Poca storia nella scuola per il ministro Bussetti

Per il ministro Bussetti di storia a scuola ce n’è già troppo poca, è presente in maniera trasversale nelle altre materie, ma poi la materia vera e propria si ferma alla seconda guerra mondiale.

Le parole del ministro dicono il vero, c’è poco da obbiettare, ma bisogna fare comunque qualche precisazione.
L’insegnamento della storia è sempre più limitato, non tanto sul piano formativo, i manuali arrivano agli anni duemila, i programmi si spingono fino a pochi decenni fa, quello che manca, e che stranamente sfugge agli occhi di un Ministro ed ex dirigente scolastico, son le ore dedicate alla materia, e gli insegnanti di storia.

Come ha dichiarato il ministro, il grosso dell’insegnamento della storia è trasversale, presente in altre materie, ma nel dire questo, non propone un incremento delle ore di storia o degli insegnanti, ma al contrario, propone una riforma a costo zero che scaricherebbe su un po’ tutto il corpo docenti, l’onere di insegnare storia e questo tentativo di valorizzare la materia, rischia di avere l’effetto opposto, rischia di mettere a rischio l’intero insegnamento della storia.

Partiamo dal principio, la questione della storia nella scuola è stata sollevata in seguito alla decisione di eliminare la traccia storica dalla prima prova all’esame di maturità, questa notizia ha galvanizzato l’attenzione di molti negli ultimi mesi, tra i tanti, la senatrice a vita Liliana Segre che ha chiesto al ministro di tornare sui propri passi dichiarando “Non rubiamo la storia ai ragazzi: ne hanno un immenso bisogno”.

Ci ho riflettuto molto e personalmente non trovo la rimozione della traccia storica così dannosa e anzi, l’idea di Bussetti, in un certo senso mi piace, e mi piace anche tanto in realtà. Il motivo per cui l’idea di togliere la traccia storica dalla maturità oggi non mi dispiace è perché, stando alle parole del ministro, la sua rimozione porterà progressivamente all’inserimento di maggiori elementi storici nelle altre tracce della prima prova e nelle altre prove della maturità, così da rendere la conoscenza storica un elemento trasversale realmente importante, che accompagnerà in qualche modo tutto l’esame di maturità, praticamente, se è vero che da un lato viene eliminata la traccia storica (che comunque non faceva quasi nessuno), dall’altro lato, praticamente tutte le prove diventano in qualche modo storiche, dal tema scritto alla prova orale, e questo di fatto rende la sorta un cardine per tutte le altre materie.

Si tratterebbe quindi di un uso pratico della storia, che in un certo senso viene valorizzata, perché viene data alla storia una sua utilità un suo ruolo nella scuola, e soprattutto si va a scardinare il concetto che la storia sia solo una successione di nomi e di date fine a se stesse, ma c’è un ma, ed il ma riguarda l’insegnamento stesso della storia.

Perché questo cambio del modo in cui viene insegnata la storia a scuola avvenga realmente è necessaria una riforma dell’intero ordinamento scolastico ed è questa riforma necessaria a preoccuparmi, perché, a detta del ministro, sarebbe una riforma a costo zero, e se da una parte l’intento è quello di integrare l’insegnamento della storia nelle altre materie, il rischio che si corre è che la storia venga ridotta, ancora di più di quanto già non sia, a strumento di supporto (che non è neanche totalmente una cattiva idea, anzi, personalmente sono favorevole ad un diverso modo di insegnare la storia integrandola maggiormente con tutte le altre materie scolastiche) e che questa trasformazione in supporto, rischia di portare ad una progressiva riduzione dell’insegnamento effettivo della storia, questo perché si tratta di una riforma a costo zero e c’è un solo modo per farlo a costo zero, ovvero delegare ad altri insegnanti già presenti nel sistema scolastico.

Ovviamente si tratta solo di supposizioni speculative, non abbiamo bozze di legge, ma solo mezze dichiarazioni molto vaghe, ma da queste dichiarazioni si può andare in due direzioni, e sebbene speri che la strada sia quella positiva, qui voglio soffermarmi soprattutto sull’ipotesi negativa.

Trattandosi di una riforma a costo zero per incrementare l’insegnamento della storia, non stiamo parlando di integrare storia e matematica, storia e fisica, storia e chimica, in un percorso parallelo, perché andare in questa direzione comporterebbe dei costi, tra le ore extrascolastiche che gli insegnanti dovrebbero dedicare ad un maggiore coordinamento, alle ore effettive di insegnamento della storia che dovrebbero essere incrementate. Produrre questo incremento a costo zero può essere fatto in un solo modo, ovvero inglobare l’insegnamento della storia in altri insegnamenti, quindi affidare il compito di contestualizzare storicamente le proprie materie ad insegnanti di matematica, fisica, chimica, e questo, non è un bene per lo studente, e questo, se fatto a costo zero, non è positivo per l’insegnamento e per gli studenti.

Già oggi la storia è insegnata principalmente da insegnanti laureati in lettere e filosofia, che hanno sicuramente un’ampia conoscenza della storia avendo dato, ai tempi dell’università, almeno tre esami di storia tra antica, medievale, moderna e contemporanea, ma non sono laureati in storia, non sono dei “professionisti” di quella materia, sono insegnanti specializzati in altre materie, in altre discipline scolastiche, a cui hanno affibbiato anche la storia in sede di concorso.

Al momento meno di 1/3 degli insegnanti di storia, alle superiori, ha seguito un percorso formativo realmente di carattere storico, e questo influisce molto sul modo di insegnare e di trattare la materia, spesso infatti è marginalizzata in favore dell’altro insegnamento dello stesso insegnante, letteratura negli istituti tecnici o filosofia nei licei, che è specializzato in quell’insegnamento, ed è proprio questa marginalizzazione in favore di altre materie che il più delle volte impedisce agli insegnanti di completare il programma di storia, che sistematicamente viene sacrificato per recuperare il programma di letteratura o di filosofia.

Storia ovviamente non è l’unica materia ad essere insegnata da qualcuno che non ha studiato quella disciplina, ma è quella che viene insegnata peggio perché affiancata ad altri insegnamenti in cui l’insegnante è spesso più addentrato.

Non so esattamente cosa abbia in mente il ministro e come voglia riformare il sistema scolastico per migliorare lo studio della storia senza spendere un soldo, la soluzione più probabile, ipotizzata da molti, sembra essere un rafforzamento dell’insegnamento trasversale, che voglio sperare significhi aumentare la componente storica della letteratura, arte, filosofia, ma anche chimica, fisica, matematica ecc, voglio sperare che significhi andare a contestualizzare maggiormente la scoperta, l’invenzione o la composizione artistica in un preciso momento e contesto storico, anche se, questo è un qualcosa di difficilmente realizzabile a costo zero, a meno che non si voglia abbassare di molto il livello di formazione e fornire agli studenti un infarinatura estremamente superficiale.

Quella contestualizzazione è un qualcosa di molto complesso che non può essere fatta in modo automatico, che non può essere ridotto ad una serie limitata di informazioni di base, quali nomi, date e coordinate geografiche.

Contestualizzare storicamente qualcosa, significa comprendere e nel caso dell’insegnante, far comprendere, cosa è successo e perché è successo, significa definire in che ambiente politico, sociale, culturale è avvenuta una determinata situazione, significa comprendere e far comprendere quali erano gli equilibri, le forze in gioco, e con tutto il rispetto per gli insegnanti, non è un qualcosa che può essere fatto da qualcuno che non ha una buona preparazione storica di fondo, ed un insegnante di chimica, matematica o fisica, non ha quella preparazione.

Per fare un esempio concreto, un un insegnante di chimica o di fisica non sarà mai in grado di contestualizzare efficacemente un personaggio come Marie Curie, in un momento complesso come la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, a meno che non abbia studiato approfonditamente gli equilibri economici, sociali e politici di quel determinato momento storico, e non è in grado di farlo per una questione fisiologica, quelle conoscenze non appartengono al proprio campo di studi, sono aliene alla propria formazione. Perché, per quanto un chimico possa interessarsene sul piano personale (non me ne vogliano i chimici se li uso come esempio), quelle conoscenze non gli servono, non gli serve sapere in che clima lavorava Marie Curie o che ruolo ricoprì durante la prima guerra mondiale. Queste informazioni però, servono allo studente.

Per avere quindi degli insegnanti che siano in grado di insegnare chimica e storia contemporaneamente, in un liceo, in un istituto tecnico o un professionale, bisognerebbe stravolgere completamente l’insegnamento universitario e la formazione stessa degli insegnanti.

Questo tipo di trasformazione richiederebbe riforme importanti e profonde, che stravolgano in maniera radicale l’intero sistema scolastico in italia, dalle elementari alle università, e non è certamente qualcosa di semplice, ne qualcosa che può essere effettuato in poco tempo, e questo perché, con tutto il rispetto per gli insegnanti odierni, nessun insegnante in italia (e probabilmente neanche all’estero), a meno di casi particolari ed estremamente rari, in grado di insegnare bene e contemporaneamente la propria materia e storia.

Parliamoci chiaramente, non riescono a farlo efficacemente gli attuali insegnanti di storia e filosofia che, sistematicamente portano l’attenzione su l’una o l’altra materia, nonostante la forte connessione tra i due insegnamenti, non riescono a farlo efficacemente gli attuali insegnanti di storia e letteratura, che sistematicamente portano l’attenzione su l’una o l’altra materia, nonostante il forte parallelismo tra i due insegnamenti, come potrebbe insegnare bene storia ed un altra materia, un insegnante di chimica, di fisica o di matematica, la cui materia non ha alcun legame diretto con la storia se non nella contestualizzazione del momento in cui sono state fatte determinate scoperte?

Come già detto, l’unico modo è un cambio radicale nella formazione stessa degli insegnanti, ma a questo punto, servirebbero riforme strutturali importanti, e soprattutto costose, e, come abbiamo già detto mille volte ormai, questo non è compatibile con una riforma a costo zero.


Quindi che fare, e soprattutto come fare?

Purtroppo non ho la risposta a questa domanda.

Una cosa però è certa, al momento l’insegnamento della storia nella scuola è sempre più marginale, e a scanso di equivoci, la responsabilità di questa crisi non è del ministro Bussetti, lui è solo l’ultimo di una lunga serie di Ministri dell’Istruzione e innumerevoli passacarte che, negli ultimi trent’anni almeno, hanno spinto sempre di più verso la marginalizzazione di questa materia, allo stesso tempo ci tengo a precisare che le parole di Bussetti evidenziano, sotto certi aspetti, un desiderio di valorizzare questa materia. Quello che sfugge è il come.

L’idea di integrare maggiormente l’insegnamento della storia a quello di altre materie è, sul piano ideale, qualcosa di importantissimo, sul piano pratico però c’è solo un modo per renderlo reale, e questo modo è, non dico l’aumento, ma almeno il mantenimento delle attuali ore di insegnamento di storia. Queste ore però dovrebbero essere assegnate a qualcuno che conosca realmente la materia, qualcuno che non debba condividere l’insegnamento della storia con altri insegnamenti, queste ore dovrebbero andare ovviamente di pari passo al resto dei programmi scolastici e delle altre materie, e richiederebbero un maggiore lavoro di coordinamento degli insegnanti per contestualizzare efficacemente ciò che viene insegnato in tutte le materie.

Non so se il mio pensiero è abbastanza cristallino, ma per non rischiare fraintendimenti cerco di spiegarlo in maniera più chiara possibile.

Per quanto mi riguarda ogni insegnante dovrebbe insegnare un unica materia e dovrebbe avere una conoscenza estremamente ampia di quella materia, una conoscenza che non può essere colmata con qualche esame integrativo, spesso dato fuori piano di studi, solo per avere l’idoneità a partecipare ad un concorso.

Per quanto mi riguarda, l’idoneità all’insegnamento di una materia dovrebbe essere data dal conseguimento della laurea in quella determinata materia, senza strane forzature nel piano di studi.

Idoneità però non significa abilitazione o capacità di insegnare, un corso di laurea non dovrebbe occuparsi di formare insegnanti, ma di formare esperti in una determinata materia. Esperti a cui deve essere insegnato ad insegnare, magari anche nel corso di laurea con dei tirocini o post laurea con percorsi formativi volti a formare effettivamente degli insegnanti.

Nel mio mondo ideale, un laureato in storia, matematica, fisica, ecc dovrebbe poter partecipare ad un concorso che lo inserisca in un percorso formativo per insegnargli ad insegnare, che certifichi l’effettiva capacità di insegnare, inserire la persona nella graduatoria del sistema scolastico, così da avere un insegnante o aspirante insegnante competente nella materia che dovrà insegnare (e solo in quella) e soprattutto in grado di insegnare. Al momento purtroppo non è così che funziona e purtroppo non sono io il ministro dell’istruzione.

Il mio augurio è che in futuro il sistema scolastico possa migliorare efficacemente, e che il ministro dell’Istruzione proponga politiche di investimento sulla scuola, così che gli studenti possano trarre il massimo dal proprio percorso scolastico e dai propri insegnanti, che ricordiamo, essere lì principalmente per gli studenti.

Gli studenti meritano insegnanti sempre più competenti, preparati e adeguati al proprio ruolo, meritano insegnanti presenti, che siano lì per trasmettere qualcosa ai propri studenti, meritano che il fine ultimo della scuola torni ad essere la stimolazione mentale e la fruizione di informazioni, capacità e competenze, e non il banale superamento di interrogazioni ed esami.

Siamo tutti vittime della storia.

Personalmente credo che nella storia non ci siano vincitori o vinti, e che in fondo siamo tutti vittime della storia, carnefici di noi stessi, distruttori del nostro stesso destino.

In un discorso storico, puntare il dito e colpevolizzare qualcuno, è sbagliato, la storia non fa da giudice ne da giuria, la storia non giudica, e di conseguenza uno “storico” o meglio, uno storiografo, perché il mestiere di storico non esiste, non giudica, o almeno non dovrebbe giudicare, ciò che dovrebbe fare è limitarsi alla ricostruzione critica e puntuale, alla contestualizzazione dei fatti.

Molto spesso mi capita di leggere nei commenti ai miei post, video, ma anche ad altri post su facebook e sotto articoli non miei, discussioni che ricordano molto le dinamiche da stadio, con gente che fa il tifo per l’una o l’altra parte, dimenticando e ignorando quella dimensione di astrazione che dovrebbe avvolgere la storia.

Questa tifoseria diventa particolarmente rumorosa quando il tema storico di fondo, ha dei risvolti politici, e in quel caso, improvvisamente quel tifo da stadio si trasforma nel pubblico di Forum, e facendo da giuria sceglie in maniera arbitraria chi siano i carnefici e chi le vittime. Per quanto mi riguarda, colpevoli, responsabili, carnefici, vittime, sono tutti sulla stessa barca, una barca che appartiene al passato ed è affondata ormai da tempo.

E poco importa se siano passati cinquanta, cento, duecento, mille anni, quegli episodi, su cui i contemporanei si sono già espressi, sono stati ormai consegnati alla storia e dibattere su chi sia il colpevole è, per quanto mi riguarda, una madornale perdita di tempo e soffermarsi soltanto sulla nazionalità e l’orientamento politico di vittime e carnefici, è estremamente degradante per la storia, è un insulto alla storia e alle vittime tutte.

Ciò che andrebbe fatto, quando si affronta una questione storica, anche e soprattutto in una discussione pubblica, è, a mio avviso, una reale ricostruzione storica, una ricostruzione non circoscritta all’episodio in se, ma che contestualizzi l’episodio in un discorso più ampio e di carattere più generale, una ricostruzione che scavi a fondo e vada ad individuare il fattore scatenante di quella dinamica, di quell’episodio, perché capire come si è arrivati ad un determinato episodio è più importante dell’episodio stesso ed ha poco senso fissare dei paletti temporali, perché lo sappiamo che i paletti sono mera illusione, un artificio postumo che non delimita un bel nulla, e ciò che succede in un determinato momento, in realtà è iniziato molto prima di quel momento e termina molto dopo.

L’italia di questo ne è testimone diretta con l’esperienza della guerra civile durante la seconda guerra mondiale, lo scontro tra fascisti e antifascisti non inizia nel settembre del 43 e non finisce nell’agosto maggio del 45, e quello che è successo in Italia è successo in ogni altra guerra della storia, e il più delle volte, una guerra spesso si protrae ben oltre la sua conclusione ufficiale.

Contestualizzare storicamente un avvenimento storico, quale può essere un eccidio, una battaglia, un colpo di stato, un regicidio o un insurrezione, e mi fermo qui ma posso elencare un infinità di altre dinamiche, significa delineare cosa c’è a monte di quell’avvenimento, significa capire quali sono gli equilibri in gioco e quali sono sono i rapporti di forza nella regione, significa capire se c’era del malcontento o se si viveva tutti in armonia fino al giorno prima, e di solito, si scopre che c’era del malcontento, perché, come abbiamo visto sopra, nessun avvenimento storico inizia o termina con uno schiocco di dita, ma si manifesta al culmine di una lunga fermentazione, e, come già detto, spesso si prolunga ben oltre la propria conclusione ufficiale.

Effettuare questa ricostruzione, che ovviamente produce uno scenario molto più complesso e ampio di un banale “queste persone sono morte e queste le hanno ammazzate, quindi i morti sono le vittime e chi le ha ammazzate i carnefici”, la storia è più complessa di così, è più articolata, e non è raro che a morire siano i carnefici. Fare una ricostruzione storica implica una ricerca e raccolta di informazioni su questioni apparentemente lontane dall’episodio in se.

Bisogna partire dal momento in cui quelle persone o chi prima di loro, è sono giunte in quel posto, o quando si è instaurato un determinato equilibrio politico, bisogna chiarire in che condizioni vivevano gli uni e gli altri protagonisti della vicenda e in che ruolo avevano giocato gli uni o gli altri protagonisti della vicenda nel determinare le condizioni di vita della loro controparte.

Solo quando si ha un idea ben chiara e il più possibile completa, di tutto ciò che c’è attorno a questo episodi, solo quando si ha un idea estremamente cristallina delle dinamiche sociali e politiche in cui si inserisce questo episodio, allora, e solo allora, è possibile fare una ricostruzione realmente storica. Se non si ha questa lucidità, se non si ha questa completezza, se non si ha un idea ben precisa del contesto generale in cui quelle forze agiscono, allora non si sta facendo una ricostruzione storica, si sta solo giocando di fantasia, si sta facendo il tifo, e la storia non è uno stadio.

Indipendentemente da cosa uscirà fuori da quella ricostruzione, forse un solo elemento è costante per tutta la storia, parafrasando il poeta britannico Lord Tennyson, “su questo campo di battaglia nessuno vince“, e quel campo di battaglia è un qualsiasi momento della storia. La storia non conosce vincitori e vinti, perché al di la delle motivazioni dei carnefici, motivazioni che in nessun caso giustificano le loro azioni, se queste azioni implicano la morte di qualcun’altro, o della morte delle vittime, che non sono automaticamente assolte da ogni responsabilità perché morte, quando si arriva ad uccidere qualcun altro, c’è poco da fare il tifo e poco da festeggiare per una vittoria, o da rimuginare per una sconfitta, perché hanno già perso tutti, carnefici e vittime.

Molto spesso si dice che la storia è scritta dai vincitori, altri dicono che la nostra storia semplicemente la storia dei vincitori sui vinti, due formulazioni molto simili tra loro, ma anche molto diverse, e per quanto mi riguarda entrambe false allo stesso modo, perché, per quanto mi riguarda, la storia non è scritta dai vincitori, perché semplicemente non credo ci siano dei vincitori. Personalmente credo che siamo tutti vittime della storia, carnefici di noi stessi, e continueremo ad essere vittime finché ci ostineremo a trattare la storia come una partita di calcio, finché continueremo a fare il tifo invece di cercare di capire cosa è successo, cosa sta succedendo e cosa succederà.

La corretta pronuncia di un nome, è una questione estetica trascurabile ai fini dell’informazione.


Oggi vi spiego perché la corretta pronuncia di un nome, in un mio video, è una questione estetica trascurabile ai fini dell’informazione.

Ho deciso di scrivere questo post, volutamente molto polemico, perché più di qualcuno, nelle ultime settimane, è venuto sotto alcuni miei video accusandoli di scarsa qualità, il motivo, non era la carenza di informazione, i dettagli ed i dati forniti, o l’assenza di fonti no, questi elementi andavano bene, l’esposizione a loro dire era esaustiva, i dettagli tanti, i dati accurati, le fonti sempre presenti e illustrate, il problema di quei video? aver pronunciato male alcuni nomi di uomini e città, l’ultimo episodio ha visto come protagonista la città di “Nantes” in Francia nord occidentale, in un contesto generale in cui veniva nominato “l’editto di Nantes”, pronunciato Nantes e non Nantés, anche se poi, la corretta pronuncia non sarebbe neanche quella indicata dal “correttore”, ma non stiamo a fare i pignoli… dico solo che la corretta pronuncia sarebbe nɑ̃t, ma come dicevo, non stiamo qui a fare i pignoli sulla corretta pronuncia di un nome in una lingua che non conosco.

Ovviamente non è importante cosa implica quell’editto, in che contesto è stato emanato, quali erano gli equilibri politici del tempo, quali erano le forze in gioco, quali sono state le cause che hanno portato all’emanazione dell’editto o le sue conseguenze, tuttavia per me questi elementi sono centrali in un discorso storico, e come sempre ho preferito dare ampio spazio nel video a questi elementi piuttosto che alla corretta pronuncia del nome della città, corretta pronuncia che, per quanto mi riguarda è l’elemento realmente “irrilevante” , se proprio dobbiamo trovare qualcosa di irrilevante.

Ma allora, pronunciare male un nome è o non è un problema?

Per qualcuno evidentemente no, non lo è affatto, per quanto mi riguarda, è una questione banale e superficiale, certo, una pronuncia corretta rappresenta sicuramente un valore aggiunto, un dettaglio, a mio avviso, estetico, e di forma, un elemento che contribuisce a rendere migliore il contenuto, ma se assente, non lo danneggia ne lo rende inesatto e se la pronuncia non è perfetta, a mio avviso, è assolutamente irrilevante, soprattutto se si parla della pronuncia è di una lingua che non si conosce realmente.

La mia pronuncia di un nome, in una lingua che non conosco è sbagliata? Si, è vero, e il motivo è che non sono un linguista, non conosco in questo caso specifico il francese, ma non conosco neanche il tedesco, non conosco il russo, il coreano, il cinese o lo spagnolo, il mio accento inglese è pessimo e per un mio personale difetto di pronuncia a volte pronuncio “male” anche nomi in italiano, visto che molti nomi, soprattutto di città, sono spesso soggetti ad influenze regionali che vengono ignorate dalla lingua italiana, e va bene così, perché il modo in cui io o chiunque altro pronuncia il nome di una città francese, austriaca, tedesca, italiana, russa, inglese, alla fine, in un discorso di carattere storico, è totalmente irrilevante.

E’ irrilevante di fronte alla complessa rete di dinamiche ed equilibri che si celano dietro quel nome, in questo caso specifico dietro il nome della città di Nantes, dell’editto di Nantes, e in un discorso storico sull’editto è importante, per non dire fondamentale, capire e spiegare bene cosa è successo, comprendere le dinamiche e gli equilibri, il dove, il come, il quando e il perché. Nel mio caso specifico il tutto condensato in un video di pochi minuti (perché anche 40 minuti di video sono pochi per comprendere a pieno un’importante avvenimento storico), ed è importante ricordare che dietro quei pochi minuti di video editato e pubblicato, ci sono in realtà diverse ore di lavoro, tra studio, preparazione, letture, scrittura, registrazione, montaggio, esportazione ecc,

Attenzione, da qui in avanti divento polemico, quindi se volete interrompere la lettura vi consiglio di farlo ora, perché il discorso sulla pronuncia può dirsi finito.

Nel prossimo blocco parlerò invece del perché, anche potendo, scelgo comunque di non correggere eventuali “errori” di pronuncia.

La risposta è semplice, per non dire banale, ho poco tempo a disposizione per registrare ed il motivo per cui ho poco tempo è che registro quando ne ho la possibilità, mi capita infatti molto spesso di registrare diversi video in un giorno, e poi non registrare per settimane intere, e non essendo Historicaleye il mio lavoro, preferisco usare quel poco tempo che ho a disposizione per avere e per fornire un idea chiare di cosa è successo in un determinato contesto storico e personalmente non ho alcuna intenzione di sprecare minuti preziosi, perché i momenti che ho per registrare sono molto rari ed estremamente preziosi, nel tentativo di fingere di saper pronunciare una lingua che in realtà non conosco.

Se devo scegliere tra tenere o rifare una ripresa, perché ho esposto male un concetto, allora non è un problema, non ci penso due volte e la registrare di nuovo, ma se devo tenere o rifare una ripresa perché “ho pronunciato male un nome“, non ci penso neanche a cancellarla, a registrala di nuovo, in primis perché spesso accade che quando mi accorgo dell'”errore di pronuncia” sono già in fase di editing e la maggior parte delle volte tra la registrazione e l’editing passano diversi giorni, a volte settimane, e per registrare una nuova scena da inserire nel video dovrei ri allestire il “set” , ovvero,posizionare luci, microfono, telecamera, che normalmente non sono posizionati al centro della stanza ma riposti in un angolo, e questo richiederebbe non poco tempo, considerando soprattutto che non sempre quando edito posso anche registrare, spesso infatti edito la sera tardi, mentre altre persone in casa dormono e non è molto corretto da parte mia accendere luci, spostare mobili, fare molti rumori e parlare a voce alta nel cuore della notte.

Se decido di registrare nuovamente un video o una parte di video quindi deve esserci un motivo reale, deve essere per una correzione o un aggiunta importante, perché questa decisione significa rinunciare ad una serata di editing e sottrarre minuti preziosi alla prossima sessione di registrazione.
La scorsa settimana, quando ho registrato ilvideo podcast su Galilei, ad un certo punto del video, quando nomino la messa in discussione della teoria geocentrica, ho commesso un errore, la prima volta che ho registrato il video, ho detto “teoria che successivamente, a metà del XVI secolo, sarebbe stata sconfessata da Copernico, con il suo modello eliocentrico del sistema solare“.

Questo esempio è molto significativo perché in realtà ci sono due errori, uno di carattere linguistico (un nome pronunciato male) ed uno di carattere concettuale (un informazione riportata male), il primo è il nome di Copernico, pronunciato all’italiana, come siamo abituati a fare fin dalle scuole elementari, ma di fatto si tratta di una translitterazione, un italianizzazione di un nome latino che a sua volta è una latinizzazione del nome reale, volendo quindi mantenere una correttezza linguistica totale, sarebbe inesatto pronunciare Copernico, non essendo Copernico italiano, il secondo errore riguarda il quando, dicendo infatti “successivamente” avevo posto temporalmente Copernico dopo Galilei, e non è così che sono andate le cose, anzi, Copernico è morto vent’anni prima della nascita di Galilei.

Correggere questo errore, registrare di nuovo quel passaggio di pochi secondi nel video, mi è costato molto tempo, ma non è stato tempo sprecato perché è servito per correggere un informazione errata, ma se non ci fosse stato l’errore, mai mi sarei sognato di registrare di nuovo, di usare quel tempo per correggere “la pronuncia” del nome di Mikołaj Kopernik, cosa che non ho fatto ugualmente, nonostante abbia registrato una seconda clip, ho continuato a pronunciare “Copernico”. Gettare via una parte di registrazioni per correggere la pronuncia di un nome, a mio avviso sarebbe stato un immane spreco di tempo, e visto che, ci tengo a sottolinearlo, nessuno mi paga e che non guadagno praticamente nulla per fare questo “lavoro” che, per chi avesse perso le puntate precedenti, non è il mio lavoro, nonostante per realizzare un video spenda tra le 24 e le 30 ore alla settimana, questo tempo non è dovuto e non è ripagato, è tempo che ritagliato, con il contagocce, e tempo che sottraggo ad altro, perché mi piace fare video e parlare di storia, è tempo che non mi permette neanche di rientrare delle spese per il mantenimento del sito per il cui rinnovo sono stato costretto ad attivare un Patreon. Da questo punto di vista è tempo che io pago, che io spendo, per dare qualcosa a voi che mi seguite, a chi arriva ai miei video con una ricerca, ed è molto scortese, oltre che irrispettoso, da parte di alcune persone, che non hanno mai lasciato un commento, un like, che non hanno mai condiviso un video o supportato in alcun modo questo progetto, chiedermi di aumentare il tempo impiegato per un video, chiedermi di sottrarre altro tempo a lavoro, famiglia, amici, chiedermi di sottrarre altro tempo, oltre alle già numerose ore che dedico al progetto, sottraendole a me per dare qualcosa a voi.

Se per qualcuno, il fatto che nei miei video alcuni nomi sono pronunciati male è sinonimo di bassa qualità del contenuto, mi dispiace, ma, almeno per il momento non farò nulla per “correggerlo” perché appunto, farlo mi richiederebbe tempo che non ho, e personalmente preferisco fornire informazioni e dati corretti, piuttosto che una pronuncia falsata di un nome italianizzato da una lingua che non conosco. Nel come spesso accade, alla fine si parla della correttezza di una pronuncia italianizzata di un nome in una lingua straniera, mi si chiede di correggere l’errore, con una pronuncia che è altrettanto errata.

Se però, per qualche ragione, dovessi arrivare a guadagnare abbastanza da questo progetto, e quindi non solo il minimo indispensabile per poter coprire parte delle spese fisse legate al progetto, ma anche per poter mantenere me stesso e la mia vita, se questo progetto, per qualche motivo dovesse diventare il mio lavoro (e ricordiamo che al momento non è il mio lavoro e anzi, fare video e scrivere articoli, sottrae tempo al mio vero lavoro), in quel caso, e solo in quel caso, avendo più tempo da dedicare ai contenuti che realizzo, anzi, dovendo dedicare molto più tempo e attenzioni ai contenuti che produco, allora manterrei una postazione di registrazione fissa, acquisterei un pc adatto all’editing, e visto che questo progetto, in quel caso, sarebbe il mio lavoro, non sarebbe un problema e anzi, sarebbe un dovere da parte mia, ripetere una “scena” in cui pronuncio un nome, per dare una pronuncia “corretta“, ma fino a quel momento, finché historicaleye continuerò ad essere realizzato nei miei ritagli di tempo, vi chiedo la cortesia, l’educazione e rispetto per il mio lavoro non retribuito.

Se un nome non è pronunciato con un perfetto accento francese o tedesco, magari possiamo anche passarci sopra.

Se un concetto è esposto male no, su quello non dovete passarci sopra, anzi, vi chiedo la cortesia di intervenire e correggermi, perché una svista può capitare a chiunque e se mi capita, mi fa piacere se intervenite, perché un informazione sbagliata o esposta male va corretta. Ma vi chiedo anche la cortesia di valutare quello che ritenete un errore con lucidità e intelligenza.

Per farvi un esempio pratico, se pronuncio Nantes, Nantés o Nantès è irrilevante, che accento uso, se uso un accento e dove lo uso è irrilevante, se invece dico che Nantes si trova nella francia provenzale, questo è un errore da segnalare e correggere, se colloco Nantes e nello specifico l’editto di Nantes nel luogo e nel tempo sbagliato, quindi non nel contesto della guerra dei 30 anni, ma che so, nel contesto delle crociate del XII secolo, in un tempo totalmente alieno al XVI secolo, se contestualizzo male l’editto, o ne attribuisco la paternità a George Washington, quello è un errore da segnalare e correggere, non il modo in cui ho pronunciato il nome di una città, che, tra le altre cose neanche si chiama davvero Nantes.

Questa è l’ultima volta che mi esprimerò sulla questione, la mia pronuncia di lingue che non conosco non è perfetta, ne sono consapevole, e va bene così, rimarrà imperfetta, almeno fino a quando questo progetto verrà realizzato nei miei ritagli di tempo e non sarà un lavoro retribuito.

Si rafforza l’asse Pechino-Riad

Il principe Mohammed Bin Salman approva la costruzione di campi di rieducazioni per musulmani in cina

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Il principe saudita Mohammed Bin Salman, durante la sua visita a Beijing (Pechino), si è lasciato andare ad alcune dichiarazioni con cui ha difeso la costruzione di campi di rieducazione per musulmani in Cina.

Stando alle parole del principe, andate in onda in diretta sulla TV cinese La Cina ha il diritto di svolgere attività antiterrorismo e de-estremizzazione per la sua sicurezza nazionale“.

Parole che faranno sicuramente piacere ad alcuni leader europeei fortemente antiislamici, la cui carriera politica è stata costruita sulla lotta al terrorismo e la difesa (apparente) della sicurezza. Ma il non detto in questa dichiarazione di Mohammed Bin Salman è forse più importante delle parole dette in diretta televisiva, poiché queste parole rivelano e in un certo senso, mettono in evidenza quello che ormai, da tempo, era sotto gli occhi del mondo, la nascita ed il consolidamento di un “asse Pechino-Riad“.

Stiamo assistendo alla nascita di un “asse” Pechino-Riad, che, alimentata soprattutto dal commercio petrolifero verso la Cina (che per chi non lo sapesse, la cina è attualmente il principale acquirente di petrolio Saudita al mondo), permette alla Cina di compiere un ulteriore passo verso il consolidamento della propria posizione come potenza egemone mondiale, in quasi ogni campo.

La Cina sta consolidando il proprio potere globale, sta adunando attorno a se vecchi e nuovi alleati, sta costruendo nuove rotte commerciali, stipulando nuovi trattati e accordi internazionali con paesi un tempo insospettabili come l’Arabia Saudita e l’India.

Il rafforzamento della posizione della Cina come grande potenza mondiale, è importante sottolinearlo, si lega in maniera molto forte al destino e il ruolo che gli USA stanno giocando in questo dato momento storico. Gli USA, che per decenni si sono presentati al mondo come “lo sceriffo autoproclamato, che manteneva l’ordine globale, negli ultimi anni hanno dichiarato, in più occasioni, soprattutto sotto la presidenza di Donald Trump, il proprio interesse a ritirarsi da molti dei teatri bellici e belligeranti del pianeta, gli USA un po’ per scelta, un po’ per necessità stanno arretrando, e nel farlo, stanno lasciando alle proprie spalle un enorme vuoto nelle dinamiche e negli equilibri planetari.

Un vuoto che dovrebbe essere riempito dall’ONU, ma l’ONU, come sappiamo, a causa dei propri limiti strutturali, non è in grado di colmare e assolvere appieno alla propria missione istitutiva, garantire pace e ordine nel mondo.
Questo vuoto ha alimentato e sta alimentando, una crescente corsa al potere, corsa che sotto certi aspetti è iniziata già sul finire degli anni ottanta, con il declino dell’Unione Sovietica e la fine del vecchio sistema bipolare del mondo, e che all’epoca avrebbe dovuto vedere, nelle mire di molte, l’irruzione dell’Europa, come nuova potenza egemone del mondo, in grado di controbilanciare il potere statunitense.

Questo però, non è accaduto, l’Unione Europea ha preferito rintanarsi nel proprio paradiso perduto, costruendo un isola felice e in un certo senso isolandosi dal resto del mondo. Questo isolamento europeo ha permesso, nei successivi trent’anni circa, alla Russia di acquistare molta dell’antica potenza dell’Unione Sovietica, ma ha anche permesso la nascita di nuove potenze globali come la Cina, che oggi, è rappresenta la principale rivale del mondo “occidentale”.

L’Unione Europea negli anni novanta aveva in mano tutte le carte giuste per potersi imporre come potenza egemone nel mondo, ma ha preferito restare in disparte a guardare, ha preferito delegare ad altri (gli stati uniti) il compito di “tutelare” la “pace e l’ordine” per conto delle Nazioni Unite, e mentre l’Europa guardava, la Cina cresceva in potenza, ed oggi si trova nella condizione di poter scardinare il vecchio sistema globale, che per secoli ha visto l’europa e il mondo occidentale porsi all’apice delle civiltà umane, proponendo il proprio sistema mondo.

La Cina oggi è ad un passo dal diventare una superpotenza pari, o forse superiore, alle Superpotenze della Guerra Fredda, la Cina oggi è ad un passo da sostituirsi agli USA e al mondo occidentale.

Un nuovo sceriffo è in città e la sua presenza, desta timore e stupore, e mentre al saloon l’europa serve da bere a buoni e cattivi, i due sceriffi si preparano a scontrarsi in un duello di quelli che solo Sergio Leone sapeva raccontare. Ma chi sarà più veloce a sparare, chi colpirà per primo, chi cadrà, chi sarà il nuovo sceriffo, questo è ancora presto per dirlo, nel frattempo banditi e onesti lavoratori fanno il tifo per l’uno o l’altro sceriffo, qualcuno scappa, qualcuno gioca la sua ultima mano al tavolo mentre sorseggia un boccale di birra ghiacciata appena versato nel saloon “la vecchia europa”.

Chi era Galileo Galilei?

L’uomo che Inventò la scienza moderna.

Galileo Galilei, l’uomo che inventò il metodo scientifico e il telescopio, intuì l’esistenza della forza di gravità e della costante di accelerazione gravitazionale (pur non riuscendo a calcolarla), mettendo così in discussione la teoria geocentrica e per questo fu perseguitato dalla santa inquisizione. Un accademico, un matematico, un ingegnere militare, un uomo che oggi definiremmo un visionario e un luminare, la cui intelligenza, come spesso accade, fu spesso vissuta come un peso, un genio di quelli che nascono raramente.

Galilei vine spesso preso a modello, come esempio da chi sostiene teorie stravaganti che non incontrano il consenso generale, ma ridurre Galilei ed il suo genio a questo, è estremamente riduttivo, oltre che falso.

Galileo Galilei non era un provocatore, non era un uomo che seguiva teorie stravaganti per il proprio gusto, ne era un ricercatore indipendente che lavorava a chissà quale misteriosa invenzione, in penombra nella propria cantina. al contrario, no, Galilei non era nulla di tutto questo. Era invece un rinomato accademico del proprio tempo, un uomo che godeva di grande rispetto e ammirazione nei salotti aristocratici e nei circolo colti, un uomo che lavorò a stretto contatto con importanti realtà politiche dell’epoca.

Lavorò a lungo all’Università di Pisa e all’Università di Padova, occupando la cattedra di matematica, lavorò a lungo e continuativamente (tra il 1592 ed 1610) per il Doge di Venezia, anzi, con i Dogi, Pasquale Cicogna (1585–1595), Marino Grimani (1595–1605) e Leonardo Donà(1536-1612). Il Doge non era un’uomo qualsiasi, era l’uomo più potente di quella che sul finire del XIV secolo e i primissimi anni del XV secolo, era forse la più potente e influente delle repubbliche marinare, e delle più grandi e influenti potenze marittime del mediterraneo, il Doge era un uomo la cui posizione di comando gli permetteva di muovere guerra a realtà potenti come l’Impero Ottomano e Roma, la sede del papato.

Questi uomini, (Cicogna, Grimani, Donà) affidarono a Galilei le sorti, ed il futuro, della propria città, incaricando il matematico pisano di sviluppare cannoni più efficaci, con una maggiore potenza e gittata, rispetto a quelli all’epoca in circolazione, elementi (potenza e gittata) che, in uno scontro navale, avrebbero fatto la differenza tra vittoria e sconfitta, ed essendo la serenissima un’importante realtà marittima, una delle maggiori potenze navali del mediterraneo, questo significava consolidare la posizione di potere di Venezia.

Questo incarico impegnò Galilei per quasi due decenni, nel corso dei quali frequentò assiduamente l’arsenale militare di Venezia, facendo test, esperimenti ed in quel contesto di ricerca applicata rifinì quello sarebbe stato consacrato come metodo scientifico.

Galilei studiò diverse miscele di polvere da pirica, nel tentativo di sviluppare l’esplosione più veloce, quindi più potenti, confrontò cannoni di diverso calibro e lunghezza, nel tentativo di individuare la combinazione più efficace, confrontò le diverse angolazioni dei cannoni, al fine di determinare l’angolo ideale per la migliore gittata.

Contestualmente a questi esperimenti e alla propria posizione accademica, strinse numerose amicizie nei salotti veneziani e padovani, il tutto consentito dal positivo e florido clima di tolleranza che attraversava la Serenissima. Tra queste amicizie vi erano filosofi, astronomi e matematici, ma anche nobili ed uomini di cultura, dediti al sapere e alla ricerca, e nelle lunghe giornate trascorse a confrontare idee e teorie con uomini come Paolo Sarpi, Andrea Morosini, Cesare Cremonini e Giovanfrancesco Sagredo (futuro protagonista del Dialogo sopra i massimi sistemi), Galilei ottenne alcune delle sue più importanti scoperte e conquiste in campo scientifico.

Già prima di raggiungere Venezia Galilei aveva dimostrato il proprio valore, come dimostra la docenza di Matematica, svolta per conto dell’università di Pisa, tra il 1589 ed il 1592, e le ricerche che svolse in quegli anni, ricerche che, secondo la leggenda, lo avrebbero portato a compiere il famoso esperimento di caduta dei gravi dalla Torre di Pisa stabili, esperimento che volto a dimostrare che oggetti di peso differente cadono alla stessa velocità, in obiezione alle teorie Aristoteliche, e proprio grazie a queste dimostrazioni, Galilei venne convocato a Venezia.

L’intuizione della forza di gravità, questa misteriosa forza d’attrazione che ci tiene incollati al terreno e ci impedisce di librarci nel cielo,
la cui costante di accelerazione venne calcolata non molto tempo dopo da Isaac Newton, aveva importanti applicazioni militari, una su tutte, la possibilità concreta di migliorare la gittata dei cannoni delle navi. Questa possibile applicazione militare fu sufficiente a convincere il Doge Pasquale Cicogna ad invitare Galilei a Venezia, dando inizio ad un sodalizio che sarebbe durato quasi un ventennio.

Studiare la gittata dei cannoni, e soprattutto aumentarne la gittata, significava compiere numerose misurazioni tra un colpo esploso ed il successivo, era infatti necessario sapere esattamente quanta distanza aveva percorso ogni singola palla di cannone esplosa, e questo significava numerosi assistenti ed aiutanti che correvano avanti e in dietro tra il cannone e il punto di impatto delle palla di cannone.

Questo procedimento era molto lento e rallentava tantissimo la raccolta dei dati, che spesso si limitava ad una dozzina di colpi al giorni. Per ovviare a questo problema, Galilei cercò un modo più rapido per avere informazioni, il più possibile accurate, e nel minor tempo possibile, sulla distanza percorsa dalle palle di cannone. Ideò quindi un sistema di griglie che contrassegnavano il campo durante i test balistici, dopo di che, si procurò uno strumento che gli permettesse di guardare più lontano di quanto i suoi occhi non riuscissero a vedere, posizionò delle lenti levigate alle estremità di un cilindro creando la prima versione di quello che sarebbe diventato il suo famoso cannocchiale.

Il cannocchiale, da cui sarebbe poi scaturito il telescopio, strumento con cui Galilei avrebbe scrutato i cieli notturni della sua Pisa, osservando stelle e pianeti e raccolto i primi dati sul moto astrale, dati che avrebbero successivamente portato allo sviluppo della teoria eliocentrica e messo in discussione la teoria geocentrica, portando così Galileo Galilei a scontrarsi, sul piano intellettuale, con i dogmi della chiesa romana e conseguentemente, dovette affrontare i tribunali della santa inquisizione.

Quella che è forse la più grande conquista scientifica di Galileo Galilei non fu ottenuta per la vocazione di un visionario, ma per l’ostinatezza e la determinazione di un uomo a cui era stato affidato un incarico ben preciso. Fu la necessità di migliorare la gittata dei cannoni veneziani che permise a Galilei di creare quello strumento di osservazione che gli avrebbe portato gloria postuma ed enormi problemi in vita.

Va però detto che Galilei fu molto fortunato nella propria sfortuna, perché un qualsiasi altro uomo, con quelle teorie, in quel momento storico, non sarebbe sopravvissuto alle torture dell’inquisizione. Ma Galilei non era un uomo comune, non era un mugnaio friulano come Domenico Scandella, detto Menocchio, che credeva la vita sulla terra fosse scaturita come dei vermi sul formaggio, Galilei aveva frequentato e frequentava salotti importanti, godeva dell’amicizia, della stima e del rispetto di uomini potenti e molto influenti, certo, non così potenti da impedire i processi, ma abbastanza da impedire che Galilei venisse condannato a morte per eresia, permettendogli di continuare a vivere, compiere le proprie proprie ricerche e sviluppare le proprie teorie per molti anni.

Letture consigliate per approfondire

B.Brecht, Vita di Galilei, https://amzn.to/2V1fODv
M.Camerota, Galileo Galilei. Antologia di testi, https://amzn.to/2GuFt4o
A.Zorzi, La repubblica del leone, Storia di Venezia, https://amzn.to/2EeoEIp
G.Minchella, Frontiere aperte. Musulmani, ebrei e cristiani nella Repubblica di Venezia, https://amzn.to/2GuObzI
M.Sangalli, Cultura, politica e religione nella Repubblica di Venezia tra Cinque e Seicento. Gesuiti e somaschi a Venezia, https://amzn.to/2EdX0LG

La Battaglia, storia di Waterloo di Alessandro Barbero | Recensione

Recensione del saggio La Battaglia, storia di Waterloo di Alessandro Barbero

Molte volte ho parlato di Napoleone e di Waterloo, di quella battaglia che in un certo senso ha rotto l’incanto e consegnato Napoleone alla Storia.

La battaglia di Waterloo è stata raccontata da innumerevoli autori, a partire da Carl Von Clausewitz che su quel campo di battaglia era effettivamente presente, e non è mia intenzione aggiungermi, con questo post, alla lunga lista di nomi che hanno raccontato la battaglia.

Il mio intento è quello di fornire la mia personalissima ed estremamente soggettiva opinione sul saggio La Battaglia, Storia di Waterloo di Alessandro Barbero, storico e divulgatore italiano, docente di storia all’università di Torino che non ha certo bisogno di presentazioni, il suo lavoro come consulente e divulgatore su Rai Storia e membro del comitato scientifico di programmi come Quark e Ulisse, i suoi saggi e le sue innumerevoli conferenze tenute in tutta italia sono una garanzia di qualità e affidabilità, e questo saggio sulla battaglia di Waterloo non fa eccezione, è un un saggio a mio avviso meraviglioso, che vi consiglio di recuperare se non avete già letto.

Non serve che quindi mi dilunghi oltre sul curriculum e la biografia del professor Barbero e forse non serve neanche che vi dica cosa troverete nel libro qualora decideste di leggerlo, ma lo farò lo stesso.

Napoleone, per anni era stato forse qualcosa in più di un semplice uomo, di un semplice generale, di un semplice imperatore. Per milioni di uomini e donne in tutta europa Napoleone era stato quasi l’incarnazione di un sogno, aveva rappresentato l’avanguardia di una nuova epoca che si faceva strada nel vecchio mondo, era stato quasi una visione del mondo futuro che si affacciava sulla vecchia e logora europa.

Allo stesso tempo però, per altri versi, Napoleone era stato anche uno spietato signore della guerra, un demone sanguinario feroce, un folle che aveva spalancato i cancelli degli inferi, lasciando che la morte si riversasse sull’Europa come un fiume in piena e da questo punto di vista, la battaglia di Waterloo si presentava come l’ultimo grido disperato del morente gigante Golia che cadeva sotto i colpi di fionda del piccolo Davide.

Napoleone era stato il sogno e l’incubo dell’Europa tutta e dei suoi popoli, era stato amato ed odiato, prima di essere consegnato definitivamente alla storia, nell’atto finale di quel monumentale spettacolo che era stato l’impero francese, e che ora conosceva nella battaglia finale di Waterloo.

La battaglia di Waterloo è sicuramente più di una semplice battaglia, ebbe senz’altro un valore simbolico sia sul piano militare che sul piano politico, fu certamente una battaglia epocale, il cui esito avrebbe definito il futuro e le sorti dell’europa, che all’epoca, era ancora il cuore pulsante del mondo, e di conseguenza la battaglia di Waterloo segnò il futuro del mondo da quel momento in avanti.

Ma al di la di questo banale esercizio di retorica, alla fine, a Waterloo si combatté una vera battaglia, e soldati ed uomini provenienti da ogni angolo del vecchio continente, si scontrarono, si affrontarono, furono posti gli uni contro gli altri, fucile contro fucile, spada contro spada, cadavere sopra cadavere, per definire le sorti del mondo.

La Battaglia, Storia di Waterloo, ha per cardine una battaglia, forse la battaglia più importante dell’europa del XIX secolo, la grande battaglia di Waterloo, che qualcuno potrebbe definire come la grande battaglia per il destino del mondo, ma il fatto che sia un libro che parla della battaglia di Waterloo, non significa che parli solo della battaglia di Waterloo.

Ovviamente la battaglia vera e propria, gli schemi utilizzati, gli schieramenti, le unità sul campo, l’equipaggiamento dei soldati, l’artiglieria, ecc, ecc sono una componente centrale, fondamentale, per questo libro, ma raccontare la battaglia di Waterloo significa anche e soprattutto raccontare la storia di quella battaglia, significa racconta il mondo in cui venne vissuta e combattuta questa battaglia. Barbero tra le pagine di questo libro ci dice cosa c’era in gioco su quel campo di battaglia, chi erano i giocatori, qual’era lo stato d’animo delle pedine, disseminate sul campo di battaglia da entrambe le fazioni, ci racconta le paure e le angosce degli uomini che si affrontarono sul campo ed i timori e le speranze dei generali asserragliati nelle retrovie.

Da quella battaglia, dalla battaglia di Waterloo dipendevano, come già detto, le sorti del mondo, da quella battaglia dipendeva il futuro dell’europa e di tutti i suoi abitanti, e tutti, in quel momento, ne erano consapevoli.

La Battaglia, Storia di Waterloo di Alessandro Barbero è questo, un libro che racconta uno scontro di civiltà interno all’Europa, uno scontro che iniziò sul finire del XVIII secolo e continuò per gran parte del XIX secolo, il libro racconta la battaglia centrale di quello scontro epocale vissuto al cavallo tra quei due mondi che oggi indichiamo come età Moderna ed età Contemporanea, racconta un tempo troppo veloce che ha rischiato di lasciarsi la storia alle spalle, ma anche un tempo che si è impantanato e per questo è stato raggiunto e senza che se ne accorgesse, è stato superato dalla storia. Racconta l’alba di un epoca dalla doppia morale e dalla doppia faccia, che con una mano dispensava prosperità e progresso e dall’altra raccoglieva morte e distruzione.

Racconta di quel momento indelebile della storia che ha visto spalancare i cancelli degli inferi e la morte ha iniziato a cavalcare sull’Europa, da Waterloo in avanti, nel bene o nel male, l’europa non sarebbe più stata la stessa europa. A Waterloo, in quella storica battaglia, non ci furono vincitori ne vinti, ci fu solo, un deroga del tempo concesso al vecchio mondo che si sarebbe trascinato in avanti, con qualche affanno, ancora per qualche decennio.

Per quanto riguarda il libro in se, il mio giudizio è più che positivo, scritto nel solito stile di Alessandro Barbero, con la solita non banale semplicità, con la solita ironia ed accuratezza, un libro che dice tutto quello che c’era da dire e forse anche qualcosa di più, ma senza che questo risuoni come un eccesso, è un libro che racconta una storia militare, ma non la storia di una battaglia qualsiasi, bensì la storia della più grande ed importante battaglia del XIX secolo.

Questo libro ci porta, attraverso la sua narrazione, nel ventre della balena, ci conduce nel vivo della battaglia di Waterloo, e al fianco dei soldati bonapartisti, ci mostra i colori, i suoni, i profumi, ma anche il dolore, il fetore di sangue che si mischia con l’odore acre della polvere da sparo ed il fumo dei cannoni, mentre le grida dei soldati che cadono uno dopo l’altro come mosche, si mischiano tra loro e si perdono tra l’affannoso respiro dei cavalli ed il boato assordante di colpi di fucile, cannone ed esplosioni di mortai.

Non ho altro da aggiungere, queste erano le mie considerazioni sul libro La Battaglia, Storia di Waterloo, di Alessandro Barbero e più in generale le mie considerazioni personali sulla battaglia di Waterloo.

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Perché la Torre di Pisa è inclinata?

Il crollo di una falda sotterranea ha causato l’inclinazione della Torre di Pisa e delle altre strutture presenti in piazza dei miracoli.

La costruzione della Torre di Pisa è iniziata nel 1173 circa, ed è terminata soltanto nel 1372. Quasi 200 anni per costruirla, e prima ancora che la torre fosse ultimata, presentava già la sua caratteristica inclinazione che l’ha resa una delle grandi meraviglie del mondo ed una delle mete turistiche più iconiche del pianeta. Ma perché la torre è inclinata?

La pendenza è stata causata dal cedimento di una falda sotterranea, che si manifestò durante la prima fase di costruzione della torre, quando la struttura raggiungeva appena il terzo piano, ed era alta poco meno di 15 metri (contro i 57 metri di altezza effettiva che avrebbe raggiunto una volta ultimata).

Volendo essere pignoli va detto che non è corretto parlare di un vero e proprio cedimento di una falda, in quanto le falde sono incomprimibili, ciò che ha ceduto sono stati alcuni banchi d’argilla presenti attorno alla falda. Questo cedimento è stati causato dall’installazione dei cantieri per la costruzione delle strutture presenti nella piazza, il cui peso ha alterato e compresso l’integrità del sottosuolo.

La pendenza, e le sue implicazioni ingegneristiche per la stabilità della struttura, insieme ad altri fattori di natura economica, politica e militare, causarono una prima interruzione dei lavori che sarebbe durata fino al 1275.

Durante la lunga pausa, sono state apportate alcune importanti modifiche strutturali ai progetti per la torre, tra queste modifiche fu progettata un nuovo asse curvilineo, capace di controbilanciare l’inclinazione della torre, che quindi, dal terzo piano in su, inizia a curvare leggermente, nella direzione opposta alla pendenza. La sua curvatura è quasi del tutto impercettibile ad occhio nudo, ma rappresenta una delle tante forze in gioco, presenti nella torre, che le hanno permesso di restare in piedi per secoli nonostante la particolare ed involontaria inclinazione.

La torre di Pisa rappresenta un vero e proprio capolavoro di capolavoro dell’ingegneria italiana medievale, e anche se la sua inclinazione è stata involontaria, la sua preservazione ha richiesto l’applicazione di importanti soluzioni tecniche, che nel tempo sono passate dal più banale fissaggio di tiranti, alla progettazione di un’asse curvilineo, ad alcuni importanti interventi strutturali nel sottosuolo che a partire dagli anni novanta del novecento, hanno invertito il processo di cedimento della torre, la cui inclinazione ha iniziato lentamente a ridursi ed entro qualche decennio potrebbe svanire completamente.

I turisti del futuro non hanno di che temere, e se è vero che in un futuro non troppo lontano l’inclinazione della torre svanirà quasi del tutto, è anche vero che questa non potrà mai essere del tutto eliminata poiché il suo asse curvilineo rimarrà parte della struttura, e con esso rimarrà una leggera, certamente meno vistosa, inclinazione artificiale indotta dagli ingegneri che hanno ri-progettato la torre in corso d’opera, continuando a costruire una torre apparentemente destinata a crollare. I sforzi, compiuti nel tentativo di impedire il crollo della torre non sono stati vani e la torre pendente di Pisa è sopravvissuta per molti secoli, diventando non solo un simbolo di Pisa, dell’Italia, dell’Europa e dell’intera umanità, ma è anche una delle più grandi e importanti testimonianze della perseveranza e dell’ingegnosità degli esseri umani.

In quelle condizioni, con una torre che in fase di costruzione, a soli tre piani su undici, mostrava i primi segni di cedimento, la soluzione più logica ed economica sarebbe stata quella di interrompere i lavori, demolire la struttura e ricominciare a costruirla altrove, ma gli ingegneri pisani hanno voluto spingersi oltre, superando i limiti del proprio tempo, hanno rivisto i progetti, fatto nuovi calcoli, trovato nuove soluzioni, ridisegnato e in fine terminato la torre di pisa, consegnando un capolavoro ingegneristico ed architettonico alle generazioni future.

La cosa interessante, e che quasi nessuno sa a proposito della Torre di Pisa e dell’intera piazza dei miracoli è che, in realtà, la torre non è l’unico edificio pendente.
Tutti gli edifici presenti nell’area della piazza dei miracoli (quindi anche il Duomo di Santa Maria Assunta ed il battistero di San Giovanni ) sono leggermente inclinati.

Il motivo per cui non parliamo di Battistero pendente o di Duomo pendente, ma solo di torre pendente di Pisa, è perché l’inclinazione di questi edifici, oltre ad essere minore rispetto a quella della torre, la torre presenta un inclinazione di circa 3,9° mentre duomo e battistero presentano inclinazioni che oscillano tra 2° e 3°, e questo minore angolo di inclinazione, unito alla diversa forma degli edifici, rende meno percepibile ad occhio nudo la loro inclinazione, rispetto alla più vistosa inclinazione della torre.

Anche se gli altri edifici avessero avuto la stessa inclinazione, questa si sarebbe notata meno rispetto alla torre, questo perché la torre è molto slanciata e stretta, con i suoi 57 metri di altezza ed un diametro di appena 20 metri. Dall’altra parte, il battistero di San Giovanni, anch’esso dalla pianta circolare e alto circa 54 metri, presenta un diametro alla base di circa 34 metri.

La maggiore circonferenza del battistero inganna l’occhio umano che quindi non riesce a percepire l’inclinazione dando così l’impressione che la struttura sia perfettamente diritta. Lo stesso discorso vale per il duomo di Santa Maria Assunta, la cui forma, molto più squadrata rendono assolutamente impercettibile l’inclinazione.

Secondo la leggenda, l’inclinazione della torre di Pisa spinse spinse l’Università di Pisa a studiare la forza di attrazione terrestre, quella forza invisibile che noi oggi conosciamo come forza di gravità, dando inizio ad un percorso di ricerche e studi che avrebbe portato, nel 1589, un giovane Galileo Galilei a compiere alcuni esperimenti che coinvolsero la torre, tra cui, il più celebre esperimento di caduta dei gravi dalla sommità della torre pendente, esperimento volto a dimostrare che oggetti di peso differente cadono alla stessa velocità, in obiezione alle teorie Aristoteliche, e proprio grazie a queste dimostrazioni, Galilei venne convocato a Venezia nel 1592.

We the People rivendichiamo il diritto a ricercare la nostra felicità

La dichiarazione di indipendenza americana non fu solo l’atto fondativo di una nuova nazione, ma segna anche la rivendicazione di una nuova scala di valori e di nuovi diritti universali tra cui il diritto a ricercare la propria felicità

Noi (il popolo) riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità;

Queste parole dal valore universale, provengono da uno dei documenti più importanti del XVIII secolo, la dichiarazione di indipendenza delle tredici colonie britanniche dell’America settentrionale.

Questo documento venne elaborato in seno al secondo congresso continentale, che ebbe luogo a Filadelfia nel 1776, in quella che oggi è nota al mondo come la Indipendece Hall e fu in fine firmato e successivamente ratificato dai cinquantacinque delegati del congresso, tra il 2 ed il 4 luglio del 1776.

Ma la firma di questo documento epocale la firma della dichiarazione di indipendenza, non rappresenta soltanto l’atto fondativo di una nazione nuova e borghese, totalmente aliena alle tradizionali gerarchie sociali, la firma di questo documento non si limitò ad indicare la rottura definitiva tra la nascente nazione americana e l’antico impero britannico, no, sarebbe troppo semplice se fosse solo così.

La dichiarazione di indipendenza, con la sua stessa esistenza e con i propri principi, mise in luce l’ineluttabile ed inevitabile cambiamento imminente che da lì a poco avrebbe stravolto il mondo intero, e questo forse è l’elemento più importante, più incisivo, più significativo della dichiarazione, poiché con questa dichiarazione il popolo americano prima, e successivamente il mondo intero, rivendicava l’esistenza di alcuni diritti universali e ritenuti inalienabili e tra questi vi erano il diritto alla Vita alla Libertà e al perseguimento della Felicità.

Ed è proprio su quest’ultimo punto che vorrei sviluppare la mia riflessione, il perseguimento della felicità, già, perché la dichiarazione non parla di Diritto alla felicità, ma parla invece, di diritto al perseguimento della felicità, parla di diritto alla ricerca della felicità, e questo significa che la ricerca è un diritto, ma trovarla è tutta un altra storia.

Personalmente credo che la ricerca della felicità, e in termini più ampi, la ricerca dell’amore, sia qualcosa di implicito negli esseri umani.

Ricerchiamo la felicità non perché ne sentiamo il bisogno, ma perché il solo atto di cercarla, di inseguirla, ci da speranza e questa speranza ci pone in uno stato di benessere che rende tutti un po’ più felici.

Personalmente sono un po’ come un bambino al parco, ad una fiera, che vede il venditore di palloncini, vede tutti quei palloncini colorati che volano, e ne desidera uno, anche se non ne ha bisogno, anche non gli serve assolutamente a nulla e sa, sa perfettamente che se lo avesse, non potrebbe farci praticamente nulla se non tenerlo legato al polso, guardarlo e contemplarlo.

Ma è proprio lì, in quell’atto genuino e disinteressato, totalmente fine a se stesso che è guardare il palloncino, contemplarlo, che il bambino sorride, il bambino è felice ed è felice grazie ad un qualcosa che è assolutamente inutile e di cui in realtà non ha alcun bisogno.

E allora, io forse non sarò felice, perché non ho un palloncino che mi rende felice, ma non ho motivo di nascondermi dietro un falso e freddo grado di necessità, non ho bisogno di dire, ripetere a me stesso che non ho bisogno di quel palloncino, se bene ne sia consapevole, se bene sappia perfettamente di non averne alcun bisogno, ma non per questo non lo desidero, o mi nascondo dietro un illusoria maschera di utilitarismo e funzionalismo, per cui, se qualcosa è inutile, se qualcosa è fine a se stessa, allora non serve.

Perché vedete, per me non è così che funziona, non è così che vanno le cose, non voglio accontentarmi di avere solo ciò di cui ho bisogno, io voglio anche, e soprattutto, ciò di cui non ho bisogno, ma che mi rende felice, io voglio il mio palloncino e credo che tutti dovrebbero cercare il proprio palloncino, perché ne abbiamo il diritto, perché inseguire e ricercare la propria felicità non è uno spreco di tempo, ma forse è l’unica vera ragione della nostra esistenza.

Per rendere più semplice questa riflessione, voglio provare a fare un esperimento e fare un analogia con il cibo, con l’alimentazione (i nutrizionisti mi perdonino se nel mio esempio sarò impreciso, la mia è solo una generalizzazione).

Se dovessi mangiare e bere solo ciò di cui ho bisogno, solo ciò che mi serve per sopravvivere, per non morire di fame e di sete, se mi limitassi ad assumere soltanto i nutrienti basilari di cui il mio l’organismo ha bisogno, nelle precise dosi di cui il mio corpo ha bisogno, se mi limitassi ad assumere proteine, vitamine, carboidrati, grassi e i nutrizionisti non me ne vogliano se non sono preciso in questo elenco, se dovessi assumere queste sostanze nutrienti in maniera misurata e calcolata al milligrammo, il mio corpo certo, starebbe bene, probabilmente starebbe d’incanto perché avrebbe esattamente ciò di cui ha bisogno nella misura esatta di cui ha bisogno, ma a quel punto, nutrirmi sarebbe solo un atto dovuto, qualcosa di necessario, un azione meccanica finalizzata alla mera sopravvivenza.

E allora, allora mi chiedo, perché affannarsi tanto per stare al mondo e in cosa noi uomini siamo diversi da un automa, da una macchina, da una bestia che non sa apprezzare il sapore di un buon cibo e la fragranza di un buon vino, che non sa riconoscere la bellezza quando la incontra, che non sa distinguere il profumo di un fiore dal tanfo immondo di un tombino scoperto.

Di fatto noi, non abbiamo bisogno di sapori, di bellezza, di profumi, non abbiamo bisogno dell’amore, e pure li cerchiamo, e cercarli, trovarli, gustarli, con gli occhi e, anche un po’ con la mente, ci riempie il cuore di gioia, ci rende felici e nel renderci felici ci eleva.

E un esempio di questa elevazione ci è dato dal racconto di fantascienza L’uomo bicentenario, di Isaac Asimov, pubblicato nel 1977 nella raccolta Antologie del Bicentenario e da cui, nel 1999 sarebbe stato tratto anche il film omonimo, l’uomo bicentenario, con protagonista Robin Wiliams.

L’uomo bicentenario del racconto è in origine una macchina, una macchina con un malfunzionamento, un guasto, un imperfezione che la rende paradossalmente umana, perché grazie a questo malfunzionamento la macchina è in grado di provare emozioni, è in grado di comprendere la bellezza, è una macchina che impara che cos’è l’amore, e pur di vivere a pieno tutte le esperienze sensoriali proprie dell’uomo, apporta a se stesse una serie di modifiche che l’avrebbero resa sempre più umana, e qui sorge il problema, perché la crescente umanità della macchina le costerà la propria immortalità meccanica.

La macchina immortale si fa uomo e da uomo conoscerà la gioia, la felicità e la morte.

Ora, l’uomo bicentenario sceglie la vita e con essa accetta la morte, ma l’uomo non ha questa possibilità di scelta, l’uomo è condannato alla vita, e nel suo vivere limitato ha compreso una verità importantissima, ha imparato che cercare la felicità non significa necessariamente trovarla, ma in questa prospettiva, l’uomo ha inventato il paradiso.

E cos’è il paradiso, se non la promessa estrema, eterna e inconfutabile, di una futura conquista della felicità che supera e sconfigge la morte.

E allora cerchiamo ostinatamente la felicità anche se sappiamo che l’atto di cercare non implica necessariamente la possibilità di trovarla, perché magari la nostra felicità, il nostro palloncino, è così grande, così inafferrabile e irraggiungibile che un intera vita non è sufficiente a raggiungerla, e allora abbiamo due alternative.

Possiamo arrenderci, smettere di cercare e sprofondare nell’oblio più oscuro e profondo, oppure possiamo continuare a lottare, provando a raggiungerla nonostante gli ostacoli e le difficoltà, nonostante l’apparente impossibilità di successo, e anche se quel palloncino non diventerà mai nostro, il solo atto di cercare di afferrarlo ci dona già, un primordiale senso di benessere che ci aiuta a stare meglio, la promessa di un futuro migliore di cui forse non abbiamo bisogno, ma di cui non possiamo fare a meno, di cui non abbiamo necessità, ma che è fondamentale per sentirsi vivi.

Magari qualcuno, in vita, non riuscirà a raggiungere il proprio palloncino, un po’ come Achille cje non avrebbe mai raggiunto la tartaruga, e pure, anche senza riuscirci, senza mai raggiungerlo, qualcuno proverà ad avvicinarsi fino al limite estremo, fin quasi al punto di sfiorarlo e questo qualcuno sarà pronto a tutto, anche a sacrificare se stesso, anche ad iniziare una vera e propria guerra contro il mondo, se il mondo proverà ad impedirgli, non di afferrare, ma di inseguire il proprio palloncino.

Annibale| Chi era Annibale Barca?

Annibale Barca, erede di una delle più antiche e nobili famiglie Cartaginesi, fu impegnato per tutta la vita a combattere Roma. Ma chi era davvero Annibale Barca?

Annibale, il “più grande generale dell’antichità” che valicò le Alpi con un armata di elefanti da guerra.

Annibale Barca è stato un importantissimo condottiero Cartaginese, da alcuni considerato il più grande stratega del mondo antico, e, con molta probabilità è stato anche il Cartaginese più famoso di tutti i tempi. Le sue gesta, nella lunga guerra contro Roma, che lo hanno visto protagonista nella seconda e terza guerra punica, lo hanno reso una leggenda immortale, e nonostante la sua città sia stata rasa al suolo e completamente cancellata dalla storia in seguito alla sconfitta definitiva, la grandezza del nome di Annibale, e di riflesso della stessa Cartagine, è sopravvissuto intonso nei secoli, ma chi era davvero Annibale Barca?

Theodor Mommsen, nel secondo volume della sua Storia di Roma, definì Annibale “il più grande generale dell’antichità”, ponendolo al di sopra di uomini del calibro di Giulio Cesare, Alessandro Magno, il cui impero ellenico si era esteso ben oltre i confini del mondo conosciuto, e soprattutto, al di sopra del suo contemporaneo e principale rivale, Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano. La grandezza di Annibale è stata riconosciuta superiore a quella dell’uomo, del generale, che nei fatti sconfisse lo stesso Annibale.

Anche se la storia di Annibale coincide in larga parte con la storia della seconda e terza guerra punica, la sua vita e la sua storia non iniziarono sul campo di battaglia; la storia di Annibale inizia in un certo senso nel privilegio e nel lusso delle stanze private di una delle più antiche e nobili famiglia cartaginesi. Annibale era il primo di tre fratelli, primogenito ed erede di Amilcare detto Barak, che in cartaginese significava fulmine o saetta, (da non confondere con il nome Barack, che in lingua araba significa “benedetto”), il suo soprannome venne poi traslitterato dai cronisti latini in Barca, ed ereditato dai suoi discendenti come nome di famiglia.

La fortuna ed il potere della famiglia dei Barcadi non iniziò con Amilcare, ma si lega, in maniera indissolubile, alla storia della stessa Cartagine fin dalla sua fondazione. La centralità dei Barcadi nella società cartaginese era direttamente collegata ai possedimenti terrieri che nel tempo erano andati crescendo, attraverso conquiste militari ed accordi commerciali che, nel corso dei secoli, avevano portato sotto il controllo diretto dei Barcadi numerose proprietà terriere nella regione di Byzacena, che si estendeva lungo la costa dell’Africa settentrionale ad est di Cartagine, di fatto la famiglia di Annibale controllava direttamente grandi possedimenti terrieri in quello che oggi è l’entroterra tunisino e alcuni dei più importanti noli commerciali, lungo quella che oggi è la costa libica.

In tempo di guerra, in un epoca in cui gli eserciti non erano permanenti ed i soldati provvedevano da soli al proprio armamento, il comando militare dipendeva in larghissima misura dalle disponibilità economiche delle famiglie e generalmente, ad assumere il comando militare, con il grado di generale, erano esponenti delle più antiche e ricche famiglie.

Amilcare Barca, padre di Annibale, proprio come i suoi figli Annibale, Asdrubale e Magone dopo di lui, servì Cartagine in veste di condottiero e comandante militare, vestì i panni di generale durante la prima guerra punica e gli fu affidato il compito, non semplice, di combattere in Sicilia nonostante la quasi totalità dell’isola fosse ormai caduta sotto il controllo di Roma.

Nonostante il terreno avverso e nemici su ogni fronte, Amilcare riuscì a sbarcare in Sicilia, nella parte nord occidentale dell’isola, insieme ad un manipolo di uomini con i quali si rifugiò dapprima sul monte Pellegrino ed in seguito si trasferì sul Monte Erice, da qui avrebbe conquistato un importante posizione strategica che gli permise di resistere agli attacchi del nemico e allo stesso tempo di avanzare e lanciare numerosi attacchi ed incursioni verso l’Italia continentale.

Di Amilcare si dice che non subì mai sconfitte in terra siciliana e le voci del suo successo, del suo valore, della sua lealtà e del suo onore sul campo di battaglia, oltre che della sua straordinaria abilità come comandante sul campo, giunsero fino a Roma, il cuore pulsante del più grande nemico di Amilcare e di Cartagine, e lì, nonostante la rivalità e l’ostilità, nonostante Amilcare fosse un generale Cartaginese durante la prima guerra tra Roma e Cartagine, gli fu riconosciuto l’onore delle armi, un fatto totalmente eccezionale, totalmente anomalo per la consuetudine romana.
La fama di Amilcare era giunta fino a Roma, dove, ne veniva riconosciuto il valore e nonostante la rivalità, il suo nome era temuto e rispettato e prima di Amilcare, Roma non aveva mai riconosciuto l’onore delle armi a nessuno dei propri nemici sconfitti.

La storia di Amilcare termina nel 229 a.c. durante un conflitto in Spagna, in seguito ad un fallimentare assedio della città di Helike (oggi Elche), annegando durante la ritirata.
Non vi è alcun legame diretto tra la morte di Amilcare e Roma, se non forse un legame indiretto, molto forzato che avrebbe innescato una serie di provocazioni da cui, appena dieci anni più tardi, sarebbe scaturita una disputa territoriale lungo il fiume Ebro segnando l’inizio della seconda guerra punica.

Nella casa di Amilcare, Roma rappresentava un grande pericolo, un nemico eterno contro cui Cartagine ed i cartaginesi erano destinati a combattere in eterno, Amilcare era consapevole del fatto che il dominio cartaginese sul mediterraneo era minacciato dall’ ascesa e dalle ambizioni di Roma, sapeva che i due colossi del mediterraneo non avrebbero mai potuto coesistere, prima o poi si sarebbe giunti alla distruzione di uno dei due e queste idee riecheggiarono nella dimora dei Barca anche e soprattutto dopo la sua morte. Questa eterna rivalità tra Roma e Cartagine si insediò negli eredi e nei discendenti di Amilcare, i quali che crebbero covando nei propri cuori un profondo odio nei confronti di Roma.

Tra tutti, Annibale, il primogenito di Amilcare, nato nel 247 a.c. lo stesso anno in cui suo padre era stato inviato in Sicilia a combattere contro Roma, contro i romani, crebbe con un profondo risentimento nei confronti di Roma, di quella Roma che lo aveva tenuto lontano dal genitore, ed appena fu in grado di combattere, non esitò a prendere le armi e seguire l’esempio paterno. Annibale intraprese la via militare nel 221 a.c. appena tre anni prima dello scoppio della seconda guerra punica, e da quel momento, avrebbe dedicato ogni singolo giorno, ogni istante della propria esistenza, a combattere instancabilmente contro Roma.

Annibale era mosso da una furia cieca ed inarrestabile e allo stesso tempo da un ideale irreprensibile, per lui Roma rappresentava una minaccia non solo per Cartagine, ma per qualsiasi altro popolo del mediterraneo.

Roma aveva fama di un desiderio di potere insaziabile, una sete di potere che agli occhi di Annibale si tramutava in conquista e distruzione di qualsiasi civiltà si fosse opposta a Roma, e nella resistenza all’avanzata romana Annibale vide la propria missione, vide il proprio scopo nella vita, di fatto votando la propria intera esistenza al combattere Roma.

Analogamente ad Annibale, quasi duemila anni più tardi, Carl von Clausewitz avrebbe preso una decisione molto simile, votato la propria esistenza al combattere contro Napoleone, un uomo pericoloso, il cui impero, proprio come accaduto a Roma, rappresentava una minaccia per l’ordine precostituito del mondo, una minaccia per i popoli e per le nazioni europee del tempo. Alla fine le antiche case regnanti europee, grazie alle intuizioni di Von Clausewitz, sarebbero riuscite a sconfiggere Napoleone e ripristinare l’antico ordine europeo, unendosi e provando a superare alcune divergenze ideologiche, e anche se a fatica e non pochi compromessi, l’europa tradizionale sarebbe sopravvissuta per qualche decennio prima del suo declino, ma questo non fu il destino di Roma e di Annibale.

Annibale non riuscì mai ad unire concretamente tutti nemici di Roma in una vera e propria coalizione antiromana, se bene provò in più occasioni a costituire una grande armata fatta di tutti i nemici di roma, tuttavia, proprio a causa di questa mancanza, nonostante il suo incredibile acume militare, alla fine, le maggiori risorse e di uomini a disposizione di Roma, segnarono la sconfitta di Annibale e la definitiva caduta di Cartagine.

Questo fallimento però non segnò la fine di Annibale, il quale continuò a combattere Roma, con maggior impeto e vigore, anche dopo la distruzione di Cartagine. La fine di Cartagine accrebbe l’odio ed il rancore di Annibale, offuscando la sua mente e spingendolo a combattere con sempre minore lucidità, prima al servizio dell’impero Seleucide e poi del regno di Bitinia, diventando indirettamente il motore stesso di quella fine delle civiltà non romane, che tanto aveva cercato di impedire.

Per contrastare Annibale Roma si spinse ad oriente, avanzando in Grecia, Anatolia e in vicino Oriente, si spinse al di la del mare, per inseguire Annibale, per inseguire l’uomo più temuto dell’intera storia romana. Annibale era potente e pericoloso e la sua ostinatezza, il suo odio nei confronti di Roma, la sua determinazione, rappresentavano la più grande minaccia che Roma avesse mai dovuto affrontare e proprio per contrastare questa minaccia, Roma fu quasi costretta ad inseguirlo, a dargli a caccia, a braccarlo, e questa ricerca instancabile, questa caccia all’uomo e dei suoi alleati, finì per dare a Roma il pretesto per ampliare i propri confini e dichiarare guerra a tutti coloro che davano asilo ad Annibale.

Annibale, l’uomo che voleva fermare l’ascesa di Roma, nel tentativo di distruggere Roma finì con l’accelerare la crescita di Roma, rendendola più grande e potente di quanto non fosse mai stata prima d’allora, e di quanto non lo sarebbe mai più stata in seguito.

Wonderland, la cultura di massa da Walt Disney ai Pink floyd – Recensione

Recensione di “Wonderland, la cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd”, di Alberto Mario Banti, docente di storia contemporanea e storia culturale all’Università di Pisa.

Ho appena finito di leggere “Wonderland, la cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd“, un vero e proprio capolavoro (non posso definirlo un semplice libro) di Alberto Mario Banti, docente di storia contemporanea e storia culturale all‘Università di Pisa.

Quasi sicuramente nelle prossime settimane pubblicherò una guida alla lettura, ma per ora mi limito a fare alcune considerazioni personali, che possiamo considerare una sorta di recensione, nella quale dirò, a grandi linee, cosa penso di questo libro.

Anche se forse è un discorso superfluo visto che l’ho definito un vero e proprio capolavoro. Ad ogni modo, Cosa ne penso ?

Penso che sia un libro assolutamente stupendo, da un certo punto di vista un vero e proprio capolavoro, che forse sarà un azzardo, ma possiamo considerarlo come un testo rivoluzionario ed estremamente innovativo per il suo genere.

Una delle critiche che da sempre si muovono alla storia culturale è che questa attinga sempre alle poche e solite fonti, e questa critica, non piò essere mossa nei confronti di Wonderland perché il testo del Banti non attinge alle solite fonti, e anzi, potremmo quasi dire che non attinge affatto alle tradizionali fonti, certo, il testo utilizza fonti classiche, analisi sociologiche, studi storici ecc, ma attinge anche ad una moltitudine di elementi propri della pop culture, che difficilmente incontriamo in un saggio storico, a meno che non sia un saggio dedicato esclusivamente ad un determinato elemento pop.

Ed è qui che il saggio è rivoluzionario, perché a differenza di altri, che in passato hanno sottolineato ed evidenziato l’impatto della pop culture nella società, nella cultura di massa, ancorandosi ad un singolo elemento, un singolo aspetto di quella cultura, dal quale partire per sviluppare un discorso storico analitico di stampo tradizionale, questo saggio rompe gli schemi, e racconta la civiltà contemporanea, racconta la società di massa, attraverso i gusti delle masse, attraverso i molteplici elementi, in un certo senso ludici e di intrattenimento, usa film, fumetti, sport, musica, ecc ecc ecc.

Vi sono molti altri saggi che fanno qualcosa di simile, saggi che raccontano un epoca e la società attraverso un filone musicale, attraverso una saga cinematografica, vi sono persino saggi che, ponendo un festival musicale come specchio della società, partono da quel festival per tracciare gli aspetti e gli elementi propri della società e della cultura di quel paese.

Wonderland in questo diverge, non limitandosi ad un singolo elemento della pop culture, ma attingendo a piene mani, ad una moltitudine di elementi. Attraverso questo saggio, che di fatto allarga lo sguardo dandoci una prospettiva più ampia sulla cultura di massa, scopriamo che la società contemporanea è plasmata da alcuni elementi della pop culture che quella stessa società produce, ma, allo stesso tempo, altri elementi di questa pop culture riflettono le inclinazioni della società, andando in contro ai gusti e alle tendenze, configurandosi come un vero e proprio specchio della società. Possiamo quindi dire che, mentre alcuni elementi raccontano la società, altri la influenzano.

Vi assicuro che leggere questo libro cambierà la vostra prospettiva, se vi interessa leggerlo, e vi consiglio di leggerlo, potete acquistarlo su Amazon cliccando qui di seguito.

Wonderland. La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd

Se proprio vogliamo trovare un qualche difetto, una qualche mancanza a questo libro, e vi assicuro che non è stata affatto facile trovarne, anche perché in realtà non è affatto un difetto, non è una mancanza, è il suo limite temporale, questo saggio infatti prende in esame un determinato arco temporaneo e questo limite esclude necessariamente alcuni elementi in un certo senso “successivi” ai Pink Floyd. Dico in un certo senso perché alcuni di quegli elementi che oggi sono importanti indicatori dei gusti della società di massa, nascevano al tempo dei Pink Floyd, ma all’epoca erano ancora in una fase embrionale che di fatto non rifletteva realmente la cultura di massa.

Va inoltre precisato che, se si considera la vastità di fonti utilizzate nel limitato arco temporale preso in esame, è facile comprendere perché il Banti si sia dato un limite temporale, ed abbia deciso di escludere quegli elementi come la prima internet ed i primi videogiochi, dall’analisi, trent’anni fa Internet non era così come siamo abituati a conoscerlo oggi, era molto più difficile da utilizzare e soprattutto non era alla portata di tutti, era uno strumento si esistente ma che di fatto non trova un riscontro nella cultura popolare, lo stesso discorso vale per le prime generazioni videoludiche, trent’anni fa erano si uno strumento di intrattenimento, certamente innovativo e tecnologicamente molto avanzato, ma che, nella cultura di massa, si rivolgeva ad un utenza molto giovane, un utenza appartenente ad alcune generazioni che, per ragioni fisiologiche in quel momento vengono escluse dal discorso sulla cultura di massa, ma che sarebbero rientrate nel discorso soltanto qualche anno più tardi.

Di casi analoghi se ne potrebbero citare anche altri, ma per il momento rimaniamo solo su questi due, su internet ed i videogiochi. Questi elementi con il tempo avrebbero ampliato il proprio bacino di utenza, includendo nuove generazioni fino a diventare elementi centrali nella cultura di massa, degli anni novanta e al ridosso degli anni duemila, per poi esplodere negli anni successivi, ma questo significa che Internet ed i Videogiochi diventano un elemento di cultura di massa molto al di la del paletto temporale fissato dall’opera.

La loro esclusione quindi non può essere considerata una mancanza, quanto un preludio ad un secondo volume e personalmente spero, con tutto il cuore, che prima o poi verrà pubblicato un secondo volume, una Wonderland due punto zero, che vada dai Pink Floyd a Fortnite.

Questo mio desiderio è alimentato dalla conoscenza e dall’ammirazione personale che nutro nei confronti del professor Banti, che ho avuto il piacere di conoscere all’Università e con il quale ho dato alcuni esami durante il mio percorso accademico, conosco il valore dei suoi studi, dei suoi saggi, conosco il valore del suo lavoro, so quanto influente sia diventato il suo nome e so che forse è uno dei pochi, se non addirittura l’unico storico italiano che potrebbe finalmente trovare una collocazione storica e storiografica ad elementi come internet, e tutte le sue componenti interne, fatte di blog, forum, social media, servizi di stremaing audio e video ecc, o ancora, di elementi come i videogiochi, e le app per smartphone, spesso osannati dalla critica e ingiustamente ritenuto la causa principale di ogni male della nostra società.

Guardare ad internet e al videogioco con prospettiva storica, mi rendo conto che non è qualcosa di facile, e probabilmente dovremmo aspettare ancora qualche anno affinché questo accada, tuttavia, non posso nasconderlo, sarei felicissimo se questi elementi entrassero nel discorso storico grazie ad uomini come Alberto Mario Banti, del resto, con Wanderland ha introdotto Topolino in un discorso storico, non vedo perché lo stesso destino non possa toccare, un giorno, anche a personaggi come Kratos, Ezio Auditore, o il ragazzo del Volt 101.

FESTIVAL DI SANREMO, tra musica, storia e civiltà

Il festival di Sanremo è lo specchio che riflette la società italiana nella sua interezza, nella sua mediocrità, nella sua banalità e nella sua complessità. lo è da sempre, fin dalla prima edizione e lo sarà per sempre.

Il festival di Sanremo è lo specchio che riflette la società italiana nella sua interezza, nella sua mediocrità, nella sua banalità e nella sua complessità. lo è da sempre, fin dalla prima edizione e lo sarà per sempre.

Quest’anno però mi è sembrato forse più autentico, più genuino, rispetto al passato, ho visto un festival in cui la musica, questo potente strumento di comunicazione universale, era posto al centro dell’attenzione e anche se, come spesso accade, molte delle canzoni in gara non hanno incontrato il mio gusto, devo riconoscere che quest’anno ho addirittura apprezzato cinque canzoni su ventiquattro, possono sembrare poche ma vi assicuro che in realtà cinque è molto al di sopra della mia media, da quando seguo seriamente sanremo, negli ultimi 10 anni circa, solitamente ho apprezzato forse due o tre dei brani in gara.

Ascolta il mio podcast, L’osservatorio, ogni Lunedì, giovedì e Sabato alle 08:00 su Spotify, iTunes e google Podcast

Non voglio dilungarmi in discorsi sul gusto musicale, perché il gusto fortunatamente non è universale e viviamo in un mondo e in un epoca in cui quello che piace a me non deve necessariamente piacere anche a te e per quanto riguarda la canzone vincitrice, ammetto che ascoltandola non ha incontrato il mio gusto, avrei preferito se avessero vinto altre canzoni in gara, mi piaceva molto quella di Simone Cristicchi e quella di Loredana Bertè (anche se l’ho preferita interpretata da Irene Grandi), ma questi sono gusti, e come già detto, dei miei gusti non voglio parlare.

Quanto alla canzone vincitrice, voglio portare l’attenzione su un tweet di Elisa Isoardi che nel commentare la vittoria di Mahmood ha scritto

Elisa Isoardi su Twitter

Mahmood ha appena vinto il festival di Sanremo. La dimostrazione che l’incontro di culture differenti genera bellezza.

e non potrei essere più d’accordo di così neanche se lo volessi, perché le parole di Elisa Isoardi, propongono una chiave interpretativa importantissima e fortissima per la nostra epoca e la nostra società, e attraverso Sanremo, lanciano un messaggio positivo estremamente importante, l’incontro di civiltà, l’incontro di culture differenti genera progresso e bellezza, lo scontro tra civiltà provoca morte e distruzione, e in quest’epoca permeata da conflittualità e da innumerevoli scontri di civiltà, forse dovremmo prestate un po’ più attenzione alla bellezza che ci circonda e alle meraviglie che gli incontri di civiltà possono produrre.

Forse, dovremmo cercare di riproporre più spesso e più frequentemente le meccaniche dell’incontro di civiltà piuttosto che riproporre conflittualità, rivalità e scontri tra civiltà, scontri che per secoli hanno limitato la capacità espressiva dell’umanità, e probabilmente, se oggi siamo ancora bloccati sul nostro piccolo pianeta e non abbiamo ancora colonizzato il sistema solare o raggiunto stelle vicine, è perché l’umanità, per secoli, si è impantanata in lunghe stasi epocali, che hanno frenato l’avanzata culturale dell’intera umanità, facendoci perdere almeno mille anni di progresso, arte, conoscenza e saggezza.

Dall’incontro di civiltà, per secoli sono scaturite bellezza e saggezza, l’incontro di civiltà da sempre è stato alla base del progresso scientifico e culturale della specie umana, e in un epoca in cui l’umanità si affaccia oltre i confini del proprio pianeta d’origine, forse è il caso che impariamo, a superare le divergenze culturali tra popoli, perché solo così, forse, potremmo accettare la verità che l’umanità è una sola ed è forse l’unica specie di questo pianeta che rischia l’auto estinzione prodotta attraverso lo scontro di civiltà.

Dagli scontri di civiltà non è mai venuto nulla di buono, e se i libri di storia non sono una lettura per chi è debole di stomaco, se i libri di storia sono ricolmi di congiure, insurrezioni, brutali massacri e guerre totali, è perché molto spesso l’umanità ha anteposto egoistiche ambizioni personali al bene collettivo dell’intera umanità.

Per fare l’organo, serve un cannone – Podcast Episodio IV

Gli studi sulla pressione di Ctesibio di Alessandria, riportati da Vitruvio, hanno portato alla creazione dei una primitiva pompa a pressione, ancora oggi usata in tutto il mondo, un orologio ad acqua estremamente preciso, usato nel mondo islamico almeno fino al XIV secolo, e alla creazione di un cannone ad aria compressa, mai usato in battaglia, ma da cui sarebbe nato il primo esemplare di organo a Canne.

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