I principi della democrazia : Analisi comparativa tra democrazia e sistemi autarchici.

Quando si parla di Democrazia, generalmente si intende un sistema di governo fondato sull’uguaglianza delle opportunità e sulla partecipazione collettiva, tale interpretazione politica si contrappone nettamente ai regimi autarchici, nei quali invece, il potere è concentrato in poche mani o in una singola persona.

Tuttavia, non sempre la democrazia è interpretata in questo modo, e spesso anche in democrazia si rischia di virare verso posizioni autoritarie, superando e denigrando uno dei principi portanti della democrazia stessa, il “compromesso politico” in favore di sistemi maggioritari e più “forti”, basati sul principio che chi “chi ha la maggioranza decide”.

Ma la democrazia non funziona così, o meglio, per come è stata concepita e definita nel corso dei secoli, non dovrebbe, e anzi, per millenni la filosofia ci ha ampiamente messo in guardia dalle ombre che aleggiano e minacciano la democrazia, ombre che periodicamente, e seguendo un copione ben definito, hanno prevalso sulla democrazia, portando alla nascita di sistemi autoritari, sempre più pericolosi.

In questo articolo cercheremo di esplora il concetto di democrazia, le sue origini, le sue criticità, e di identificare le maggiori e più note e facilmente riconoscibili minacce alla democrazia di cui abbiamo conoscenza storica.

Etimologia e significato del termine “democrazia”

Cominciamo con l’etimologia della parola, poiché tutto parte da essa. Il termine “democrazia” deriva dal greco, più precisamente dalla composizione di due parole, demos (popolo) e kratos (potere), e la traduzione letterale dell’unione di queste due parole è “potere del popolo“, ne consegue che tale significato persista e definisca anche (e soprattutto) il termine che deriva dall’unione di queste due parole, ovvero Democrazia.

Democrazia però non è solo il potere del popolo, ma è anche il modo in cui e con cui, il popolo esercita tale potere, ed è usato generalmente per rappresentare diverse forme di governo caratterizzate da una serie di elementi comuni suggerendo l’idea che i governi “democratici” siano in sostanza espressione della volontà del popolo, della collettiva, e non di singoli individui o gruppi ristretti, come potrebbe invece essere in sistemi autocratici o oligarchici dove invece a governare sono rispettivamente un solo individuo o un gruppo elitario.

Se l’idea tali governi siano espressione della volontà colletta, è un qualcosa di solido e persistente nelle varie declinazioni di democrazia, la misura e la dimensione di quella volontà è un qualcosa di più volatie e mutevole, che in sistemi democratici differenti, può assumere forme differenti. Si pensi alle democrazie dirette, alle democrazie presidenziali, alle democrazie parlamentari, ecc.

In queste varie declinazioni, ognuna delle quali interpreta in maniera differente la volontà della collettività, si celano alcune insidie della democrazia, che espongono le varie forme di democrazie a contaminazioni più o meno pericolose. La maggior parte di queste minacce sono sintetizzabili nel rischio che la democrazia possa in qualche modo confluire in sistemi autoritari, in cui si possa prediligere una parte della collettività a scapito della sua interezza, e solo una parte del popolo, della collettività, degli elettori, la “maggioranza”, risulta essere fonte e di legittimazione del potere, con l’effetto di una forte polarizzazione politica, che rende impossibile o quasi, ogni forma di compromesso e confronto politico.

Questa distorsione della democrazia, si radica nell’idea distorta per cui ci sia una parte che ha il compito di governare, e una parte, che deve rimanere in panchina. Come vedremo nella prossima sezione, questa visione non ha nulla a che vedere con la democrazia, e anzi, rappresenta la sua morte.

La filosofia della democrazia

Fin ora abbiamo ragionato sull’etimologia della parola democrazia, visto le sue possibili declinazioni e accennato in via puramente teorica alle sue insidie. Da qui in avanti ripercorreremo la storia filosofica della democrazia, dall’antichità greca ad oggi, nel tentativo di capire che cos’è la democrazia oggi.

Tra i primi filosofi che si sono occupati del concetto di Democrazia, incontriamo, come già successo per il concetto di politica, Platone, e la sua La Repubblica, opera in cui il filosofo greco, narrando un dialogo con il proprio maestro Socrate, si ritrova ad esprimere le proprie idee di governo ideale, e nel fare ciò, dedicherà importanti sezioni dell’opera alla critica dei governi noti, tra cui anche la democrazia ateniese, una forma di governo che per Platone è incline al disordine e alla tirannide. Come vedremo, le critiche che il filosofo greco muove alla democrazia hanno un sapore quasi profetico e ci mostrano con qualche millennio di anticipo e straordinaria lucidità, le problematiche che nel mondo contemporaneo abbiamo riscontrato in modo diversi, in diversi sistemi politici, tra cui l’Unione Sovietica o gli Stati Uniti d’America.

Per Platone la democrazia diretta ateniese è una sorta di regime in cui il popolo detiene il potere senza alcuna qualificazione o competenza specifica per governare, e alla base di questa democrazia diretta vi è un principio di uguaglianza formale che non tiene conto delle differenze qualitative tra gli individui. senza troppi giri di parole, per Platone non tutti hanno la capacità non solo di governare, ma anche di scegliere i governanti, di conseguenza, in un sistema in cui tutti i cittadini hanno lo stesso diritto di partecipare alla vita politica, indipendentemente dalle proprie capacità o virtù, si inibisce la capacità e la possibilità di un buon governo e si favorisce l’ascesa di demagoghi, ovvero di leader populisti in grado di manipolare le passioni, le paure e le opinioni della massa, al fine di ottenere maggiori consensi. Questo fenomeno, conduce inevitabilmente alla tirannide, poiché i demagoghi una volta al potere tendono a consolidare il loro controllo eliminando ogni forma di opposizione.

Altra enorme criticità delle democrazie dirette, secondo Platone, sta nella loro instabilità, poiché esse lasciano ampio all’anarchia delle opinioni e dei desideri individuali, elementi di disturbo che tendono a prevalere sul bene comune. In altri termini, per Platone la democrazia è un regime in cui “ognuno fa ciò che vuole“, dando luogo a una società frammentata e priva di coesione, che tenderà a scegliere come guida chi gli permette di fare ciò che vuole, e allontanerà chi invece punterà al bene comune.

A tale proposito il brano “La sete di libertà” del libro quarto della repubblica, offre un immagine estremamente vivida e profetica.

“Quando un popolo, divorato dalla sete di libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano a sazietà,
fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati despoti.
E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani.
In questo clima di libertà, nel nome della libertà, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia.”

Esempi storici di questo tipo, che avverano la profezia di Platone, ne potremmo fare all’infinito, da Cesare ed Augusto, passando per Napoleone ed i dittatori del novecento, fino arrivare ai grandi populisti contemporanei, la storia dell’umanità ha visto l’ascesa di innumerevoli “coppieri“.

Lasciandoci Platone alle e avanzando di una generazione anche Aristotele, maestro di Alessandro Magno e allievo di Platone, si occuperà di definire il concetto di democrazia e le forme di governo democratico. Aristotele ne parla nel libro Politica, dove descrive la democrazia come una forma di governo mista, capace di integrare elementi di monarchia, aristocrazia e politica e come il proprio maestro, anche Aristotele non è esente dal sottolineare alcune criticità e insidie della democrazia, mettendo in guardia soprattutto dal rischio di oclocrazia, ovvero il dominio della folla irrazionale e priva di virtù.

L’etimologia di questo termine è simile a quella di democrazia, il suffisso cratos è lo stesso, ma cambia la radice, da demos (popolo) a oclos (folla), ed indica appunto un regime in cui le decisioni sono prese in modo impulsivo e passionale, senza alcun riguardo per la legge o il bene comune, da quella che sostanzialmente considera una folla irrazionale.

Aristotele critica aspramente questa forma di governo, poiché ritiene che essa sia particolarmente priva di moderazione e di equilibrio tra le classi sociali, elementi che ritiene fondamentali affinché si possa esercitare il potere in maniera giusta.

Per Aristotele quindi, l’oclocrazia è quindi una distorsione della democrazia che e si manifesta quando i cittadini meno virtuosi prendono il sopravvento e corrompono la democrazia, quasi ne abusano.

Tornando ad Aristotele, il filosofo greco ritiene che la deriva della democrazia in oclocrazia possa essere evitato attraverso la politeia (politica), attraverso l’attuazione di forme di governo miste che combina elementi democratici e oligarchici, garantendo così una maggiore stabilità e giustizia sociale. È quasi come se ci stesse dicendo che l’oclocrazia nasce dall’eccesso di democrazia e di libertà, visione ereditata dal proprio maestro.

La storia, soprattutto recente, è ricca di esempi di democrazie evolute in oclocrazie, alcune delle quali hanno permesso l’ascesa di vere e proprie dittature, non solo in Europa e non solo nel novecento.

Tornando al concetto di democrazia, ha accompagnato la nostra storia solo per brevi tratti e nella maggior parte dei casi, l’umanità ha preferito altre forme di governo. Se l’Europa classica ha conosciuto varie forme di democrazia, in particolare quella di alcune polis greche e la repubblica romana, a partire dal primo secolo a.c., in particolare da Cesare in avanti, le democrazie classiche sono sparite, lasciando il passo a nuove forme di governo, come l’Impero e le monarchie, tutt’altro che democratiche.

Eccezion fatta per la breve esperienza dei comuni dell’Italia medioevale, la democrazia è tornata ad affacciarsi sull’Europa solo di recente. Più precisamente torna a far parte del dibattito politico e filosofico a partire dal XVII secolo, soprattutto con autori come John Locke e Jean-Jacques Rousseau, che nei propri scritti hanno ridefinito il concetto di democrazia, gettando le basi per le democrazie moderne, che all’atto pratico sono un esperienza politica totalmente nuova e profondamente diversa dalle democrazie “classiche”.

Le democrazie moderne pongono l’accento sul ruolo dei diritti individuali e della volontà generale, con alcune differenze tra i vari filosofi che si sono susseguiti nel tempo. Per Locke ad esempio, l’esercizio del potere doveva basarsi sul consenso dei governati, mentre per Rousseau, la democrazia diretta rappresentava l’unica forma legittima di governo, poiché solo in questo modo era possibile avere un espressione autentica della volontà collettiva. Di tutt’altro avviso invece è Hobbes che critica la democrazia ritenendola instabile e preferendo un sovrano assoluto per garantire ordine e sicurezza.

Kant vede la democrazia come una repubblica razionale e giuridica, ponendo tutta l’attenzione sul diritto e le regole, poiché solo il diritto, metodico e rigoroso è in grado di produrre un sistema politico che possa garantire pace e libertà. E se per Kant, alla base della democrazia c’è il diritto, per Marx, la democrazia è altro, non è infatti solo una forma di governo, ma una “fonte di governo” che sposta la costruzione istituzionale dal basso, immaginando una società autogestita. C’è quindi una sorta di ritorno alla democrazia diretta.

Come per Platone e Aristotele anche gli altri autori, citati e non, che si sono occupati del concetto di democrazia, ne hanno intravisto possibili criticità, rendendo evidente un principio, la democrazia non è perfetta perché riguarda gli esseri umani, e il rischio più comune, evidenziato in tutte le declinazioni della democrazia, vede la maggioranza assumere posizioni autoritarie, per imporre decisioni.

Compromesso politico vs. dittatura della maggioranza

In sostanza, la democrazia è una questione da gentiluomini, richiede un certo rispetto reciproco, l’ammissione e il riconoscimento reciproco dei propri limiti e il ricorso al compromesso politico, inteso come la capacità di mediare tra interessi diversi per raggiungere soluzioni condivise. In teoria, nei sistemi democratici, il compromesso è essenziale per garantire stabilità e inclusività ed evitare che le decisioni siano dettate unilateralmente dalla parte vincente. Qualunque essa sia. Poiché, in caso contrario, avremmo a che fare con una tirannia, una dittatura della maggioranza.

Tale principio fondante, non è tuttavia implicito e spesso viene oscurato dal principio deviante e deviato per cui “chi vince decide“, e in quei casi si rischia di trasformare la democrazia in una vera e propria “dittatura della maggioranza“, un sistema politico in cui, a seconda della maggioranza, le minoranze vengono marginalizzate e i loro diritti e le loro istanze quasi del tutto ignorate. Tale dinamica si contrappone in maniera netta e radicale ai principi fondanti della democrazia, e riflette in vero quel rischio da cui giuristi e filosofi ci hanno messo in guardia per secoli.

La dittatura della maggioranza non è solo un sintomo della tirannia e dell’oclocrazia, ma è anche causa ed effetto di alti fenomeni, tra cui, la polarizzazione politica, che rendono estremamente difficile, se non del tutto impossibile, il dialogo tra schieramenti diversi e contrapposti, alimentando tensioni sociali.

Ma la natura pluralistica degli schieramenti politici non dovrebbe essere fonte di divisione, ma un punto cardine per la ricerca di un compromesso che però, in alcuni casi viene visto come una rinuncia ai propri valori e principi, un “inciucio” che non fa bene alla propria parte, poiché non fa l’interesse esclusivo della propria parte, puntando invece agli interessi comuni di tutte le parti. E così, il bene comune, che per Aristotele era il punto d’arrivo della politica, diventa il suo principale ostacolo. Qualcosa da scardinare e superare.

Nei sistemi autarchici tuttavia, il compromesso politico è praticamente assente, il potere è centralizzato e le decisioni sono imposte dall’alto senza alcuna reale consultazione pubblica. Questo perché fondamentalmente non serve, perché il governante è stato eletto dal popolo e in quel momento il popolo ha esercitato ed esaurito il proprio potere, può quindi tornare ad essere spettatore fino alle prossime elezioni, se mai ci saranno prossime elezioni.

In questi contesti, o nei contesti che tendono in questa direzione, il concetto stesso di compromesso diventa irrilevante, poiché non esiste un reale spazio comune per il confronto tra diverse visioni del mondo. El più esiste un luogo in cui le forze politiche possono accusarsi a vicenda, in quelle che risultano essere sterili e inutili dibattitti polarizzati. Ma che dovrebbero invece essere luoghi di confronto finalizzati al compromesso.


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Esportare Oligarchie: la Colonizzazione della Grecia Arcaica

Aristotele nella Politica mette in relazione la colonizzazione arcaica con lo sviluppo di oligarchie territoriali e con le dinamiche (o lotte) di classe. Ha ragione? Si tratta di una testimonianza attendibile? Per affrontare questo problema dobbiamo fare un passo indietro e ripercorrere le tappe fondamentali della colonizzazione arcaica.

Tra l’VIII e il VI secolo a.C. i Greci si sono spostati in terre abitate da popolazioni “barbare” e vi hanno fondato delle città (o poleis) del tutto simili alle metropoleis di provenienza, ma da esse indipendenti (Finley 1976; Lepore 1978 e 1981). Sappiamo che avevano un termine specifico per connotare questo fenomeno: apoikía, che significa letteralmente lontano da casa. Si può dunque facilmente intuire come la fondazione di una città lontano da casa abbia ben poco in comune, istituzionalmente parlando, con il concetto di colonia (e colonialismo). Con colonialismo si intende la fase moderna della colonizzazione, un fenomeno che conosciamo a partire dal Quindicesimo secolo, e che è connesso alla creazione di un vero e proprio sistema coloniale, del tutto dipendente e in certo modo funzionale a una divisione internazionale del lavoro e allo sfruttamento intensivo delle risorse naturali.

Oggi vorrei fare qualche riflessione sulla colonizzazione arcaica non solo per rimarcarne le differenze rispetto ai movimenti moderni, che in questa sede rimarranno sullo sfondo, ma per rendere esplicita una caratteristica del mondo arcaico o, almeno, del modo di intendere e di vivere l’esportazione di usi, costumi e leggi: il conservatorismo. Cosa si intende per colonizzazione arcaica? Con questo termine si indica lo spostamento, anche non coordinato e non “in massa”, di uno o più ecisti o fondatori (oikistés in greco antico significa fondatore) con l’obiettivo di organizzare una nuova città che doveva avere delle caratteristiche particolari.

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Tutte le nuove città erano infatti associate alla città-madre, o metrópolis, nel senso che quest’ultima si occupava dei preparativi della spedizione e della nomina dell’ecista, una figura chiave poiché aveva il compito di organizzare la comunità, di istituire i culti e le leggi, di spartire il territorio organizzando gli spazi cittadini. E non faceva questo di sua iniziativa personale ma utilizzando come modello gli usi, costumi e le leggi della città-madre. La madrepatria restava quindi un punto di riferimento anche per la fondazione delle sub-colonie, ma le relazioni finivano qui: etimologicamente apoikía implica distacco e spesso ai “coloni” era perfino preclusa la possibilità di tornare a casa!

Ad un conservatorismo istituzionale e culturale corrisponde (o sembra corrispondere, dai documenti che abbiamo) un’indipendenza economica solo relativa. Se proprio volessimo trovare delle analogie con qualche esperienza moderna, dovremmo fare appello al sistema coloniale britannico, “l’unico che sviluppò contemporaneamente tutti i tipi di colonizzazione (dalla colonia commerciale a quella di piantagione, fino a quella penale) produsse anche una colonia di insediamento, formata in terra vergine a liberi agricoltori. Questo modello di colonizzazione moderna è l’unico che si possa avvicinare a quello di certe fondazioni greche in territorio non greco, salva restando la ovvia differenza dei rapporti di produzione esportati”, (Federica Cordano, Antiche Fondazioni Greche, p.16).

La colonizzazione greca ha dunque delle caratteristiche peculiari che affondano le radici nei processi di formazione della polis, che la differenziano non solo dalle esperienze europee in epoca moderna, in cui esiste un complesso rapporto di dipendenza istituzionale, sociale, culturale ed economico con la madrepatria, ma anche con le precedenti esperienze vissute nella storia della Grecia arcaica. Sto pensando al passaggio in Asia Minore degli Ioni e degli Eoli e ai contatti micenei stabiliti nel II millennio.

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Come sottolinea molto bene Federica Cordano, anche se le fonti antiche definiscono queste esperienze come esempi di colonizzazione, il termine va inteso cum grano salis: questi spostamenti rispondono a tutt’altra logica e appartengono a un periodo in cui la Grecia era teatro di migrazioni, non di spostamenti esplicitamente finalizzati alla fondazione di una polis (che nemmeno esisteva istituzionalmente parlando, visto che la Grecia non era ancora Hellás, ossia un insieme di città-stato in grado di “esportare” le istituzioni politiche tipiche di questa forma di aggregazione sociale).

Le città della Ionia e dell’Eolide, concepite (come abbiamo accennato) comunque come apoikíai, in quanto la tradizione posteriore non ha saputo interpretare gli spostamenti in massa se non in questi termini, nascono dalla dissoluzione del mondo miceneo e il loro sviluppo si deve a presupposti etnici e ad ecisti mitici. Tra queste due esperienze, impropriamente designate con lo stesso termine, si colloca infatti il cosiddetto rinascimento greco, un processo che conduce la Grecia ad uscire da un’età buia e che è ben attestato nelle pagine di Esiodo (e dalla documentazione archeologica tra il IX e l’VIII secolo).

Moses I. Finley ha tracciato uno schema dei tipi di colonie antiche partendo dall’analisi della terminologia coloniale inglese e francese per mettere in guardia dalle facili sovrapposizioni. Ettore Lepore ha ripreso il discorso ampliando l’esame della bibliografia specifica. Egli mette in particolare rilievo come le interpretazioni modernistiche della colonizzazione greca abbiano ‘viziato il dibattito sulle sue cause anche in avvedute e acute analisi’ conducendo alla schematica divisione in colonie agrarie e colonie commerciali, divisione che si trova anche nei fondamentali studi sulla colonizzazione greca di Dunbabin e Bérard e, diversamente rielaborata, di Cl. Mossé. L’aver preso in prestito il vocabolo colonia ha trascinato con sé tutta la terminologia coloniale. […] Questa terminologia non è stata adottata solo per ragioni di comodo, ma perché l’interesse espresso dagli storici moderni per la colonizzazione greca non è mai completamente disgiunto da quello per la colonizzazione moderna ed europea. Questo è avvenuto soprattutto nei secoli passati e nella prima metà del nostro”, (Federica Cordano, Antiche Fondazioni Greche, p.16).

Una principessa micenea.

La colonizzazione in Sicilia: un esempio conservatore? Le fondazioni siciliane sono solo uno dei numerosi esempi che potremmo fare per mostrare come i nuovi insediamenti non erano intesi come luoghi in cui costruire un nuovo modello di società ed eventualmente migliorare le istituzioni vigenti nelle metropoleis, ma erano vissute come “copie” delle poleis da cui provenivano i fondatori. Probabilmente non poteva andare diversamente, visto che si era appena innescato il processo di recupero e revisione delle legislazioni, le strutture familiari e sociali si stavano consolidando e siamo ancora lontani dal periodo classico, da ciò che accadrà tra V e IV secolo. Detto ciò, è interessante riflettere sulle letture filosofiche che vennero date di questo fenomeno proprio nel periodo classico.

L’analisi delle fonti provenienti dalla riflessione filosofica sembra deporre in favore della necessità del processo di colonizzazione e del conservatorismo nella gestione delle nuove città. Nelle Leggi Platone afferma chiaramente che si possono ottenere coloni da fenomeni di sovrappopolazione, ossia in quei casi in cui le terre e le derrate alimentari si rivelano insufficienti per il sostentamento degli abitanti della regione (707e). Precisa, in seguito, che a causa delle lotte civili può accadere che un intero partito sia costretto all’esilio e che, nei casi più estremi, un’intera popolazione sia costretta a spostarsi a causa di rivolgimenti sociali o peggio a causa di una guerra (708b). Il concetto è chiaro: una colonia viene fondata per necessita, non perché dietro vi sia un preciso progetto politico o sociale.

Come ho accennato all’inizio, Aristotele sembra andare addirittura oltre. L’idea platonica viene infatti in qualche misura assolutizzata, se si leggono alcuni passi della Politica in cui si parla dell’esigenza di limitare il numero dei cittadini (1265a e 1326b), di controllare le nascite (1265b, 1266b, 1270b) e di mantenere fisso il numero dei lotti familiari anche tramite le adozioni (1274a-b). Infine, e qui Aristotele è molto chiaro, è proibito alienare la proprietà terriera (1265b-1266b, 1270a, 1319a).

Tutte queste istanze sono evidenti nell’intero processo di colonizzazione, in particolare nelle colonie calcidesi che diedero vita a Zancle (Messina) che fondò Mylai (Milazzo) e Imera per motivi strettamente commerciali, Reggio, Nasso (734), Leontini e Catania (728). La struttura politica delle colonie calcidesi riprende quella della madrepatria: Calcide ed Eretria avevano infatti elaborato un sistema oligarchico fondato su criteri aristocratici e censitari, basato sui privilegi di nascita e ricchezza. Ed è proprio Aristotele a porre in contemporaneità questi regimi con la colonizzazione arcaica e, quindi, ad indicare nelle dinamiche di classe il motore di questo processo, che diventerebbe la via di fuga privilegiata per coloro che non trovavano in patria possibilità di successo. Oligarchia e mobilità economica sembrano quindi i suoi ingredienti essenziali.

Nell’immagine vediamo le colonie in Magna Grecia e in Sicilia. Le fondazioni campane, lucane e della Sicilia nordorientali sono ioniche, quelle pugliesi e della Sicilia meridionale sono invece doriche; le restanti fondazioni sono di coloni greci provenienti dall’Acaia. (CC BY-SA 4.0).

E questo può aiutarci a sfatare qualche mito in merito alle cause della colonizzazione arcaica. È importante a questo punto non farsi fuorviare e non cadere nella trappola del dibattito tra motivazioni commerciali, agricole e o di popolamento. È del tutto legittimo interrogarsi sulle cause della colonizzazione arcaica e sul suo significato; illegittimo è invece usare idee, concetti moderni e trovare una risposta nella loro retroazione acritica.

È naturale che chi si allontana dalla propria patria lo fa anche (e forse soprattutto) per cercare terre fertili e per fare fortuna; ciò rientra nella specificità dell’economia antica che, pur conoscendo le dinamiche introdotte dalle attività commerciali e artigianali, resta essenzialmente legata all’agricoltura. Motivazioni più evidenti sono di natura politico-religiosa, come mostra bene Aristotele. Ragioni demografiche e territoriali, accompagnate da discriminazioni sociali e religiose, portano a uno scontro tra chi non ha il pieno possesso dei diritti politici e le ristrette oligarchie conservatrici.

Concludo con un chiaro esempio di conservatorismo istituzionale. Basti pensare alle legislazioni antiche. Si tratta di una vera e propria “esportazione” di usi, costumi, tradizioni e leggi già in vigore nella madrepatria. Le figure di riferimento sono in bilico tra la storia e il mito: Zaleuco di Locri Epizefiri (il nome significa bianco splendente) secondo la tradizione era monocolo e viene descritto con tutte le caratteristiche tipiche delle divinità solari. Molti sono infatti i dubbi sulla sua reale esistenza (e non ce ne meravigliamo). La legge del taglione e le pene capitali per il furto vengono di solito attribuite a lui o, meglio alle tradizioni diffuse in quel periodo.

Con Caronda di Catania il discorso è simile. Invece a Draconte (il cui nome significa serpente, l’animale sacro ad Atena) si devono le leggi scritte addirittura col sangue. Ma qui il punto importante è che siamo nel 621/620 e che Solone nel 594 conservò la parte relativa agli omicidi, che costituisce un notevole passo avanti verso l’affermazione del potere dello Stato. L’iniziativa dell’azione penale è in capo alla famiglia, ma è il legislatore che stabilisce tempi, modi e limiti della punizione. Distinguendo, poi, tra delitto volontario, preterintenzionale e giustificato si supera l’idea dell’oggettività della colpa e si prende in considerazione la soggettività del colpevole. Poco ci importa dunque se sia stato Draconte o meno; il punto importante è l’atteggiamento conservatore nella fondazione delle “colonie” greche. Il tutto per dire che la testimonianza di Aristotele mi sembra abbastanza attendibile.

Bibliografia e Fonti:
Platone, Le Leggi, BUR.

Aristotele, Politica, Laterza.

F. Cordano, Antiche Fondazioni Greche, Sellerio.

M. I. Finley, Colonies. An Attempt at a Typology, “Transaction of the Royal Historical Society”, 1976/26, pp. 166-188.

E. Lepore, La fioritura delle aristocrazie e la nascita della polis, “Storia e Civiltà dei Greci”, 1978/1, pp. 183-253.

E. Lepore, I Greci in Italia, “Storia della Società Italiana I. Dalla Preistoria all’Espansione di Roma”, 1981/1, pp. 213-268.

C. Mossé, La colonisation das l’antiquité, Paris, 1970.

D. Musti, L’economia in Grecia, Laterza.

C. Bearzot, Manuale di storia greca, Il Mulino.

L. Braccesi, F. Raviola, Guida allo studio della storia greca, Laterza.

D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Laterza.