Vittorio Emanuele III, il Re Ignavo

In questi giorni il nome Savoia è particolarmente legato alla cronaca, soprattutto per quanto riguarda Vittorio Emanuele III e la richiesta dei suoi eredi affinché l’antenato venga sepolto al Pantheon, dove giacciono altri suoi più illustri antenati e numerosi “patrioti” italiani.

Sono apparsi numerosi articoli biografici su Vittorio Emanuele III e sui Savoia in generale e penso sarebbe superfluo riproporre questi stessi contenuti anche qui, ma allo stesso tempo, da storico dell’età contemporanea, non posso esimermi dal parlarne e anzi, approfitto della vicenda per consigliarvi un libro. I Savoia di Gianni Oliva.

Cominciamo col dire che Gianni Oliva è uno storico italiano di origini torinesi, molto legato alla sua città e questo legame lo ha reso in qualche modo uno dei principali interpreti del novecento italiano, soprattutto per questioni riguardanti casa Savoia, questo libro in particolare ripercorre la storia di questa famiglia che, nel bene e nel male, ha giocato un ruolo centrale nella più recente storia italiana.
Nel libro Oliva racconta i Savoia sin dalle loro origini, ovvero quando non erano ancora una delle grandi famiglie della nobiltà europee, tuttavia, già dalla presentazione scopriamo che la storia dei Savoia è una storia molto antica, iniziata nella Borgogna del X secolo, quando la famiglia amministrava un i territori della Contea di Savoia nel regno di Borgogna. Circa cinque secoli più tardi, nel XV secolo quegli stessi territori furono elevati allo status di Ducato e continuarono ad essere amministrati dalla famiglia Savoia che di conseguenza fu elevata al titolo di Duca. Nei secoli successivi i membri di casa Savoia riescono a sopravvivere alle grandi turbolenze che in europa hanno portato alla capitolazione di molte teste coronate, in particolare la rivoluzione francese e campagne napoleoniche. In fine, nel XVIII secolo, sfruttando a proprio vantaggio alcune correnti e interessi politici di altre nazioni, riuscirono ad elevare il proprio ducato alla dignità di regno dando inizio a quello che sarebbe poi diventato il regno d’Italia e questo avrebbe permesso alla famiglia Savoia, di giocare finalmente un ruolo centrale sul grande scacchiere europeo, diventando a tutti gli effetti una casa reale degna di tale nome.

L’unificazione italiana è vista da alcuni storici come l’apice del potere di casa Savoia, secondo altri invece essa rappresenta solo l’inizio di una fase espansionistica. Questa seconda scuola di pensiero osserva che, non passò molto tempo dalla compiuta unificazione prima che l’italia si trasformasse in una “potenza coloniale” in grado di garantire ai propri regnanti il titolo e la dignità di Imperatore.
In questi termini qualcuno potrebbe obiettare, dicendo che l’Impero d’Italia è probabilmente uno dei più piccoli, brevi e peggio organizzati imperi della storia occidentale e non farebbe una piega, queste critiche sono assolutamente legittime e innegabili, l’Impero d’Italia ebbe un estensione minima, per non dire ridicola se confrontata ad altri imperi contemporanei, durò effettivamente pochi decenni, per non dire anni, ma nonostante tutto, fu comunque un impero.  Non sono infatti le dimensioni a fare un impero, ma la varietà dei popoli che lo abitano. C’è un video sul mio canale youtube dove spiego che cos’è un impero, qui mi limiterà a dare la definizione da “dizionario”.

Un impero è convenzionalmente un’entità statale costituita da un esteso insieme di territori e popoli, a volte anche molto diversi e lontani, sottoposti ad un’unica autorità, generalmente impersonificata dalla figura dell’imperatore (ma non necessariamente).

Se da una parte nel XIX secolo il regno d’italia vide la sua massima estensione territoriale, fino a diventare un impero, dall’altra, in quello stesso secolo, vide anche il suo declino, un declino che è legato soprattutto ad una serie di scelte politiche sbagliate e azioni sconsiderate che portarono il regno di Italia nella prima e soprattutto nella seconda guerra mondiale, una guerra dalla quale il regno sarebbe uscito sconfitto e distrutto, ma dalle cui ceneri non va dimenticato, sarebbe nata la Repubblica italiana.

E proprio la fine della seconda guerra mondiale e la nascita della repubblica Italiana rappresentano la chiave di lettura di questo mio personalissimo intervento.

Quando nel 1946 gli italiani furono chiamati a votare in un referendum per scegliere tra monarchia e repubblica, una vasta schiera di elettori (circa il 46%) confermò la propria fiducia alla monarchia e a casa Savoia votando in favore della Monarchia, tuttavia questo non fu sufficiente in quanto più del 53% degli italiani sfiduciò la monarchia scegliendo la Repubblica.

 

Come sappiamo la vittoria repubblicana non fu un trionfo, fu più una vittoria di fortuna e la differenza di appena 2 milioni voti tra Repubblica e Monarchia fu estremamente lieve,  e fu proprio la massiccia presenza dei Monarchici italiani, soprattutto nell’Italia meridionale, che spinse la nascente Repubblica Italiana a bandire ed esiliare i Savoia dal territorio italiano.
I padri costituenti sapevano che la presenza in italia dei Savoia avrebbe avuto un peso politico enorme, un peso che non poteva essere ignorato e che avrebbe permesso loro di influenzare le decisioni politiche, estremamente delicate, che avrebbero accompagnato i primi anni del dopoguerra. Per queste ed innumerevoli altre ragioni, si decise allora di allontanare i Savoia.

Allontanare i Savoia all’epoca sembrò una scelta necessaria per poter affrontare l’impegnativa sfida di creare e costituire uno stato repubblicano e allo stesso tempo per poter prendere le distanze dai numerosi crimini commessi dall’Italia Fascista e nel nome del Re, nel corso del ventennio appena trascorso.
Senza girarci troppo intorno, a distanza di oltre settant’anni possiamo dire che i Savoia e la dittatura furono usati come capro espiatorio per provare a ripulire le coscienze, coscienze che si erano compromesse con una politica dalla quale bisognava prendere le distanze, almeno  finché i loro cuori non sarebbero stati abbastanza maturi per poter affrontare il proprio passato e riconoscere le proprie responsabilità. Nel passato dell’italia e degli italiani c’è stato un ventennio particolarmente oscuro e doloroso, un ventennio con nel bene e nel male (soprattutto nel male) ha rappresentato un capitolo importantissimo della storia italiana.

Oggi Vittorio Emanuele III è noto come il re che ha appoggiato il fascismo, il sovrano d’italia che permise a Mussolini di conquistare il potere, il re che ha affidato il paese nelle mani di un dittatore particolarmente violento, ed è vero, è assolutamente vero e nessuno può negarlo, nessuno può negare il fatto che Vittorio Emanuele III si piegò alle pressioni di Mussolini e che lo nominò primo ministro, nessuno può negare il fatto che Vittorio Emanuele III avesse il potere di sollevare Mussolini dalla guida del paese e che, se bene avesse questo potere, non lo fece ma “restò impassibile a guardare il proprio paese che sprofondava”, ma è anche vero che Vittorio Emanuele III non è diventato re nel 1926, anzi, il suo regno è stato molto probabilmente uno dei più lunghi (nella breve storia del Regno d’Italia), fu incoronato re nell’estate del 1900 e regnò senza governare per più di 45 anni, ovvero fino al 1946 anno in cui abdicò in favore di suo figlio Umberto II, che a differenza del padre ebbe il regno più breve della storia italiana (circa un mese).

Durante il regno di Vittorio Emanuele si sono susseguiti numerosi governi che hanno letteralmente guidato il paese attraverso un passaggio epocale.
Il suo regno è iniziato negli anni conclusivi di una durissima crisi agraria ed economica per la quale il mondo, non solo l’Italia, non era preparato. In quasi mezzo secolo di regno, Vittorio Emanuele III ha assistito alla prima crisi agraria tipo moderno e dovette affrontare due delle più dure crisi economiche del secolo, ha assistito all’ascesa e il declino dello Stato liberale e successivamente all’ascesa e al declino del Fascismo crollato sotto i colpi della Resistenza antifascista. Ha visto la trasformazione dell’Italia, una nazione politicamente molto giovane, in una nazione di primo piano a livello internazionale, i cui modelli politici, per quanto estremi e pericolosi, furono esportati in gran parte dell’europa e visti con ammirazione quasi ovunque nel mondo “occidentale” almeno fino agli anni trenta e dovette affrontare non una, ma ben due guerre mondiali, inoltre vide l’introduzione del suffragio universale prima maschile e poi femminile.

Vittorio Emanuele III non era un santo e non era certamente un demone, un moderno Dante Alighieri probabilmente collocherebbe Vittorio Emanuele III nell’antiinferno insieme agli Ignavi e di fatto possiamo considerare Vittorio Emanuele III un re Ignavo, che non si è prodigato per il bene o per il male e che non ha mai osato, un re che ha limitato la propria autorità adeguandosi alla volontà dei più forti, prima i Liberali, poi i Fascisti e in fine agli Alleati.

I Savoia avrebbero pagato questa inadeguatezza dovendo accettare un profondo sacrificio, dovendo rinunciare alla monarchia, ma allo stesso tempo, proprio questo sacrificio avrebbe dato ad un paese letteralmente distrutto, la forza di ricominciare. L’Italia ha potuto affrontare il secondo dopoguerra con lo spirito di una nazione nuova, una nazione che si era lasciata alle spalle un enorme fardello, una nazione che era disposta a dimenticare e perdonare le responsabilità e le colpe di molti, alcuni dei quali forse con più responsabilità dello stesso re. Per molti ex fascisti l’italia del dopoguerra decise di chiudere un occhio e di perdonare per poter ricominciare, per poter dare inizio ad un nuovo capitolo della propria storia sotto l’emblema della repubblica.

Non sono un Fan di casa Savoia ne della monarchia, personalmente credo profondamente nella democrazia e nelle istituzioni repubblicane ma sono profondamente convinto che se oltre settant’anni fa l’Italia poté affrontare il cammino della ricostruzione e della rinascita, fu anche perché il re Vittorio Emanuele III si fece carico delle colpe e responsabilità di un intera nazione. Di certo questo non basta per cancellare quello che è stato e di certo non ridarà la vita ai milioni di uomini, donne e bambini, che persero la vita durante le guerre in Libia ed Etiopia, ne alle vittime del fascismo e della seconda guerra mondiale, ma, per quanto mi riguarda, credo sia sufficiente a garantire all’ex re d’italia, un posto d’onore nella nostra storia perché, per quanto Vittorio Emanuele III non sia stato un re molto presente nella vita politica del paese, ci ha lasciato un grande insegnamento. Non si può restare a guardare mentre un paese cade lentamente nelle mani di un movimento politico estremista, xenofobo e violento. Vittorio Emanuele III ha pagato con l’esilio e la vita di milioni di Italiani questa indifferenza.

L’occhio di Horus nella matematica Egizia

Secondo una legenda Egizia, il dio Seth aveva strappato l’occhio sinistro del dio Horus e lo aveva ridotto in pezzi, ma il dio Thoth riuscì a ricomporlo grazie alla sua magia e proprio la sua magia gli permise di rubare un frammento dell’occhio senza che però la sua assenza minasse l’integrità dell’occhio.

Questa leggenda, o se preferite questo mito, è considerato da molti come il “punto d’origine dell’aritmetica egizia” e del calcolo infinitesimale, infatti, le parti dell’occhio di Horus (successivamente identificato come occhio di Ra) erano utilizzate per per descrivere le frazioni e insieme rappresentavano l’unità, tuttavia si trattava di un unità approssimativa, data l’assenza di un frammento sparito grazie alla magia del dio  Thoth.

Nel suo insieme l’occhi rappresenta la somma dei primi 6 valori della serie numerica 1/2^n, la cui somma, nella matematica moderna equivale al numero decimale 0.984375, esprimibile anche come 63/64, ma nella matematica egizia, la somma di questi elementi dava come risultato 1, o meglio, dava come risultato 63/64 tuttavia, grazie alla magia di Thoth questa “unità” parziale poteva assumere i tratti di un’intero, diventando 64/64, insomma, la magia del dio Thoth aggiungeva il 1/64 mancante.

Oggi sappiamo che rimuovendo il vincolo dei primi cinque elementi e procedendo sommando tutte le infinite frazioni ottenute dimezzando il numero intero, ci avvicineremmo sempre di più all’unità 1 senza però mai raggiungerla effettivamente, di fatto ci ritroveremo di fronte ad una funzione espressa come la sommatoria 1/n^2 (∑ 1/2^n) dove n va da 1 ad e il cui risultato, dato appunto dalla somma di tutti gli elementi che compongono la serie numerica (quindi (1/2)+(1/4)+(1/8)+(1/16)+(1/32)+(1/64)+…) sarà un numero che converge (in matematica, la convergenza è la proprietà di una certa funzione o successione di possedere un limite finito di qualche tipo, o, il cui risultato al tendere della variabile o dell’indice eventualmente verso certi valori in un determinato punto o all’infinito) verso l’1.

mi scuso per la pessima spiegazione matematica, spero comunque di aver reso l’idea.

Il fatto che per gli egizi (1/2)+(1/4)+(1/8)+(1/16)+(1/32)+(1/64) non desse effettivamente 1 ma ci si avvicinava tantissimo e che la differenza tra 1 e 0.984375 (ovvero 0.015625) fosse un numero talmente piccolo da poter essere trascurato, ma non per questo ignorato, ci da un informazione ben precisa sul livello di accuratezza decimale posseduta dagli egizi, un accuratezza che si spingeva almeno fino ai 63/64 e quell’1/64 che restava fuori, rappresentato da un decimale con sei cifre dopo la virgola, che era considerato “trascurabile”, ed era trascurabile perché, per quelli che erano gli strumenti di osservazione dell’epoca, rappresentava un valore estremamente piccolo, la cui presenza o assenza non avrebbe avuto effetti visibili, tuttavia, in presenza di strumenti di osservazioni più accurati o per necessità particolari, era possibile avanzare con il frazionamento, raggiungendo così un livello di accuratezza sempre maggiore.

Detto più semplicemente, la magia di Thoth era soddisfacente per chi si accontentava dell’approssimazione, ma non chiudeva le porte a chi voleva scavare più affondo ed avere un’accuratezza maggiore.

Fingendo di usare un linguaggio matematico, potremmo dire che le parti osservate dell’occhio di Horus facciano parte di un certo insieme, ma per trovare la parte mancante bisogna estendere la ricerca ad un insieme “più ampio” e invisibile all’occhio umano, definito dalla magia di Thoth. Applicando un ragionamento di questo tipo alla matematica moderna il rischio di ricorrere in pericolosi paradossi non è trascurabile, tuttavia, mantenendo un minor livello di accuratezza e riempiendo i vuoti con la “magia di Thoth”, la logica matematica degli egizi riuscì ad eludere quei paradossi.

Questa osservazione fa supporre che gli egizi fossero in grado di eseguire calcoli molto più accurati, con un errore inferiore al sessantaquattresimo e se bene il valore minimo presente nell’occhio di Horus fosse rappresentato proprio da 1/64, questo non significava automaticamente che 1/64 fosse il valore minimo conosciuto dagli egizi, anzi, applicando lo stesso procedimento logico che ha portato al valore di 1/64 era potenzialmente possibile procedere all’infinito. Ma andiamo con ordine.

L’occhio di Horus è un elemento molto ricorrente nei reperti archeologici egizi, questo elemento ha un enorme valore, non soltanto sul piano matematico, ma anche e soprattutto sul piano religioso, ed è proprio nel mito dell’occhio di Horus che si può individuare un elemento matematico aggiuntivo.

Come sappiamo, secondo la mitologia egizia il dio Seth distrusse l’occhio sinistro di Horus che poi fu ricomposto dalla magia di Thoth. Il fatto che il mito specifichi che si tratti dell’occhio sinistro e che non ci venga fornita alcuna informazione sull’occhio destro di Horus  unito al fatto che in nessun mito ci viene detto che il dio Horus era un dio guercio, significa che da qualche parte doveva esserci anche un occhio destro di Horus e in effetti, reperti raffiguranti anche l’occhio destro di Horus non mancano, e tra i tanti, un reperto in particolare ha catturato l’attenzione degli studiosi della matematica degli egizi, si tratta della stele di Nebipusesostri, risalenti al regno di Amenemhet III, nella cui colonna centrale sono raffigurati i due occhi di Horus e non solo quelli.


L’elemento realmente interessante dal punto di vista matematico, non sono i due occhi, ma l’unione dei due occhi e in particolare l’elemento che si frappone tra i due occhi, si tratta di tre simboli paralleli, spesso indicati come “lacrime di Horus” situati al di sotto degli occhi e collocati esattamente tra i due simboli speculari che indicano il valore di 1/64.

Se procediamo assegniamo al simbolo centrale dei tre il valore 1/64 e ai due simboli esterni il valore 1/128 e poi sommiamo questi numeri otterremo 2/64, ovvero 1/64 per ognuno dei due occhi di Horus,  esattamente il valore mancante all’uno e all’altro occhio per raggiungere l’unità matematica e di conseguenza quei simboli potrebbero essere letti come una raffigurazione l’insieme esterno indicato dalla “magia di Thoth”.

Questa interpretazione matematica per quanto interessante e affascinante soffre di un profondo difetto logico che consiste nell’aver assegnato a tre simboli identici dei valori differenti, questa operazione matematica appare come troppo artificiale e forzata. Più probabilmente i tre simboli identificati come le tre lacrime di Horus avessero un valore un valore univoco ed il loro frazionamento produceva tre elementi di eguale valore. Procedendo con questa osservazione si può dedurre che le lacrime di Horus nel loro insieme avevano un valore di 3/128 e separate, ognuna delle tre lacrime assumeva un valore di 1/128. Ragionando in questi termini tuttavia emerge un ulteriore problema, o meglio, ritorna il problema dell’occhio di Horus, poiché non è possibile raggiungere l’unità, in quanto assegnando il simbolo dal valore 1/128 posto a destra all’occhio destro e quello posto a sinistra all’occhio sinistro, ci ritroveremmo nella situazione precedente, ovvero con un valore del singolo occhio pari a 127/128 e di conseguenza, ad ognuno degli occhi mancherebbe 1/128, e se è vero che nel geroglifico è presente ancora un simbolo dal valore di 1/128, è anche vero che per completare i due occhi servono 2/128, di conseguenza è possibile completare l’unità per un singolo occhio, presumibilmente quello destro, mentre l’altro occhio sinistro continuerà ad essere mantenuto insieme dalla sola magia di Thoth.

Vi è però un’apparente via d’uscita matematica, si può procedere con la divisione dell’ultima lacrima in due parti, entrambe dal valore di 1/256 che andranno ad unirsi, una all’occhio destro ed una all’occhio sinistro. In questo modo il problema non verrebbe realmente risolto, in quanto la somma di tutti gli elementi di un singolo occhio avrebbe come risultato 255/256 e quindi ad entrambi gli occhi mancherebbe ancora una volta un frammento, se bene estremamente più piccolo. Questa situazione, o meglio, la presenza della terza lacrima, ci suggerisce che è possibile dimezzare all’infinito un intero, ma allo stesso tempo ci dice anche che questa operazione è trascurabile poiché è “inutile” dimezzare per più di 7 volte un intero, e  1/128 è proprio la settima frazione dell’intero, questa frazione può essere espressa anche come 1/2^7.

Non c’entra molto, ma è interessante osservare che 7 è il numero massimo di volte in cui è possibile piegare a metà, dimezzando ogni volta la sua superficie, un foglio di carta. Indipendentemente dalle sue dimensioni infatti, non sarà possibile piegarle un foglio per più di 7 volte.
Se non ci credete provate pure, ma ricordatevi di dimezzare sempre la superficie del foglio, altrimenti non vale.

Tornando alle lacrime di Horus, come abbiamo visto, la loro presenza ci suggerisce ancora una volta che gli egizi avevano una conoscenza della matematica infinitesimale molto più avanzata di quanto si potrebbe immaginare. Come sappiamo, questo concetto che si sarebbe successivamente evoluto e diffuso fino ad arrivare ai giorni nostri e credo sia opportuno citare quello che molto probabilmente è il più celebre esempio di questo tipo di matematica nel mondo “occidentale.

Per quanto riguarda l’Egitto non sappiamo esattamente fino a che punto si spinse la loro matematica, l’occhio di Horus ci dice che conoscevano valori numerici estremamente piccoli e questo significa che erano in grado di eseguire calcoli estremamente complessi ed accurati. Purtroppo però, la loro conoscenze della matematica infinitesimale ha contribuito a gettare le basi della “matematica avanzata” del mondo occidentale (in particolare del mondo greco e romano) le cui origini, almeno per quanto riguarda il “calcolo infinitesimale” affondano soltanto nella Grecia del V secolo a.c. dove il filosofo Zenone di Elea, per difendere le tesi del proprio maestro Parmenide, il quale sosteneva che il movimento fosse un’illusione, elaborò il famoso paradosso di Achille e la tartaruga, noto anche come paradosso di Zenone, in cui Achille, inseguendo la tartaruga non riuscirà mai a raggiungerla.

La spiegazione matematica del paradosso di Zenone sta proprio nel fatto che gli infiniti intervalli percorsi ogni volta da Achille per raggiungere la tartaruga diventano sempre più piccoli ed il limite della loro somma converge per le proprietà delle serie geometriche. In questo caso Zenone osserva che una somma di infiniti elementi, o meglio, il limite di una somma di infiniti elementi non è necessariamente infinito e un esempio concreto di questa teoria è dato dalla somma delle frazioni ottenute dimezzando ogni volta un intero (analogamente a quanto accadrebbe prolungando la successione dell’occhio di Horus), quindi ∑1/n^2.

Se bene Achille in realtà fosse assolutamente in grado di raggiungere la tartaruga, dal punto di vista matematico non sarebbe mai riuscito a raggiungerla e quando una funzione matematica si trova in una situazione di questo tipo, si dice che tende ad un dato valore, in questo caso 1, ovvero si avvicina sempre di più ad 1 senza mai raggiungerlo. Possedere questo livello di conoscenza matematica implica la conoscenza del concetto di infinitesimo, ovvero di un valore numerico che tende allo zero senza però mai raggiungerlo.

 

 

 

Si chiama WHISKY O WHISKEY ?

Il whisky come molti altri distillati e liquori, se bene venga prodotto in modo molto simile in luoghi diversi del pianeta, vede cambiare il proprio nome a seconda del luogo in cui è prodotto.

Il termine whisky  (al plurale whiskies) può essere utilizzato per identificare quei distillati ottenuti dalla fermentazione e successiva dalla distillazione di vari cereali e lasciato maturare in botti di legno. Tuttavia perché il prodotto finale sia Whisky e non Whiskey (al plurale whiskeys) è opportuno che il cereale di base sia Orzo e che la maturazione avvenga in botti preferibilmente di rovere.
Unica eccezione alla regola è costituita dal’Irish Whisky, il whisky prodotto in Irlanda, che, se bene sia prodotto a partire dall’Orzo, è chiamato Whiskey e non Whisky.

Secondo la tradizione questa variazione al nome sembra sia stata introdotta intorno al 1100 ed è attribuita ai soldati di Enrico II di Inghilterra, quando scoprirono questo prodotto durante la conquista dell’Irlanda. Col tempo, il nuovo nome è stato mantenuto per definire l’identità Irlandese del distillato e distinguerlo dal cugino Scozzese e successivamente adottato per identificare tutti i “cugini” del Whisky prodotti a partire da cereali diversi dall’Orzo.

Il termine Whisky è infatti utilizzato per indicare soltanto quei distillati prodotti in Scozia e Canada. Il Whisky scozzese è noto anche come Scotch o Scotch Whisky, mentre il Whisky canadese è generalmente chiamato Canadian Whisky.
Cambiando la percentuale e il tipo di cereali utilizzati per la produzione, come abbiamo già detto, il nome (e il sapore) del distillato cambia drasticamente, e di conseguenza i Whiskey assumono un nome proprio a seconda del cereale utilizzato.
Il Whiskey prodotto in Alaska, la cui base è costituita dal Segale e non dall’Orzo ed è chiamato Rye (che significa appunto Segale), mente il Whiskey prodotto negli USA, la cui base di cereali è costituita dal Granturco, prende il nome di Bourbon.

Nella foto una cartolina promozionale natalizia dello Scotch Whisky Johnnie Walker, del 1940.

NOBUO FUJITA || Il pilota giapponese che bombardò la California

Oggi vi racconterò una storia, la storia di Nobuto Fujita, un pilota giapponese che nel 1942 riuscì a portare a termine due bombardamenti due incursioni aeree sul suolo degli Stati Uniti, riuscendo a colpire la California e l’Oregon, ma andiamo con ordine.

Nel settembre del 1942, nel vivo della Seconda Guerra Mondiale, il Giappone lanciò un audace attacco sul suolo degli Stati Uniti (meno famoso dell’attacco a Pearl Harbor) in cui riuscirono a bombardare la parte continentale degli USA. Fu l’unico attacco in tutta la guerra in cui gli la parte continentale degli USA fu colpita colpiti dalle forze nemiche.

Le incursioni (due) sono state lanciate da un sottomarino che si trovava a pochi chilometri dal confine tra gli stati di Oregon e California ed ebbero come obbiettivo principale non le città ma i boschi… si avete letto bene, i giapponesi bombardarono i boschi tra California ed Oregon, causando danni alla terra e provocando disagio alla popolazione americana senza però coinvolgere direttamente la popolazione civile, l’attacco era un messaggio, quasi a voler dire “siamo qui e possiamo colpirvi quando vogliamo … paura eh?”.

L’attacco riuscì, almeno sulla carta, ma in termini pratici fu probabilmente il più grande flop mai registrato dall’aviazione giapponese, anche se il panico si diffuse (anche se solo minimamente) e le incursioni furono riportate su alcune testate nazionali, tuttavia, sfortuna volle che i giapponesi non prestarono molta attenzione alle previsioni meteo lanciando l’attacco con condizioni meteorologiche decisamente sfavorevoli ai loro piani.

Detto in soldoni, quel giorno c’era poco vento e questo limitò tantissimo la diffusione degli incendi, inoltre la rapida risposta dal servizio antincendio e gli erronei calcoli sull’altezza da cui sganciare le bombe, ridussero al minimo i danni (un piromane con un accendino e una tanica di benzina probabilmente avrebbe fatto più danni delle due incursioni aeree).

E in effetti, in altre occasioni riuscirono a provocare molti più danni utilizzando la strategia del “palloncino a fuoco”, in pratica si lanciavano migliaia di palloncini che trasportano esplosivi e sfruttando i venti, molti di questi palloncini riuscirono effettivamente a raggiungere l’America del Nord, partendo addirittura dal Giappone.

Nel 1962, molti anni dopo la seconda guerra mondiale, Nobuo Fujita (il pilota giapponese che aveva condotto le due incursioni) fu invitato a visitare la città di Brookings “colpita dai bombardamenti”.
Nobuo Fujita si recò effettivamente a Brookings dopo che il governo USA aveva assicurato al governo giapponese che non sarebbe stato giudicato come un criminale di guerra.

Quando Fujita è arrivato a Brookings ha portato con se l’antica spada da samurai della sua famiglia (circa 400 anni) promettendo seppuku (gettarsi sulla sua spada) come segno di pentimento per gli attacchi che aveva compiuto per la gloria dell’Impero giapponese.

Fortunatamente per Fujita la città di Brookings non ha richiesto Seppuku ma anzi, Fujita ha ricevuto un accoglienza estremamente calorosa da parte dei locali di Brookings. Addirittura nel 1997 ha ricevuto la cittadinanza onoraria della città di Brookins, sfortunatamente per lui, non ha potuto godere a lungo di questo onore perché morì nel 1998 e le sue ceneri furono disperse dalla sua famiglia, tra i boschi vicino Brookins, proprio dove erano cadute le bombe incendiarie sganciate da Fujita nel 1942.

Ragazzi, spiegate l’Islam ai vostri genitori… ma fatelo per bene || Risposta a Roberto Saviano

Oggi mi tocca rispondere ad un video di Roberto Saviano, che saluto, in cui parla dell’islam in un modo davvero molto interessante, è davvero un bel video, se non fosse che la premessa storica su cui è stato costruito l’intero discorso è leggermente inesatta (dico leggere, ma che in realtà lo è molto di più).

Faccio una premessa, come saprete sono molto elastico per quanto riguarda gli “errori”, se si sbaglia una data, un nome o si ha un lapsus, non li considero errori, ma in questo caso abbiamo un ragionamento che parte da un concetto sbagliato, nel video, il buon Saviano dice che i giovani di Brooklin, all’epoca una delle più importanti città legate alla scena Hip Hop, parlano lingua dell’Islam e parlano questa lingua perché è la lingua dei loro antenati, portati in america come schiavi.

Ecco, questo non è proprio esattissimo, diciamo anche che la prima parte è giusta, ma la seconda parte presenta un errore anche abbastanza grave e fuorviante.

La religione degli schiavi africani, deportati tra nelle Americhe tra XVI e si XVIII secolo non è l’islam, non è mai stato l’islam, quei popoli avevano qualche contatto con il mondo islamico, ma la loro cultura anzi, le loro culture, non erano culture islamiche, si trattava invece di culture “animiste” e “spiritualiste”, i popoli che vivevano nell’Africa subsaharianasono nei secoli della tratta atlantica avevano culture molto antiche e in un certo senso molto primitive, dalla cui fusione con le pratiche cristiane (e l’indottrinamento forzato al cristianesimo) sarebbero nate nuove culture religiose.

Avete mai sentito parlare di voodoo ?

Diciamo che il Voodoo africano è una delle “religioni” più antiche del mondo, diffusa in Africa molto prima della colonizzazione e che mischiandosi al cristianesimo avrebbe dato vita al voodoo moderno praticato in america, e per chi fosse appassionato di musica, vi regalo una chicca, alcune tracce di queste culture “originarie” sono presenti nella simbologia e nella ritualità legata ad un altro genere musicale, ovvero la cultura blues, ma questo è un altro discorso, che ho affrontato in un articolo pubblicato qualche giorno fa tra sul giornale on-line La COOLtura.

Tornando all’islam, questa cultura religiosa si diffuse nell’africa subsahariana nel contesto generale della decolonizzazione (stiamo parlando della seconda metà del XX secolo, non certo del XVI o XVIII secolo). Nello stesso periodo avviene anche la sua diffusione tra gli afroamericani e non è un caso.
Le motivazioni di questa diffusione, in questi due mondi legati tra loro dalla tratta atlantica, avviene a partire soprattutto dal secondo dopoguerra e si avrà soprattutto grazie al carisma di alcuni predicatori e l’attivismo di alcune organizzazioni, non scendo troppo nei dettagli, un esempio lampante in questo senso potrebbe essere rappresentato dalle Black Panther e da Malcom X, ma di esempi de ne potrebbero fare molti altri.
Questo avvicinamento del black peolple, il popolo di colore, è dettato dal bisogno di un intero popolo, di prendere le distanze da quella cultura che li aveva prima ridotti in schiavitù e poi costretti a vivere segregati, il desiderio di identificarsi in una cultura che non avesse prodotto organizzazioni come il ku klux klan, e da questo desiderio vi sarebbe stato un netto allontanamento, sia dalla cultura degli oppressori, quindi la cultura cristiana, sia dalla cultura originaria, che era stata l’artefice di prima mano della riduzione in schiavitù di milioni di persone. In questo senso è importante sottolineare che non furono quasi mai gli europei a “catturare” gli uomini e le donne che sarebbero poi diventati schiavi, ma a ridurre quegli uomini e donne in schiavitù furono principalmente altre popolazioni africane, che si impegnarono in questo commercio molto redditizio che era fortemente alimentato dalla crescente domanda dei commercianti europea (ma questo è un altro discorso).

Il black peopole nel secondo dopoguerra quindi, prende le distanze dal cristianesimo e dalle pratiche religiose originarie e si ritrova a dover compiere una scelta sul piano culturale, per questi “esuli culturali” vi erano, in quel dato momento storico, soltanto due strade possibili strade percorribili, da un lato potevano scegliere se avvicinarsi ad una religione laica, promossa dai vari circoli comunisti e socialisti, che nel contesto generale della guerra fredda, avrebbe significato l’allineamento con il mondo sovietico e negli USA significava oltre alla segregazione anche l’accusa di essere dei cospiratori … essere nero e comunista… e magari anche donna, negli USA durante gli anni cinquanta e sessanta era una condanna a morte quasi certa sul piano dei diritti civili. Dall’altro lato potevano scegliere una religione non laica, che tuttavia fosse esterna a quel mondo, esterna alle dinamiche della guerra fredda e che si proponeva come una cultura religiosa storicamente in conflitto con il cristianesimo e la civiltà cristiana.

Gli afroamericani come gli islamici erano stati combattuti e oppressi dai cristiani, questo aveva portato alla schiavitù e poi alla segregazione degli afroamericani da una parte e alle crociate prima e il colonialismo poi per gli islamici. Questo parallelismo culturale, questo reciproco senso di oppressione, l’essere stati schiacciati dalla civiltà cristiana, avrebbe spinto molti a scegliere la via dell’islam, che con la religione degli antenati, c’entrava meno di nulla.

La comunicazione storica attraverso la canzone (italiana e non) – Storia Leggera

Fino a che punto la canzone è uno strumento di puro intrattenimento e fin dove invece si spinge il suo valore di fonte storica ?
Possiamo utilizzare la canzone come fonte per interpretare un epoca e la società ?
Detto più semplicemente, possiamo usare la canzone per comunicare storia ?
Il fatto che, in tempi molto recenti, un musicista come Bob Dylan abbia vinto il premio Nobel per la letteratura per le sue canzoni, per il modo con cui attraverso i suoi versi, che nulla hanno da invidiare a quelli dei grandi poeti, sia riuscito a raccontare il mondo e la società in cui viveva, descrivendo anni difficili da raccontare, sembra essere la massima conferma che ci permette di rispondere con un netto “SI” alle domande poste qui in alto.

Si, la canzone può avere valore di fonte storica.
Si, possiamo usare la canzone per comunicare storia.

Ma facciamo un po di ordine e cerchiamo di inquadrare meglio la canzone nel panorama storico, e culturale, e per farlo non serve fare necessariamente ricorso ai sublimi versi di autori del calibro di Franco Battiato, che ricordiamo, aver collaborato per la scrittura di alcune canzoni con il filosofo, e poeta, oltre che cantautore, Manilo Sgalambro, e come Sgalambro sono infatti moltissimi i poeti, scrittori, e filosofi che, per quanto riguarda la musica italiana, hanno influenzato e partecipato attivamente alla produzione musicale, sia impegnata che leggera, qui citerò brevemente Franco Fortini, Italo Calvino, e Roberto Roversi, la cui collaborazione più nota è forse quella con Lucio Dalla, avvenuta tra il 1973 ed il 1976 per la produzione di tre album del cantautore bolognese.
Sono poi da citare quegli autori e cantautori i cui versi, in più occasioni sono stati associati alla poesia di Whitman, Carroll e Pasolini, qui citeremo brevemente Francesco Guccini, Francesco de Gregori e Fabrizio de Andrè, ma l’elenco è molto più lungo.

La canzone di questi artisti è stata spesso inserita, al pari di quella di Dylan, in numerose antologie letterarie, valutata al pari della poesia tradizionale, e in alcune circostanze affiancata questi brani hanno accompagnato dei veri e propri ritratti generazionali, e analisi storiche e sociali. Non mancano poi casi in cui la canzone è stata citata per la produzione di opere biografiche, in questo caso cito la mia serie di video su Ernesto Guevara, il cui ritratto è stato dipinto quasi esclusivamente attraverso quattro canzoni, di interpreti che sono riusciti a dipingere l’uomo, l’icona ed il personaggio storico, ma per questo vi rimando alla playlist con tutti i video.

 

Tornando al discorso principale sulla comunicazione storica, la canzone è forse la sorella sfortunata di altri strumenti che meglio sono riusciti in questo compito. La televisione, sceneggiati, fiction e serie televisive o il cinema, vantando una qualche eredità lasciata dalla letteratura hanno avuto forse più fortuna, mentre la canzone è rimata quasi ai margine, messa spesso da parte, se non per rare e isolate eccezioni. E proprio il Nobel vinto da Dylan ha dato risalto alla musica riproponendola, come oggetto di comunicazione storica al pari di altri.
Questo nuovo punto di vista ha permesso di rivalutare anche la canzone popolare, sia quella tradizionale che la nuova musica popolare o se preferite un inglesismo, la musica Pop, insomma, quella che generalmente è considerata musica “leggera”.
Non mi dilungherò troppo in questo articolo sul valore storico della musica di tradizione popolare, in particolare quella composta negli anni della seconda guerra mondiale, ma citerò brevemente la “tammurriata nera” che forse meglio di numerosi saggi e romanzi storici riesce a descrivere Napoli negli anni della guerra civile italiana e il rapporto della popolazione locale con le forze di liberazione alleate.
Spostandoci invece in tempi più recenti, e su brani più leggeri, nel 2000, al festival di Sanremo, il festival della canzone italiana, Lorenzo Jovanotti che molto probabilmente è l’artista più iconico della musica leggera, e da molti considerato come l’incarnazione stessa della leggerezza musicale, in quel festival presentò un brano in cui chiamando in causa l’allora presidente del consiglio, Massimo d’Alema, rivolgeva un appello per l’abolizione del debito pubblico dei paesi sottosviluppati del terzo mondo. E di esempi analoghi se ne possono fare ancora a migliaia, basti citare una canzone a caso dei Nomadi, per avere uno spaccato su un preciso luogo e momento storico, ad esempio il brano Il Serpente piumato che descrive l’ascesa e il declino di Pablo Escobar, riuscendo in questo, forse anche meglio di quanto non sia stato fatto con Narcos, la serie firmata Netflix nelle cui prime stagioni si è concentrata proprio sula figura di Escobar. O ancora, il brano Uno come noi, per raccontare i fatti di piazza Tienanmen ecc.
Vi sono poi brani estemporanei, che raccontano storie e momenti di altre vite e altri tempi, cito brevemente Waterloo di Roberto Vecchioni, in cui si racconta non tanto la battaglia di Waterloo, ma la disillusione e il disincanto dei soldati partiti volontari al seguito di quel “piccolo nano francese … che crede d’essere lui la storia”[1], per rivoluzionare e rinnovare l’Europa, o ancora il brano Vincent, interpretato sempre da Roberto Vecchioni, in cui trasponendo il brano “Starry starry Night” di Leonard Cohen racconta la sofferenza di Vincent Van Gogh, e concludo questo rapido elenco di canzoni storiche citando Primavera di Praga di Francesco Guccini, e di esempi, come già detto potrei farne a migliaia.

Magari potrei dedicare ad ognuna di queste canzoni un video o un articolo.

Canzoni come Primavera di Praga, Uno Come Noi, Salvador, Il serpente Piumato, I ragazzi dell’ulivo, ecc, furono scritte all’indomani dei fatti narrati e nel momento in cui furono composte erano certamente canzoni politiche, ma molti anni dopo, quelle stesse canzoni di denuncia, assumono un valore totalmente differente, diventano un documento storico e letterario a tutti gli effetti, qualcosa da preservare al pari di qualsiasi altro documento.

La canzone può quindi essere letta, con occhio storico, su almeno tre diversi livelli e per quanto possa sembrare strano, in uno di questi livelli rientra anche la canzone leggere, quelle che Eduardo Bennato chiamava “solo canzonette”, persino un brano di Fabio Rovazzi può essere letto storicamente in quando descrive le mode, le tendenze, i gusti e gli atteggiamenti di un intera generazione, e questo ha un grandissimo valore documentario, ma facciamo chiarezza.

  • Il primo livello prevede uso consapevole della storia nella canzone, storia e non attualità, l’attualità la incontriamo nel secondo livello, in questo livello rientrano molti dei brani sopracitati, Waterloo, Vincent, Cristoforo Colombo, Odysseus ecc, insomma, brani che narrano di eventi e personaggi storici, non contemporanei, in cui si attinge volontariamente e consapevolmente al passato per comporre versi che a loro volta comunicheranno storia.
  • Al secondo livello, come anticipato, incontriamo l’attualità, l’uso consapevole dell’attualità per ispirare canzoni, che, a molti anni di distanza si ritrovano ad essere dei documenti storici proveniente dal passato, questi documenti sono permeati dei sentimenti che gli autori provavano al momento in cui componevano e ci forniscono uno spaccato unico sulla percezione che i contemporanei avevano del momento storico in cui vivevano.

    Per fare un esempio esplicativo, di questi primi due livelli, canzoni come primavera di Praga o piazza Alimonda di Francesco Guccini, o Uno come noi de I Nomadi, rientrano in questo secondo livello, perché vi è un utilizzo consapevole dell’attualità nella canzone e a molti anni dalla loro pubblicazione, queste canzoni ci spalancano una finestra sul passato, raccontandoci eventi più o meno lontani nel tempo. Diversamente brani come Waterloo, Starry Starry Night o Fiume Sand Creek (perché poi mi accusate di citare solo canzoni di Guccini e Vecchioni ed ignorare le canzoni di Fabrizio de Andrè), attingono direttamente alla storia passata, imponendosi fin da subito come strumenti di comunicazione storica.

  • In fine vi è il terzo livello, quello più complicato da analizzare, perché non contiene direttamente elementi di carattere storico, politico o culturale, come invece avviene nei due livelli precedenti, in questo livello si collocano quelle canzoni che si presentano come uno “specchio della società”, in questo livello rientra in quasi totalità la musica leggera, quella che definiremmo “sanremese” e da social, insomma, per intenderci, le canzoni di Fabio Rovazzi che, nella loro vuotezza di significato, ci raccontano magnificamente e indirettamente il mondo dei più giovani, se invece preferite un esempio meno banale, posso citare in questo terzo caso, i brani di Antonello Venditti, Lucio Dalla, Gianni Bella ecc .

Cristoforo Colombo, il Neil Armstrong del suo tempo || La scoperta dell’america

Quando si parla di Cristoforo Colombo si è soliti immaginarlo e descriverlo come “un uomo moderno” vissuto, in larga parte, nel medioevo, già, perché se si accetta la convenzionale data del 1492 e la scoperta dell’America insieme alla completata reconquista spagnola, come atti conclusivi del medioevo, allora Cristoforo Colombo, da protagonista indiscusso di una delle due imprese, è necessariamente nato e si è formato in un contesto “medievale”, certamente un medioevo molto lontano dai secoli bui e anche u medioevo in un certo senso morente o fiorente (dipende da come lo si guardi) in cui la civiltà europea stava collocando gli ultimi tasselli che avrebbero portato alla nascita effettiva degli stati nazione, elemento politico proprio dell’età moderna.

L’Europa in cui vive Colombo è un Europa in rinnovamento, sia culturalmente che politicamente, è un Europa molto lontana dal periodo delle crociate e delle lotte per le investiture, ma soprattutto è un Europa in cui, la composizione e la formazione degli eserciti sta cambiando profondamente e molto rapidamente e con essi sta cambiando l’amministrazione e la “burocrazia” delle nazioni.
Tuttavia, nonostante la forte presenza di numerose componenti moderne e di modernità nel mondo in cui vive Colombo, vi sono ancora numerosi elementi e credenze prettamente medievali che avrebbero avvolto la civiltà e lo stesso Colombo.

Colombo si ritrova ad essere allo stesso tempo un uomo moderno, come lo era stato Lorenzo de Medici, morto proprio nell’aprile del 1492, ma è anche uomo medievale come era Girolamo Savonarola, e non è un caso se, per questo esempio ho scelto di paragonare Cristoforo Colombo a Lorenzo de Medici e Girolamo Savonarola, due uomini contemporanei dello stesso Colombo, Colombo era nato intorno al 1451, Lorenzo era nato nel 1449 e Savonarola era nato nel 1452. E pure, nonostante i tre siano nati nello stesso periodo e nello stesso modo, anche se in circostanze e città molto diverse, sarebbero stati tre uomini molto diversi tra loro.

Per saperne di più su Girolamo Savonarola leggi anche “Chi era Girolamo Savonarola ?”

Lorenzo de Medici fu a tutti gli effetti un uomo “moderno” e proiettato verso un futuro imminente, per il quale, il suo mondo non era ancora pronto. Diversamente, Girolamo Savonarola era un uomo totalmente “medievale”, ancora immerso in quelle dinamiche ormai superate , vivendo nell’incapacità di accettare l’imminente modernità, un uomo che, in un certo senso, era destinato a restare indietro nell’incapacità di essere al passo con i tempi, ma allo stesso tempo, in alcuni tratti era anche, forse, troppo in avanti per essere raggiunto e compreso dal mondo in cui viveva. E in fine Colombo, lui si colloca perfettamente a metà strada tra Lorenzo de Medici e Girolamo Savonarola.

Come Lorenzo, Colombo nutre una profonda fiducia nel progresso, è consapevole che il mondo in cui vive sta cambiando e non vuole restare indietro, anzi, vuole essere un avanguardia, vuole lanciarsi in un futuro incerto, ignoto e pieno di incognite al quale potrebbe non sopravvivere, ma allo stesso tempo, come Savonarola, è un uomo timorato di Dio, che conosce i passi biblici a memoria ed è profondamente convinto che la sua fede (in parte riposta in dio e in parte nel futuro) lo avrebbe in qualche modo guidato e protetto.

Quando Colombo partì alla volta delle indie, nella sua prima e imprudente traversata atlantica, aveva con se scorte limitate e un equipaggio di fortuna, formato da uomini di dubbia moralità, che non condividevano la sua stessa sete di avventura e di futuro, ma, al contrario, soffrivano una profonda fame d’oro e di ricchezze ed erano pronti ad ammutinarsi non appena le cose si fossero messe male. Questi uomini erano uomini totalmente medievali, come lui e forse anche più di lui, le cui esistenze erano condannate ad una vita statica, intrappolati nell’eterna ruota del destino e l’unico modo che Colombo aveva per riuscire a controllarli (e impedire che lo ammazzassero e gettassero fuoribordo) era una promessa, la promessa di spezzare insieme la ruota del destino, la promessa di fare di quegli uomini, degli uomini liberi e soprattutto ricchi. Di certo queste non sono le carte migliori che un uomo, desideroso di entrare nella storia e cambiare il proprio destino, possa desiderare, ma erano comunque le carte migliori che era riuscito ad ottenere e forse le migliori che avrebbe mai sperato di ottenere, in fondo aveva ricevuto tre caravelle, un equipaggio, e viveri a sufficienza per una lunga traversata in acque sconosciute, indirizzato verso un mondo lontano e difficile da raggiungere passando da oriente, e ancora più irraggiungibile passando da occidente, ma questo viaggio, come sappiamo, lo avrebbe portato ad imbattersi in un nuovo modo, ancora tutto da scoprire.

Quando Colombo e il suo equipaggio giunge nel nuovo mondo, le ultime luci dell’ 11 ottobre 1492 illuminavano le coste che si estendevano oltre i confini dell’occidente e, quando alle prime luci del 10 ottobre Colombo ed una manciata di uomini calarono le scialuppe e si inoltrarono in quelle terre, erano avvolti da un atmosfera surreale ed estremamente suggestiva, la nebbia avvolgeva ogni cosa e quell’isola appena intravista la sera prima appariva completamente diversa, inquietante e terrificante. La nebbia saliva dal mare la mentre il suono dei remi e delle acque che si infrangevano lungo la scogliera accompagnava il loro viaggio. Man mano che si avvicinavano alla costa, nell’aria iniziavano a sentirsi altri suoni, versi di belve sconosciute oltre al fruscio delle foglie di alberi mastodontici e nel cielo si levavano uccelli marini, mai visti prima, creature misteriose e sconosciute, vivaci e colorate, che sembravano essere saltate fuori da chissà quale sogno o incubo.

Ed è proprio in quel momento, mentre navigavano verso l’ignoto che Colombo mostrò il suo volto di uomo medievale, il suo primo pensiero, quando fu di fronte a quell’isola e alla moltitudine di creature sconosciute, avrebbe annotato nei suoi diari, fu l’idea che quello non fosse l’oriente, ma il monte del purgatorio. E questa idea, l’idea di aver messo piede in uno dei tre “danteschi” regni dell’oltretomba lo avrebbe inquietato profondamente.

Quell’isola, per Colombo, non avrebbe dovuto essere lì, Colombo era infatti ben cosciente di essere giunto in una terra ancora inesplorata, poiché, secondo le stime di quella che era l’ipotetica dimensione della terra, nella migliore delle ipotesi si trovavano ancora a metà strada, tra l’Europa e l’estremo oriente, si trovavano in uno dei luoghi più remoti del pianeta e la deduzione logica più immediata, per un uomo del medioevo, non fu l’idea di aver scoperto un nuovo continente, ma quella di aver trovato la collocazione materiale del monte del purgatorio.

Col senno di poi lo stesso Colombo capì dove era giunto e cosa avrebbe comportato quella scoperta e superato quell’attimo di sconvolgente sbigottimento iniziale, capì di essere stato il primo Europeo a mettere ufficialmente piede in una nuova terra, ignaro del fatto che quella terra era un intero nuovo mondo e che la sua scoperta avrebbe spalancato definitivamente le porte dell’età moderna, un epoca in cui l’eurocentrismo e la civiltà cristiana sarebbero progressivamente entrate in crisi, e sarebbero stati mossi i primi passi per un autentica conoscenza globale del mondo.

Analogamente al primo passo di Neil Armstrong sulla luna il 20 luglio 1969, quello di Colombo fu “un piccolo passo per un uomo, ma un grande passo per l’umanità”, se bene l’umanità fosse ancora vincolata al pianeta terra, era stata infranta una grande barriera geografica, quella dell’oceano atlantico, le cui acque, per secoli avevano confinato la civiltà europea (e non solo) al bacino dl mediterraneo.
Grazie a quel piccolo passo compiuto da Colombo, il limite delle colonne d’ercole era stato infranto e quelle acque, per secoli inviolate, si sarebbero state conquistate e di li a qualche secolo, centinaia, migliaia di navi provenienti dal vecchio continente, avrebbero solcato l’atlantico alla volta del nuovo mondo, o meglio, i un mondo nuovo in cui non esistevano limiti geografici.
L’umanità poté ricominciare a guardare le stesse, sognando di raggiungerle e cercando un modo per farlo.

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Kit Haringrton tra i protagonisti di Gunpowder, la serie BBC ambientata durante la congiura delle polveri

A poche ore dalla conclusione della settima stagione di Game Of Thrones la BBC ha annunciato Gunpowder, una Serie TV in costume a sfondo storico.

A vestire i panni del protagonista della miniserie targata BBC sarà Kit Harington, il Jon Snow della serie targata HBO.

Ma perché ne sto parlando su Historicaleye.it ? La risposta è semplice e sta tutta nel soggetto della serie tv, essa infatti è ambientata nel XVII secolo, più precisamente durante la congiura delle polveri, episodio di centrale importanza nella storia britannica.

Vediamo di cosa si tratta.

I cospiratori che presero parte alla congiura avevano studiato un piano per far esplodere la camera dei lord e uccidere così il re e il suo governo, durante la cerimonia di apertura del parlamento inglese, lo “State Opening”, questa cerimonia si sarebbe tenuta il 5 novembre 1605.

Principale ideatore e ispiratore della cospirazione fu Robert Catesby, che nella serie della BBC sarà interpretato proprio da Kit Harringrton, Catesby era fermamente convinto che tutte le strade pacifiche per ottenere una politica di tolleranza per i cattolici erano già state tentate e che, di fronte a una persecuzione che non diminuiva restava solo il ricorso alla violenza. I suoi compagni erano inizialmente Thomas Winter, Jack Wright, Thomas Percy e l’ormai iconico Guy Fawkes. Ai cinque ideatori che ordirono il piano si aggiunsero in seguito Thomas Bates, Robert Keyes, Robert Wintour, Christopher Wright, John Grant, Ambrose Rookwood, Everard Digby e Francis Tresham.

Tuttavia, la mattina del 26 ottobre una lettera anonima fu consegnata a Lord Monteagle (ora la lettera è conservata al Public Record Office)  il quale avrebbe presentato la lettera al re soltanto qualche giorno più tardi, il 1º novembre 1605. Nella lettera era esposto il piano terroristico di Catesby, permettendo alle autorità di intervenire preventivamente e sedare l’insurrezione prima ancora che nascesse.

Nella notte del 4 novembre, Fawkes fu trovato in possesso di trentasei barili di polvere da sparo; fu quindi arrestato e torturato. In seguito, i congiurati furono impiccati.

Fatto questo breve excursus storico della congiura delle polveri, la serie Gunpowder dalle prime informazioni sembra promettere molto bene, del resto la BBC ha sempre prodotto ottimi lavori quando si trattava di serie e miniserie ispirate alla storia britannica.

Personalmente sono molto impaziente di vedere i tre episodi di Gunpowder, ben consapevole che vi potrebbero esserci alcuni passaggi romanzati e che la storia nel complesso potrebbe non essere totalmente fedele alla realtà, ma si tratta di una serie TV, e non di un saggio accademico, direi quindi che possiamo anche passarci su se qualcosa verrà modificato per rendere la serie più avvincente e godibile.

Non ci resta quindi che aspettare perché … L’autunno sta arrivando

 

La massoneria nelle rivoluzioni ottocentesche

La rivoluzione francese è da molti considerata, insieme alla rivoluzione americana, la pietra angolare su cui poggia l’età contemporanea, il punto di origine per il lungo diciannovesimo secolo che si sarebbe concluso soltanto con lo scoppio della prima guerra mondiale e protagonista indiscussa di quest’epoca di transizione tra l’antico regime e il nuovo ordine mondiale, sarebbe stata la classe borghese che lentamente avrebbe modellato un mondo nuovo in cui la proprietà terriera era solo un espressione, probabilmente la più limitata, della ricchezza.

Durante l’ancien regime il possesso di terre era determinato dall’economia feudale in cui il le terre erano una proprietà quasi esclusiva della monarchia, di fatto le terre appartenevano al re, ed erano amministrate dalle nobili famiglie, che a loro volta affidavano la gestione e l’utilizzo delle terre alle masse popolari residenti nell’area e su cui esercitavano il proprio potere, politico e sociale. Questo sistema economico proprio della società feudale è da molti erroneamente considerato come un sistema peculiare dell’età medievale, tuttavia permane anche in tutta l’età moderna e in alcune aree coloniali sopravvive fino alla metà del diciannovesimo secolo, per non dire agli inizi del ventesimo.

La fine dell’ancien regime ed il conseguente collasso della società feudale portano alla nascita di un nuovo sistema economico e una nuova struttura sociale che sono considerati gli elementi peculiari dell’età contemporanea. Questi saranno l’affermazione della borghesia e la nascita di un economia non più terriera ma capitalistica. Detto più semplicemente, la ricchezza non è più determinata dal possesso della terra ma dal capitale, un bene in un certo senso astratto, che può essere quantificato dalla sommatoria di tutti i beni materiali posseduti da un individuo, rendendo così tangibile la ricchezza della classe borghese che in età feudale, pur avendo più ricchezze, di alcuni nobili, erano considerati una classe economicamente inferiore alla nobiltà.

Verso la metà del XVIII secolo i ricchi borghesi iniziano a vivere sempre di più il disagio della propria situazione, uno degli esempi più significativi in questo senso è espresso dalla figura di John Hancock, uno dei padri fondatori americani, la cui famiglia si era arricchita grazie al commercio, e se bene fossero britannici e la sua famiglia fosse estremamente ricca, essa non godeva in patria di un peso politico estremamente marginale, vivendo perennemente un gradino più in basso dell’aristocrazia, e guardati dall’alto in basso anche da quegli aristocratici caduti in miseria che non avevano altro de non il proprio titolo nobiliare.

Questa insofferenza sociale unita ad un crescente desiderio di rappresentanza politica e tutela dei propri interessi si diffonde progressivamente in tutta europa e nelle colonie, e quando al termine della guerra dei sette anni tra francia e gran bretagna, le corone francesi chiederanno sostanzialmente alla classe borghese di pagare il grosse delle spese della guerra, mentre l’aristocrazia quasi non verrà tassata, e gli alti lord, continueranno a vivere nel lusso più sfrenato in un paese in crisi e senza neanche provare a ridurre le proprie spese e gli sprechi di corte, la borghesia che avevano appreso molto dallo studio del passato, si rividero in una situazione analoga a quella dei ricchi mercanti greci del V secolo a.c. , costretti a pagare le spese di guerre volute dall’aristocrazia.

Prendendo coscienza di ciò la borghesia avrebbe richiesto una sempre maggiore rappresentanza politica e l’adeguamento alle condizioni fiscali dell’aristocrazia o viceversa, una tassazione alle proprietà degli aristocratici, ma questo non avvenne, e l’insofferenza crebbe ulteriormente trasferendosi dalla ricca borghesia alle masse popolari oppresse dall’aristocrazia e dalla monarchia, la cui rabbia era alimentata dalla stessa borghesia.

Si cerca quindi di attuale un modello classico per l’affermazione del potere, individuando un pericolo interno o esterno la cui eliminazione rappresenta la chiave del potere.

Nel mondo greco la classe di ricchi mercanti era riuscita ad ottenere il potere politico dall’aristocrazia, sedando le rivolte con la promessa di riforme fiscali e sociali, e durante la rivoluzione francese, la borghesia puntava ad un epilogo analogo, tuttavia, l’evoluzione tecnologica soprattutto per quanto riguarda gli armamenti, avrebbe reso le masse popolari del XVII e XVIII secolo, molto più pericolose e meglio armate delle masse popolari del V secolo a.c. e la rivoluzione sfuggì di mano rendendo necessaria l’istituzione del direttorio come unico sistema per mettere fine alla guerra civile esplosa in francia, e riportare l’ordine sociale, un ordine che ormai era stato distrutto e andava ricostruito da zero.

In questa successione di eventi, e soprattutto nella rapida degenerazione degli eventi è evidente che non vi fosse a monte un grande disegno attribuibile ad organizzazioni massoniche il cui intento era quello di ribaltare l’ordine precostituito, e analogamente non vi è uno spirito del popolo capace di incarnare un desiderio di rivalsa sociale.

Le organizzazioni massoniche e le società segrete in questo momento non esistono o meglio, non sono organizzazioni politiche, ma associazioni con scopi prevalentemente ludici e in alcuni casi filantropici,  e non vanno assolutamente confuse con i club politici già esistenti e che possiamo considerare gli antenati dei moderni partiti. Le due entità (associazioni massoniche e club politici) iniziano a fondersi insieme nel corso del XIX secolo e sarebbero stati protagonisti delle ondate rivoluzionarie europee successive al 1830, in particolare quelle del 1848 in cui l’organizzazione e la pianificazione da parte delle società segrete avrebbe dato maggiori frutti.
Nei tre grandi cicli rivoluzionari del XIX secolo, ovvero 20/21, 30/31 e 48, abbiamo tre diverse strutture organizzative, nel primo caso, (20 21) il modello è analogo a quello della rivoluzione francese, ovvero non c’è organizzazione, la rivoluzione si diffonde in maniera quasi autonoma da una nazione all’altra, contagiando le varie elité cittadine in europa che, desiderose di carte costituzionali e rappresentanza parlamentare sarebbero scese nelle piazze in maniera quasi istintiva, sperando di riproporre quanto accaduto nel 1789 ma senza riuscirci a causa di una mancata pianificazione e della mancata partecipazione delle masse popolari il cui principale interesse era il pane e non la politica.

Nel 30 31 vi è un primo accenno organizzativo, ma viene commesso ancora una volta l’errore di non coinvolgere le masse popolari, e anche questa volta la loro assenza avrebbe portato al fallimento della rivoluzione.

Nel 1848 le società segrete hanno imparato la lezione, ed in fase organizzativa riusciranno a penetrare negli strati più poveri della popolazione, promettendo pane e diritti, e coordinando le insurrezioni riusciranno a generare un effetto a catena molto simile a quello generatosi quasi casualmente nel 1789.

Tra il 1789 e il 1848 l’europa è profondamente mutata, l’esperienza democratica della rivoluzione francese, l’età napoleonica e la rivoluzione industriale inizialmente in Gran Bretagna e poi anche nell’Europa continentale ha reso irrisoria la ricchezza proveniente dalla terra, e contemporaneamente l’economia monetaria è percepita come potenzialmente illimitata.

In questo caso e in queste precise circostanze, la rivoluzione del 1848 può essere considerata come il frutto della meticolosa organizzazione di associazioni segrete e clandestine, in alcuni casi massoniche in alti casi noi, che hanno precisi interessi politici ed economici, che hanno il preciso intento di ribaltare l’ordine costituito gettando le basi di un nuovo ordine mondiale, dando così vita all’anacronistico mito dell’organizzazione massonica della rivoluzione francese.

 

CARTAGINE || Breve storia di Cartagine, dalla fondazione fenicia alla distruzione

Cartagine fu una delle più importanti città del mondo antico, una delle più grandi rivali di Roma, con cui si scontrò fino all’annichilimento totale, e questa è la sua storia.

Cartagine fu una delle più potenti e importanti città del mondo antico, fondata sulla costa settentrionale dell’Africa, nei pressi della moderna Tunisi, come snodo commerciale fenicio, poi divenuto una nuova colonia, verso la fine del IX secolo a.C. da coloni delle città di Tiro e Cipro. La tradizione ci fornisce un anno esatto per la fondazione della città, ovvero l’821 a.c., e questo ci fa supporre che la città di Cartagine venne fondata circa due secoli prima di Roma, anche se, la tradizione parla di un certo parallelismo tra le due città, la fondazione di Roma è avvolta dal mistero e si ipotizza Roma venne fondata non prima del VII secolo.

La posizione strategica della città di Cartagine e il parallelo declino della civiltà fenicia nel mediterraneo occidentale, diedero ai cartaginesi la possibilità di riempire il vuoto di potere assumendo un ruolo di primo piano nel controllo marittimo del mediterraneo, dando vita ad un vero e proprio impero, o forse sarebbe meglio dire, una rete di influenze e di alleanze, che si estendeva dall’Africa settentrionale fino alle coste della Spagna, della Sicilia, della Sardegna e della Corsica e la tecnologia navale ereditata dai fenici, permise ai cartaginesi di spingersi anche oltre le colonne d’ercole, navigando lungo la costa atlantica dell’ Europa settentrionale e dell’Africa, spingendosi al nord, almeno fino alle coste Islandesi e a sud, fino alla costa del golfo di Guinea.

In tempo recenti, il ritrovamento di relitti di navi cartaginesi oltre Gibilterra, ha dato origine al mito secondo cui ancora prima dei cartaginesi, già i fenici avessero solcato le acque dell’atlantico, spingendosi fino alle coste dell’america latina. Si tratta di un mito, facilmente sfatabile dalla struttura delle navi sia fenicie che cartaginesi, progettate per la navigazione in acque basse e lungo la costa, poco adatte alla navigazione d’altura, se non per brevi tratte come la traversata tra la costa tunisina e quella siciliana, o al massimo sarda, percorribile in pochi giorni di navigazione. Inoltre le dimensioni compatte ed il sistema di propulsione della nave, rendeva estremamente difficile la sopravvivenza in mare per lunghi periodi, e non è un caso se lungo la costa, durante i loro viaggi sia fenici che cartaginesi costruirono numerosi avamposti commerciali, per permettere ai propri marinai di riposare e recuperare le forze prima di una nuova traversata.
Questo modo di navigare, ampiamente documentato, rappresenta la conferma definitiva dell’incapacità fenicia e cartaginese di compiere un ipotetica traversata atlantica.

Le immense ricchezze della civiltà mercantile di Cartagine costituì uno dei principali acceleratori sociali ed urbani, confluendo in investimenti territoriali che permisero alla città di espandere progressivamente i propri confini nell’area meridionale della regione, dove furono edificate numerose colture arboree, allevamenti ed attività manifatturiere così raffinate da far impallidire le produzioni greche ed egiziane.

La nascita di una classe di proprietari terrieri storicamente coincide con la nascita di una classe aristocratica terriera (gli aristocratici nel mondo “antico” non sono altro che i grandi proprietari terrieri), a metà strada tra la nobiltà tradizionale e la moderna classe borghese, poiché i proprietari terrieri di Cartagine sono anche i grandi commercianti cartaginesi, ciò nonostante esisteva anche una classe di ricchi mercanti, che avevano preferito investire le proprie ricchezze in numerose navi e noli commerciali, piuttosto che nelle attività produttive, e la coesistenza di queste due distinte classi benestanti avrebbe pro prodotto numerosi conflitti nella creazione di una sfera politica e soprattutto nella definizione di un orientamento politico per lo stato cartaginese.

Lo scontro politico avrebbe portato Cartagine e i cartaginesi a creare un nuovo modello di rappresentanza politica, i due gruppi elitari erano rappresentati da due magistrati, eletti annualmente, tra le famiglie dei ricchi mercanti e dei proprietari terrieri, questi magistrati, apparentemente simili ai consoli romani, erano chiamati Sufeti, che possiamo tradurre approssimativamente in “giudici”, il loro compito era quello di presiedere il senato e amministrare la giustizia. I sufeti erano eletti da un’assemblea dei cittadini che aveva anche il compito di prendere decisioni in caso di divergenze tra i sufeti e il senato. Compito proprio del senato era quello di promulgare le leggi, dirigere la politica estera e reclutare gli eserciti, ed era sostanzialmente un organo aristocratico, formato esclusivamente da nobili cittadini che restavano in carica a vita.
Al suo interno il senato era diviso in commissioni di cinque membri che avevano il compito di eleggere un consiglio ristretto, detto “la corte dei cento” formato da circa cento senatori cui erano conferiti poteri illimitati.

Sul piano culturale Cartagine era a tutti gli effetti una città fenicia, che parlava la lingua dei fenici, che utilizzava la scrittura dei fenici, che manteneva inalterati gli usi e i costumi della civiltà fenicia e che venerava gli dei dei fenici e i più antichi manufatti archeologici riguardanti la città di Cartagine sono stati datati intorno all’ottocento avanti cristo, presumibilmente il periodo della fondazione della città risalgono all’800 a.C.

Sul piano geopolitico Cartagine sarebbe stata impegnata in una guerra con la Grecia e con Roma per quasi 150 anni, questo periodo comprende anche le tre guerre puniche, combattute tra Roma e Cartagine, e prima di affrontare le dinamiche belliche, è opportuno spiegare perché si parla di guerra puniche.

Gli abitanti di Cartagine al tempo erano noti come punici più che come cartaginesi, questo termine approssimativamente significa “abitanti della Città Nuova” e serviva a distinguere gli abitanti di Cartagine dagli ex vicini della città di “Utica“, che approssimativamente significa città vecchia, si trattava di un’altra colonia fenicia, non distante dal luogo in cui sarebbe sorta Cartagine che, per lungo tempo, fu in contrasto con la stessa Cartagine, per poi essere sconfitta e annessa nei territori cartaginesi.

Chiusa la parentesi punica, torniamo allo scontro tra Cartaginesi, Greci e Romani. Lo scontro inizialmente coinvolse cartaginesi e greci mentre i romani non furono coinvolti, perché militarmente inferiori ai cartaginesi e “politicamente insignificanti”, inoltre era legata a Cartagine da un trattato di alleanza “ineguale” stipulato tra Roma e Cartagine intorno al 509 da re Amilcare I, in cui Roma era in una posizione subordinata rispetto a Cartagine..
Questo scontro tra Cartaginesi e Greci iniziò per il controllo politico della Sicilia, considerato un ponte naturale tra l’Africa settentrionale e la penisola italica, dunque la chiave per il controllo della penisola italica e del mediterraneo occidentale.

In un primo momento le forze cartaginesi, guidate dal re Amilcare, furono sconfitti in sicilia, dalle forze di Gerone, il tiranno di Siracusa, intorno al 480 a.c. e durante lo scontro Amilcare I perse la vita. La sconfitta cartaginese e la morte di Amilcare mise in discussione il trattato di alleanza con Roma, che nel frattempo aveva iniziato a nutrire non pochi interessi per la sicilia.
Successivamente Cartagine avrebbe nuovamente tentato di conquistare la sicilia e nuovamente sarebbe stata ostacolata nel suo progetto egemonico, questa volta dai tiranni siracusani Dionisio il Giovane, Dionisio il Vecchio, Agatocle e da Pirro, re dell’Epiro. L’intervento di Pirro nello scontro tra Cartaginesi e Greci di Sicilia avrebbe portato in campo anche Roma, che da quel momento in avanti sarebbe stata impegnata in una serie di tre grandi guerre contro Cartagine, ma andiamo con ordine.

Il secondo tentativo cartaginese di conquistare la sicilia fallisce approssimativamente nel  276 a.C., tuttavia, nonostante la sconfitta, Cartagine continua a possedere alcuni territori nella Sicilia occidentale. Dodici anni più tardi, nel 264, sarebbe iniziata la prima guerra punica, durata dal 264 al 241 a.C. e rappresenta il vero e proprio inizio dello scontro di civiltà tra Cartagine e Roma che si sarebbe concluso soltanto nel 146 a.c. con la distruzione definitiva di Cartagine ad opera di Roma ed in tutto questo periodo, la sola vera protagonista sarebbe stata la famiglia cartaginese dei Barca.
Il generale cartaginese Amilcare Barca fu sconfitto in Sicilia e successivamente alle isole Egadi (241), questa sconfitta avrebbe messo fine alla prima guerra punica ed avrebbe avuto come effetto la cessione dei territori cartaginesi in sicilia a Roma.
Successivamente Amilcare avrebbe spostato i propri eserciti in Spagna dove si sarebbe scontrato nuovamente con roma, lasciando il testimone a suo genero Amilcare e suo figlio Annibale Barca.

Annibale è universalmente riconosciuto come uno dei più grandi condottieri dell’antichità e se bene in questo post, da qui in avanti il suo nome sarà ricorrente, ti invito ad approfondire il discorso sulla sua figura, attraverso questo articolo intitolato Chi era annibale?

La seconda guerra punica inizia nel 218 in spagna, da qui Annibale avrebbe iniziato una lunga marcia verso est, nel tentativo di radunare un grande esercito costituito da tutti i nemici di Roma, si tratta di una necessità strategica poiché Cartagine era principalmente una potenza marittima mentre il punto di forza di Roma era rappresentato dal proprio esercito terrestre che nel corso dei secoli aveva stato avvolto da una crescente aura di invincibilità, aura confermata dalle numerose sconfitte inflitte all’antica e potente Cartagine.

Annibale Barca decide quindi di sfidare apertamente Roma, portando lo scontro in Italia e nel farlo avrebbe dato un immagine chiara della falsa invincibilità romana, spingendosi fino alle porte di Roma e andando ancora oltre, e radunando attorno a se un immenso esercito. In questa circostanza Annibale avrebbe compiuto la celebre traversata delle Alpi portando in Italia, dal nord, un possente esercito completo di elefanti da guerra. Nonostante ciò Annibale sarebbe stato sconfitto nel 201 e questa sconfitta sarebbe costata a Cartagine la cessione della Spagna e di numerose isole mediterranee.

Se vuoi approfondire la caduta di Cartagine ti consiglio questo post in cui parlo della Caduta di Cartagine raccontata dagli storici greco romani Polibio, Diodoro e Appiano

Nel 149 per volontà di di Catone il Vecchio, Roma e Cartagine si sarebbero scontrate nuovamente, ma alla metà del secondo secolo Cartagine non era più la super potenza dei secoli passati, e la sconfitta dell’antico colosso navale giunse rapida e implacabile, nel 146 Cartagine fu sconfitta per l’ultima volta e successivamente la città sarebbe stata rasa al suolo definitivamente e l’occupazione del sito fu proibita per un periodo di 25 anni.

Nel 122 sulle rovine di Cartagine Roma avrebbe edificato una nuova città chiamata Colonia Junonia ma trent’anni più tardi la città era già caduta in rovina e rimase tale almeno fino al 46 quando Giulio Cesare visitando il sito avrebbe ordinato che in quel luogo sarebbe sorta una nuova città. Il desiderio cesariano di dar vita ad una nuova Cartagine si sarebbe unito ai tanti motivi che di lì a poco avrebbero portato al suo assassinio, tuttavia, nel 29 a.c. Ottaviano avrebbe fondato in quel luogo una città chiamata Colonia Julia, diventando una delle più importanti città romane, per lungo tempo seconda soltanto a Roma, riuscendo a sopravvivere per molti secoli. Nel 425 la città fu fortificata e nel 439 il re vandalo Genserico sarebbe riuscito ad espugnarla facendone la capitale del proprio regno per almeno un secolo. Nel 533 la città fu conquistata dall’impero Bizantino e rinominata Colonia Justiniana in onore dell’imperatore Giustiniano I, sopravvivendo almeno fino al 697 quando la conquista arabica della regione avrebbe portato all’abbandono e successivamente alla distruzione della città che se bene si trovasse in una posizione strategicamente molto significativa e importante per il controllo del traffico nel mediterraneo, cadde rapidamente in declino e in fine, definitivamente distrutta dall’avanzata ottomana nel XIV secolo.

La vera origine degli Etruschi

Il confronto fra il DNA mitocondriale dell’attuale popolazione toscana e quello estratto da ossa scoperte in alcune tombe antiche ha mostrato che gli Etruschi non sono arrivati dall’Anatolia, come invece sosteneva Erodoto, ma erano una popolazione autoctona italica, come sosteneva Dionigi di Alicarnasso. Oggi i discendenti di quella antica popolazione sono pochi e dispersi in alcune piccole comunità della Toscana.

La fioritura della civiltà etrusca non fu dovuta a un’immigrazione di popolazioni provenienti dall’Anatolia attorno all’VIII secolo a.c., e attualmente i discendenti diretti degli Etruschi sono relativamente pochi e dispersi in piccole comunità della Toscana, come quella del Casentino e di Volterra. E’ la conclusione di un ampio studio diretto da Guido Barbujani dell’Università di Ferrara e David Caramelli dell’Università di Firenze, che potrebbe aver dato una risposta conclusiva sull’origine di questa antica popolazione, una diatriba che si trascina da oltre 2000 anni e che vedeva contrapposta l’ipotesi di Erodoto, secondo cui appunto gli Etruschi sarebbero giunti dall’Anatolia, e quella di Dionigi di Alicarnasso che che li voleva invece autoctoni.

Come ricordato nell’articolo in cui è illustrata la ricerca, pubblicata sulla rivista “PLoS One”, precedenti studi avevano indotto a supporre che la ragione stesse dalla parte di Erodoto, dato che le analisi del DNA mitocondriale condotte sulle popolazioni attuali avevano trovato una somiglianza genetica tra abitanti della Toscana e dell’Anatolia occidentale, pur rilevando nella regione italiana possibili notevoli differenze fra gruppi che vivono a poche decine di chilometri di distanza.

Per venire a capo della questione, i ricercatori hanno cercato di analizzare in maggior dettaglio geografico le relazioni biologiche tra le popolazioni contemporanee e antiche, prelevando – in accordo con la Soprintendenza archeologica per la Toscana – campioni biologici da ossa scoperte nelle necropoli etrusche di Casenovole e di Tarquinia, per analizzarne il DNA mitocondriale (mtDNA) e confrontarlo con quello di diversi campioni di epoca medievale e con quello di un più ampio gruppo di toscani che oggi vivono in differenti aree della regione, più o meno ricche di reperti storici etruschi.

La parte più impegnativa della ricerca è la ricostruzione del mtDNA etrusco – reso possibile dal ricorso alla tecnologia di sequenziamento di nuova generazione (NGS, Next Generation Sequencing) presso l’Istituto di tecnologie biomediche del CNR di Milano – e lo sviluppo di modelli demografici che permettessero un’analisi a piccola scala geografica in grado di fornire la prova di una continuità genealogica tra gli Etruschi e alcuni attuali abitanti dell’antica Etruria.

Il risultato delle analisi ha indicato, scrivono gli autori, “che il patrimonio genetico degli Etruschi è ancora presente, ma solo in alcuni gruppi isolati, mentre i toscani attuali in genere non discendono, lungo le linee femminili, da antenati etruschi”. L’analisi geografica mostra inoltre che “non vi è alcuna necessaria correlazione tra la presenza di resti archeologici e le radici biologiche degli abitanti delle zone in cui si trovano questi resti.”

Questo fatto quindi smentisce la conclusione degli studi che avevano lasciato supporre un’origine anatolica degli Etruschi. Anzi, la valutazione della distanza genetica fra Etruschi e popolazioni moderne europee, capovolge la situazione, dando ragione a Dionigi d’Alicarnasso.

Poiché peraltro, scrivono ancora gli autori, “i toscani medievali appaiono discendere direttamente da antenati etruschi, si può ragionevolmente ipotizzare che il patrimonio genetico delle popolazioni Murlo e Firenze [due delle località in cui sono stati realizzati i campionamenti delle popolazioni attuali, ndr] sia stato modificato con l’immigrazione nel corso degli ultimi cinque secoli”.

Articolo originale: http://www.lescienze.it/news/2013/02/11/news/origine_etruschi_autoctoni_anatolia_analisi_genetiche-1500957/

I regni Ellenistici || Come i macedoni hanno esportato la grecità nel mondo

Tra il 336 e il 323 a.c. la Grecia, l’Anatolia, l’Egitto e tutta l’Asia minore dalla fenicia al confine orientale della Persia lungo il fiume Gange, vengono conquistati dal giovane Alessandro III di macedonia, figlio di Filippo II di macedonia.

La macedonia nel IV secolo vive in una situazione ambigua, la loro lingua, la loro cultura, le loro tradizioni sono greche, tuttavia la percezione che gli abitanti delle polis hanno di questo popolo, è di un popolo barbarico, rozzo e primitivo, e per questo il re Filippo II decise di affidare suo figlio Alessandro alle cure del più importante pensatore del tempo, Alessandro fu così istruito da Aristotele in persona, perfezionando il suo greco, e imparando dal suo maestro tutto ciò che era necessario per governare in modo saggio ed essere completamente accettato dalla cultura greca.
Nel 336 a.c. Filippo muore lasciando la corona all’allora ventenne Alessandro, che in breve tempo avrebbe conquistato un vastissimo impero, portando sotto il suo controllo prima le varie polis Greche riunite nella Lega Ellenica, un alleanza che legava insieme tutte le polis sopravvissute alle guerre del peloponneso, poi si sarebbe spostato in Anatolia e seguendo la costa sarebbe giunto fino all’Egitto dove avrebbe aggiunto ai suoi titoli quello di Faraone d’Egitto, dall’Egitto sarebbe poi partito alla volta dell’impero persiano, riuscendo a sottomettere il possente impero assumendo la carica di Imperatore.
In questi anni in cui Alessandro combatterà tantissime battaglie e assedierà innumerevoli città non mancheranno tradimenti e ribellioni, alcune regioni insorgeranno, ma con una buona dose di strategia riuscirà a riportare l’ordine in pochissimo tempo.

La rapidità delle conquiste compiute da Alessandro distribuite in poco più di un decennio di regno nei quali non vi fu un singolo giorno senza preparare, marciare o combattere una guerra avrebbe dato vita ad innumerevoli miti e leggende sulla figura di Alessandro, i più celebri sono certamente l’episodio della fondazione di Alessandria d’Egitto, il mito della Fontana, il mito delle Pesche, e l’episodio del nodo gordiani.
Miti e leggende a parte, nel 323 a.c. dopo la morte di Alessandro, e vista “l’assenza” tra molte virgolette, di un erede legittimo, l’immenso impero che andava dalla Macedonia al Gange passando per la valle del Nilo, fu diviso tra i generali, detti Diadochi, che avevano seguito e accompagnato Alessandro in Battaglia, dando così vita ai Regni ellenistici. Durante la spartizione dei regno non vi furono particolari scontri, poiché i generali si sarebbero assicurati il controllo dei territori che in un certo senso, già governavano in nome di Alessandro.

La divisione dell’impero di Alessandro Magno dopo la sua morte (Roma e Cartagine non fanno parte dell’impero)

Va detto che già prima di Alessandro esistevano alcuni regni detti ellenistici poiché di cultura ellenica, come ad esempio il regno del Bosforo-Cimmerio fondato nel 480 a.c. e scomparso con la conquista macedone, altri invece si sarebbero divisi a loro volta in tanti piccoli regni, ma procediamo con ordine.
Mentre Alessandro è ancora in vita, tra il 331 e il 330, Seleuco I, Tolomeo I, Lisimaco e Cassandro iniziano a governare, in nome dell’imperatore, rispettivamente in Asia minore, in Egitto, in Cappadocia e in Macedonia, successivamente nel 323 queste regioni dell’impero si sarebbero trasformate in regni e imperi autonomi.
Seleuco avrebbe esteso il proprio potere dalla costa mediterranea fino ai confini orientali dell’ex impero alessandrino, ai confini con l’impero indiano di Maurya, annettendo al proprio impero un’importante fetta dell’Anatolia sottratta al regno di Cappadocia.
Tolomeo avrebbe assunto la carica di Faraone e avrebbe preso il controllo della valle del Nilo e della Cilicia, unico frammento dell’Asia minore a non essere governato da Seleuco.
Lisimaco avrebbe assunto il controllo della Cappadocia e della Tracia, rinunciando ad una fetta di Anatolia in cambio del pieno controllo dello stretto del Bosforo.
In fine, ma non per importanza Cassandro assunse il controllo della Macedonia e della penisola greca, fatta eccezione per l’Epiro che non era entrato a far parte dell’impero alessandrino poiché governato da Alessandro il Moroso, fratello di Filippo II e zio di Alessandro Magno.

Il primo regno ellenistico a disgregarsi sarebbe stato quello di Lisimaco, che già nel 297 iniziò a sgretolarsi.
Il primo a separarsi, proclamando l’autonomia del proprio regno fu il principe Zipoite I che separò il regno di Bitina dalla Tracia nel 297, nel 282 Filetero avrebbe fondato il regno di Pergamo, nell’area meridionale dell’Anatolia occidentale, la regione che affacciava sul mar egeo e l’anno seguente, nel 281 Mitridate I fondò il regno del Ponto nella Cappadocia settentrionale, nell’area nord orientale dell’Anatolia, togliendo un altro importante pezzo al regno di Lisimaco.

Disgregato lo stato di Lisimaco una sorte analoga sarebbe toccata all’Impero seleucida che avrebbe dovuto fare i conti con le diverse popolazioni guerriere soggiogate prima dai Persiani e poi da Alessandro.
I primi a proclamarsi indipendenti furono i furono gli abitanti della regione orientale dell’impero, al confine con l’india, a proclamarsi sovrano di questo nuovo regno sarebbe stato Diodoto nel 250 con la fondazione del regno greco-battriano che si estendeva sulla Battriana e sulla Sogdiana.
Nel 247 seguendo l’esempio di Diodoto anche i Parti si sarebbero proclamati indipendenti creando un regno intermedio tra l’impero seleucida e il regno greco battriano, che si estendeva dal mar Caspio al golfo persico, e l’ultimo regno ellenistico, nato dalla disgregazione dell’impero seleucida sarebbe stato il regno di Characene, si tratta di un piccolo regno situato a nord del golfo persico in una regione oggi compresa tra Kuwait, Iraq e Iran.

La moltiplicazione dei regni Ellenistici e la frantumazione dell’impero alessandrino e dei suoi eredi.

Diversamente dagli altri regni fondati dai diadochi di Alessandro, il regno tolemaico in Egitto, riuscì a sopravvivere indenne e l’ultimo dei Tolomei sarebbe stata Cleopatra alla cui morte il regno sarebbe diventato provincia romana, un destino comune alla maggior parte dei regni Ellenistici, fatta eccezione per alcuni piccoli regni come Characene, che sarebbe successivamente sarebbe stato inglobato nel regno partico, i cui confini si sarebbero spinti sempre più verso occidente arrivando a conquistare gran parte dell’impero Seleucida, diventando per lungo tempo uno dei più ostici e potenti nemici di Roma.

 

 

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