Gladiatori e schiavi nell’antica roma

Gladiatori e schiavi nell’antica Roma. Anche se i gladiatori erano Schiavi, le loro condizioni di vita e il loro status sociale e giuridico era diverso da quello degli schiavi comuni.

I gladiatori erano uno schiavi? Si, No, forse, più o meno?

La risposta a questa domanda sta non solo nel diritto romano ma anche nel concetto romano di schiavo e nel suo inquadramento giuridico. A darci una prima bozza di risposta è Plinio il Vecchio nella sua Historia Naturalis, in cui, tra le altre cose, ci parla ampiamente delle condizioni di vita e di lavoro di schiavi e gladiatori, distinguendo nettamente le due categorie, ma non solo, Plinio ci dice anche quali erano gli obblighi legali dei possidenti e proprietari di schiavi e gladiatori, distinguendo le due categorie.

Senza troppi giri di parole, lo schiavo in età romana, non è una proprietà, nel senso “moderno” del termine, lo schiavo romano è infatti profondamente diverso dallo schiavo “americano”, il proprietario ha degli obblighi e doveri nei confronti dello schiavo e soprattutto, non ha l’autorità o il potere di ucciderlo, causarne la morte o mettere la sua vita in pericolo. Questi stessi doveri che il padrone aveva nei confronti dello schiavo, non sempre erano previsti per i gladiatori, la cui vita, banalmente, era messa in pericolo quotidianamente.

Lo schiavo romano secondo Plinio e Catone

La condizione dello schiavo romano era molto particolare e, a tal proposito, Guido Bonelli, in un articolo pubblicato nel 1994 sulla rivista Quaderni Urbinati di Cultura Classica, New Series, Vol. 48, No. 3 (1994), pp. 141-148 ci dice osserva che Plinio il Giovane e la schiavitù: Considerazioni e precisazioni, ci dice che per certi versi, secondo Plinio (e anche Vitruvio), in termini prettamente economici, per un padrone/proprietario terriero, era più “conveniente” avere dei lavoratori dipendenti, uomini liberi, che non degli schiavi perché se lo schiavo rimaneva ferito, menomato, mutilato o si ammalava, il proprietario aveva il dovere , forse legale, di curarlo, in pratica, per un periodo lo schiavo non poteva lavorare, ma doveva comunque essere mantenuto ed aveva diritto a cure mediche, vitto e alloggio, che legalmente non potevano essergli negate.

A tal proposito nella sua de agri cultura, Catone sostiene la necessità per il padrone di dover vendere uno schiavo malato, poiché, durante la malattia esso rappresentava una spesa non produttiva per il padrone.

Su questo tema Plinio e Catone assumono posizioni politiche divergenti, Catone sostiene la vendita dello schiavo, Plinio invece ne sostiene la tutela anche sul piano “morale” e, la sua posizione, è in una lettera che il cronista romano scrive ad un amico di nome Valerio chiedendogli di ospitare nelle proprie terre, in Gallia Nerborense, un suo liberto.

Tornando alla convenienza economica del lavoro dipendente, diversamente dallo schiavo, che, al di la delle posizioni politiche, sia Plinio che Catone, ci dicono godere di certe tutele legali, l’uomo libero che rimaneva ferito sul lavoro, poteva essere sostituito durante la “convalescenza” da un altro lavoratore libero o schiavo, senza che il proprietario della villa o del cantiere o altro, avesse alcun obbligo legale nei confronti dell’ex dipendente, ciò implicava un notevole “risparmio” in termini di denaro. Questa “convenienza” si traduce, all’atto pratico, nell’utilizzo di schiavi e uomini liberi per mansioni differenti, affidando, molto spesso, le mansioni più pericolose ad uomini liberi.

Il padrone, detto molto semplicemente, per il diritto romano, non poteva volontariamente mettere in pericolo di vita lo schiavo, né tantomeno ucciderlo, il padrone dello schiavo romano non aveva quindi autorità sulla vita e la morte dello schiavo, ed è qui che risiede l’enorme differenza tra gladiatore e schiavo.

La vita del gladiatore infatti, sebbene esso fosse uno schiavo a tutti gli effetti, il gladiatore poteva essere acquistato, venduto, affrancato, ecc, e, a differenza dello schiavo comune, poteva rischiare la propria vita. La vita del gladiatore, a quanto ne sappiamo, non era tutelata dal diritto romano come quella di uno schiavo comune, poiché per il ruolo di atleta in competizioni cruente, la sua vita e la sua sicurezza erano messe costantemente in pericolo.

Potremmo dire che lo schiavo comune, quello che lavorava nelle campagne, era “assicurato” per eventuali infortuni sul lavoro, mentre lo schiavo combattente o gladiatore, no.

Il gladiatore non era un manovalante, era invece un atleta, un attore e un combattente e la sua condizione sociale è a metà tra quella di uno schiavo e di un soldato, il cui ruolo prevedeva la possibilità di infortuni e morte.

Le uccisioni di schiavi erano “rare”

Sappiamo che l’uccisione di schiavi in epoca romana è molto rara, salvo rarissime eccezioni, quasi mai i padroni uccidevano o mettevano in pericolo di vita i propri schiavi e lo storico britannico William Smith sosteneva che, le uccisioni di schiavi in epoca romana erano rare perché uccidere uno schiavo implicava una riduzione della manodopera.

In altri termini, le uccisioni erano rare perché economicamente non convenienti, poiché l’uccisione privava di una risorsa che altrimenti poteva essere utilizzata o venduta.

Questa tesi è ancora oggi molto diffusa, tuttavia, gli fa eco, una sempre più accreditata tesi alternativa che, partendo dai sopracitati Plinio e Catone, asserisce che, molto probabilmente le uccisioni erano “rare” perché uccidere uno schiavo non era diverso dall’uccidere un uomo libero, in altri termini, l’assassinio di uno schiavo, al pari dell’assassinio di un uomo libero, era considerato comunque omicidio.

Sappiamo però che i gladiatori morivano, non in numero elevatissimo, ma comunque morivano senza che ci fossero conseguenze per i padroni.

Il discorso della convenienza economica persiste, la morte massiva di gladiatori implicava una spesa continua, eccessiva, per i padroni, e dunque, rimanendo nella teoria di Smith, morivano pochi gladiatori perché la loro morte implicava una perdita di risorse, tuttavia, prendendo in prestito il racconto che Appiano, Sallustio e Plutarco fanno delle tre guerre servili, sappiamo per certo che, anche se rara, la morte dei gladiatori in combattimento ea possibile, sappiamo inoltre che il ferimento dei gladiatori, durante i giochi, durante il combattimento o durante l’addestramento, era molto frequente e non avevano alcuna conseguenza di tipo legale per i proprietari, diversamente da quanto accadeva per gli schiavi rurali che lavoravano nelle campagne.

Questo ci porta a pensare che, sul piano giuridico gladiatore e schiavi non fossero proprio la stessa cosa, ma più probabilmente, che i gladiatori erano una tipologia “speciale” di schiavi, per i quali erano previste tutele e regole differenti e che, anche sul piano sociale, gladiatori e schiavi, fossero due entità distinte, non a caso, sempre nel racconto delle guerre servili, Plinio, Plutarco e Appiano, parlano distintamente di Gladiatori e Schiavi insorti, un distinguo importante perché se sul piano sociale, giuridico e culturale i gladiatori erano schiavi comuni, nei loro racconti i tre autori avrebbero parlato solo di schiavi insorti.

Conclusioni

Purtroppo non sappiamo esattamente in che modo Roma distinguesse gli schiavi comuni dai gladiatori, ne sappiamo se il distinguo fosse culturale o giuridico, quel che è certo è che, per Plinio, Appiano, Plutarco, Catone e Sallustio, per citare gli autori romani alla base di questo articolo, tra gladiatori e schiavi c’erano delle differenze. Banalmente potremmo dire, al di la delle condizioni fisiche e della preparazione atletica, che se è vero che tutti i gladiatori erano schiavi, non tutti gli schiavi erano o potevano essere gladiatori.

Bibliografia

E. Lo Cascio, Antologia delle fonti
G.Bonelli, Plinio il Giovane e la schiavitù: Considerazioni e precisazioni
Plinio il Giovane, Epistola V19
Catone, De agri cultura

La quaglia di Alcibiade: gli aneddoti falsificano la storia?

Ambizioso, sregolato, egocentrico. Non aveva rivali nell’arte retorica né in quella militare, ed era capace di disegni politici di ampio respiro per il bene della sua città. Siamo intorno al 420 a.C. e stiamo parlando del capo dei democratici estremisti che, pur di opporsi alla politica conciliatoria di Nicia (divenuto influente dopo la morte di Pericle) rifiutò l’alleanza con Sparta e si adoperò per una coalizione tra Atene, Argo e altri Peloponnesiaci nemici di Sparta.

Ma c’è di più. A quanto pare Alcibiade aveva abitudini abbastanza singolari ai nostri occhi; infatti era solito passeggiare in Atene con una quaglia sotto il braccio. A svelare gli aspetti più intimi della sua vita ci pensa Plutarco, uno storico, moralista e filosofo vissuto tra il I e il II secolo d.C.. La bibliografia su Plutarco è immensa, ed è impossibile renderne conto in questa sede.

Gli studi sul ruolo degli aneddoti tra storia e biografia ripercorrono le direttrici principali delle ricerche sulla sua figura: di solito si ricostruiscono le fonti da cui ha attinto e/o lo si studia come autore affrontando il problema dei rapporti tra i generi letterari (storia, biografia, romanzo) che sembrano intrecciarsi nelle Vite con l’obiettivo di costruire un’etica specifica, quella in voga nel II secolo d.C.. Per chi fosse interessato ad approfondire, per una rapida rassegna rinvio al volume citato al punto (1) delle Fonti.

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Oggi vorrei concentrarmi sull’uso degli aneddoti. Più in dettaglio, cos’è un aneddoto e che funzione ha? Cosa può ricavare uno storico dall’uso degli aneddoti nella narrazione? Leggendo le Vite Parallele di Plutarco ci troviamo di fronte a orpelli inutili, curiosità, falsificazioni che rischiano di screditare la figura dello storico? Forse per un lettore moderno questo potrebbe sembrare un problema di second’ordine nel senso che, avendo a che fare con numerose piattaforme, curiosità e aneddoti sono un strumento utilissimo per catalizzare l’attenzione del lettore/fruitore.

Se lasciamo sullo sfondo l’evidente anacronismo implicito nel paragone, ma molto utile per chiarirci le idee, possiamo comprendere che il caso di Plutarco è più complesso. Vorrei mostrare che nelle Vite l’uso degli aneddoti non è solo una strategia letteraria o comunicativa, ma fa parte del modo in cui Plutarco intende la storia. Leggendo la Vita di Alcibiade, in assoluto la più ricca di aneddoti, possiamo farci un’idea precisa del modo in cui lavora lo storico. I primi sedici paragrafi offrono una sequenza continua di storielle giustapposte, anche senza rispettare l’ordine cronologico. Gli aneddoti vengono richiamati in alcuni momenti della vita del protagonista, principalmente nella parte del racconto dedicata al periodo dell’infanzia (anche quando sono riferiti all’età adulta hanno sempre lo stesso scopo). Già questo sembra offrirci qualche suggerimento, poiché è un chiaro indizio dell’attenzione che l’autore riserva alle caratteristiche psicologiche degli uomini di cui ripercorre l’esistenza.

Ma a dimostrare che gli aneddoti sono parte integrante della ricostruzione storica (e certamente non sono falsificazioni o elementi fuorvianti) ci pensa la filologia. Benché in greco classico il termine anekdota non venga mai usato, compaiono altre espressioni (apopthegma, apomnemoneuma, chreia) che ne ricoprono in parte l’area semantica: Plutarco le usa come sinonimi ed è interessante notare che nessuno di questi termini rinvia ad un giudizio di valore sulla forma letteraria usata. Un bel colpo per chi vede in Plutarco solo un moralista o un biografo che cerca di impressionare il pubblico, eh?

È plausibile ritenere che Plutarco si serva degli aneddoti come carburanti della narrazione, svincolandoli da qualunque riflessione o meta-riflessione sui ruoli, obiettivi e valori del racconto storico. Produce in questo modo un effetto realtà senza precedenti, inserendo un evento quotidiano nel contesto storico più generale per rappresentare i comportamenti dell’uomo politico in età classica.

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L’unico ritratto certo di Alcibiade pervenutoci (mosaico pavimentale del III-IV secolo d.C., Sparta, Museo Archeologico). Immagine di pubblico dominio.

Resta scontato che gli effetti di queste strategie comunicative vanno ben oltre le intenzioni dell’autore. L’uso massiccio di aneddoti accresce il piacere della lettura, movimenta l’azione conferendole solo accidentalmente un significato morale (e questo depone a sfavore delle letture moraliste delle Vite):ho cercato di collezionare le notizie sfuggite alla maggioranza degli storici, e anche dagli altri riferite incidentalmente, oppure rintracciabili soltanto in antiche iscrizioni votive o in decreti. […] Senza affastellare per questo una documentazione inutile; essa offre anzi una conoscenza più precisa del carattere e del temperamento (ethos e tropos) del personaggio”, (Plutarco, Vita di Nicia, 1,5).

Con l’obiettivo di svelare caratteri e temperamenti, l’aneddoto diventa un istorema, è usato come la più piccola unità di un fatto storico evitando così di pronunciare apertamente un elogio o un biasimo. In questo modo si realizza un sapiente equilibrio tra storia e racconto in cui l’aneddoto non è ridotto a una testimonianza (storica) di seconda classe, ma svela quasi la natura e le cause motrici di alcuni avvenimenti, un po’ come Diogene Laerzio nelle Vite dei Filosofi usa gli aneddoti nella loro valenza morale per incastonarli nella storia della filosofia.

Ma se in filosofia gli aneddoti veicolano un contenuto concettuale facendo dei filosofi individui fuori dal tempo, veicoli di teorie soltanto, nelle Vite di Plutarco fanno parte a tutti gli effetti della cassetta degli attrezzi dello storico e riescono addirittura a calare i personaggi nella trama di usi e costumi in cui vivono, lasciando al lettore la possibilità di giudicare e di chiedersi quale sia il senso dell’anomalia nel complesso della narrazione.

Plutarco attinge da un materiale storico che non è lui ad inventare, e del quale è tributario in tutti gli ambiti, compresa la sfera della descrizione dei modi di vita e dei comportamenti. Quello che gli è peculiare è lo sguardo con cui osserva i suoi personaggi, la riflessione etica che ne ricava, e ovviamente il magistero della scrittura. Senza Plutarco, oggi noi forse non sapremmo che Alcibiade passeggiava in Atene con una quaglia sotto il braccio, e che per compiere un atto di generosità saliva di slancio alla tribuna dell’assemblea. Ma non è stato Plutarco a inventarsi questa storia di un giovane aristocratico ateniese così amato, bensì gli stessi greci coevi di Alcibiade. È quindi un discorso elaborato in età classica che permette allo storico dei nostri giorni di comprendere i diversi aspetti della seduzione greca, e più in generale il legame che intercorre tra costume e politica“, (Pauline Schmitt Pantel, cit., p.158).

Perché allora passeggiava in Atene con una quaglia sotto il braccio? Lascio a voi la lettura delle Vite Parallele.

Fonti:

(1) Pauline Schmitt Pantel, I migliori di Atene. La vita dei potenti nella Grecia Antica, Laterza, 2009.

(2) Plutarco, Vite Parallele vol. 3, UTET.

(3) Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, Laterza.

(4) Plutarco, Vite Parallele. Nicia-Crasso, BUR.