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Intervista al professor Guido Formigoni

Ho deciso di intervistare  il Prof. Guido Formigoni  che insegna Storia contemporanea nell’Università IULM di Milano autore di diversi libri:  “La Democrazia Cristiana e l’alleanza occidentale” (1996), “Storia della politica internazionale nell’età contemporanea” (nuova ed. 2006) ,  “L’Italia dei cattolici” (2010) e “Aldo Moro” ( 2016).

Nel suo libro Storia d’Italia nella Guerra Fredda (Il Mulino,2017) dà molto spazio al contesto internazionale in cui molti fatti si svolgono, al contrario di altre pubblicazioni che sottovalutano questo aspetto. Quali sono le motivazioni dietro a questa scelta ?

Ho l’impressione che la storiografia italiana recentemente abbia trascurato troppo i nessi che esistono tra storia sociale e politica interna e orizzonte internazionale. Soprattutto nelle sintesi di lungo periodo o nella manualistica, la separazione di attenzioni, complicata dalla storica distinzione accademica tra storici contemporaneisti e storici delle relazioni internazionali, appare ancora piuttosto marcata. Nelle indagini specifiche e nelle monografie approfondite si è ridotta diffusamente negli ultimi anni, ma senza effetti consolidati. Questa separazione è avvenuta nonostante nelle nostre tradizioni ci sia l’esempio nobile di una corrente di studi che risale a Federico Chabod e alla sua spiccata attenzione a questi collegamenti. Va detto che dovrebbe essere proprio la coscienza dell’originalità della storia del Novecento ad accelerare tale incontro. I nessi interno-internazionali sono stati fortemente rafforzati nel corso del secolo, in cui si è sviluppata un crescente pervasività del contesto sistemico internazionale sulle singole situazioni locali e in qualche modo quindi è cresciuto l’influsso del “centro” del mondo sulle zone “periferiche”. Naturalmente il problema non è verificare solo forme e modi con cui gli assetti di potere internazionali pesano sulle diverse situazioni interne, ma considerare come questa influenza venga recepita, contrastata o accettata, comunque rimodellata, nell’impatto con le strutture, le forze e gli attori della società italiana. La stagione della guerra fredda a mio parere è stata una delle occasioni in cui questi collegamenti si sono verificati essere più incisivi e importanti. Del resto, l’attuale storico sviluppo della cosiddetta “globalizzazione” non poteva che avere radici e origini più lontane, proprio in quell’orizzonte. Non è quindi più possibile, a mio parere, scrivere storie d’Italia esclusivamente concentrate sulle caratteristiche del conflitto culturale, sociale e politico interno, o dello sviluppo economico locale.

 

Guido Formigoni, storia d’Italia nella Guerra Fredda, Il Mulino, 2017

 

Negli ultimi anni le pubblicazioni sul periodo della  “Guerra Fredda” in Italia sono state frequenti ma in molti casi di carattere generale come per esempio: Paolo Soddu, La via italiana alla democrazia,Laterza, 2017, Agostino Giovagnoli, La repubblica degli italiani, Laterza, 2016, Guido Crainz,  Storia della Repubblica, Donzelli,2016 o biografico. Questi due generi, anche se hanno molti pregi, mancano forse di presentare un’analisi sui singoli partiti che hanno caratterizzato la cosiddetta “Prima Repubblica”. Secondo lei quali sono le motivazioni di questa scelta?

Non saprei dire se i volumi citati sottovalutino l’analisi del ruolo dei singoli partiti: alcuni di essi, al contrario, mi pare siano molto attenti almeno alle dinamiche del sistema dei partiti nel suo complesso. La domanda però mi permette di far presente un’altra questione: certamente oggi la storiografia sui partiti è in una fase di difficoltà. Se non altro perché il progressivo indebolimento del loro ruolo (almeno nella società, se non nelle istituzioni), li ha fatti scivolare al margine della scena, in termini di visibilità comunicativa e di “mode culturali”. Per cui oggi viviamo una situazione paradossale. Da una parte potremmo affrontare la storia della “repubblica dei partiti” (per usare l’espressione di Pietro Scoppola) con maggiore distacco e sulla base di una documentazione ampia che si è resa disponibile. Potremmo anche superare l’identificazione autobiografica di soggetto e oggetto presente in molti studi del passato sui partiti, dato che si tratta di storie per molti versi concluse. Per altro verso, però, ci sono meno risorse finanziarie per organizzare studi sistematici e i giovani studiosi sono molto più lontani e distratti dalla volontà di approfondire la vicenda di un fenomeno che pure nella nostra storia ha avuto un ruolo così importante.

L’inizio della crisi del centrismo si può far risalire già a dopo il risultato elettorale del 7 giugno 1953 e solo nel 1963 si arriva a un centro-sinistra organico. Come incide la situazione internazionale sulla lentezza con cui si riesce ad arrivare all’apertura al PSI?

Beh, non è una mia scoperta originale il fatto che la resistenza della diplomazia americana, sotto tutta l’amministrazione Eisenhower, nei confronti di questa evoluzione politica, fosse molto forte. Io credo però di avere messo in luce nel mio libro come anche questa dinamica si nutrisse di una sorta di continua triangolazione tra politica italiana e quadro internazionale: erano le resistenze interne, massicce e organizzate, a esprimersi e a rafforzarsi anche fornendo argomenti, informazioni e pressioni nei confronti delle autorità americane. Certo, spesso i diplomatici o i politici d’Oltreoceano non avevano bisogno di essere messi in guardia, perché erano molto sospettosi nei confronti dei socialisti. Ma le due realtà si sostenevano vicendevolmente: la loro convergenza assumeva un peso molto forte. Anche un eventuale “veto” americano all’evoluzione politica avrebbe potuto essere molto più fragile e difficile da far valere, se non accompagnato da questa estesa e pervicace resistenza interna.

Che conseguenze ha avuto nella politica italiana il rapporto Cruscëv, in particolare all’interno del PSI?

Tutta la vicenda della crisi del 1956 nel blocco sovietico ebbe un’importanza rilevante nel contribuire a rafforzare l’evoluzione politica della linea di Nenni, sempre più critica del mondo sovietico e quindi portata a prendere le distanze dal Pci in politica interna, dando fiato alle posizioni degli autonomisti. I quali non furono mai solida maggioranza del partito, ma pian piano riuscirono a orientarne le decisioni. Seppur in un contesto sempre molto diviso e incerto.

Un momento di crisi nei rapporti tra Italia e Stati Uniti fu l’elezione alla Presidenza della repubblica di Gronchi. La crisi fu dovuta alla diffidenza degli Stati Uniti verso Gronchi o c’è anche un fattore di diffidenza interna alla stessa Dc?

Il caso Gronchi è un’altra ottima manifestazione delle complesse triangolazioni che esistevano tra correnti politiche italiane e ambasciata americana. È noto che l’elezione di Gronchi fu il frutto di una sconfitta della segreteria democristiana di Fanfani. Ma il nuovo presidente, a parte essere stato contrario all’adesione al patto atlantico nel 1949, non era più assolutamente su posizioni neutraliste o antiamericane. Siccome però passava per sostenitore dell’“apertura a sinistra”, il fuoco di fila degli oppositori interni (la destra democristiana, i liberali, una parte cospicua della diplomazia stessa) fece di tutto per metterlo in cattiva luce nei confronti degli statunitensi. La presenza a via Veneto a Roma di alcuni diplomatici acuti ma molto conservatori permise alla manovra di avere notevoli effetti. Il nuovo presidente incontrò quindi parecchie difficoltà a intraprendere un rapporto positivo oltre atlantico. Paradossalmente, ne fu ostacolato anche quando sosteneva per la politica estera italiana posizioni “neoatlantiche”, che miravano a sviluppare la presenza nazionale e mediterranea dell’Italia, ma nel quadro di una solida alleanza con il ruolo-guida statunitense in occidente.

Nel suo libro si ferma al 1978; quali sono state le motivazioni dietro questa scelta?

Mi rendo ben contro che è una scelta discutibile, come tutte le opzioni di periodizzazione. Da una parte, è stata indotta da una motivazione pratica: dopo quell’anno si rarefacevano le fonti disponibili (soprattutto quelle americane). Ma nasconde una convinzione più forte: gli anni Settanta (la crisi economica e ancor più la crisi dell’assetto socio-politico cosiddetto fordista; politicamente e simbolicamente, poi, per l’Italia, il delitto Moro) assumono sempre più ai miei occhi, man mano che passa il tempo, il senso di uno spartiacque significativo nel dopoguerra. Dividono due periodi contrapposti, in un certo senso. Il periodo di consolidamento democratico e ascesa economica guidato dai partiti e inserito con un proprio ruolo nel “mondo libero” (o nel particolarissimo “impero americano”, come lo si voglia chiamare). E la stagione di molte maggiori incertezze economiche, nel quadro difficile da dominare dell’incipiente globalizzazione, con una crisi evidente della democrazia e in generale una minor capacità delle classi dirigenti a gestire i processi storici. In questo senso, la cesura dei ’70 è per me più forte di quella dell’’89 e anche del ’94. Gli anni ’80 appaiono perciò più anni di transizione ai nuovi equilibri che uno sviluppo ulteriore della “repubblica dei partiti”. E anche la cosiddetta “seconda guerra fredda” fu molto meno decisiva per il sistema, rispetto a percorsi di finanziarizzazione e globalizzazione dell’economia che cominciarono a manifestarsi.

Vorrei concludere adesso con una domanda un po’ personale. E’ consuetudine di “Historical Eye” chiedere agli studiosi intervistati un po’ del loro percorso personale e delle motivazioni che li hanno spinti a intraprendere il difficile mestiere di storico. Crediamo sia molto importante capire “perché” si studi la storia o si diventi storici. Quindi, in definitiva, professore, quali furono le motivazioni che la portarono a scegliere di studiare storia?

Mah, come spesso succede sono anche incontri personali o letture, o occasioni particolari a orientare le scelte e la vita di tutti noi. Per me, la passione per la storia è nata negli anni della scuola superiore, quando ho cominciato a percepire come lo sguardo al passato potesse essere tutt’altro che arido e nozionistico, ma aprire a orizzonti di comprensione migliore del nostro presente. O meglio ancora, la convinzione che mi sono costruito è che comprendere come sono cambiate le cose ad opera dell’azione di uomini e donne nel nostro passato, servisse molto a capire come orientarsi nel presente e a istruire la possibilità di cambiamento delle nostre esperienze attuali. Di qui poi a trasformare questa intuizione in un mestiere, naturalmente, la cosa non è stata semplice. L’università degli anni ’80, quando mi sono laureato, soffriva forse un po’ meno di quella attuale di un’insopportabile asfissia di risorse. Tuttavia, nel mondo degli studi umanistici, i posti non erano nemmeno allora così numerosi. Ma devo dire di essere contento di esserci riuscito.

 

 

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