La civiltà greca : Dalle origini minoiche alle Polis

La storia dei greci non inizia in Grecia o meglio, non inizia nella Grecia continentale, ma sull’isola di Creta dove verso la fine del terzo e l’inizio del secondo millennio a.c. si sviluppa la civiltà Minoica, non sappiamo esattamente quando questo popolo si sia effettivamente insediato a Creta, ma diverse fonti archeologiche ci dicono che molto probabilmente i minoici popolassero l’isola già dal neolitico.

Intorno al secondo millennio avanti cristo la civiltà minoica inizia a crescere molto rapidamente, riuscendo in breve tempo a diventare una delle più grande potenza navali dell’antichità, le loro navi costruite con legno di cipresso solcano le acque del mediterraneo orientale arrivando a commerciare con l’Egitto, da cui si ipotizza che i minoici abbiano appreso la scrittura e siano stati fortemente influenzati sul piano artistico, e in questo senso molti colgono un qualche legame tra la raffigurazione delle divinità egizie e la figura del minotauro, entrambi raffigurati con il corpo di uomo e la testa ti animale.

Mentre le navi minoiche solcano il mediterraneo sulla terra ferma si sviluppa la così detta civiltà dei palazzi, in questo periodo vengono edificati grandi palazzi a Cnosso, Hanghia, Festo e Triada, che rappresentano l’epicentro della civiltà minoica, possiamo immaginare questi palazzi come delle fortezze medievali, almeno per quanto riguarda l’organizzazione, al loro interno vi erano stanze destinate ad artigiani, luoghi religiosi, depositi e magazini ecc, successivamente, in seguito all’eruzione del vulcano dell’isola di Tera (odierna santorini) avvenuta intorno al 1750 una serie di violenti terremoti avrebbe raso al suolo i palazzi costringendo i minoici a lasciare l’isola, ma vi sarebbero ritornati non molto tempo dopo.

Si ipotizza che i racconti dei profughi minoici sulla grecia continentale per quanto riguarda gli effetti dell’eruzione di Tera, possano essere alla base del mito delle origini della civiltà greca, in cui Dei e Titani si combattono in una guerra all’ultimo sangue, provocando violenti terremoti, maremoti e piogge di fuoco sulla terra, coerenti con quanto vissuto dai minoici in fuga.

Il ritorno dei minoici sull’isola di creta avviene presumibilmente intorno al 1600 e in questa seconda fase la loro civiltà diventa ancora più splendente, il numero di palazzi aumentano notevolmente anche se in questa fase abbiamo palazzi più piccoli e la loro “flotta” si pone in diretta competizione con la flotta fenicia che nel frattempo aveva iniziato a muoversi tra le acque del mediterraneo.

La grande ricchezza dell’isola di Creta e la crescente diffusione della navigazione d’altura tra i popoli ellenici, avrebbero fatto di Creta la meta ideale per le scorribande dei pirati, e l’isola di Creta sarebbe stata più volte depredata e in fine conquistata dagli Achei, la cui città più importante era Micene, presumibilmente intorno al 1400 a.C., cui seguirono tra il 1200-1100 a.C. i Dori.

Achei e Dori sono due delle quattro popolazioni provenienti dall’Asia che nel secondo millennio si sarebbero stabilite nella penisola greca, ma di loro parleremo più avanti. Il duro colpo inferto dalle invasioni ed alcuni cataclismi naturali di portata minore rispetto all’eruzione del 1750 avrebbero portato alla definitiva scomparsa della civiltà minoica lasciando molti misteri per quanto riguarda il reale livello di conoscenza tecnica dei minoici e alcuni ipotizzano che la scomparsa di questo popolo abbia in qualche modo ispirato il mito di Atlantide.

Per quanto riguarda la storia continentale della Grecia, come già accennato, la penisola greca fu meta di periodiche migrazioni da parte di numerosi popoli.

Nel II millennio a.C. diverse popolazioni indoeuropee provenienti da oriente, si sarebbero stabilite nella penisola greca ribattezzando con il nome di Ellade, tra queste popolazioni Ioni, Eoli, Achei e Dori saranno quelle più importanti.

Il primo popolo che si insedia nella penisola greca è il popolo guerriero degli Ioni, che si sarebbe stabilito in Grecia intorno al 2000 a.C., successivamente, intorno al 1600 sarebbero arrivati Eoli e Achei che avrebbero spinto gli Ioni verso l’Attica e la Tessaglia mentre Eoli ed Achei avrebbero occupato rispettivamente la Beozia e il Peloponneso.
Tra le varie città achee la città di Micene sarebbe stata quella più grande e importante che in poco tempo sarebbe riuscita a prendere il controllo su gran parte della penisola e grazie alla navigazione d’altura sarebbero riusciti ad entrare in contato con i minoici, commerciando e saccheggiando.

Intorno al XI secolo con l’arrivo dei Dori la penisola greca è attraversata da una nuova fase migratoria che avrebbe portato alla scomparsa quasi completa scomparsa degli Achei mentre gli Eoli si stabiliti sull‘isola di Lesbo e sulle coste anatoliche in Eolide, infine i Dori si sarebbero stabiliti nell’area settentrionale della Grecia espandendosi poi in Acacia e nel Peloponneso

La scomparsa della civiltà micenea coincide con l’inizio di un periodo di decadenza della cultura greca che la storiografia generalmente indica con il nome di “medioevo greco” o “secoli bui” tuttavia questi secoli vedranno l’introduzione in Grecia di nuove tecniche di costruzione e di lavorazione dei metalli, si avrà inoltre una grande diffusione dell’alfabeto fonetico importato dai fenici.

Convenzionalmente la fine dei secoli bui viene fatta coincidere con i primi giochi olimpici avvenuti secondo tradizione nel 776 a.c. la cui istituzione viene coincide con l’inizio dell’età delle polis la cui nascita e la cui autonomia è favorita dalla particolare configurazione geografica le cui catene montuose e numerose isole rendono difficile l’unificazione dei villaggi in un unica entità statale.
Tra il VIII al VI secolo a.C., la civiltà greca inizia ad espandersi anche oltre la penisola greca con la fondazione di numerose colonie in tutto il mediterraneo, queste colonie mantengono invariata la tradizione, la lingua e la cultura della madre patria se bene ogni colonia mantenga una notevole autonomia che avrebbe fatto delle colonie delle vere e proprie nuove polis.

Tra il VI e il V secolo la Grecia attraversa una fase detta “periodo dei tieanni”, in quest’epoca l’intensificazione delle vie commerciali soprattutto tra madre patria e colonie avrebbe portato alla diffusione dell’economia monetaria, inoltre si sarebbe sviluppato un nuovo ceto benestante, fatto di mercanti e artigiani che grazie alle opportunità offerte dal commercio con le colonie aveva acquisito un grande potere economico.
Queste famiglie, che etichetteremo un po anacronisticamente con il termine borghesia greca”, analogamente a quanto sarebbe successo alla borghesia europea nel XVIII, avrebbero iniziato a chiedere maggiore presenza e rappresentanza a livello politico e sfruttando il malcontento popolare, dovuto all’oppressione dei ceti più poveri della società riusciranno ad indirizzare quelle energie popolari contro la nobiltà. Da questa contrapposizione sociale tra nobiltà e classe popolare, la “borghesia greca” grazie all’appoggio popolare sarebbe riuscita a ribaltare i governi presieduti dalla classe nobile, promettendo in cambio alcune importanti riforme sociali.

Per sedare i disordini sociali ed intermediare con il popolo, i nobili sono costretti a chiedere aiuto alla classe “borghesia greca” concendendo loro il governo autocratico che sarebbero diventati noti con il nome di tirannidi.

La sola instaurazione delle tirannidi rappresenta agli occhi del popolo un importante vittoria contro il precedente potere assoluto degli aristocratici, inoltre la nuova classe benestante ha origini umili e, a differenza dell’aristocrazia, non è una classe sociale chiusa, si tratta invece di una classe aperta all’ingresso da parte dei ceti sociali inferiori.
I tiranni impareranno presto a gestire il potere continuando a cercare il consenso popolare e questo avrebbe portato ad una sempre maggiore partecipazione popolare nella gestione della politica e della vita pubblica, e nel V secolo le tirannidi iniziano a trasformarsi in nuovi governi composti da più soggetti politici assumendo generalmente due modelli di riferimento, da una parte si afferma l’Oligarchia e dall’altra si afferma la Democrazia.

Nei governi oligarchici vi è un numero ristretto di soggetti politici, che è comunque maggiore rispetto alle tirannidi e alle monarchie assolute, in questo sistema di governo gli aristocratici mantengono i propri privilegi di casta, e partecipano al governo della polis con cariche a vita.

Nei governi democratici vi è una moltitudine di soggetti politici che avranno il compito di rappresentare il popolo, di fatto il potere è riconosciuto al popolo. Diversamente dall’oligarchia nei sistemi democratici, tutti i cittadini della polis, indipendentemente dalla propria classe di censo, possono partecipare all’assemblea primaria e al consiglio, i cui membri sono eletti oppure sorteggiati e le decisioni pubbliche sono prese a maggioranza popolare.

Queste due forme di governo che si sono sostituite alla tirannide non riusciranno a convivere tra loro e nelle guerre del Peloponneso ci sarà un duro scontro tra le polis democratiche guidate da Atene e quelle oligarchiche guidate da Sparta.

STORIA DELLA CINA – dai primi insediamenti alla nascita del primo impero cinese

L’età arcaica della Cina, come spesso accade quando si tratta di antiche civiltà, e in particolare del periodo in cui queste popolazioni non conoscevano ancora la scrittura, è avvolta da una fitta coltre di mistero e molto di quello che sappiamo dei primi millenni di storia cinese è derivato soprattutto da ricostruzioni archeologiche.

A complicare enormemente le cose una serie di incendi e di roghi che intorno al secondo secolo a.c. portarono alla distruzione di un enorme fetta della storia di quei popoli. Sul piano storiografico la cina ha una propria tradizione analitica che inizia proprio nel secondo secolo a.c. con Sima Quin, un autore che, secondo la tradizione, di continuare a fare il suo lavoro, scelse l’evirazione, aneddotica a parte, Sima Quin è noto principalmente per essere stato il primo “storico” cinese, e nelle sue opere avrebbe messo per iscritto secoli di tradizione orale, lasciando ai posteri un immensa raccolta documentaria per quanto riguarda l’età arcaica e questo fa di lui, l’Erodoto della storiografia cinese e proprio come Erodoto anche Sima Quin aveva una visione molto descrittiva della “storia”, nei suoi scritti da molto spazio anche a numerosi popoli stranieri, di fatto tracciando il profilo “internazionale” della Cina durante la sua epoca e nelle epoche passate.

Questa Mappa carta indica la divisione della cina arcaica introno alla metà del III secolo, i confini esterni rappresentano il confine dell’intera Cina arcaica

La narrazione di Sima Quin parte dal 3500 a.c. in un epoca che chiama dei tre augusti e cinque imperatori, si tratta di un epoca in cui storia e mitologia si intrecciano in maniera molto forte, analogamente a quanto accaduto in Egitto nell’età pre-dinastica e se si considera che la prima “dinastia” successiva a quest’epoca è quella Xia la cui presenza è attestata intorno al 2100.a.c. ci ritroviamo ad avere un età pre-arcaica di circa 1300/1400 anni.

In ogni caso, secondo la ricostruzione fornita da Sima Quin, è con la dinastia Xia, o meglio, il popolo Xia, poiché in questa fase non abbiamo una vera e propria casa regnante, nel senso “moderno” ed “europeo” del termine, la corona di fatto non ha un vero e proprio potere politico, ma il re è una figura più religiosa, di fatto il suo compito è relegato allo svolgimento di pratiche e cerimonie religiose, che nulla hanno a che fare con l’amministrazione politica delle città.

Durante la dinastia Xia secondo la tradizione si sarebbe sviluppata la prima forma di stato in Cina, ed è sempre in quel periodo che si sarebbero affermate le cariche di governo e si sarebbe consolidata la successione ereditaria secondo modalità che sarebbero giunte almeno fino alla fondazione del primo impero cinese, intorno al 220 a.c. con l’ascesa della dinastia Qin in seguito ad un lungo periodo di guerra civile e disordine militare. Comunque, tra il 2100 ed il 1600 circa, la dinastia Xia estende progressivamente il proprio potere lungo la valle del fiume giallo conquistando le regioni di Henan, Shandong, Shanix, Hubei e Hebei che più o meno corrisponde alla fascia centro settentrionale della cina, immediatamente a sud est della mongolia. La società cinese in questa fase ha un ordinamento molto vago, è presumibile che, vista la vicinanza con il fiume giallo, l’agricoltura fosse una delle attività principali, seguite dall’artigianato, e dall’allevamento.

Il racconto di Sima Quin sembra essere confermato da alcuni ritrovamenti archeologici nel sito di Erlitou, odierna Yanshi nella regione di Henan, probabile luogo di origine della civiltà Xia, in particolare il ritrovamento delle fondamenta di alcuni palazzi datati intorno al II millennio, sembrano essere la prova tangibile dell’avanzato livello di sviluppo sociale della società Xia, poiché per realizzare opere pubbliche o private di quella portata è necessaria la presenza di molti operai edili, uomini liberi o schiavi è indifferente, e questi operai in qualche modo devono essere nutriti e questo implica la presenza di una classe di contadini impegnati in un agricoltura non di sussistenza, dunque è necessario che vi sia un sistema fiscale di tassazione e un apparto amministrativo, entrambe identificative di un livello di sviluppo della società abbastanza avanzato.

Purtroppo la narrazione di Sima Quin non ci fornisce molte informazioni su come la dinastia Xia sia caduta in declino, e l’archeologia non è ancora riuscita a trovare indizi che possano spiegare cosa sia successo, quel che sappiamo è soltanto che, a partire dal 1600 circa e fino al 1040 circa, l’epicentro della civiltà cinese si sposta alla corte della dinastia Shang detta anche dinastia Yin che risiedeva nell’area nordorientale della Cina e che in questi sei secoli avrebbe controllato la valle del fiume giallo.

Come per il gli Xia anche il regno gli Shang hanno un economia basata prevalentemente sull’agricoltura, ma a differenza dei loro predecessori, sembra che in quest’epoca l’allevamento fu praticato in maniera molto più estesa, sappiamo inoltre che è durante durante la dinastia Shang che la società cinese compie due importanti passi in avanti, sul piano tecnico saranno i primi (in oriente) ad entrare nell’età delle leghe riuscendo a lavorare il bronzo, e come accaduto anche per sumeri ed egizi, il passaggio all’età del bronzo coincide con l’introduzione delle prime forme di scrittura e la produzione delle prime ceramiche ornamentali.
Secondo Sima quin, in quest’epoca la capitale fu spostata diverse volte e intorno al 1350 fu trasferita per l’ultima volta nella città di Yin-Xu, è molto probabile che questo cambio di capitale sia dovuto ad un cambio al vertice del potere e che la dinastie Shang e Yin siano in realtà due dinastie separate, come erano popoli separati Assiri e Babilonesi, se bene condividessero lingua e divinità, secondo altre ipotesi invece i due nomi indicano la prima e l’ultima capitale di questo popolo. Probabilmente non lo sapremo mai, ciò che sappiamo però è che il trasferimento della capitale portò molta fortuna al regno e gli ultimi due secoli sono considerati una sorta di l’età d’oro della dinastia Shang-Yin.
Nel 1056 in seguito alla battaglia di Muye sarebbe emersa la dinastia Zhou, un antico popolo, originario della parte più orientale del regno, che avevano sempre goduto di una certa autonomia territoriale e che, in un certo senso, per secoli era stato in lotta contro la dinastia regnante degli Shang-Yin, la rivalità tra i due popoli sarebbe svanita con la caduta di Shang nella battaglia di Muye, segnando così l’inizio di una nuova fase della storia cinese.

Il regno degli Zhou è considerato da alcuni il più longevo dei regni della cina arcaica, durato per oltre otto secoli, ovvero fino alla metà del terzo secolo, secondo altri invece, la frammentazione del regno a partire dal quinto secolo segnerebbe la fine della dinastia. In ogni caso, durante quest’epoca assistiamo alla massima espressione del classicismo cinese, il regno Zhou avrebbe dato i natali a personalità del calibro di Confucio e Laozi fondatori rispettivamente del confucianesimo e del taoismo, due culti filosofici che rappresentano le fondamenta di tutto il pensiero e la cultura cinese, un po come Socrate, Platone ed Aristotele rappresentano un importante tassello nelle fondamenta culturali dell’occidente europeo.

Come anticipavo poco sopra, negli ultimi due secoli il regno Zhou è tutt’altro che unito, e la dinastia si spezzerà in tre diversi stati indipendenti, questi saranno lo stato Han, lo stato Wei e lo stato Zhao e successivamente questi tre regni si sarebbero frammentati ulteriormente dando origine a sette principati, Han, Zhao, Wei, Yan, Qin , Qi e Chu, che sarebbero stati perennemente in guerra tra loro per oltre due secoli, ovvero dalla spaccatura dello stato Zhou fino al trionfo dei Qin su tutti e sette i regni. Questa fase di anarchia militare e instabilità politica è detta età dei regni combattenti e in seguito al trionfo dei Qin la Cina sarebbe stata riunificata e rivoluzionata con la creazione del primo impero cinese.

La divisione della cina tra i sette principati al tempo dei regni combattenti

Le tradizionali istituzioni gerarchiche e cariche politiche vengono stravolte e il re che fino a quel momento aveva assolto a compiti prevalentemente rituali, con l’ascesa dei Qin diventa il principale depositario del potere politico e militare.

I FENICI – in popolo di navigatori e mercanti che fondò Cartagine

La civiltà fenicia o cananea, se ci si riferisce alla fase arcaica di questa popolazione, ha origini semitiche, ed ha una radice comune ai vicini popoli ebraici, babilonesi e assiri.
Questi popoli si stabiliscono nella regione compresa tra Libano, Israele e parte di Siria e Giordania intorno al 3500 avanti cristo e sarebbero sopravvissuti fino al 333 avanti cristo, anno in cui in quella regione sarebbe sorto il regno ellenistico dei Seleucidi.

La civiltà Fenicia, come molti popoli antichi attraversa un età arcaica, caratterizzata dal nomadismo e secondo la tradizione ebraica questa fase coincide con la storia “cananea”, di fatto Canaan e Fenicia sono due nomi che indicano la stessa regione in epoche differenti, la cananea si riferisce generalmente all’età del bronzo mentre la fenicia è utilizzata per indicare la regione nell’età del ferro.
La civiltà fenicia o cananea ha molti elementi in comune con la civiltà ebraica, e questa radice comune è presentata all’interno dell’antico testamento, in cui ci si riferisce ai cananei come discendenti di Noè, più precisamente i cananei erano i discendenti di Caanan, figio di Cam il minore dei tre figlio di Noè.

Origini bibliche a parte, intorno al 2000 avanti cristo le tribù nomadi che dimoravano nella regione iniziano a stabilirsi in maniera sedentaria, costruendo le prime città che, molto probabilmente, erano organizzate sul modello delle città stato, separate e indipendenti le une dalle altre, ma con probabilmente una tradizione culturale ed una lingua comune.
Le informazioni pervenuteci su questa fase arcaica arrivano soprattutto dai popoli vicini, ebrei, sumeri, babilonesi ed egizi, che parlano di città molto ricche con cui spesso erano in guerra.
A partire dal tredicesimo secolo la civiltà fenicia inizia la propria espansione nel mediterraneo, entrando in contatto con numerosi altri popoli, tra cui anche i micenei e secondo alcune ipotesi l’incontro tra micenei e fenici avrebbe portato l’alfabeto in cuneiforme in grecia, gettando le basi della moderna scrittura greca.

Durante l’espansione nel mediterraneo i fenici avrebbero fondato numerose colonie arrivando almeno fino alle colonne d’ercole, queste colonie erano in origine degli avamposti commerciali che molto spesso si svilupparono in centri urbani autonomi, e in alcuni casi, queste colonie divennero più ricche e potenti della stessa madrepatria, questo è il caso di Cartagine, colonia fenicia fondata tra l’ottavo ed il settimo secolo, che qualche secolo più tardi diventò la più grande potenza del mediterraneo occidentale.

Nel primo secolo le città fenicie, popolate da pescatori e mercanti e non certo da guerrieri, caddero in declino dopo l’incontro con i popoli del mare, e successivamente furono inglobate dagli Assiri, attratti nella regione dalla ricchezza delle città fenicie, sotto la monarchia di Assurnasirpal II, e conquistate, secondo la tradizione da Salmanassar III con la battaglia di Qarqar avvenuta presumibilmente nel 853 a.C. ma di cui non si hanno prove concrete.

Alla fine dell’impero assiro nel 604 a.C., fa seguito un breve regno di Nabucodonossor II che sembra abbia portato la regione sotto il controllo babilonese fino al 562, anno in cui ai babilonesi sarebbero subentrati i persiani che promettendo libertà ed autonomia avrebbero conquistato l’aristocrazia fenicia, e con l’ascesa di Ciro II il Grande, i fenici sarebbero entrati volontariamente a far parte dell’impero persiano.

L’età persiano tra le varie rivolte interne, dura fino al 334 anno in cui sarebbe arrivato Alessandro il macedone, e alla sua morte la regione sarebbe diventata parte del regno ellenistico dei Seleucidi.

GLI EGIZI – il popolo che costruì le piramidi e la sfinge

Intorno al sesto millennio a.c. diverse popolazioni iniziarono a migrare dai propri territori d’origine per insediarsi lungo il corso dei fiumi, e lungo le coste.
La Valle del Nilo, nell’Africa nord-orientale, era un territorio molto fertile ricco di acqua, vegetazione e animali e intorno al 5.000 a.c. vi si insediarono diverse popolazioni, costruendo numerosi villaggi progettati per sfruttare al meglio la potenziale fertilità della terra derivata dalle esondazioni del vicino fiume, senza però mettere a rischio le proprie abitazioni e la vita degli animali che allevavano. Questi popoli impararono presto a costruzione di dighe e canali la cui costruzione e manutenzione richiedeva un elevato numero di lavoratori.

Da questi primi villaggi sarebbe nata la civiltà egizia, una civiltà metropolitana come quella sumera, organizzata però come un unico grande stato al cui vertice vi era un sovrano detto Faraone.
Il faraone, era considerato dagli egizi come la personificazione del dio Horus, una delle più antiche divinità egizie, e tra le varie interpretazioni del significato di questo nome, una in particolare spicca sulle altre, secondo questa interpretazione Horus o Haru oppure Horu potrebbe significare “colui che è al di sopra/il superiore” secondo altre interpretazioni il suo nome potrebbe significare “il distante/il lontano” o anche “Falco” richiamando l’immagine iconica di questa divinità generalmente raffigurata con il corpo di uomo e la testa di falco.

Il Faraone è una sorta di monarca assoluto e rappresenta la prima forma storica di divinità impersonata da un sovrano, questo modello sarebbe stato successivamente ereditato dai popoli persiani e successivamente importato nel mondo Latino attraverso il contatto di Roma con l’Egitto dei Tolomei nel primo secolo.

Per quanto riguarda la scrittura l’invenzione dei geroglifici è datata intorno al 3000 avanti cristo, o meglio, in questo periodo è datata la più antica iscrizione geroglifica ovvero la Paletta Narmer, ritrovata durante gli scavi a Hierakonpolis (oggi Kawm al-Ahmar) alla fine del XIX. Rispetto al cuneiforme i geroglifici egizi erano concepiti come una translitterazione fonetica che combina al suo interno elementi ideografici, sillabici e alfabetici e secondo alcune ipotesi, sarebbero il punto d’origine della prima scrittura greca, introdotta dalla civiltà minoica intorno al 2000 a.c., un periodo di forte espansione della civiltà minoica in cui è probabile che le due civiltà siano entrate in contatto.

La società egizia è molto rigida e divisa in caste gerarchiche, alla sommità della piramide sociale vi era ovviamente il faraone, cui facevano seguito la casta dei sacerdoti cui era affidata l’amministrazione religiosa, e parimente ai sacerdoti vi era la casta dei funzionari, il cui compito era quello di amministrare la popolazione per conto del faraone.
Un gradino più in basso di sacerdoti e funzionari vi era la casta degli scriba i quali conoscevano la scrittura geroglifica e tra gli altri compiti avevano anche l’incarico di registrare le tasse pagate dai lavoratori allo stato, un compito che metteva gli scriba a diretto contatto con le ricchezze della corona, e questo li rendeva estremamente influenti e soprattutto ricchi e potenti.
Agli scriba facevano seguito i militari, una casta che, se bene potesse contare su ingenti ricchezze, non aveva particolare potere politico, in fine, vi erano le masse popolari fatte di artigiani, contadini e allevatori, mentre il gradino più basso della società egizia era occupato da chi non possedeva nulla, neanche se stesso, ovvero gli schiavi.

La schiavitù egizia è ancora oggi oggetto di studio e di ricerche, ed è avvolta da una fitta coltre di mistero, sappiamo che vi erano almeno tre diverse tipologie di schiavi, i primi erano i tradizionali schiavi catturati in battaglia, generalmente stranieri sottoposti all’istituzione della schiavitù affinché apprendessero la cultura egizia, vi erano poi i schiavi interni, divisi in due diverse categorie, gli schiavi per debito, ovvero coloro che si erano indebitati e per pagare il proprio debito diventavano schiavi, e gli “schiavi volontari”, un istituzione abbastanza comune nel mondo antico, in cui la popolazione egizia “libera” generalmente impegnata nell’attività agricola, prestava servizi alla corona, lavorando come operai edili al servizio del Faraone per la costruzione di edifici, tombe e templi.

Gli Egiziani erano convinti che l’anima non potesse esistere senza il corpo, e che una volta morti, i defunti potevano affrontare la vita eterna nel regno dei morti a condizione però che il loro corpo potesse conservarsi ed era molto importante mantenere il corpo integro dopo la morte, soprattutto per il faraone e per le classi più ricche della società egizie, per fare questo si ricorreva all’imbalsamazione/Mummificazione. Il corpo del defunto era svuotato degli organi interni e il colpo opportunamente trattato veniva avvolta da bende e rivestito con abiti preziosi, in seguito la mummia veniva racchiusa in un sarcofago e quindi posta in tombe monumentali costruite appositamente. Oltre alla camera dove era deposto il corpo del defunto vi erano solitamente altre stanze, piene di cibo, oggetti preziosi, gioielli e armi che dovevano servire al defunto per affrontare la vita oltre la morte.
Durante la fase di massima espansione della civiltà egizia questi sarebbero entrati in contatto e in alcuni casi si scontrarono con numerosi altri popoli, tra cui fenici, micenei, sumeri, ittiti, assiri, e babilonesi. Dei tanti contatti è opportuno citare gli Ittiti, popolo che sarebbe stato spazzato via dagli assiri, e contro i quali anche gli egizi vennero a scontrarsi tra il tredicesimo e il dodicesimo secolo a.c. In battaglia gli ittiti potevano contare sul grande vantaggio derivato dalla lavorazione del ferro, e tra le loro macchine da guerra più letali, il carro da guerra fu sicuramente uno dei più significativi ed è molto probabile che fu anche e soprattutto grazie a questi che gli Ittiti poterono conquistare un immenso territorio che si estendeva in tutta l’Asia minore.
Dallo scontro tra Egizi ed Ittiti nacque un accordo di aiuto reciproco tra i due popoli che sarebbe durato fino alla scomparsa degli Ittiti, avvenuta agli inizi del primo millennio, mentre la civiltà egizia continuò a prosperare fino ed oltre la conquista macedone per mano di Alessandro magno avvenuta nel quarto secolo e successivamente, sotto la guida dei Tolomei sopravvisse fino al 31 a. c. anno in cui, con la morte di Cleopatra, ultima regina d’Egitto e di Marco Antonio, l’Egitto venne inglobato da Ottaviano nei territori del nascente Impero Romano.

La fine dell’autonomia egizia segna anche la fine dell’ultima delle dieci fasi della storia egizia, intendendo solo il periodo dinastico ovvero gli anni in cui l’Egitto fu governato da un Faraone.
Fino al 3000 a.c. l’Egitto preistorico vive una fase detta predinastica, cui fanno seguito un primo periodo “arcaico” che va dal 3050 circa al 2686 anno in cui secondo la tradizione inizia l’antico regno, un epoca di circa cinque secoli che si conclude, sempre secondo la tradizione, nel 2181, all’Antico regno fa seguito un epoca di transizione detta primo periodo intermedio che si fa concludere nel 2050 con l’inizio del Medio regno.
Il medio regno dura poco più di tre secoli e generalmente lo si data tra il 2050 ed il 1690. al medio regno segue una nuova fase di transizione detta anche età degli Hyksos ovvero dei sovrani stranieri, in questa fase l’Egitto è governato seguendo la tradizione egizia ma vengono importate alcune importanti novità soprattutto in campo militare, con l’introduzione, tra le altre tecnologie, del carro da guerra.
Il declino degli Hyksos nel 1549 segna l’inizio del nuovo regno, che sarebbe terminato cinque secoli più tardi, nel 1069 con una nuova fase di transizione molto più lunga delle precedenti che avrebbe portato nel 653 all’inizio del periodo detto Tardo antico.
Il tardo antico è l’ultimo vero periodo della storia egizia poiché termina nel 332 con la conquista da parte di Alessandro e l’instaurazione dopo la sua morte della dinastia dei Tolomei, che come sappiamo fonderà insieme la cultura ellenica e quella egizia. In fine, il regno tolemaico termina nel 31 a.c. con la conquista Romana.

I Sumeri – il popolo che inventò la ruota e la scrittura

Il popolo dei Sumeri fu uno dei primi popoli nella storia ad utilizzare la scrittura, e sa quel che ne sappiamo furono il primo popolo in assoluto ad inventare la scrittura, segnando così la fine della preistoria e l’inizio della “Storia”.

Non si hanno molte informazioni sulle origini del popolo sumero, ma secondo alcune ipotesi molto accreditate, è probabile che intorno quarto millennio avanti cristo lasciarono le proprie terre d’origine da qualche parte tra i monti del’odierna Turchia e l’Iran, per insediarsi in Mesopotamia, una vasta e fertile pianura, ricca d’acqua e vegetazione, in medio oriente tra i fiumi Tigri ed Eufrate, il cui territorio coincide in parte con l’odierno Iraq. La grande fertilità della terra rendeva estremamente semplice l’agricoltura e l’allevamento, inoltre la presenza dei due fiumi che fungevano da frontiere naturali rendevano la vita in quell’area particolarmente sicura e i villaggi poi città poterono svilupparsi senza particolare timore di eventuali invasioni o aggressioni straniere.

La civiltà sumera è considerata, insieme alla civiltà egizia, una delle prime civiltà urbane, i singoli villaggi crescendo divennero imponenti città, al cui centro solitamente si ergeva un tempio detto Ziqqurat, alla cui sommità si ergeva un sacello, il tempio vero e proprio, accessibile attraverso una scalinata esterna che simboleggiavano la comunicazione tra il cielo e la terra e tra l’uomo e le divinità. La civiltà Sumera è generalmente divisa in varie epoche, la prima delle quali detta Periodo di ‘Ubaid, in questa prima fase non si hanno molte informazioni, ciò che sappiamo però è che in quest’epoca la città stato di Ubaid avrebbe goduto di una certa centralità nella rete di città stato sumeriche. L’epoca Ubaid è solitamente divisa in due fasi dette Antico Ubaid e Tardo Ubaid, l’ultima delle quali sarebbe terminata intorno alla metà del quarto millennio con l’ascesa della città di Uruk.

Secondo alcuni teorici l’ascesa di Uruk segna l’inizio effettivo della civiltà sumera, mentre secondo altri già l’età di Ubaid rientrerebbe nella “storia sumera”. In questo stesso periodo è datata anche l’invenzione della ruota, che, sembrerebbe essere stata la chiave del potere di Uruk nel soppiantare Ubaid, tuttavia questa ipotesi non è mai stata dimostrata.

All’età di Uruk segue un breve periodo tra la fine del quarto millennio e l’inizio del terzo millennio, (3100 – 2900 circa ) in cui si sarebbe assistito all’ascesa della città di Gemdet Nasr, cui avrebbe fatto seguito un epoca detta “proto dinastico” , diviso a sua volta in quattro fasi governate da re sacerdoti che secondo la mitologia sarebbero stati diretti discendenti delle divinità.

L’età proto dinastica si conclude intorno al 2350 a.c. quando Sargon di Akkad avrebbe creato un vero e proprio impero, cancellando l’autonomia e l’indipendenza delle città stato sumere e riconducendo tutte le città sotto un unico vessillo imperiale.

Alla dinastia accadica avrebbe fatto seguito intorno al 2200 l’ascesa del popolo dei Gutei e successivamente, intorno al 2120 si sarebbe affermata la dinastia di Ur, instaurata da Ur III della città di Ur.

Dopo la dinastia di Ur la civiltà sumera sarebbe caduta in declino per via delle numerose interferenze provocate dall’arrivo in Mesopotamia di Assiri e Babilonesi, due popolazioni di origine Accadica-Semitica.

Intorno al 1900 avanti cristo i babilonesi, guidati da Sumu-abum avrebbero instaurato una dinastia regia nell’area meridionale della regione, facendo di Babilonia la propria capitale e tra i suoi discendenti, circa un secolo più tardi, intorno al 1792, sarebbe salito al potere Hammurabi, che avrebbe messo per iscritto le leggi cittadine creando il “Codice di Hammurabi“, una delle più antiche raccolte di leggi scritte che ci sia pervenuta.

Contemporaneamente all’ascesa babilonese e la conquista della Mesopotamia meridionale di Sumar-abum, Sargon I re di Assiria avrebbe esteso il proprio potere dal’area settentrionale della Mesopotamia fino all’Armenia meridionale.

 

Che cos’è la preistoria ?

Con il termine preistoria si intende un periodo di circa due milioni di anni che va dalla comparsa della specie umana sulla Terra fino al momento in cui l’uomo inventa la scrittura e inizia a lasciare testimonianze scritte, questo avviene circa cinquemilacinquecento anni fa, in Mesopotamia. Tra i primi ad utilizzare la scrittura come strumento per raccogliere dati furono i sumeri, ma di loro parleremo in un altro post e in un video dedicato.

Quando l’uomo apparve sulla terra il suo aspetto era tutt’altro che “umano” si trattava di una versione molto primitiva della specie umana, più simile alle scimmie (tipo Adriano Celentano) e successivamente, rutto di molteplici incroci e di una lunga e lenta evoluzione, il suo aspetto sarebbe diventato più simile a quello odierno, ma, se bene avessero tratti fisici animaleschi, i primi ominidi erano in grado di reggersi in piedi sui soli arti inferiori lasciando quindi gli arti superiori (le braccia) libere di afferrare e reggere utensili in legno e pietra, secondo alcuni antropologi del secolo scorso, questa capacità sarebbe alle origini dello sviluppo cognitivo della specie umana, detto più semplicemente, l’uomo, imparando a camminare su due gambe, iniziò a sviluppare maggiormente l’intelligenza per trovare nuovi usi agli ormai inutili arti superiori.

Nei due millenni che precedono l’invenzione della scrittura l’uomo modifica progressivamente il proprio aspetto e sviluppa sempre di più le proprie capacità tecniche imparando a controllare e modificare sempre di più l’ambiente in cui viveva, passa così dall’adattarsi al luogo in cui viveva, raccogliendo carni, bacche, frutti ecc per nutrirsi a cacciare e coltivare, passa inoltre dal vivere in caverne al costruire abitazioni sempre più sofisticate, inizialmente utilizzando ciò che la natura forniva, quindi rami, tronchi e pelli di animale, per poi passare a “materiali edili” sempre più sofisticati, come pietra e fango utilizzato come collante o mattoni di argilla essiccati al sole o cotti, cui avrebbero fatto seguito recinzioni e mura per proteggere abitazioni e villaggi.

Il progressivo miglioramento dello stile di vita, e la riduzione della mortalità causata da belve feroci produce un primo significativo aumento della popolazione umana sulla terra che inizia quindi a costruire villaggi e città sempre più grandi in cui risiedevano centinaia di nuclei familiari e di conseguenza, con l’accrescere della popolazione, la struttura organizzativa delle città inizia a cambiare e si inizia a sentire la necessità di uno strumento di comunicazione “testuale/visivo” più complesso del semplice graffito che i loro antenati lasciavano nelle caverne per testimoniare la vicinanza di branchi di animali o corsi d’acqua. Questo bisogno pratico di organizzare e amministrare la vita nelle città sarebbe sfociata nell’invenzione delle prime forme di scritture.

Codice di Hamurabi

Non è quindi un caso se i primi testi scritti di cui abbiamo traccia riguardano codici per la regolamentazione della vita urbana, e progressivamente assistiamo alla nascita e alla crescita di immensi archivi in cui venivano conservate centinaia di migliaia di tavolette d’argilla incise e lasciate a seccare al sole, e successivamente tavolette d’argilla incise e cotte e seguendo l’evoluzione dei supporti per la scrittura, ad un certo punto si arriva all’invenzione della pergamena che avrebbe permesso di concentrare in pochissimo spazio centinaia di migliaia di rotoli scritti, permettendo così l’evoluzione della scrittura che, mentre diventava più complessa, si prestava anche ad altri utilizzi, meno utili per l’organizzazione delle città, ma fondamentali per lo sviluppo di arte e letteratura.

Mentre la scrittura evolve da una parte, anche la tecnologia migliora, e progressivamente si sarebbe passati dall’utilizzo della pietra come materiale principale per la produzione di utensili, all’utilizzo dei primi metalli. L’uomo avrebbe infatti scoperto che alcune rocce, se riscaldate, si trasformavano in liquidi roventi e una volta raffreddati quei liquidi diventavano estremamente duri e resistenti, e se affilati, molto più efficaci della pietra. L’uomo entra così nell’età dei metalli, un epoca iniziata circa ottomila anni fa con la scoperta del rame, uno dei metalli più morbidi e facili da manipolare, successivamente avrebbe scoperto, intorno al terzo millennio a.c., che unendo il rame ad altri metalli, questi avrebbero prodotto delle leghe metalliche molto più resistenti dei singoli metalli di partenza, inizia così l’età delle leghe una delle tre fasi dell’età dei metalli.

La prima lega scoperta dall’uomo fu il bronzo, prodotto dall’unione del rame che aveva caratterizzato l’epoca precedente e lo stagno, un metallo estremamente morbido e malleabile, poco adatto alla produzione di utensili, ma la sua unione con il rame produceva un nuovo materiale diverse volte più resistente del rame. L’ultima fase dell’età dei metalli è detta età del ferro, questa è un epoca estremamente recente, iniziata appena tremila duecento anni fa, intorno al primo millennio avanti cristo. I primi a manipolare il ferro sarebbero stati gli Hittiti, un misterioso popolo di cui su hanno pochissime informazioni, e che scomparve soppiantato dagli Assiri, un popolo di cui abbiamo molte più informazioni.

L’economia del Dono – Il saggio sul dono di Marcel Mauss

Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés archaïques , meglio noocome “Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche” di Marcel Mauss, è un saggio Etnologico considerato uno dei grandi classici della scuola francese e più precisamente, un testo intramontabile sull’economia del Dono.

In questo saggio Mauss propone una “teoria del dono” che avrebbe avuto grande rilievo nella storia dell’antropologia francese (etnologia), questa teoria è il frutto della comparazione di varie ricerche etnologiche compiute sul campo da studiosi come Boas, Malinowski ed altri, che avrebbero fornito a Mauss un ampia gamma di documenti , e soprattutto tanti esempi differenti di una pratica economica molto diffusa sia tra le società arcaiche che tra quelle dotate di un economia più sviluppata e complessa.

L’intero studio è focalizzato sullo scambio di beni il cui valore intrinseco non è considerato un dato rilevante, e , secondo la teoria di Mauss, questo scambio avrebbe avuto un ruolo centrale nella creazione di relazioni sia tra uomini che tra uomini e divinità, e in questo caso un esempio di dono capace di gettare un ponte tra l’uomo e il divino, è rappresentato dal sacrificio rituale, attraverso il cui le società omane, offrono un dono ad una o più divinità.

Secondo Mauss, il dono rappresenta “fatto sociale totale”, vale a dire un che esso è un elemento specifico di una cultura, che pone un individuo in relazione con tutti gli altri appartenenti alla stessa cultura e pertanto, attraverso l’analisi di questo meccanismo, è possibile leggere per estensione le diverse componenti di una data società.

Come dicevamo poco sopra, il meccanismo del dono è diverso da una qualsiasi altra economia basata sul valore dell’oggetto e nel suo saggio Mauss scompone la pratica del dono in tre distinti momenti che si basano su quello che l’autore avrebbe definito un principio della reciprocità”.

Questi tre momenti rappresentano tre azioni, che sono il Dare, ovvero l’atto pratico di eseguire il dono, offrendo un bene, servizio o altro ad un altro individuo, divinità o comunità, nella seconda fase, quella del Ricevere, l’oggetto donato deve essere accettato da chi sta ricevendo il dono e l’accettazione del dono conduce alla terza fase, ovvero quella del Ricambiare, una fase particolare che rappresenta il vero momento di distacco tra l’economia del dono ed un qualsiasi altro tipo di economia basato sull’equivalenza del valore dei beni scambiati

L’obbligo “contrattuale” del ricambiare il dono ricevuto è in realtà un semplice obbligo morale, non vincolante, non perseguibile ne sanzionabile, significa che una volta accettato il dono, nulla vieta al ricevente di non ricambiare, ed è proprio in questo “atto di fiducia verso gli altri” che, secondo Mauss, è possibile rintracciare il vero valore della pratica del dono, ovvero nell’assenza di garanzie per il donatore.

Per evidenziare questa assenza di garanzie Mauss propone nel saggio alcuni interessanti eempi di economia del dono, come il potlatch, osservato e documentato da Boas, esso è una pratica cerimoniale che all’epoca si svolgeva tra alcune tribù di Nativi Americani della costa nordoccidentale del Pacifico, come gli Haida, i Tlingit, i Tsimshian, i Salish, i Nuu-chah-nulth e i Kwakiutl. Durante la cerimonia del Potlatch, individui appartenenti allo stesso status sociale procedono con la distribuzione o la distruzione di beni di grande valore, in questo modo possono affermare pubblicamente il proprio rango o riacquistarlo in caso lo abbiano perso.

Un altro esempio di economia del dono presentato nel saggio è la pratica del Kula, osservata e documentata da Malinowski ed esposta nel saggio Argonauti del Pacifico Occidentale. Il Kula è praticato tra gli abitanti delle isole Trobriand nel pacifico, e la pratica consiste in un apparentemente semplice scambio di collane di conchiglie rosse (soulava), per effettuare questi scambi gli abitanti delle isole Trobriand si imbarcavano in lunghi e pericolosi viaggi in canoa che permettevano loro di giungere in villaggi distanti molti chilometri, senza alcuna garanzia di ritorno o che il loro dono sarebbe stato ricambiato.

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Quando inizia la GUERRA FREDDA ?

Nel video sulle origini della guerra fredda dico che questo periodo va dal 1947/1948 circa al 1990/1991 circa, perché non esiste una data “ufficiale” per l’inizio, non c’è, come nel caso della prima o seconda guerra mondiale, una dichiarazione di guerra che segna l’inizio e un armistizio che ne segna la fine, e trattandosi di una fase di tensione dalle mille sfaccettature, trattandosi di una guerra non militare combattuta su molti piani diversi, sarebbe stupido per non dire da folli, dire “la guerra fredda inizia nell’anno X e finisce nell’anno Y” perché non c’è un anno x o y ma una serie di dinamiche.
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Quindi, quando inizia la Guerra Fredda ?

Possiamo dire che inizia con la rottura tra USA e URSS e la definizione delle rispettive sfere di influenza, o meglio, possiamo quindi dire che la guerra fredda inizia con gli accordi di Yalta nel 45, e non sarebbe sbagliato. Possiamo altresì dire che la guerra fredda inizia nel 47 con l’annuncio dell’ERP (European Recovery Program, meglio noto come Piano Marshall) e il conseguente rifiuto sovietico di aderire al programma, e non sarebbe sbagliato, ancora, possiamo dire che inizia quando nel 48 l’unione sovietica si è chiamata fuori dagli accordi di Bretton Woods presi nel 1944 e ancora una volta non sarebbe sbagliato, e ancora, possiamo dire che inizia nel 49 con la creazione del COMECON nell’europa dell’est o la creazione della NATO sulle due sponde dell’atlantico, in fine possiamo dire che inizia nel 1955 con la nascita del patto di Varsavia.
Lo stesso discorso può essere fatto per definire la fine della guerra, collocata da qualche parte tra il 1987 ed il 1991. In questa forbice di tempo si verifica un lungo e lento processo di distensione che avrebbe portato alla fine della tensione e della rivalità, nel 1978 l’Ungheria lascia l’URSS, e in unione sovietica cambiano le procedure elettorali, nell’88 l’Unione Sovietica si apre alla libertà religiosa e nello stesso anno il segretario di stato del vaticano, viene ricevuto al cremlino, nel 1989 c’è l’abbattimento del muro di Berlino e l’anno seguente nella Germania dell’est si tengono le prime elezioni dal 57, possiamo dire che la guerra fredda finisce in questo momento, o che finisce l’anno seguente, nel 1991 quando Bush e Gorbaciov si incontrano per ben tre volte, l’ultima delle quali per prendere una decisione geopolitica comune in merito alla crisi del golfo persico.

E questi sono solo i più famosi, ma di momenti che potremmo prendere come atto di inizio o di fine della guerra fredda ce ne sono mille altri.
Un epoca storica non può essere definita da paletti fissi, ma è definita da una serie di circostanze che si verificano nel tempo, questo tempo può essere più o meno ampio, nel caso della guerra fredda, il periodo di inizio va almeno dal 47 al 52 e per la fine va dal 87 al 91 , forbici che, per quanto concise, sono comunque troppo ampie e troppo importanti per non essere considerate, ognuno degli eventi sopra citati è come il gatto di schrodinger, allo steso tempo interno ed esterno alla guerra fredda, dipende solo dalla volontà del lettore di comprendere realmente i fatti o di imparare date a memoria.

Eliminati i costi di roaming in UE, primo passo verso la nuova Europa post Brexit ?

Come probabilmente già saprete in questi giorni, più precisamente il 15 giugno 2017, si è compiuto un attesissimo e importantissimo passo in avanti verso una sempre maggiore integrazione europea, ed il mercato telefonico “mobile” è diventato un mercato unico, o meglio, la rete europea sta progressivamente diventando una rete unica europea, comportando un progressivo abbattimento dei costi di roaming, ma andiamo con ordine e cerchiamo di capire di cosa si tratta, e soprattutto perché su un sito “di storia” stiamo parlando di telefonia mobile e roaming internazionale.

Cominciamo con il dire che, fino a qualche tempo fa, e in un certo senso ancora oggi, ogni operatore di telefonia mobile ha due possibilità per restare in attività, le principali compagnie sono dotate di una propria rete costituita da un importante numero di ripetitori sparsi sul territorio nazionale in grado di coprire quasi ogni angolo del paese, mentre altri operatori più piccoli, si appoggiano alle reti di altri operatori, pagando una licenza di utilizzo che garantisce loro l’accesso a quella data rete. O almeno così era fino a qualche tempo fa.

Negli ultimi mesi, in seguito ad una serie di trattative ed accordi promossi dalla comunità europea, che hanno visto protagonisti gli operatori telefonici, più precisamente, la comunità europea ha promosso la creazione di una rete unica internazionale, in grado di abbattere eventuali costi di roaming, ovvero quei costi aggiuntivi che vanno ad aggiungersi alle tariffe di quegli utenti che per un motivo o per un altro si ritrovano ad utilizzare una rete diversa da quella del proprio operatore, e questo è particolarmente frequente quando ci si trova a lasciare i confini nazionali per motivi di svago o lavoro, poiché se non per poche eccezioni, le principali compagnie telefoniche mantengono reti nazionali separate tra loro, o meglio, mantenevano separate le proprie reti nazionali.

Con l’integrazione delle reti europee e la creazione di una rete unica europea tuttavia questi costi aggiuntivi sono destinati a sparire, permettendo quindi agli utenti di utilizzare i servizi offerti dal proprio piano tariffario oltre che sulla propria rete nazionale, anche all’estero. Tuttavia, la questione non finisce qui, e di fatto rete unica non significa aumento della concorrenza tra le compagnie telefoniche nazionali.

Secondo la nuova normativa che prevede l’abbattimento dei costi di roaming internazionale, all’interno dei 28 paesi della comunità europea a partire dal 15 giugno, questo azzeramento dei costi non sarà definitivo e permanente, impedendo quindi, che so, ad una persona che vive stabilmente in Francia di utilizzare come propria sim personale, una sim di un operatore italiano. Il periodo di azzeramento dei costi di roaming sarà limitato, nel senso che si potrà usufruire del “roaming internazionale gratuito” soltanto per un periodo limitato di tempo, dopo di ché, secondo le soglie stabilite dai vari operatori nazionali, gli utenti verranno contattati dai propri gestori telefonici ed aggiornati su eventuali limiti temporali. In ogni caso se ci si reca all’estero per qualche settimana o mese, non dovrebbe esserci alcun problema.

Questa soluzione, che di fatto va a fissare dei paletti all'”area di libera circolazione della telefonia mobile” è il vero motivo per cui ne stiamo parlando qui su historicaleye.

L’abbattimento dei costi di roaming, se fosse stato reso permanente sarebbe stato un “comunissimo” allargamento del mercato, permettendo alle varie compagnie nazionali di irrompere su mercati stranieri con prezzi e servizi potenzialmente competitivi, come è già accaduto in passato con la creazione di altre aree di libero commercio, e in un certo senso questo sarebbe il principale scopo della comunità europea, ovvero creare un area di libera circolazione di merci, beni, persone e servizi, tuttavia, negli ultimi anni ci si è resi conto che le economie che compongono l’Unione Europea, non sempre sono integrate o integrabili e spesso sono concorrenziali ed i recenti avvenimenti legati al Brexit ne sono un chiaro esempio.

Per porre rimedio a questa “crisi europea” e in un certo senso anche internazionale, da diverso tempo si stanno studiando ed ipotizzando nuove soluzioni, che possano permettere l’esistenza di un libero mercato e allo stesso tempo, proteggano gli interessi delle singole nazioni.
La nuova rete europea, e il roaming zero (limitato nel tempo) rappresenta il perfetto punto di incontro tra una strategia liberale ed una protezionista, andando in contro alla circolazione, favorendo la mobilità e la circolazione di servizi e soprattutto persone, ma allo stesso tempo, proteggendo le singole nazioni da potenziali competitors “troppo competitivi”. La data del 15 giugno era stata annunciata da diversi mesi ormai, e potrebbe segnare il passo verso una “nuova europa”, e con una comunità europea alle prese con l’imminente Brexit, ed i numerosi negoziati che l’UE dovrà affrontare con il Regno Unito, non è da escludersi che la strategia “roeming zero” faccia scuola tracciando la strada dei futuri trattati tra l’Europa ed i suoi partner stranieri, e tra i vari membri della comunità europea.

 

Ecco perché la Repubblica vinse al referendum del 2 giugno 1946

Ogni anno, il 2 giugno, quest’immagine viene condivisa a più riprese, e la maggior parte degli utenti si è soffermata sul dato “finale” del referendum, ovvero, la vittoria dei repubblicani rispetto ai monarchici, ma, se osserviamo più a fondo i dati, noteremo due cose, la prima e che la vittoria dei repubblicani rispetto ai monarchici è di “esattamente” 2 milioni di voti (12,718,019 contro 10,709,423), una vittoria minima ma comunque una vittoria. L’altro dato che emerge, ed è quello a mio avviso più interessante, è nella disposizione dei voti, possiamo infatti osservare come i repubblicani abbiano vinto prevalentemente nell’Italia settentrionale, e nelle regioni che hanno vissuto tra il 1943 ed il 1945 la guerra civile e l’occupazione nazista, la maggioranza dei repubblicani è stata particolarmente significativa.

Regioni come Toscana ed Emilia romagna , in cui la guerra civile è stata più aspra, e le rappresaglie naziste più numerose, questo dato è particolarmente evidente, quasi un milione e mezzo di repubblicani contro appena mezzo milione di monarchici, e sulla stessa linea, osserviamo un trionfo repubblicano anche le regioni di “frontiera” ad oriente, governate negli anni della guerra civile dal rifondato Movimento Fascista costituitosi nella Repubblica Sociale Italiana (la repubblica di Salò), quindi il lombardo veneto.
Diversamente, al sud della linea gotica, le regioni autogovernate e indipendenti, sotto il controllo del comitato di liberazione nazionale (CLN) quindi Umbria, Marche, in parte l’Abruzzo, e soprattutto il Lazio, la distanza tra repubblicani e monarchici è ridotta al minimo, soprattutto nel lazio dove la differenza è di appena 20 mila voti.
A Sud di Roma però, da Volturno (tra Caserta e Napoli) e Pescara, esisteva un altra linea di demarcazione, la “linea Gustav” che segnava il confine settentrionale della zona di occupazione Alleata.
Le regioni a sud della Linea Gustav, vivono gli anni della guerra civile sotto la guida del Re e del “governo legittimo” appoggiato dagli Alleati, e in queste regioni, lontano dagli eccidi e dalle rappresaglie naziste, in cui si soffriva prevalentemente il peso dei bombardamenti, (prima alleati e poi nazifascisti), al momento del referendum, si assisterà al nostalgico trionfo dei Monarchici, specialmente nelle regioni in cui la presenza alleata era stata più forte, come la Campania e la Sicilia.
Parzialmente fuori dagli schemi della penisola è il ruolo giocato dalla Sardegna, che, lontana dal continente, e in una posizione strategicamente poco significativa nello scacchiere bellico, soffrì pesantemente i bombardamenti(anche qui, prima alleati e poi nazifascisti) restando relativamente lontana dalla guerra civile.

In definitiva, osservando questi numeri, possiamo dedurre che, i due anni di guerra civile (tra il 1943 ed il 1945) abbiano fatto la differenza tra monarchia e repubblica.
Le stragi naziste, le rappresaglie e le immani sofferenze patite dall’Italia centro settentrionale e nord orientale, durante la guerra civile ha prodotto, nella maggior parte della popolazione, un sentimento di rancore nei confronti del re, e della casa reale, identificati come i principali responsabili dell’ascesa e dell’affermazione del fascismo, e in seguito, di quella spaccatura interna che avrebbe provocato la morte di migliaia di uomini, donne, anziani e bambini, durante la guerra civile.

Questa lunga premessa analitica è essenziale per affrontare il discorso “brogli” che spesso ritorna se si parla del referendum del 2 Giugno 1946 in cui gli italiani furono chiamati a votare per scegliere tra Monarchia e Repubblica.

Detto ciò,  è opportuno dire che i brogli in quel referendum vi furono, e in larga misura poiché furono rilasciate schede elettorali sulla base conformazione demografica dell’italia nel 1936/37 ovvero prima che iniziasse la guerra, e di conseguenza non si tenne (volutamente o incautamente) conto delle innumerevoli vittime, civili e militari, dei rifugiati politici fuggiti all’estero e dei deportati. Insomma, furono chiamati a votare piu’ italiani di quanti non ce ne fossero in italia (o all’estero). Questo squilibrio tra possivili votanti e votanti effettivi altera (piu’ o meno gravemente) il dato sull’affluenza, de facto ci fu un affluenza maggiore di quella effettivamente registrata, che però viene bilanciata dai voti fantasma, ovvero da quei voti registrati a nome di persone disperse o morte.

Detto questo, se si guarda alla conformazione dei voti e si analizzano storicamente le regioni in cui ha vinto la monarchia rispetto a quelle in cui ha vinto la repubblica, emerge un primo dato interessante -vi rimando al mio post linkato in alto per maggiori approfondimenti, ovvero che, nell’Italia meridionale, occupata dagli Alleati, in cui aveva ricominciato dal 43 a governare il re, vinse la monarchia, mentre nel resto d’italia, quell’Italia che dal 43 al 45 era stata vittima dell’occupazione nazista, in cui vi erano stati eccidi e stragi frutto della guerra civile, e il governo era rimasto quello “legittimo” del partito fascista guidato da Mussolini, lì vinse la repubblica. E in questo senso, le regioni in cui la guerra civile o la guerra di resistenza che dir si voglia, fu particolarmente intensa, come nel caso dell’Emilia Romagna o della Toscana, la vittoria repubblicana fu, per ovvie ragioni, schiacciante.

La distribuzione demografica dell’italia nell’immediato dopoguerra, ovvero dell’italia tra il 1945 ed il 1948, vedeva una “densità” di popolazione maggiore a nord di Roma, questo per numerosi motivi, va detto anche che il numero di nascite nell’Italia meridionale sarebbe cresciuto esponenzialmente nel ventennio successivo alla guerra, quindi tra il 1945 ed il 1965 circa, questo per innumerevoli ragioni che non è il caso di spiegare o analizzare (ma basta fare qualche rapida ricerca su google per constatare questi dati). Un Italia “repubblicana” maggiormente popolata di un italia “monarchica“, si traduce inevitabilmente nell’esito a noi noto, tuttavia, un eventuale passaggio alla repubblica implicava la perdita di numerosi privilegi sociali ed economici da parte della nobiltà, e dall’altra parte, in caso di conferma della monarchia, la vanificazione degli sforzi dei sostenitori della libertà e democrazia.

Queste “personalità” per ragioni in parte storiche (erano da sempre gli amministratori di un dato territorio), in parte politiche (erano eroi di guerra che avevano combattuto per la liberazione di quel territorio) erano distribuite un po ovunque, vi erano di fatto Repubblicani nel mezzogiorno e Monarchici nelle famose “regioni rosse“.
Ed è in quei luoghi specifici, e nelle loro immediate vicinanze che avvennero i brogli, sia da una parte che dall’altra, brogli che avvennero con il tacito consenso delle autorità locali, che ricordiamo essere un ufficiali dello stato ma che in quel momento non servirono lo stato, non compiendo il loro dovere, ma parteggiando apertamente per una delle parti, contribuendo a falsare l’esito del referendum. E di questi episodi avvennero sia nelle regioni “repubblicane” che in quelle “monarchiche”.

Scusate per lo sproloquio, ma odio quando si sfrutta e si distorce la storia per fare propaganda politica. Chi scrive articoli come quello citato forse non si rende conto del danno enorme che provoca, e delle immense difficoltà che produce, andando ad alimentare un flusso di informazioni falsate che rendono estremamente piu’ difficile la ricerca e la ricostruzione storica.
Come già ampiamente detto in passato, il compito dello storico è quello di epurare i fatti dalla propaganda, cercando di riprodurre il piu’ fedelmente e possibile determinati momenti e dinamiche.
Ho scritto questo post perché quell’articolo, per quella che è la mia idea di storia, è totalmente “antistorico”.

N.B. Ho realizzato questo articolo unendo due lunghi post pubblicati nel 2016 sulla pagina facebook di historicaleye in seguito alla pubblicazione su “il giornale” di un articolo in cui si denunciavano alcuni episodi di brogli avvenuti durante il referendum.

Saredegna e Mediterraneo in età matriarcale

Le origini del nostro matriarcato vanno ricercate in Sardegna, culla della più antica civiltà italiana. La crearono alcuni “popoli del mare” pelasgici provenienti dall’Asia, dall’area egeo-cretese, dal Tassili africano, dall’Iberia e dalla Celtia. Essi furono costretti ad emigrare dai vari epicentri territoriali per varie cause, ormai accertate dalle ricerche scientifiche e dalle rilevazioni satellitari: disastri naturali (tra cui il biblico diluvio universale, generato dall’onda d’urto di un asteroide che si abbattè sulla terra, il terremoto/maremoto che sconvolse l’area minoica, e la desertificazione sahariana) e le aggressioni delle prime orde patriarcali indoeuropee. Si tratta di quei mitici “giganti” (la parola viene dal greco e significa “figli della Madre Terra) che si dispersero nel Mediterraneo diffondendovi il culto della terra e delle acque, il megalitismo, la metallurgia e la cultura matrilineare. “Due popoli, discendenti degli antichi giganti, vennero ad occupare in epoche diverse le regioni fertili, ospitali e ancora poco abitate della penisola italiana: i Sardi e poi gli Etruschi“. La grandezza (1900 km. di coste), la centralità e la difendibilità della Sardegna ne fecero in epoca post-diluviana un rifugio privilegiato. Dalla miscela etnica sarda si sviluppò una civiltà propulsiva, tutt’altro che chiusa:

“dall’isola salparono navi che, per prime, crearono una rete di comunicazioni con la penisola, portandovi tecniche avanzate, arti, conoscenze e una visione magica e metafisica della vita”.

La civiltà matriarcale ha avuto in terra sarda uno sviluppo e una persistenza eccezionali, ancora scarsamente conosciuti. I ritrovamenti archeologici, relativamente recenti, ne hanno messa in evidenza la sorprendente dimensione soprattutto nel Neolitico e nell’Eneolitico (6.000 – 1.500 a.C). Tuttavia la sacralità del principio femminile si è conservata anche nei periodi successivi. Durante l’età fenicia si è intrecciata al culto della dea Tanit e, durante la colonizzazione punico-romana, al culto di Demetra/Cerere. Inoltre, malgrado le persecuzioni dell’integralismo cristiano, è stata tramandata fino alle soglie dell’età cosiddetta moderna da una magica rete di donni di fuora che, soprattutto nelle zone interne, hanno contribuito al fenomeno antropologico del “matriarcato barbaricino”.

Ne ho ripercorso le tracce insieme a Petra Bialas, che da anni si ispira nelle sue ceramiche e sculture alle raffigurazioni delle dee pre-patriarcali; e che è stata una compagna ideale in un suggestivo viaggio-pellegrinaggio tra mare e monti, villaggi neolitici abbandonati, remoti santuari, musei, pozzi sacri, necropoli, nuraghi e luoghi carichi di energie psicofisiche. Queste tracce, del resto, non sono difficili da trovare: sono quasi ovunque, numerosissime e abbastanza intatte. I siti preistorici anteriori alla fase nuragica sinora scoperti sono oltre 120 e si condensano prevalentemente sul lato ovest e nel centro dell’isola, tranne quelli di Orgosolo, Oliena, Dorgali, Baunei e San Vito, ubicati a est. Sono caratterizzati dal megalitismo: dolmen, circoli di grandi pietre, betili e menhir con i seni, con dee graffite, con doppie spirali. Ma anche da insediamenti in superficie o necropoli ipogeiche scavati nella roccia calcarea: le domus de Janas, o “case delle fate”. Esse variano dalle piccole domus isolate, simili aille cavità naturali dei “tafoni” scolpiti dal vento, alle decine di ambienti decorati delle necropoli di Su Crucifissu Mannu, S.Andrea Priu di Bonorva (III millennio a.C.), o Anghelu Ruju presso Alghero. I rilievi planimetrici degli ipogei mostrano che essi hanno una forma a utero, a uovo o a corpo di dea.

La parola Jana è comune in tutto il Mediterraneo; è la dea Jaune nei paesi Baschi, l’etrusca Uni, le romane Juno e Diana, la cretese Iune, la Ioni asiatica. In molte domus de Janas del V e IV millennio a.C., ma anche altrove, sono state trovate in grandi quantità statuine di divinità femminili in argilla, alabastro, calcarenite, caolinite, marmo, osso o arenaria quarzosa. Le più antiche sono quelle tondeggianti della cultura di Bonu Ighinu (Mara), di Su Cungiau de Marcu (Decimoputzu), Cuccurru S’Arriu (Cabras), Su Anzu (Narbolia) e Polu (Meana Sardo). La statuetta stetopigia di S’Adde (Macomer) è simile agli idoli ritrovati in Anatolia e nel nord Europa. Nella cultura di Ozieri del IV millennio a.C. le figure diventano piatte e stilizzate in forma di T, con la parte inferiore a cono. Tra le dee soprannominate “cicladiche” per la loro impressionante somiglianza con altre rinvenute nelle isole Cicladi, spicca la grande immagine della “Signora Bianca” di Turrigu, Senorbì. Suggestiva e poetica è la semplicità delle dee “a traforo”, ricavate da sottili lastrine marmoree. Moltissime le dee con le braccia aperte a croce, fino alla minuscola dea-uccello di mezzo centimetro recuperata a Ploaghe, esposta nel Museo Sanna di Sassari dietro ad una grossa lente di ingrandimento. Le affinità con analoghi reperti in altri luoghi distanti migliaia di chilometri dimostrano che la cultura matriarcale era basata su un linguaggio omogeneo diffuso in tutto il mondo, come ha affermato l’archeologa Marija Gimbutas.

La manifattura di queste dee prosegue per tutta l’età del rame, su preziose lamine dorate. E continuerà nell’espressione simbolica, sia pure de-contestualizzata, attraverso i secoli. In filo diretto con il Neolitico, esistono ancora oggi persone, in Barbagia, che mettono nella bara dei congiunti morti sa pipiedda o sa pizzinedda, una piccola dea confezionata con la tela bianca o con la cera. Oppure, anche in altre zone, è abituale l’usanza di intrecciare con striscioline di foglie di palma sa mura, ovvero la Moira, la dea che decreta il destino, per regalarla durante la Domenica delle Palme.

Il culto della Grande Madre è protagonista anche in un singolare episodio del megalitismo sardo: il santuario preistorico di Monte d’Accoddi presso Porto Torres (2.700 a.C.), una piramide a ziggurath che avvalora in modo inequivocabile l’ipotesi della matrice etnica orientale. Altri sorprendenti risultati della “strana barbarie sarda” (Deledda) sono le Tombe dei Giganti, costruite con enormi lastre di pietra disposte a semicerchio secondo un preciso schema di riferimento astronomico, e collegate con un lungo corpo a galleria retrostante. Bio-architetture con un isolamento a intercapedine, erano orientate verso la Croce del Sud (allora visibile anche dall’emisfero boreale) ed erette in corrispondenza di falde acquifere e di forti flussi magnetici; la stele verticale d’ingresso è conficcata nel punto di maggiore potenza. Venivano utilizzate a scopo terapeutico con il procedimento dell’incubazione: chi era afflitto da epilessia, disturbi del sistema nervoso e traumi psichici vi dormiva per cinque giorni e guariva con una vera e propria cura del sonno, indotto dalle sacerdotesse con particolari sostanze soporifere e con sistemi ipnotici.

Affascinanti produzioni dell’architettura megalitica sono i pozzi sacri, come quello di Santa Cristina a Paulilatino (Oristano) del primo millennio avanti Cristo, tagliato con inaudita precisione nella pietra basaltica. Si entra in contatto con il potere taumaturgico delle acque sotterranee scendendo una scala triangolare di 25 gradini che porta al pozzo circolare. Qui una camera alta 7 metri è sovrastata da un oculo attraverso il quale la luce della luna magnetizza lo specchio d’acqua. Ogni 18 anni e sei mesi (l’ultima volta il 24 dicembre 1988) la luna scende esattamente in perpendicolare nel suo tempio; ma vi torna in modo meno evidente ogni anno durante il plenilunio invernale, rendendo così possibile la misurazione del mese lunare. Il triangolo dell’ingresso è circondato da un recinto interno a forma di toppa di chiave (un triangolo accostato a un cerchio, che è anche il simbolo della dea Tanit), e da un altro recinto esterno ellittico. Si tratta di un organismo a stretto contatto con la natura, concepito come un orologio solare e lunare insieme, che segnalava i solstizi e gli equinozi mediante la scala e l’oculo del pozzo. Ai margini di esso, sono ubicate capanne circolari abitabili e un grande ambiente collettivo di riunione a cerchio, con una panca continua per sedersi addossata alle pareti di pietre incastrate a secco.

I nuraghi sono una presenza costante nel panorama sardo. Ne sono stati inventariati oltre settemila, costruiti dal 1.800 al 500 a.C. Probabilmente il loro nome deriva dall’antico sumeronur-aghs, fiamma ardente: sulle loro sommità si accendeva il fuoco per fini rituali, ma anche a scopo di segnalazione. Da ogni nuraghe se ne vedevano almeno altri due, il che assicurava una efficacissima rete di comunicazione visiva e sonora, basata sulla triplicità. Alcuni, come quelli del complesso Su Nuraxi di Barumini (1.500 a.C.), sono integrati da un pozzo e circondati da abitazioni circolari. Prima di diventare le fortezze dei guerrieri Shardana, furono i templi astronomici di popolazioni pacifiche: nel solstizio d’estate il sole illumina la cella interna formando un potente cerchio di luce. La loro imponente struttura, a camere sovrapposte o laterali, accentrava energie magnetiche dal sottosuolo, ed era anch’essa un luogo di pratiche sacre e terapeutiche. Presso i nuraghi ci si riuniva, si giurava, si facevano oracoli, si celebrava la luna e si dormiva per curarsi, come nelle Tombe dei Giganti. E nei villaggi nuragici, come quello di Serra Orrios con le sue settanta capanne, la presenza sacrale dell’acqua, insieme all’energia del fuoco, è una costante. A Barumini una donna ci ha raccontato una curiosa leggenda riguardante Eleonora d’Arborea, la sovrana legislatrice che nel 1392 compilò la Carta de Logu (un codice di giustizia che, tra l’altro, prevedeva sanzioni durissime per gli stupratori). Sembra che Eleonora, percorrendo un passaggio segreto sotterraneo, si recasse spesso nell’antica zona sacra di Su Nuraxi, che allora era interamente nascosta dalla terra, e dove si svolgeva la trebbiatura del grano.

I fenici arrivarono sulle coste sarde intorno al 1.000 a.C. e si stabilirono soprattutto lungo il versante occidentale. Fondarono i loro primi insediamenti permanenti (Cagliari, Nora, Sulci, Tharros, Bithia) tra la fine del IX e l’VIII secolo a.C., e in seguito si integrarono nella colonizzazione cartaginese (510 a.C.). Alla Tanit fenicia, la “nutrix“, erano dedicati i “tophet“, siti a cielo aperto recintati con muretti dove si seppellivano i bambini nati morti oppure deceduti entro sei mesi dalla nascita, insieme a piccoli animali. Sono luoghi commoventi, che i Romani invasori, e conquistatori dal 238 a.C. al 476 d.C., cercarono di infangare nello stesso modo in cui screditarono i druidi celtici, cioè inventando la menzogna di sanguinosi sacrifici infantili alla dea – smentita dalla presenza di embrioni. Nel “tophet” di Monte Sirai presso Carbonia (IV-II sec. a.C.), sono affiorate stele di dee che stringono al petto un fiore di loto, e un’altra con Tanit-Astarte che indossa la maschera contro gli spiriti maligni e il tamburello per le danze funebri; un motivo che si ritrova anche in parecchie statuine bruciaincensi di piccole dimensioni. A Nora venne costruito un grande tempio di Tanit (IV-II secolo a.C.). Ma il ritrovamento forse più singolare della fase fenicio-punica è quello del santuario di Bithia (Domusolemaria): decine di figurine votive in argilla che indicano la parte del corpo malata, plasmate durante l’ipnosi terapeutica indotta dalle bithiae (letteralmente: donne con le pupille doppie), le sacerdotesse-sciamane del tempio.

Infine risalgono all’epoca romana – che costruisce radi insediamenti sparsi su tutta l’isola, in funzione di controllo – numerose statuine di Demetra/Cerere a schema cruciforme, oppure con fiaccola e porcellino. Sono generalmente bruciaincensi in argilla, prodotti con un’iconografia molto simile sin dalla fase punica (di cultura greca), dal 500 a.C. al 100 a.C..

Le tradizioni sarde e le sue leggende, che furono studiate con attenzione dalla grande scrittrice Grazia Deledda, sono strettamente legate alle radici matriarcali. Gioca in esse un ruolo fondamentale lo sciamanesimo femminile risalente al periodo neolitico. Fino alla prima metà del Novecento, le deinas continuarono ad essere “veggenti stimate e temute allo stesso tempo“. Chiamate anche videmortos per la loro capacità di comunicare con i defunti, si iscrivono nella genealogia delle janas , le sacerdotesse che non potevano appartenere ai comuni mortali, ma solo a se stesse. Si racconta che quando las fadas (le fate) del Monte Oe scendevano a mezzanotte a ballare nella piazza del paese, se qualche uomo cercava di toccarle veniva schiacciato da una maledizione: Ancu ti tocchet sa musca maghedda! (“Che tu sia punto dalla mosca maghedda!”, un insetto letale). Il loro corredo magico comprendeva lo specchio, il setaccio o vaglio, il velo, gli arnesi da tessitura; e naturalmente le erbe, gli unguenti e le sostanze che favorivano la trance, tra cui il giusquiamo, la belladonna, la datura, l’olio di ginepro, l’ Orrosa ‘e cogas (Rosa delle streghe), la peonia e il fungo Amanita muscaria (in dialetto, “allucinato” si dice tuttora muscau). I loro poteri erano il dominio del fuoco, il contatto con gli spiriti, l’oracolo, la capacità di visione a distanza e di guarigione, l’estasi e la trance (andare in calazonis), il volo magico. Queste pratiche, esercitate apertamente ancora nei primi secoli del cristianesimo, non cessarono mai del tutto e sopravvissero sotterraneamente anche ai 767 processi intentati dell’Inquisizione tra il 1562 e il 1688, l’80% dei quali riguardavano “fattucchiere e sortileghe”. Le più perseguitate furono le streghe di Castel Aragonese (oggi Castelsardo); gli inquisitori individuarono come luogo del sabba la misteriosa località della piana del Coghinas, dove attualmente si trovano le terme di Casteldoria.

Alla repressione cristiana resistè tenacemente anche l’antichissimo culto lunare di Diana, di cui si trovano vistose tracce nella toponomastica dell’isola (Lunamatrona, Nuraghe Luna, Cala Luna, Monte Luna, Monte Diana, etc.). Nel mondo romano Diana Lucina fu ufficialmente onorata fino al IV secolo dopo Cristo con la solenne processione notturna del 13 agosto, fatta da donne che tenevano in mano una torcia. Durante il medioevo, la venerazione della dea venne ripetutamente investita dagli anatemi della chiesa e demonizzata. Ma Artemide-Diana, in realtà, era una figura protettrice:

“puniva coloro che violentavano le vergini e si macchiavano di ogni altra sopraffazione, così come puniva coloro che esercitavano la caccia in modo selvaggio, effettuando una distruzione senza limiti. Anche i cuccioli, al pari dei bambini, erano sotto la sua protezione e dovevano essere risparmiati”

La dea assisteva le partorienti e le balie, presiedeva alla crescita di ogni genere. Veniva invocata fino a una cinquantina di anni fa in filastrocche che si ripetevano quasi invariate in numerosi paesi della Sardegna centrale. Le ragazze le recitavano sedute in cerchio e battendo le mani, oppure in girotondo ad occhi chiusi, dopo aver guardato la luna: Luna luna, paraluna, paristella / ses sa bella de muntanna… Luna luna, porchedda luna / porchedda ispana, sette funtanas / sette chilivros, appiccamilos / sutta sa mesa, luna Teresa, / Teresa luna, dammi fortuna. E tuttora, nella Bassa Gallura, si saluta la luna nuova con l’esclamazione: Luna miraculosa, dammi la grazia di l’anima.

Tra le donni di fuora che appartengono alle leggende popolari c’è la gioviana, un genio tutelare femminile che si presenta nelle case la notte del giovedì quando le donne si attardano a filare, per aiutarle; la vampiresca coga o sùrbile, frutto della criminalizzazione cristiana, ma percepita anche come una Nemesi che impone la giustizia; le panas o pantamas, spiriti di donne morte di parto che durante la notte si recano lungo i corsi d’acqua; la Saggia Sibilla che abita con altre janas nella grotta del Carmelo presso Ozieri, e alla quale la tradizione orale attribuisce il segreto della lievitazione del pane e l’invenzione dei fermenti lattici; le fadas che vivono nei nuraghi e tessono la buona e la cattiva sorte con un telaio d’oro. Ma, al di là dei racconti leggendari, le ultime depositarie di un sapere antichissimo hanno costituito sino a pochi decenni fa una presenza e una realtà molto diffusa tra la popolazione sarda. Non accettavano denaro, solo prodotti in natura. Abili erboriste, le orassionarjas guarivano anche con formule magiche dette verbos e usavano tre grani di sale per scacciare il malocchio. Le anziane accabadòras (dal fenicio “hacab”, mettere fine) accompagnavano nel trapasso della morte e abbreviavano le dolorose agonie, oppure dopo le esequie si recavano al cimitero per “chiudere la casa”, girando tre volte la punta di una grossa chiave sulla tomba. Tre donne (una giovanissima, una matura e una vecchia) svolgevano insieme un rituale terapeutico contro le febbri perniciose recandosi ad un trivio, togliendosi una pianella e tracciando a terra con essa cerchi e croci. E anche attualmente esistono deinas che praticano la cosiddetta “medicina dello spavento” a chi è oppresso da incubi o ossessioni, oppure adottano la gestualità lustrale dell’acqua gettata dietro le spalle.

Passata dagli antichi splendori ad un destino di “eterna colonia” sfruttata e maltrattata, la Sardegna ha mantenuto il suo profumo, emanato coralmente dalla vegetazione dell’isola che ancora sopravvive alla criminale violenza degli incendi, e pazientemente si ricrea: mirto, cisto, tamerici, zafferano, euforbia, fiordaliso spinoso, fichi d’india, peonie selvagge, gigli di sabbia, rosmarino, fillirea, ginepro, oleandro, boschi di querce da sughero, lentischi, eucalipti, pini, corbezzoli, ulivi e olivastri. Non sono svanite neanche la fierezza e la forza delle donne che la abitano, così come non sono state cancellate nel quotidiano contemporaneo le immagini delle dee, ancora riprodotte con naturalezza e orgoglio nelle manifatture di oreficeria o sull’etichetta di un vino. Non a caso, in questa regione le cooperative femminili in qualsiasi settore sono una realtà diffusissima e abituale: la presenza degli uomini nel lavoro, mi ha spiegato concisamente una ragazza con un fermo sguardo da jana, non è indispensabile.

Bibliografia consigliata :

Giovanni Feo, Prima degli Etruschi – I miti della Grande Dea e dei Giganti alle origini della civiltà in Italia, Stampa Alternativa, Viterbo 2001.
Marija Gimbutas, The Language of the Goddess,in italiano Il linguaggio della dea – Mito e culto della Dea Madre nell’Europa neolitica, Longanesi, Milano 1990.
Dolores Turchi, Lo sciamanesimo in Sardegna, Newton Compton, Roma 2001.

 

Articolo originale : Viaggio nella Sardegna matriarcale. dee, deinas, janas, fadas, donni di fuora, di Rosanna Fiocchetto : 
http://www.universitadelledonne.it/sardegna.htm

Perché i greci non inventarono la macchina a vapore ?

Non appena una civiltà raggiunge un dato livello di controllo e manipolazione del proprio ambiente si trova d’avanti un bivio, che la porterà a scegliere se continuare sulla strada del progresso e dell’innovazione, progredendo quindi verso una sempre maggiore capacità tecnica o continuare sulla strada della gerarchia, mantenere attiva l’istituzione della schiavitù rendendo così, la propria civiltà statica e limitando la propria capacità di produrre “profitto e ricchezza”.

Alla civiltà che si trova a dover compiere questa scelta, le due strade presentano sia vantaggi che svantaggi, e se da un lato i profitti legati all’istituzione dello schiavismo possono essere ridotti rispetto ai profitti legati alla produzione industriale, è anche vero che la produzione industriale necessita di macchinari costosi e difficili da implementare, e la promessa di un profitto maggiore deriva prevalentemente dalla disponibilità di una società di rischiare tutto.

L’innovazione tecnologica da questo punto di vista può spaventare, perché rappresenta un incognita, e gli esseri umani sono naturalmente spaventati da ciò che non conoscono, tuttavia, tecnica e tecnologia sono elementi fondamentali di una civiltà, senza di essi una vera civiltà è impossibile e impensabile, e non mi dilungherò sul tradizionale esempio dell’invenzione dell’aratro che permette ad un popolo di passare dal nomadismo alla vita sedentaria, iniziando così a costruire i propri villaggi e le proprie città.

Gli effetti della tecnica e della tecnologia sulla nostra civiltà sarebbero diventati particolarmente evidenti nel diciannovesimo secolo, in seguito alla rivoluzione industriale, portando con essi un crescente interesse per lo studio della storia della scienza e delle tecnologie, in questo senso gli scritti di Samuel Smiles sono un esempio più che eloquente, successivamente questo interesse sarebbe progressivamente venne meno, fino a sparire quasi del tutto agli inizi del secolo successivo.
Questa parentesi aurea nel diciannovesimo secolo ci ha permesso di comprendere meglio le dinamiche del pensiero scientifico, e soprattutto, ci ha permesso di capire perché, alcune civiltà del mondo antico, scelsero la via della gerarchia e della schiavitù, con tutti i loro vantaggi e vantaggi, frenando così la propria capacità di sviluppo tecnologico.

Nel mondo antico, più precisamente nel mondo greco e greco-romano, la tecnica era associata all’attività delle classi inferiori, più precisamente degli schiavi, ed era vista come un “arte minore”, e questo avrebbe reso la “scienza greca” particolarmente infeconda. Di fatto non ci furono “scienziati” nel mondo antico, anche perché questa istituzione sociale non sarebbe apparsa prima del diciassettesimo secolo, ma questo non significa che il mondo antico fosse totalmente alieno alla scienza e al pensiero scientifico, anzi, i greci erano convinti che tutti i fenomeni naturali fossero determinati da leggi e principi (e non dai capricci di qualche divinità, spiriti o demoni). Questa convinzione avrebbe permesso alla civiltà greca di sviluppare in modo notevole la matematica e avrebbe inventarono l’idea che, una data ipotesi per essere considerata vera, dovesse necessariamente essere certificata da una prova. Grazie alla sperimentazione, soprattutto degli intellettuali di Alessandria d’Egitto in eta tolemaica, gli intellettuali greci avrebbero dato un importante contributo alla cartografia, alla meccanica teorica e pratica, all’astronomia, alla chimica, alla medicina e all’anatomia. Ed è probabile che questi risultati fossero frutto dell’incrocio della cultura greca e quella egiziana.
Nonostante una prima promettente fase scientifica, e se bene il livello di conoscenza tecnico e tecnologico del mondo antico avrebbe permesso alla civiltà Greco-Romana di compiere un epocale balzo in avanti sul piano tecnologico, costruendo la macchina a vapore, emblema della rivoluzione industriale, la civiltà greca, giunta al bivio, non avrebbe dimostrato un interesse per la scienza maggiore rispetto a quello dimostrato da altre civiltà quali le civiltà Islamica, Indiana e Cinese, prediligendo invece le garanzie del tradizionale sistema schiavistico.
Non è un caso se il più grande lascito della civiltà greco-romana è legato all’ordinamento amministrativo e giuridico e non al mondo scientifico, e in questo senso è importante ricordare che, nessuna delle “meraviglie del mondo antico” fu opera dei romani.

La discrepanza tecnologica tra il mondo antico e quello moderno è enorme ed è facilmente spiegabile se si accetta la verità che i romani non fossero degli ingegneri di prim’ordine, ma che semplicemente si limitarono ad imitare e “copiare” le innovazioni tecnologiche dei popoli con cui entravano in contatto e che invece l’età medievale fu un epoca particolarmente prolifera a livello tecnico, e non fu solo un periodo in cui su “abbandonò” e si trascurarono gli acquedotti e le strade romane.
Sorvolando sulle grandi città, sulle cattedrali, sulle fortezze ed i castelli che nulla avevano da invidiare, a livello tecnico e ingegneristico, alle ville romane e ali acquedotti. Durante il medioevo si sarebbero prodotte una serie di innovazioni tecniche che ancora oggi sono alla base della nostra civiltà.
Un confronto tra il sapere tecnico del medioevo e il mondo antico, la superiorità del sapere medievale appare immensamente superiore. I grandi motori della tecnica medievale non risiedono in Europa, ma nel mondo cinese, indiano e arabico, i quali furono i mediatori privilegiati in grado di condurre in Europa e nel mediterraneo il sapere scientifico proveniente dall’Asia.
Il mondo arabo aveva ereditato le basi del proprio sapere matematico, filosofico e astronomico dal mondo greco, e a questi avrebbe aggiunto un nuovo sapere proveniente dall’Asia e grazie ad esso avrebbero dato un ulteriore importante contributo alla medicina, soprattutto ottica ed olfattica, avrebbero sviluppato lo studio della chimica e prodotto una serie di innovazioni tecniche ad essa connesse.

Lo sviluppo tecnico dell’Europa medievale, se bene fosse una reazione e un imitazione dello sviluppo tecnico della prima civiltà islamica, denota comunque un importante livello di apertura culturale che avrebbe gettato le basi per uno sviluppo proprio europeo nei secoli successivi.
Un esempio più recente di una dinamica analoga possiamo incontrarlo nell’estremo oriente contemporaneo, in particolare in Cina, Korea e Giappone. Questi popoli sono spesso etichettati, sul piano tecnologico, come dei copiatori, degli imitatori della tecnologia Europea o Americana, ma la loro imitazione (a differenza di quella romana) non è statica, ed ha prodotto una propria identità tecnologica.

Un elemento indispensabile per lo sviluppo tecnologico di una civiltà è senza ombra di dubbio la sua capacità e disponibilità di imparare. Introdurre tecnologie di popoli stranieri per certi versi è anche piu’ importante dello sviluppo di tecnologie proprie, un esempio in questo senso ci arriva dalla Cina che ha alle proprie spalle una lunga storia di invenzioni e scoperte interne, ma che, difficilmente, negli secoli scorsi, ha permesso l’ingresso di tecniche e tecnologie straniere nel proprio paese, andando incontro ad un inevitabile inaridimento della propria tecnologia.
Nell’Europa medievale invece, la dinamica è totalmente invertita, le scoperte e le invenzioni interne sono relativamente poche, ma c’è una grande disponibilità ad imparare e introdurre nuove tecniche, così gli artigiani medievali avrebbero potuto sviluppare ed aggiornare continuamente le proprie tecniche finché non sarebbero stati in grado di sviluppare nuove e originali tecniche e tecnologie.

Fonti:
D.S.L. Cardwell, Tecnologia, scienze, storia, Il Mulino, Bologna 1976

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