione sciita, avrebbe incontrato nell’ultimo secolo e mezzo la visione marxista, portando alla nascita di numerosi partiti socialisti islamici, come il Ba’ath, i cui leader più illustri sono probabilmente la “dinastia” degli Assad in Siria e Saddam Hussein in Iraq, o i Fratelli Musulmani, più radicati in Egitto e a Gaza, e che per l’aperta conflittualità con il Ba’ath, sarebbero stati messi fuorilegge in paesi come Bahrain, Egitto, Russia, Siria, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Tagikistan e Uzbekistan.

  1. I termini Decimanide e Settimanide derivano rispettivamente dal decimo e settimo califfato. Per estensione, l’affermazione della dinastia di Osman I, che avrebbe portato alla nascita dell’impero Ottomano, deriva dall’ottavo califfato

Fonti : 

W. Montgomery Watt, Breve Storia dell’Islam, Il Mulino, 2001
M. Emiliani, Medio Oriente. Una storia dal 1918 al 1991, Laterza, 2014.
What is the difference between Sunni and Shia Muslims?, The Economist, Mag 29 2013, S.B. Traduzione in italiano sull’Internazionale, a cura di Giusy Muzzopappa, Gen 05 Gen 2016.

PROSTITUZIONE è davvero il mestiere più antico del mondo ?

Si dice che la prostituzione sia il mestiere più antico del mondo. Ma è davvero così?

Probabilmente no, poiché questo mestiere, per esistere, necessita della conoscenza e della percezione del valore, ha bisogno di strutture economiche di tipo “avanzato” in cui esistono beni non necessariamente primari, insomma, la prostituzione non può svilupparsi in una civiltà che pratica un economia di sussistenza, ma necessita di un economia in grado di produrre beni e servizi superflui.

Nelle prime comunità umane, quelle più primitive per intenderci, la prostituzione non avrebbe avuto alcuna ragione d’esistere, dato che in quelle comunità, nei primi villaggi, nelle prime tribù, nei primi insediamenti, il ritmo della vita era scandito dalle stagioni e dalle migrazioni di animali, mentre il sesso era qualcosa di puramente istintivo, violento, e in alcuni casi non particolarmente piacevole per le donne, di certo non era un lavoro poiché ci si accoppiava in preda all’istinto e ad accoppiarsi erano solo i più forti, qualcuno potrebbe obiettare all’utilizzo del termine accoppiare, suggerendo che, più che accoppiamento si trattava di stupro, e rispondo a questa obiezione dicendo che non avrebbe alcun senso usare etichette e classificazioni moderne un mondo primitivo estremamente lontano e diverso dal nostro.

La prostituzione esisteva in quelle epoche ? come è facile intuire, la risposta a questa domanda è no, nel mondo primitivo, esistevano altri mestieri, come il mestiere del cacciatore, dell’artigiano, del conciatore, ma non il mestiere della prostituta, di questa professione abbiamo sporadiche tracce soltanto a partire dall’epoca storica classificata come “età dei metalli“, iniziata tra l’8 e il 5 mila avanti cristo e si chiude con la fine dell’età del ferro, e la nascita delle polis in grecia, almeno per quanto riguarda l’età del ferro nel mediterraneo, mentre a seconda delle varie civiltà e delle aree geografiche del pianeta, questa data cambia, in alcuni casi di diversi secoli o addirittura millenni.
Si ipotizza tuttavia che nell’ultima fase dell’età della pietra si iniziasse già a praticare la prostituzione ma non si hanno prove concrete a sostegno di questa tesi e come dice sempre il buon Alberto Angela, probabilmente non lo sapremo mai, quello che però sappiamo è che la prostituzione implica la conoscenza, se pur primitiva, del valore, questo mestiere a differenza dei sopracitati cacciatore, allevatore, coltivatore ecc, non è un mestiere direttamente connesso alla propria sopravvivenza, nel senso che non produce nulla di utile alla sopravvivenza, ma implica l’esistenza di primitivi scambi commerciali. Io mi accoppio con te, tu dai a me del cibo o delle pelli.

Nel primordiale e primitivo mondo precedente l’età dei metalli, come abbiamo già detto, il sesso non rappresentava una merce di scambio, dunque, un mestiere come la prostituzione non avrebbe avuto alcuna ragione di esistere.

Va detto però che , prima di giungere all’età dei metalli, l’umanità era già entrata in una dimensione commerciale che potremmo definire “avanzata“, imparando a lavorare l’argilla per produrre vasellame e altri oggetti, soprattutto ornamentali. In quel dato momento della storia, l’uomo ha iniziato a concepire il valore, producendo non più soltanto beni necessari alla sussistenza fisica per se e la propria comunità, ma anche beni “superflui” volti a riempire le giornate e decorare le abitazioni, ed è in quel momento, e solo in quel momento, che il mestiere della prostituzione può iniziare ad esistere.

Può iniziare ad esistere perché iniziano ad esistere scambi commerciali fine a se stessi, il piacere diventa una merce di scambio, il bello diventa una merce di scambio, l’inutile acquisisce valore, e con esso il sesso.

Quindi no, la prostituzione non è affatto il mestiere più antico del mondo, ma la sua invenzione, molto probabilmente, coincide con l’invenzione dell’economia che avrebbe permesso alle civiltà umane di compiere enormi passi in avanti, l’invenzione della prostituzione implica l’esistenza di un economia “moderna” e di un pensiero articolato e complesso che fino a quel momento non era esistito. In questo senso, l’invenzione della produzione coincide con un passaggio importantissimo nella definizione delle civiltà umane.

 

Bibliografia 
M.Foucault, Storia della sessualità Vol 1
M.Foucault, Storia della sessualità Vol 2
M.Foucault, Storia della sessualità Vol 3

A New Generation Draws The Line || Tony Blair 18 Aprile 1999

L’articolo originale è stato pubblicato il 18 aprile 1999 dall’allora primo ministro britannico Tony Blair, sulla rivista Neewsweek, a pagina 40. L’articolo è stato tradotto e pubblicato anche in italia il 4 maggio 1999 da La Rapubblica, come Dossier.

Segue la traduzione dell’articolo.
Chiunque, in Occidente, abbia assistito agli eventi del Kosovo non può dubitare che l’ azione della Nato sia giustificata. In una delle sue frasi celebri, Bismarck aveva detto che i Balcani non valevano le ossa di un solo granatiere della Pomerania. Ma chi ha visto i volti rigati di lacrime di centinaia di migliaia di rifugiati mentre attraversavano il confine, o ascoltato i loro strazianti racconti di atrocità, o immaginato il destino di chi è rimasto indietro, sa che Bismarck era in errore. Questa è una guerra giusta, basata non su ambizioni territoriali ma su valori.

Noi non possiamo permettere che continui l’ orrore della pulizia etnica. Non dobbiamo fermarci finché non si sarà invertita questa rotta. Abbiamo appreso per ben due volte, nel corso di questo secolo, che la pacificazione non serve. Se lasciassimo che un dittatore perverso spadroneggi incontrastato, alla fine dovremmo spargere infinitamente più sangue e più risorse per fermarlo. Ma la gente non chiede soltanto se avevamo ragione di intraprendere quest’ azione; vuole sapere anche se i nostri obiettivi erano chiari, e se riusciremo a conseguirli. I nostri obiettivi sono cinque: la cessazione verificabile di tutte le attività belliche e dei massacri; il ritiro delle forze militari, paramilitari e di polizia serbe dal Kosovo; il dispiegamento di una forza militare internazionale; il ritorno di tutti i profughi e il libero accesso di aiuti umanitari; e infine, un quadro politico per il Kosovo, basato sugli accordi di Rambouillet. Non negozieremo su questi obiettivi. Milosevic deve accettarli. Con la nostra campagna aerea abbiamo distrutto la maggior parte delle forze aeree operative di Milosevic, un quarto dei suoi sistemi radar Sam (mentre la parte restante non viene utilizzata per timore della sua distruzione), le sue raffinerie di petrolio e le vie di comunicazione verso il Kosovo, le sue infrastrutture militari, compresi gli strumenti di comando e di comunicazione, e buona parte dei suoi depositi di munizioni.

Il morale dell’ esercito jugoslavo sta incominciando a crollare. Mentre l’ Uck è ora più forte, e gode di un sostegno più ampio di quando Milosevic iniziò la sua campagna. Abbiamo sempre detto chiaramente che questa campagna richiederà tempo. Non potremo riportare il successo finché non siano entrate in Kosovo forze internazionali, che consentano ai profughi di far ritorno nelle loro case. Milosevic non potrà opporre un veto all’ ingresso di questa forza internazionale. Così come a mio parere non vi erano alternative all’ azione militare, ora che è iniziata non vi sono alternative al suo successo. Quella del successo è l’ unica strategia d’ uscita che sono disposto a prendere in considerazione. Ora dobbiamo incominciare a lavorare per ciò che verrà dopo il nostro successo in Kosovo. Quello che serve è un nuovo Piano Marshall per il Kosovo, così come per la Macedonia, l’ Albania e la stessa Serbia, se passerà alla democrazia. è necessario un nuovo quadro per la sicurezza dell’ intera regione dei Balcani. Dovremo inoltre assistere il Tribunale per i crimini di guerra per portare davanti alla giustizia chi ha commesso questi spaventosi crimini. Vent’ anni fa, non ci saremmo battuti nel Kosovo. Gli avremmo voltato le spalle. Il nostro impegno è il risultato di un’ ampia serie di cambiamenti: la fine della guerra fredda, il cambiamento tecnologico, la diffusione della democrazia. Ma i cambiamenti sono anche maggiori. Io credo che il mondo sia mutato in un senso più fondamentale. La globalizzazione ha trasformato le nostre economie e il nostro modo di lavorare. Ma la globalizzazione non è soltanto economica. è un fenomeno che investe anche la politica e i problemi della sicurezza. Molti dei nostri problemi interni hanno origine in un’ altra parte del mondo.

L’ instabilità finanziaria in Asia distrugge posti di lavoro sia a Chicago che nella mia circoscrizione elettorale, nella Contea di Durham. L’ indigenza nei Caraibi fa aumentare la droga per le strade di Washington e di Londra. Il conflitto nei Balcani accresce l’ afflusso dei profughi in Germania e negli Stati Uniti. Tutti questi problemi possono essere affrontati soltanto attraverso la cooperazione internazionale. Oggi siamo tutti internazionalisti, che ci piaccia o meno. Non possiamo rifiutare di partecipare al mercato internazionale se vogliamo la prosperità. Non possiamo ignorare le nuove idee politiche di altri paesi, se vogliamo innovare. Non possiamo voltare le spalle ai conflitti e alle violazioni dei diritti umani in altri paesi, se vogliamo rimanere al sicuro. Alla vigilia del nuovo millennio, viviamo ormai in un nuovo mondo. Abbiamo bisogno di nuove regole per la cooperazione internazionale, di nuove forme di organizzazione delle nostre istituzioni internazionali.

Dopo la seconda guerra mondiale abbiamo creato una serie di istituzioni internazionali per affrontare lo sforzo della ricostruzione di un mondo devastato: Bretton Woods, le Nazioni Unite, la Nato. Già allora era chiaro che il mondo stava diventando sempre più interdipendente. La dottrina dell’ isolazionismo è caduta vittima di una guerra mondiale, quando gli Stati Uniti (insieme ad altri) si resero conto infine che quella di assistere passivamente non era una scelta da prendere in considerazione. Oggi, l’ impulso all’ interdipendenza è incommensurabilmente più forte. Stiamo assistendo al sorgere di una nuova dottrina sulla comunità internazionale. Mi riferisco con ciò all’ implicito riconoscimento del fatto che oggi siamo reciprocamente dipendenti, più di quanto lo siamo mai stati in passato, e che gli interessi nazionali sono governati in misura significativa dalla collaborazione internazionale; si avverte quindi la necessità di un dibattito chiaro e coerente sulla direzione in cui questa dottrina ci conduce in ogni campo dell’ impegno internazionale. Tuttavia, finora abbiamo sempre affrontato i problemi caso per caso. Siamo continuamente alle prese con il rischio di lasciare che dovunque siano le scene inquadrate dalla Cnn nei suoi continui spostamenti a fare da pungolo per indurci a prendere sul serio un conflitto globale. Abbiamo ormai dieci anni di esperienza dalla fine della guerra fredda. è stato certo un periodo meno facile di quanto molti avessero sperato, nell’ euforia seguita al crollo del muro di Berlino. Le nostre forze armate hanno avuto più che mai da fare per fornire aiuti umanitari, svolgere azioni deterrenti contro aggressioni a popolazioni indifese, sostenere le risoluzioni dell’ Onu e impegnarsi occasionalmente in guerre di più vasta portata, come quella del Golfo del 1991 e l’ attuale impegno nei Balcani. Possiamo vedere nelle difficoltà di quest’ ultimo decennio semplici ripercussioni della fine della guerra fredda? La situazione si stabilizzerà tra breve, o prefigura invece un modello destinato a estendersi in futuro?

Molti dei nostri problemi sono stati causati da due uomini pericolosi e spietati: Saddam Hussein e Slobodan Milosevic. Entrambi erano pronti a scatenare aggressioni perverse contro settori della propria comunità. Come risultato di queste politiche distruttive, entrambi hanno attirato calamità sulle proprie popolazioni. L’ Iraq, che pure avrebbe potuto mettere a frutto le proprie ricchezze petrolifere, è stato ridotto all’ indigenza, e le intimidazioni hanno soffocato la sua vita politica. Milosevic era alla testa di uno Stato etnicamente variegato, con notevoli risorse e buone possibilità di trarre vantaggio dalle nuove opportunità economiche. Ma a causa della sua ossessione per la concentrazione etnica, si ritrova oggi con un paese molto ridimensionato, un’ economia distrutta e presto anche un apparato militare azzerato. Una delle ragioni per le quali ora è tanto importante vincere il conflitto è assicurare che altri non commettano lo stesso errore in futuro. Questo è di per sé della massima importanza per assicurare che nel prossimo decennio e nel prossimo secolo vi siano minori difficoltà che in passato. Se la Nato dovesse fallire nel Kosovo, un dittatore che in futuro fosse minacciato di un intervento militare potrebbe non credere nella nostra risoluzione di dare attuazione alla minaccia. La fine di questo secolo vede emergere gli Usa come lo Stato di gran lunga più potente. Questo paese non sogna conquiste mondiali, né sta cercando di colonizzare terre. Gli americani sono fin troppo inclini a non vedere alcuna necessità di farsi coinvolgere negli affari del resto del mondo. Per i suoi alleati, la disponibilità dell’ America a farsi carico degli oneri e delle responsabilità inerenti al suo status di unica superpotenza è sempre motivo di sollievo e di gratificazione. Noi comprendiamo di non avere il diritto di dare per scontata questa disponibilità, e di dover contribuire a questo sforzo con il nostro impegno.

Da questa base ha preso le mosse una mia recente iniziativa, in accordo con il presidente francese Jacques Chirac, per migliorare l’ assetto difensivo dell’ Europa. Dobbiamo ora stabilire un nuovo quadro. La nostra esistenza in quanto Stati non è più minacciata. Oggi le nostre azioni sono guidate da una più sottile commistione tra i nostri propri e reciproci interessi e l’ intento di difendere i valori morali che ci stanno a cuore. In definitiva, i valori e gli interessi si fondono. Se possiamo stabilire e diffondere i valori della libertà, dello stato di diritto, dei diritti umani e di una società aperta, ciò corrisponde anche ai nostri interessi nazionali. La diffusione dei nostri valori ci garantisce una maggiore sicurezza. Come ebbe a dire John Kennedy, “la libertà è indivisibile. Se un solo uomo è schiavo, chi può dirsi libero?”. Il problema di politica estera più pressante è quello di identificare le circostanze nelle quali saremo attivamente coinvolti nei conflitti di altri popoli. La non interferenza è stata considerata a lungo un principio importante dell’ ordine internazionale. Non è un principio che si possa gettare a mare troppo facilmente. Uno Stato non può ritenersi in diritto di cambiare il sistema politico di un altro Stato, o di fomentare la sovversione, o di impossessarsi di parti di un territorio sul quale ritenga di avere dei diritti. Ma il principio della non interferenza deve essere qualificato per alcuni aspetti importanti. Atti di genocidio non possono mai costituire una questione puramente interna. Se uno stato di oppressione dà luogo a un flusso massiccio di profughi, tale da destabilizzare i paesi vicini, si può parlare a ragione di una “minaccia alla sicurezza internazionale”. Se un regime è dominato da una minoranza, perde la propria legittimità: si pensi al caso del Sudafrica. Se ci guardiamo intorno, nelle varie parti del mondo vediamo molti regimi antidemocratici, che commettono atti di barbarie. Se volessimo raddrizzare tutte le storture cui assistiamo nel mondo moderno, praticamente non potremmo più far altro che intervenire negli affari di altri paesi; e non saremmo in grado di far fronte a tutto. Quindi, come decidere quando e se intervenire? Io penso che dobbiamo attenerci a cinque principali considerazioni. Prima di tutto, siamo sicuri di ciò che sosteniamo? La guerra è uno strumento imperfetto per porre rimedio a drammi umani; ma le forze armate costituiscono a volte il solo mezzo per affrontare un dittatore. In secondo luogo, sono state esaurite tutte le possibilità della diplomazia? Dobbiamo sempre dare ogni opportunità alla pace, come abbiamo fatto in questo caso per il Kosovo. Terzo: a fronte di una valutazione pratica delle situazioni, quali operazioni militari possiamo intraprendere su basi di ragionevolezza e di prudenza? Quarto: siamo pronti al lungo termine? In passato abbiamo parlato troppo di strategie d’ uscita. Ma avendo preso un impegno, non possiamo semplicemente andarcene dopo la battaglia; meglio rimanere con una forza militare ridotta che dover tornare a ripetere azioni con un impegno militare maggiore. E infine, i nostri interessi nazionali sono coinvolti? L’ espulsione di massa della popolazione albanese dal Kosovo esigeva l’ attenzione del resto del mondo. Ma il fatto che ciò stia avvenendo in una parte così infiammabile del mondo modifica i termini del problema? Non intendo affermare che questi criteri debbano avere carattere assoluto; ma sono queste le questioni sulle quali dobbiamo riflettere al momento di decidere, in futuro, quando e se intervenire. Nuove regole potranno comunque essere funzionali soltanto quando avremo riformato le istituzioni internazionali che provvederanno alla loro applicazione. Se vogliamo un mondo fondato sul diritto e sulla cooperazione internazionale, dobbiamo sostenere l’ Onu come pilastro centrale. Ma è necessario trovare un modo nuovo per far funzionare l’ Onu e il Consiglio di Sicurezza, se non vogliamo tornare alla situazione di stallo che ha eroso l’ efficacia del Consiglio di Sicurezza durante la guerra fredda. Questo compito dovrà essere affrontato dai cinque membri permanenti del Consiglio una volta concluso il conflitto nel Kosovo. La Terza Via è un tentativo da parte dei governi di centro e di centro-sinistra di ridefinire un programma politico diverso rispetto alla vecchia sinistra come rispetto alla destra degli anni 80. Anche in campo politico, le idee si stanno globalizzando. Nella misura in cui i vari problemi – competitività, cambiamento tecnologico, criminalità, droga, crisi della famiglia – acquistano carattere globale, lo stesso deve avvenire per quanto riguarda la ricerca di soluzioni. Nelle mie conversazioni con i leader di altri paesi, non mi sono tanto sorpreso delle differenze quanto dei punti che abbiamo in comune. Ci troviamo tutti ad affrontare gli stessi problemi: come conseguire la prosperità in un mondo in rapida trasformazione economica e tecnologica, o la stabilità sociale, a fronte dei cambiamenti nella famiglia e nella comunità; il ruolo dei governi, in un’ era in cui abbiamo imparato che le cose funzionano male quando lo Stato è ipertrofico, ma ancora peggio quando è inesistente. La decisione più importante che dovremo affrontare nei prossimi due decenni è il rapporto della Gran Bretagna con l’ Europa. Per troppo tempo, l’ ambivalenza britannica nei confronti dell’ Ue ha reso irrilevante la nostra posizione in Europa, e di conseguenza ha sminuito la nostra importanza anche nei rapporti con gli Stati Uniti. Abbiamo finalmente sgombrato il campo da una falsa pregiudiziale: quella di dover scegliere tra due strade divergenti, vale a dire tra il rapporto transatlantico o l’ Europa. Per la prima volta da tre decenni, abbiamo un governo a un tempo europeista e filo-americano. Io credo fermamente che questo sia nell’ interesse della Gran Bretagna, ma anche in quello degli Usa e dell’ Europa.

La Bomba Atomica nazista che non è mai esistita | Facciamo chiarezza sul programma nucleare del Terzo Reich

Secondo alcuni giornali on line, da alcuni documenti segreti declassificati dal governo statunitense, sarebbero essere emerse delle prove che dimostrerebbero l’esistenza di ordigni nucleari progettati dalla Germania nazista. Ma cosa effettivamente è emerso dal report APO 696, si tratta di una una comunicazione postale a lunga distanza effettuata dalle truppe statunitensi presenti in Europa nel 1944 e Washington.
Secondo questa comunicazione militare, inviata nell’ottobre 1944, archiviata nel 1947 e declassificata soltanto nel 2017, alcuni testimoni civili avrebbero avvistato un enorme esplosione, che oggi, col senno di poi, possiamo associare ad un esplosione nucleare. Ma a che punto era effettivamente il programma di armamento nucleare della Germania Nazista nel 1944?

Insieme al debunker Juanne Pili, abbiamo realizzato un video in cui spiegavamo cosa effettivamente è emerso dal report APO 696 e a che punto sono effettivamente le ricerche storiografiche legate al programma di armamento nucleare della Germania Nazista, vi lascio qui di seguito il video pubblicato sul suo canale youtube.

Per quanto riguarda le indagini storiografiche, queste, come spesso accade in ogni ricerca storiografica, sono attualmente in una situazione di stallo, letteralmente impantanate dalla carenza di dati e informazioni materiali, nel caso specifico di questa particolare ricerca, l’assenza di informazioni è dovuta principalmente a tre diversi fattori.

  • Distruzione dei documenti da parte dei nazisti durante la guerra
  • Distruzione dei documenti come conseguenza delle incursioni e bombardamenti degli alleati
  • Classificazione del materiale documentario recuperato dagli alleati

Durante la ritirata, nelle fasi finali della guerra (1944-1945), gli ufficiali della Wehrmacht e delle SS, si impegnarono affinché nessun documento del Reich cadesse nelle mani degli alleati, provvedendo alla sistematica distruzione di documenti. Ci sono numerose ragioni strategiche per cui venne adottata questa scelta e la trasformazione della guerra, in atto fin dalle campagne napoleoniche, in chi le informazioni rappresentano una delle armi più potenti nelle mani dei generali, rappresenta soltanto una delle infinite ragioni per cui, una qualsiasi forza armata impegnata in una ritirata strategica, proceda con la distruzione di ogni qualsiasi informazione.

I primi documenti ad essere distrutti sono quelli che possono permettere l’identificazione e localizzazione di eventuali altre basi militari, impianti di produzione o di ricerca più o meno segrete, e più o meno lontane, seguono i documenti contenenti informazioni sulla strategia della ritirata, sugli spostamenti, sui rifornimenti, rifugi, vie e piani di evacuazione ecc ecc ecc. E nel caso fortuito in cui qualche documento riuscì a sopravvivere alla distruzione sistematica operata dagli ufficiali del Reich, incendi, infiltrazioni d’acqua, crolli e macerie generati dai bombardamenti sull’Europa, contribuirono indirettamente alla distruzione del materiale informativo.

Poteva però capitare che, per svariati motivi, le truppe alleate, statunitensi o sovietici, riuscissero a prendere e liberare alcune basi militari prima che l’opera di distruzione fosse ultimata, riuscendo così a mettere le mani su importanti e preziose informazioni che, soprattutto per quanto riguarda il lato scientifico, potevano essere utilizzate dall’una o l’altra nazione per ottenere una posizione di vantaggio alla fine della guerra rispetto ai propri alleati, che si sapeva, non sarebbero rimasti tali per molto tempo dopo la fine della guerra. In questo senso l’esempio dei razzi V2 di Wernher von Braun, è perfetto per sostenere questa tesi.

Durante la conferenza di Jalta, i leader delle tre principali potenze alleate, Iosif Stalin, Franklin Delano Roosevelt e Winston Churchill, presero alcune importanti decisioni in merito alla futura organizzazione territoriale di Polonia e Germania, andando così a definire quelle che sarebbero poi divenute le sfere di influenza di Stati Uniti e Unione Sovietica. Nel dicembre del 1944 l’Unione Sovietica aveva individuato la posizione di un importante impianto di produzione di razzi V2, situata in un area che successivamente sarebbe stata consegnata all’influenza di Stati Uniti e Gran Bretagna, la scoperta spinse gli uomini dell’Armata Rossa a trasferire nel minor tempo possibile gran parte della documentazione, della strumentazione e dei prototipi presenti nell’impianto in un area dopo la guerra sarebbe rimasta sotto il controllo sovietico, e grazie a quella tecnologia, negli anni 50 l’unione sovietica avrebbe potuto avviare il proprio programma spaziale, avendo come punto di origine per i propri vettori aerospaziali, la base progettuale ed i prototipi dei V2 progettati da Wernher von Braun. Queste informazioni sono rimaste segrete per tutta la guerra fredda e pubblicate soltanto dopo la fine dell’unione sovietica, fornendo ai ricercatori attivi negli anni novanta, nuove e importanti informazioni su cui lavorare, sia per quanto riguarda gli anni della guerra fredda, sia per quanto riguarda la tecnologia nazista durante la seconda guerra mondiale.

Queste nuove informazioni, hanno finito inevitabilmente con l’alimentare numerose speculazioni teoriche in merito al livello di tecnologia effettivamente raggiunto dalla Germania Nazista, al punto che ancora oggi ci si continua a chiedere se effettivamente i nazisti avessero costruito armi nucleari, laser della morte, basi sotterranee in europa, nell’artico, in Antartide, e sulla luna. E molti non addetti ai lavori si chiedono, quanto del materiale che l’Unione Sovietica ha tenuto segreto per decenni sia stato effettivamente divulgato e quanto invece, per diverse ragioni, sia ancora protetto dal segreto militare.

Per quanto riguarda la ricerca storiografica sul nucleare nazista e tutte le ricerche in corso fanno largo uso di testimonianza orali, pervenute soprattutto attraverso la popolazione civile. Queste informazioni, per loro natura sono generalmente considerate indiziarie, poiché come è noto, la memoria umana può essere ingannata e alterata, contaminata da paure, pregiudizi e informazioni successive che permettono una rielaborazione postuma della memoria. Per queste ragioni la testimonianza, anche quella diretta, è presa in considerazione nel processo di indagine storiografica, e assume tanto più valore quanto quella testimonianza è condivisa e supportata da prove empiriche, quali possono essere ritrovamenti, documenti o altri testimoni che confermano quella data versione dei fatti.

In questo caso specifico le testimonianze giunte fino a noi sono molto variegate, e nella maggior parte dei casi raccolte e documentate soltanto a partire dal 1946, ovvero dopo la fine della guerra, ma cosa più importante, dopo gli episodi di Hiroshima e Nagasaki, la cui natura devastante e drammatica, ha finito inevitabilmente per imprimersi nella memoria collettiva dell’intera civiltà umana.

Tra le tante testimonianze più o meno attendibili alcune sembrano essere più interessanti di altre, come nel caso del corrispondente di guerra italiano Luigi Romersa, inviato in Germania nel 1944 per osservare e alcuni test balistici, e in questa occasione Romersa sembra abbia incontrato personalmente Wernher von Braun. Durante la sua visita racconta Romersa, gli fu permesso di assistere al test di un nuovo ordigno esplosivo, questo test avvenuto nell’ottobre del 1944 avrebbe avuto come effetto un esplosione che per portata ed effetto potrebbe essere associata ad un esplosione nucleare, nel racconto di Romersa figura anche il caratteristico fungo atomico. Questo test sembra essersi compiuto in una base di ricerca segreta situata su un imprecisata isola del mare del Nord.

La testimonianza di Romersa tuttavia presenta alcune lievi incongruenze, dalla location imprecisa, alla descrizione dell’esplosione, il suo racconto infatti viene fuori soltanto dopo gli episodi di Hiroshima e Nagasaki, e se bene l’esplosione da lui descritta ricordi un esplosione nucleare, alcuni dati riportati da Romersa non sembrano essere totalmente coerenti con gli effetti di un effettiva esplosione nucleare. Nella sua testimonianza è infatti presente il fungo atomico, ma le sue dimensioni sembrano essere fortemente contenute rispetto ai funghi atomici di Los Alamos, Hiroshima e Nagasaki. Potrebbe tuttavia trattarsi di un semplice errore di valutazione dovuto alla grande distanza e per questi motivi viene concesso a Romersa il beneficio del dubbio.

Se la sua testimonianza fosse reale, da qualche parte nel mare del nord, si troverebbe un certa concentrazione di radiazioni, coerente con l’esplosione di un ordigno nucleare avvenuta 70 anni fa, ma la distanza temporale potrebbe rendere particolarmente complicata la ricerca poiché la pioggia, le intemperie e il naturale decadimento, potrebbero aver completamente lavato via ogni traccia di eventuali radiazioni.

Cercare picchi di radiazioni lungo il mar baltico di conseguenza non è la strada più semplice per dimostrare l’effettivo stadio di avanzamento del programma nucleare nazista, un programma che sappiamo essere reale, e che avrebbe potuto nascondere anche un parallelo programma di armamento nucleare, almeno secondo uomini del calibro di Albert Einstein e altri scienziati europei fuggiti negli USA, i quali nell’agosto del 1939 scrissero una lettera indirizzata all’allora presidente USA, Franklin Delano Roosevelt, che avrebbe poi dato il via a quello che sarebbe diventato il Progetto Manhattan.

Il programma nucleare iniziato nel 39 sembra tuttavia essersi concluso nel 1941, quando il capo progetto Werner Karl Heisenberg, avrebbe rinunciato all’idea di produrre un ordigno nucleare, impegnando la propria equipe nella progettazione di un reattore nucleare dedito alla produzione energetica. Il reattore sperimentale di Heisenberg è stato individuato già nel 1945 e smantellato dalle forze militari di Stati Uniti e Gran Bretagna. Non mi dilungo oltre in questa direzione poiché queste informazioni sono ampiamente disponibili ed estremamente facili da reperire.

Come dicevamo, cercare picchi di radiazioni nel baltico è estremamente problematico, una ricerca più “semplice” e tradizionale, si lega al materiale documentario esistente, se effettivamente il Reich ha continuato le sue ricerche per la creazione di un arma nucleare dopo il 1941, qualcuno dovrà aver lavorato a quel progetto e da qualche parte, prima o poi, dovrà saltare fuori qualche documento.

Inoltre, si ipotizza un qualche collegamento tra un ipotetico programma nucleare ed il programma missilistico guidato dal già citato Wernher von Braun, che, in qualità di massimo esperto di ingegneria missilistica del Reich, è ipotizzabile che sarebbe stato coinvolto nella progettazione di un vettore a medio-lungo raggio in grado di trasportare un oggetto dal peso e la massa di un ordigno nucleare. Se si tiene in considerazione questa ipotesi è interessante osservare i risultati raggiunti dal suddetto von Broun negli Stati Uniti nella seconda metà degli anni cinquanta e sessanta, quando, coinvolto nel programma spaziale statunitense, si impegno nella progettazione di nuovi vettori più potenti, questa volta in grado di raggiungere lo spazio e non “solo Londra”.

Le indagini per far chiarezza sull’effettivo stato del programma di armamento nucleare della Germania Nazista sono ancora in corso, al momento le uniche informazioni certe che si hanno, vedono un programma iniziato nel 1939 e abbandonato in favore di un programma energetico nel 1941. Parallelamente si hanno alcune testimonianze più o meno attendibili non supportate da alcun documento o prova empirica, e se mai qualcosa verrà fuori, sarà grazie all’accurata analisi di una documentazione estremamente limitata e le indagini sul campo degli archeologi del nazismo impegnati nella ricerca di tutte le strutture, basi e bunker che i nazisti seminarono in tutto il Reich.

Il restauro della Cappella degli Scrovegni a Padova

Sono passati già quasi dieci anni dalla conclusione dei restauri che hanno gettato nuova luce sulla magnifica Cappelli degli Scrovegni, a Padova, uno degli esempi più lampanti della maestria e della modernità di Giotto. I lavori, che hanno richiesto l’intervento di un team variegato composto da tecnici, storici dell’arte e restauratori e i servizi necessari forniti da ditte specializzate in opere edili e noleggio di ponteggi, cominciarono nel luglio 2001 e vennero conclusi ufficialmente nel novembre 2002, con il Convegno Internazionale di studi tenutosi a Padova.

Grazie al compimento del programma di restauro, finanziato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, ai visitatori del nuovo millennio è stata data la possibilità di ammirare gli affreschi giotteschi in tutto il loro originario splendore, e di scoprire anche alcuni particolari significativi che il tempo aveva nascosto, ma che sono essenziali per capire la grandezza di un’artista quale Giotto è stato. Uno degli esempi più noti, in questo senso, riguarda le lacrime, visibili dopo il restauro, che rigano il viso delle madri raffigurate nella sezione dedicata alla strage degli innocenti, ma potremmo citare anche i tre specchietti che adornano l’aureola del Cristo Giudice, un artificio tecnico-scientifico più che artistico:

grazie a questa trovata, il 25 marzo, anniversario della consacrazione della Cappella alla Vergine Annunciata, la luce che entra dalla finestra e si staglia sul Cristo viene riflessa e illumina a sua volta l’immagine di Enrico Scrovegni, ossia il committente dell’opera.

Ma l’importanza del restauro non sta solo in queste chicche che è riuscito a portare alla luce, sta anche e soprattutto nell’essere riuscito a mettere l’accento sull’uso del colore e della tecnica del “marmorino” effettuato da Giotto nella decorazione della cappella. Non bisogna sottovalutare, inoltre, che i lavori di ristrutturazione si sono resi necessari non solo per il restauro del manufatto in sé, ma anche per rallentare il processo di deterioramento dell’opera. I lavori hanno dunque previsto, oltre che il restauro degli affreschi, lo studio di interventi di adeguamento dell’ambiente e di conservazione
dell’edificio, quali la messa in opera di controvetrate schermanti e la sostituzione delle lampade ad incandescenza, senza dimenticare l’innovazione maggiore, ossia la messa in opera del Corpo tecnologico attrezzato, un sistema di protezione studiato per impedire agli inquinanti gassosi di penetrare nella cappella e la cui installazione ha preceduto i lavori di restauro veri e propri.

Solo dopo la verifica dell’efficacia del Corpo tecnologico attrezzato è stato infatti possibile procedere con il montaggio di ponteggi e cominciare dunque gli interventi conservativi d’urgenza (consolidamento dell’intonaco e della pellicola pittorica) e i lavori volti ad attenuare le disomogeneità cromatiche che erano venute a crearsi in seguito ai precedenti lavori di restauro portati a termine alla fine dell’Ottocento e, più di recente, agli inizi degli anni Sessanta. Il restauro è stato inoltre accompagnato dalla creazione di una pagina web dedicata, dalla creazione di una banca dati sulla Cappella e il suo restauro e da una documentazione digitale, in modo da dare a tutti una possibilità di approfondimento per comprendere la portata e le finalità degli interventi di restauro.

Un’opera dettagliata e sfaccettata, dunque, quella che ha portato al compimento dei lavori di restauro della Cappella Scrovegni, un’opera che ha dato – e che darà ancora a lungo – la possibilità ai numerosi visitatori di godere dei colori e dei particolari riscoperti di un innegabile
capolavoro.

Articolo a cura di  Francesca Tessarollo
Fonte: Article-Marketing.it

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