Chi era Leopoldo II del Belgio ?

Leopoldo II del Belgio è un re dal doppio volto, apparentemente illuminato in europa, ma demoniaco in Africa

Leopoldo II del Belgio, nato Leopoldo Luigi Filippo Maria Vittori di Sassonia-Coburgo-Gotha, principe del Belgio, duca di Brabante e re dei Belgi, dal 10 dicembre 1865 al 17 dicembre 1909.

Leopoldo II del Belgio era il secondo figlio di Leopoldo del Belgio, il primo re del Belgio e soprattutto dei Belgi, e di conseguenza era un cugino, da lato materno della regina Vittoria e dal lato paterno, era anche cugino del principe consorte Alberto, marito di Victoria, e proprio durante il regno di sua cugina, trovò rifugio in Inghilterra, quando nel 1848, suo nonno, Luigi Filippo duca d’Orleans e re dei Francesi, venne deposto nel contesto della seconda rivoluzione Francese.

Il re dei Belgi

Leopoldo II del Belgio è quindi un uomo totalmente immerso nella storia del proprio tempo, conosce perfettamente le dinamiche, gli equilibri e le meccaniche dell’europa del secondo XIX secolo, e quando, nel 1865 succedette a suo padre al trono del Belgio come re dei Belgi, fu, in un certo qual’modo, costretto ad essere un re al passo con i tempi.

Aveva appreso dalla permanenza britannica i segreti per la sopravvivenza e il mantenimento della corona, ed aveva appreso dalla giovanile permanenza in francia, e da suo nonno, gli errori da non commettere se si voleva restare sul trono, inoltre, aveva appreso da suo padre, l’importanza di costruire una solida rete di alleanza internazionali, tali da rendere anche un piccolo regno come quello del Belgio, centrale nello scacchiere europeo e internazionale.

Leopoldo aveva tutte le carte in regola per essere, in europa, un grande e brillante sovrano, potremmo quasi definirlo un sovrano illuminato, che , proprio grazie alle proprie alleanze e parentele, sarebbe riuscito, nel 1884-85, durante la conferenza dell’Africa occidentale, a Berlino nota anche come conferenza di Berlino, ad ottenere per se, un piccolo pezzo d’Africa, durante il processo di ripartizione continentale tra le potenze europee.

Il re del Congo

Nel 1885 Leopoldo II del Belgio assume sulla propria testa una seconda corona, la corona di re del Belgio.

Già nella dicitura possiamo individuare un interpretazione monarchica differente rispetto alla corona belga, in Belgio Leopoldo era Re dei Belgi, per volontà del popolo del Belgio, in Congo invece, adottava una dicitura antica, quella di Re del Congo, una dicitura propria dell’ancient regime e delle monarchie assolute svanite con la rivoluzione Francese e successivamente congresso di Vienna (nel caso britannico, con la gloriosa rivoluzione e in Russia con la rivoluzione di febbraio). Insomma, una dicitura che era stata spazzata via dall’Europa con insurrezioni, rivolte, e fiumi di sangue, ma l’Africa non era Europa, l’Africa era un mondo a se, e lì, i nobili principi del mondo moderno, vennero presto a mancare.

L’imperialismo ottocentesco non appartiene solo a Leopoldo del Belgio, ma viene praticato, in maniera violenta e a tratti spietata un po’ da tutte le potenze europee, tuttavia, nel Congo di Leopoldo, ci si spinse forse un po’ troppo oltre, raggiungendo un livello di crudeltà e disumanità, che nella storia può essere associato soltanto al III Reich.

Il regno di Leopoldo I del Congo, rappresenta uno dei capitoli più cruenti, oscuri, violenti e vergognosi della storia dell’intera umanità e fu caratterizzato da una politica interna terrificante e disumana che si spinse oltre ogni limite e ogni immaginazione.

Gli orrori di Leopoldo in Congo

Mutilazioni, umiliazioni, stupri, decimazioni ecc vennero usati come strumenti punitivi, nei confronti della popolazione indigena del Congo, una popolazione che fu totalmente ridotta in schiavitù, attraverso la pratica di quello che oggi è noto come colonialismo privato, ovvero la concessione di licenze di sfruttamento territoriale a privati investitori che, in possesso di quella licenza assumevano pieni diritti sulla terra, entro certi confini stabiliti d’ufficio, e tutto ciò che si trovasse entro quei confini.

Questo tipo di colonialismo, alimentato dall’avidità del re e dei colonizzatori, ebbe come principale effetto, la reintroduzione della schiavitù in Congo, che si tradusse immediatamente in condizioni di vita e di lavoro al limite.

I colonizzatori privati di Leopoldo scoprirono ben presto che la paura era uno strumento estremamente efficace per aumentare la produttività dei propri schiavi e che, più crudeli erano le punizioni inflitte, minori erano le diserzioni, e l’unico effetto collaterale era un elevato tasso di mortalità, che però, era soppiantato da una riserva di schiavi, quasi illimitata.

Tra il 1885 e il 1909 la situazione del Congo è indescrivibile, e la popolazione indigena perde ogni tratto di umanità, poiché ridotti alla fame, costretti al lavoro continuo, perennemente incatenati, e sistematicamente mutilati e decimati.

L’apice della crudeltà venne raggiunta quando alcune compagnie coloniali svilupparono un metodo di controllo sulla popolazione indigena che consisteva nel creare coppie di lavoro, due uomini venivano incatenati insieme e se uno dei due non lavorava al giusto ritmo, l’altro era obbligato a punirlo. Queste fustigazioni avvenivano in pubblico, e purtroppo, rappresentavano solo l’inizio, di un lungo viaggio all’inferno.

Gli schiavi vennero sistematicamente mutilati e decimate, le donne vennero sistematicamente stuprate e vendute come oggetti di piacere se erano fortunate… se non lo erano, il loro destino era quello di diventare mettere al mondo nuovi figli, per alimentare le fila di lavoratori.

Nel caso non fosse chiaro cosa significa, stiamo parlando di allevamenti intensivi di schiavi, in cui le donne venivano stuprate e costrette a partorire bambini destinati a diventare schiavi. Schiavi che avrebbero iniziato a lavorare nei campi di gomma, o come servitori nelle residenze private, appena ne avessero avuto la capacità fisica, parliamo di schiavi bambini di cinque o sei anni al massimo, e di bambine stuprate al primo mestruo.

Questo è il Congo di Leopoldo I del Congo, e non c’è da stupirsi se alla sua morte la corona del Congo sarebbe svanita e il suo successore in Belgio, Alberto I del Belgio, nipote di Lopoldo II e figlio di Filippo del Belgio (terzogenito di Leopoldo I) avrebbe preso totalmente le distanze dal regno e dalla politica di suo zio, e durante la I guerra mondiale, avrebbe dichiarato il Belgio neutrale, poiché, a suo dire, di orrore e di sangue, la corona belga ne aveva già versato troppo.

Per approfondire

G. Piccolino, Vive la civilisation! Re Leopoldo e il suo Congo, https://amzn.to/320uaHw
M.Camargo Milani , Genocídio no Congo: Leopoldo II, o Imperialismo e o Holocausto Africano ( 1885-1908), https://amzn.to/2PrZrAu
M.Twain, Soliloquio di re Leopoldo. Apologia del suo ruolo in Congo, https://amzn.to/2N2oXuF
E.Hobsbawm, L’età degli imperi (1875-1914), https://amzn.to/2JzSx8y
M.Bloch, La società Feudale, https://amzn.to/2MZvGoX
J.Newsinger, Il libro nero dell’impero britannico, https://amzn.to/2MX5I5w

COLONIALISMO E DIALETTICA ASSIMILAZIONE-LOTTA DI LIBERAZIONE

All’inizio dell’avventura coloniale portoghese in Africa,nel XV° secoolo, il mondo allora conosciuto si limitava al Nord Africa (il Sahara Occidentale era considerato la fine del mondo),al Medio Oriente e all’ Europa.
L’obbiettivo ufficiale,comune alle monarchie europee era il commercio delle spezie nell’ Oceano Indiano,al quale si aggiungeva quello di proseguire la lotta contro i “Mori”, i musulmani,con un autentico “espìrito de cruzada” praticato attraverso lo sterminio e la conversione forzata al cristianesimo delle popolazioni superstiti.
Durante tutto il secolo gli esploratori europei incontrarono sulle coste del continente africano popoli che ai loro occhi apparivano culturalmente e tecnicamente “arretrati” ciò contribuì a rafforzare la convinzione,costruita dagli intellettuali illuministi, della necessità del dominio territoriale,politico e culturale dell’ Europa al di fuori dei propri confinin nome della “costruzione e diffusione della civiltà”.
E’ in questa fase, con il porsi delle nazioni europee dell’ epoca come centro geoculturale del mondo, che nasce l’idea di modernità.
Modernità che si realizza attraverso lo sfruttamento politico,di materie prime,di uomini e donne catturati e utilizzati come schiavi. Modernità come sinonimo di assimilazione,europeizzazione, denaturalizzazione e alienazione modernità come privazione della libertà a beneficio della metropoli. E’ di questo che si nutrirà la metropoli in Europa fino al XIX° secolo,quando il suo espansionismo raggiungerà il culmine attraverso la piena affermazione del colonialismo e la conseguente feroce competizione tra nazioni.
Per secoli i popoli africani hanno fronteggiato e,molto spesso,tristemente assorbito questa invasione e sradicamento per volere dei paesi “civilizzati”.

La dominazione coloniale,sebbene differente per ogni paese dominatore, si caratterizza per per tre aspetti essenziali sintetizzati dall’etnologo e africanista francese Georges Balandier in questo modo: contatto tra due civiltà del tutto differenti (per religione, economia, ritmo di vita); dominio da parte di una minoranza straniera, che esercita una pretesa superiorità culturale su una maggioranza nativa priva di mezzi tecnici e quindi materialmente inferiore; la civiltà tecnicamente avanzata si impone su tutti gli aspetti della cultura autoctona, mediante forme di organizzazione politica e amministrativa.
E’ in questo ordine che le fasi esposte da Balandier si sono susseguite durante il primo contatto,avvenuto nel 1482, tra la ciurma di Diogo Cão e un grande regno alla foce del fiume Zaire: il Kongo.
L’esploratore portoghese,accolto festosamente e con curiosità dal monarca Mwene Kongo, procedette rapidamente all’assimilazione culturale di quel popolo appena “scoperto” facendo prigionieri 4 uomini per portarli a Lisbona con lo scopo di far conoscere loro “le meraviglie della cristianità”,al loro ritorno in Kongo,nel 1486, il sovrano si battezzò adottando il nome di João, e divulgò tra i sudditi la nuova religione importata dai navigatori portoghesi, chiedendo che fossero inviati dall’Europa nuovi sacerdoti date le nuove necessità spirituali del suo regno. Possiamo notare,dunque, come l’assimilazione sia cominciata con la religione portando alla scomparsa della cultura tradizionale di quella zona.
Si è già detto che la modernità nasce quando l’Europa, a partire dall’Illuminismo e per quasi 500 anni, definisce se stessa come centro del mondo, quindi al centro, e all’inizio, della storia e della cultura umana. Il filosofo argentino Enrique Dussel sviluppa questa tesi, affermando che questa modernità autocentrata è costituita da una relazione dialettica tra il “noi” Europa e un’alterità non europea. In questo senso la “periferia” è parte costitutiva, e oggetto ultimo, dell’autodefinizione del “centro” intorno a cui ruota.

L’identità si costruisce mediante l’opposizione a un alterità: Occidente contro Oriente,civilizzato contro barbaro. La missione “civilizzatrice” dell’europeo consiste,quindi, nell’ educare il barbaro,nel caso il colonizzato si opponga a tale missione è previsto l’uso della violenza. In questo modo il barbaro esiste in uno stato di colpa,a causa della sua opposizione, e diventa compito del “civilizzatore” emancipare la sua vittima da questa colpa. In questo modo il colonizzatore trova la giustificazione del suo agire dando alla modernità stessa un carattere redentore,per il quale i sacrifici imposti dal “civilizzatore” al “barbaro” sono inevitabili e necessari. E.W.Blyden, appassionato protagonista della lotta all’assimilazione culturale, parla di europeizzazione e denaturalizzazione dei popoli africani da parte delle istituzioni e delle scuole europee, considerandole “la più grande opera di distruzione di massa contro l’umanità nera”. Chi detiene il potere è il bianco,mentre il nero è colui che viene esporato. Un’etnia, una classe, una nazione assumono dei valori propri perché è in essi che trovano il proprio equilibrio e la propria autonomia. Un patrimonio culturale esterno aliena coloro che lo adottano.

Le costrizioni culturali di pretesa universalista nascondono sempre un disegno egemonista, l’ideologia imperiale etnocentrista ha soffocato le culture nazionali del continente africano andando ad alterare un equilibrio sociale millenario. Divenne,quindi,inevitabile una reazione,da parte dei popoli africani, per riconquistare lo spazio culturale,e il proprio equilibrio,contrastando l’egemonia occidentale dopo che secoli di presenza europea ne avevano estirpate le radici.
All’inizio del XX secolo, il marxismo-leninismo denunciava l’imperialismo come stadio supremo del capitalismo. La rivoluzione di ottobre rappresentò un modello per le società indigene , mostrando loro la necessità e l’efficacia della lotta armata per l’emancipazione contro l’oppressione coloniale. Dopo la rivoluzione egiziana del 1952 e la Conferenza di Bandung del 1955, in cui 29 paesi tra Africa e Asia espressero la loro ribellione morale contro la dominazione europea, nacquero movimenti di liberazione nazionale anche in altre zone del continente africano.

Nel 1956 nacque il PAIGC. (Partido Africano da Independência da Guiné e Cabo-Verde), fondato da Amílcar Cabral e da suo fratello Luís. Amílcar credeva nella cultura come garanzia di successo della lotta di liberazione nazionale. All’arma dellacultura affiancava però la lotta armata ed esortava i suoi combattenti a «pensare per agire e agire per pensare meglio». Nello stesso anno, in Angola, un gruppo di intellettuali di Luanda fonda il il MPLA. (Movimento popular de libertação de Angola) che nel 1961 fu tra le forze responsabili responsabili (con il FNLA e l’UPA) di una prima rottura con il colonizzatore, attaccando punti strategici della città.
Il FRELIMO (Frente de Libertação do Moçambique) nacque nel 1962, per opera di un gruppo di rifugiati politici mozambicani,di orientamento socialista,in Tanzania. Nel 1974 la rivoluzione “dei garofani” in Portogallo nata dall’unione del popolo portoghese con i settori progressisti delle forze armate,mette fine a 42 anni di regime autoritario iniziato nel 1932 con António de Oliveira Salazar, e a quasi 5 secoli di regime coloniale in Africa.
Nel giro di un secolo i popoli ritenuti dai colonizzatori barbari e privi di cultura e coscienza nazionale sono riusciti a liberarsi dal dominio dell’uomo bianco e a costruire la propria consapevolezza politica paradossalmente,come suggerisce lo storico indiano Kawalam Pennikkar,ciò fu dovuto anche al fatto che la dominazione europea forzò i popoli di questi continenti ad adattarsi alle nuove idee del mondo occidentale moderno, e furono proprio queste nuove idee le uniche in grado di aiutare gli indigeni a liberarsi dall’oppressione diventando la base di movimenti fondamentali della storia dei neri come il Negrismo, il Panafricanismo, la Negritudine,i popoli africani (e asiatici) si sono appropriati di questi vincoli di civiltà (condicionantes civilizacionais) imposti dalla colonizzazione per dotarsi di un’autonomia come confermato anche dalla storica portoghese Dalila Cabral Mateus nel suo libro: “A Luta pela Independência” nel quale analizza l’impatto della politica di assimilazione nelle colonie mettendo in evidenza come essa sia un elemento fondamentale alla base del processo di formazione delle élites africane.
Possiamo quindi affermare che il sistema colonialista, nel suo evolversi, ha generato il germe della sua distruzione. Appare chiaro come assimilazione e lotta di liberazione siano le due facce della stessa medaglia,i membri complementari e dipendenti l’uno dall’altro di una dialettica sottile e a lunga durata, che fa pensare a quella del signore-servo già individuata da Hegel nel 1807: il colonizzatore, per garantire la sopravvivenza del sistema che ha creato e sottomettere il colonizzato, non può fare a meno di servire il colonizzato dei mezzi di cui quest’ultimo ha bisogno per essere libero.

Conclusioni dell’autore

Oggi queste due forze opposte e complementari continuano a scontrarsi all’interno di quello che definiamo neocolonialismo, ossia quella nuova manifestazione dell’imperialismo per cui le nazioni europee (e occidentali in genere, in seguito al decentramento dell’Europa e all’emergere degli Stati Uniti come potenza economica e militare mondiale con l’avvento della postmodernità) continuano a esercitare il loro dominio e la loro influenza sui paesi decolonizzati ufficialmente, senza necessariamente servirsi di forza militare né di controllo politico diretto.
Ci troviamo,oggi, di fronte a una “colonizzazione 2.0” che utilizza strategie più velate e definizioni più blande le antiche colonie sono oggi i “paesi in via di sviluppo” in cui “portare la democrazia” da indebitare con “aiuti umanitari” e qualora il modello “democratico” occidentale venga rifiutato entrano in scena gli eserciti esattamente come qualche secolo addietro.
Pathè Diagne fa notare che le culture,al pari delle nazioni, stabiliscono tra loro relazioni di forza,difendono interessi.
Interessi,oggi,principalmente economici che portano al tentativo di assimilazione che una cultura esercita sull’altra.

Solo riuscendo a comprendere il rapporto di causa-effetto che lega le due forze assimilazione-lotta, si riescono a comprendere le ragioni che sono alla base dell’odierna lotta che stanno portando avanti organizzazioni militari e pseudo-religiose dell’Asia e dell’Africa contro l’Europa e le manifestazioni della sua cultura.  Europa “vittima”, ma anche carnefice. I mostri vengono creati da apprendisti stregoni: la violenza nasce sempre per una ragione, sia essa meschina, sia essa disperata.
Comprendere le ragioni di questa lotta l in corso nel nostro tempo ci porta a realizzare che essa non è altro che il prodotto di ciò che i nostri padri hanno voluto e creato in un passato non troppo lontano.

 

Bibliografia

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BLYDEN, Edward Wilmot, Christianity, Islam and the Negro Race, Londres, 1880.
CABRAL, Amílcar Cabral, A cultura nacional: o papel da cultura na luta pela independência, Departamento de Informação, Propaganda e Cultura do C.C. do PAIGC, 1984.
GORJÃO HENRIQUES, Joana, “Houve independência mas não descolonização das mentes na série “Racismo em portugûes, Angola”, Público, 1/11/2015.
LENIN, L’Imperialismo fase suprema del capitalismo, 1916.
MADRIDEJOS, Mateo, Colonialismo e neocolonialismo, Rio de Janeiro, Salvat do Brasil, 1980.
MATEUS, Dalila Cabrita, A luta pela independ麩cia, – A Forma鈬o das Elites Fundadoras da FRELIMO, MPLA e PAIGC, Editorial Inqu駻ito, 1999.
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PLETSCH, Carl, The Three Worlds, or the Division of Social Scientific Labor, circa 1950-1975. Comparative Studies in Society and History, 1981.
SELLIER, Jean, Atlas dos povos da África, Lisboa, Campo da Comunicação, 2004.
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Ragazzi, spiegate l’Islam ai vostri genitori… ma fatelo per bene || Risposta a Roberto Saviano

Oggi mi tocca rispondere ad un video di Roberto Saviano, che saluto, in cui parla dell’islam in un modo davvero molto interessante, è davvero un bel video, se non fosse che la premessa storica su cui è stato costruito l’intero discorso è leggermente inesatta (dico leggere, ma che in realtà lo è molto di più).

Faccio una premessa, come saprete sono molto elastico per quanto riguarda gli “errori”, se si sbaglia una data, un nome o si ha un lapsus, non li considero errori, ma in questo caso abbiamo un ragionamento che parte da un concetto sbagliato, nel video, il buon Saviano dice che i giovani di Brooklin, all’epoca una delle più importanti città legate alla scena Hip Hop, parlano lingua dell’Islam e parlano questa lingua perché è la lingua dei loro antenati, portati in america come schiavi.

Ecco, questo non è proprio esattissimo, diciamo anche che la prima parte è giusta, ma la seconda parte presenta un errore anche abbastanza grave e fuorviante.

La religione degli schiavi africani, deportati tra nelle Americhe tra XVI e si XVIII secolo non è l’islam, non è mai stato l’islam, quei popoli avevano qualche contatto con il mondo islamico, ma la loro cultura anzi, le loro culture, non erano culture islamiche, si trattava invece di culture “animiste” e “spiritualiste”, i popoli che vivevano nell’Africa subsaharianasono nei secoli della tratta atlantica avevano culture molto antiche e in un certo senso molto primitive, dalla cui fusione con le pratiche cristiane (e l’indottrinamento forzato al cristianesimo) sarebbero nate nuove culture religiose.

Avete mai sentito parlare di voodoo ?

Diciamo che il Voodoo africano è una delle “religioni” più antiche del mondo, diffusa in Africa molto prima della colonizzazione e che mischiandosi al cristianesimo avrebbe dato vita al voodoo moderno praticato in america, e per chi fosse appassionato di musica, vi regalo una chicca, alcune tracce di queste culture “originarie” sono presenti nella simbologia e nella ritualità legata ad un altro genere musicale, ovvero la cultura blues, ma questo è un altro discorso, che ho affrontato in un articolo pubblicato qualche giorno fa tra sul giornale on-line La COOLtura.

Tornando all’islam, questa cultura religiosa si diffuse nell’africa subsahariana nel contesto generale della decolonizzazione (stiamo parlando della seconda metà del XX secolo, non certo del XVI o XVIII secolo). Nello stesso periodo avviene anche la sua diffusione tra gli afroamericani e non è un caso.
Le motivazioni di questa diffusione, in questi due mondi legati tra loro dalla tratta atlantica, avviene a partire soprattutto dal secondo dopoguerra e si avrà soprattutto grazie al carisma di alcuni predicatori e l’attivismo di alcune organizzazioni, non scendo troppo nei dettagli, un esempio lampante in questo senso potrebbe essere rappresentato dalle Black Panther e da Malcom X, ma di esempi de ne potrebbero fare molti altri.
Questo avvicinamento del black peolple, il popolo di colore, è dettato dal bisogno di un intero popolo, di prendere le distanze da quella cultura che li aveva prima ridotti in schiavitù e poi costretti a vivere segregati, il desiderio di identificarsi in una cultura che non avesse prodotto organizzazioni come il ku klux klan, e da questo desiderio vi sarebbe stato un netto allontanamento, sia dalla cultura degli oppressori, quindi la cultura cristiana, sia dalla cultura originaria, che era stata l’artefice di prima mano della riduzione in schiavitù di milioni di persone. In questo senso è importante sottolineare che non furono quasi mai gli europei a “catturare” gli uomini e le donne che sarebbero poi diventati schiavi, ma a ridurre quegli uomini e donne in schiavitù furono principalmente altre popolazioni africane, che si impegnarono in questo commercio molto redditizio che era fortemente alimentato dalla crescente domanda dei commercianti europea (ma questo è un altro discorso).

Il black peopole nel secondo dopoguerra quindi, prende le distanze dal cristianesimo e dalle pratiche religiose originarie e si ritrova a dover compiere una scelta sul piano culturale, per questi “esuli culturali” vi erano, in quel dato momento storico, soltanto due strade possibili strade percorribili, da un lato potevano scegliere se avvicinarsi ad una religione laica, promossa dai vari circoli comunisti e socialisti, che nel contesto generale della guerra fredda, avrebbe significato l’allineamento con il mondo sovietico e negli USA significava oltre alla segregazione anche l’accusa di essere dei cospiratori … essere nero e comunista… e magari anche donna, negli USA durante gli anni cinquanta e sessanta era una condanna a morte quasi certa sul piano dei diritti civili. Dall’altro lato potevano scegliere una religione non laica, che tuttavia fosse esterna a quel mondo, esterna alle dinamiche della guerra fredda e che si proponeva come una cultura religiosa storicamente in conflitto con il cristianesimo e la civiltà cristiana.

Gli afroamericani come gli islamici erano stati combattuti e oppressi dai cristiani, questo aveva portato alla schiavitù e poi alla segregazione degli afroamericani da una parte e alle crociate prima e il colonialismo poi per gli islamici. Questo parallelismo culturale, questo reciproco senso di oppressione, l’essere stati schiacciati dalla civiltà cristiana, avrebbe spinto molti a scegliere la via dell’islam, che con la religione degli antenati, c’entrava meno di nulla.

Esportare Oligarchie: la Colonizzazione della Grecia Arcaica

Aristotele nella Politica mette in relazione la colonizzazione arcaica con lo sviluppo di oligarchie territoriali e con le dinamiche (o lotte) di classe. Ha ragione? Si tratta di una testimonianza attendibile? Per affrontare questo problema dobbiamo fare un passo indietro e ripercorrere le tappe fondamentali della colonizzazione arcaica.

Tra l’VIII e il VI secolo a.C. i Greci si sono spostati in terre abitate da popolazioni “barbare” e vi hanno fondato delle città (o poleis) del tutto simili alle metropoleis di provenienza, ma da esse indipendenti (Finley 1976; Lepore 1978 e 1981). Sappiamo che avevano un termine specifico per connotare questo fenomeno: apoikía, che significa letteralmente lontano da casa. Si può dunque facilmente intuire come la fondazione di una città lontano da casa abbia ben poco in comune, istituzionalmente parlando, con il concetto di colonia (e colonialismo). Con colonialismo si intende la fase moderna della colonizzazione, un fenomeno che conosciamo a partire dal Quindicesimo secolo, e che è connesso alla creazione di un vero e proprio sistema coloniale, del tutto dipendente e in certo modo funzionale a una divisione internazionale del lavoro e allo sfruttamento intensivo delle risorse naturali.

Oggi vorrei fare qualche riflessione sulla colonizzazione arcaica non solo per rimarcarne le differenze rispetto ai movimenti moderni, che in questa sede rimarranno sullo sfondo, ma per rendere esplicita una caratteristica del mondo arcaico o, almeno, del modo di intendere e di vivere l’esportazione di usi, costumi e leggi: il conservatorismo. Cosa si intende per colonizzazione arcaica? Con questo termine si indica lo spostamento, anche non coordinato e non “in massa”, di uno o più ecisti o fondatori (oikistés in greco antico significa fondatore) con l’obiettivo di organizzare una nuova città che doveva avere delle caratteristiche particolari.

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Tutte le nuove città erano infatti associate alla città-madre, o metrópolis, nel senso che quest’ultima si occupava dei preparativi della spedizione e della nomina dell’ecista, una figura chiave poiché aveva il compito di organizzare la comunità, di istituire i culti e le leggi, di spartire il territorio organizzando gli spazi cittadini. E non faceva questo di sua iniziativa personale ma utilizzando come modello gli usi, costumi e le leggi della città-madre. La madrepatria restava quindi un punto di riferimento anche per la fondazione delle sub-colonie, ma le relazioni finivano qui: etimologicamente apoikía implica distacco e spesso ai “coloni” era perfino preclusa la possibilità di tornare a casa!

Ad un conservatorismo istituzionale e culturale corrisponde (o sembra corrispondere, dai documenti che abbiamo) un’indipendenza economica solo relativa. Se proprio volessimo trovare delle analogie con qualche esperienza moderna, dovremmo fare appello al sistema coloniale britannico, “l’unico che sviluppò contemporaneamente tutti i tipi di colonizzazione (dalla colonia commerciale a quella di piantagione, fino a quella penale) produsse anche una colonia di insediamento, formata in terra vergine a liberi agricoltori. Questo modello di colonizzazione moderna è l’unico che si possa avvicinare a quello di certe fondazioni greche in territorio non greco, salva restando la ovvia differenza dei rapporti di produzione esportati”, (Federica Cordano, Antiche Fondazioni Greche, p.16).

La colonizzazione greca ha dunque delle caratteristiche peculiari che affondano le radici nei processi di formazione della polis, che la differenziano non solo dalle esperienze europee in epoca moderna, in cui esiste un complesso rapporto di dipendenza istituzionale, sociale, culturale ed economico con la madrepatria, ma anche con le precedenti esperienze vissute nella storia della Grecia arcaica. Sto pensando al passaggio in Asia Minore degli Ioni e degli Eoli e ai contatti micenei stabiliti nel II millennio.

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Come sottolinea molto bene Federica Cordano, anche se le fonti antiche definiscono queste esperienze come esempi di colonizzazione, il termine va inteso cum grano salis: questi spostamenti rispondono a tutt’altra logica e appartengono a un periodo in cui la Grecia era teatro di migrazioni, non di spostamenti esplicitamente finalizzati alla fondazione di una polis (che nemmeno esisteva istituzionalmente parlando, visto che la Grecia non era ancora Hellás, ossia un insieme di città-stato in grado di “esportare” le istituzioni politiche tipiche di questa forma di aggregazione sociale).

Le città della Ionia e dell’Eolide, concepite (come abbiamo accennato) comunque come apoikíai, in quanto la tradizione posteriore non ha saputo interpretare gli spostamenti in massa se non in questi termini, nascono dalla dissoluzione del mondo miceneo e il loro sviluppo si deve a presupposti etnici e ad ecisti mitici. Tra queste due esperienze, impropriamente designate con lo stesso termine, si colloca infatti il cosiddetto rinascimento greco, un processo che conduce la Grecia ad uscire da un’età buia e che è ben attestato nelle pagine di Esiodo (e dalla documentazione archeologica tra il IX e l’VIII secolo).

Moses I. Finley ha tracciato uno schema dei tipi di colonie antiche partendo dall’analisi della terminologia coloniale inglese e francese per mettere in guardia dalle facili sovrapposizioni. Ettore Lepore ha ripreso il discorso ampliando l’esame della bibliografia specifica. Egli mette in particolare rilievo come le interpretazioni modernistiche della colonizzazione greca abbiano ‘viziato il dibattito sulle sue cause anche in avvedute e acute analisi’ conducendo alla schematica divisione in colonie agrarie e colonie commerciali, divisione che si trova anche nei fondamentali studi sulla colonizzazione greca di Dunbabin e Bérard e, diversamente rielaborata, di Cl. Mossé. L’aver preso in prestito il vocabolo colonia ha trascinato con sé tutta la terminologia coloniale. […] Questa terminologia non è stata adottata solo per ragioni di comodo, ma perché l’interesse espresso dagli storici moderni per la colonizzazione greca non è mai completamente disgiunto da quello per la colonizzazione moderna ed europea. Questo è avvenuto soprattutto nei secoli passati e nella prima metà del nostro”, (Federica Cordano, Antiche Fondazioni Greche, p.16).

Una principessa micenea.

La colonizzazione in Sicilia: un esempio conservatore? Le fondazioni siciliane sono solo uno dei numerosi esempi che potremmo fare per mostrare come i nuovi insediamenti non erano intesi come luoghi in cui costruire un nuovo modello di società ed eventualmente migliorare le istituzioni vigenti nelle metropoleis, ma erano vissute come “copie” delle poleis da cui provenivano i fondatori. Probabilmente non poteva andare diversamente, visto che si era appena innescato il processo di recupero e revisione delle legislazioni, le strutture familiari e sociali si stavano consolidando e siamo ancora lontani dal periodo classico, da ciò che accadrà tra V e IV secolo. Detto ciò, è interessante riflettere sulle letture filosofiche che vennero date di questo fenomeno proprio nel periodo classico.

L’analisi delle fonti provenienti dalla riflessione filosofica sembra deporre in favore della necessità del processo di colonizzazione e del conservatorismo nella gestione delle nuove città. Nelle Leggi Platone afferma chiaramente che si possono ottenere coloni da fenomeni di sovrappopolazione, ossia in quei casi in cui le terre e le derrate alimentari si rivelano insufficienti per il sostentamento degli abitanti della regione (707e). Precisa, in seguito, che a causa delle lotte civili può accadere che un intero partito sia costretto all’esilio e che, nei casi più estremi, un’intera popolazione sia costretta a spostarsi a causa di rivolgimenti sociali o peggio a causa di una guerra (708b). Il concetto è chiaro: una colonia viene fondata per necessita, non perché dietro vi sia un preciso progetto politico o sociale.

Come ho accennato all’inizio, Aristotele sembra andare addirittura oltre. L’idea platonica viene infatti in qualche misura assolutizzata, se si leggono alcuni passi della Politica in cui si parla dell’esigenza di limitare il numero dei cittadini (1265a e 1326b), di controllare le nascite (1265b, 1266b, 1270b) e di mantenere fisso il numero dei lotti familiari anche tramite le adozioni (1274a-b). Infine, e qui Aristotele è molto chiaro, è proibito alienare la proprietà terriera (1265b-1266b, 1270a, 1319a).

Tutte queste istanze sono evidenti nell’intero processo di colonizzazione, in particolare nelle colonie calcidesi che diedero vita a Zancle (Messina) che fondò Mylai (Milazzo) e Imera per motivi strettamente commerciali, Reggio, Nasso (734), Leontini e Catania (728). La struttura politica delle colonie calcidesi riprende quella della madrepatria: Calcide ed Eretria avevano infatti elaborato un sistema oligarchico fondato su criteri aristocratici e censitari, basato sui privilegi di nascita e ricchezza. Ed è proprio Aristotele a porre in contemporaneità questi regimi con la colonizzazione arcaica e, quindi, ad indicare nelle dinamiche di classe il motore di questo processo, che diventerebbe la via di fuga privilegiata per coloro che non trovavano in patria possibilità di successo. Oligarchia e mobilità economica sembrano quindi i suoi ingredienti essenziali.

Nell’immagine vediamo le colonie in Magna Grecia e in Sicilia. Le fondazioni campane, lucane e della Sicilia nordorientali sono ioniche, quelle pugliesi e della Sicilia meridionale sono invece doriche; le restanti fondazioni sono di coloni greci provenienti dall’Acaia. (CC BY-SA 4.0).

E questo può aiutarci a sfatare qualche mito in merito alle cause della colonizzazione arcaica. È importante a questo punto non farsi fuorviare e non cadere nella trappola del dibattito tra motivazioni commerciali, agricole e o di popolamento. È del tutto legittimo interrogarsi sulle cause della colonizzazione arcaica e sul suo significato; illegittimo è invece usare idee, concetti moderni e trovare una risposta nella loro retroazione acritica.

È naturale che chi si allontana dalla propria patria lo fa anche (e forse soprattutto) per cercare terre fertili e per fare fortuna; ciò rientra nella specificità dell’economia antica che, pur conoscendo le dinamiche introdotte dalle attività commerciali e artigianali, resta essenzialmente legata all’agricoltura. Motivazioni più evidenti sono di natura politico-religiosa, come mostra bene Aristotele. Ragioni demografiche e territoriali, accompagnate da discriminazioni sociali e religiose, portano a uno scontro tra chi non ha il pieno possesso dei diritti politici e le ristrette oligarchie conservatrici.

Concludo con un chiaro esempio di conservatorismo istituzionale. Basti pensare alle legislazioni antiche. Si tratta di una vera e propria “esportazione” di usi, costumi, tradizioni e leggi già in vigore nella madrepatria. Le figure di riferimento sono in bilico tra la storia e il mito: Zaleuco di Locri Epizefiri (il nome significa bianco splendente) secondo la tradizione era monocolo e viene descritto con tutte le caratteristiche tipiche delle divinità solari. Molti sono infatti i dubbi sulla sua reale esistenza (e non ce ne meravigliamo). La legge del taglione e le pene capitali per il furto vengono di solito attribuite a lui o, meglio alle tradizioni diffuse in quel periodo.

Con Caronda di Catania il discorso è simile. Invece a Draconte (il cui nome significa serpente, l’animale sacro ad Atena) si devono le leggi scritte addirittura col sangue. Ma qui il punto importante è che siamo nel 621/620 e che Solone nel 594 conservò la parte relativa agli omicidi, che costituisce un notevole passo avanti verso l’affermazione del potere dello Stato. L’iniziativa dell’azione penale è in capo alla famiglia, ma è il legislatore che stabilisce tempi, modi e limiti della punizione. Distinguendo, poi, tra delitto volontario, preterintenzionale e giustificato si supera l’idea dell’oggettività della colpa e si prende in considerazione la soggettività del colpevole. Poco ci importa dunque se sia stato Draconte o meno; il punto importante è l’atteggiamento conservatore nella fondazione delle “colonie” greche. Il tutto per dire che la testimonianza di Aristotele mi sembra abbastanza attendibile.

Bibliografia e Fonti:
Platone, Le Leggi, BUR.

Aristotele, Politica, Laterza.

F. Cordano, Antiche Fondazioni Greche, Sellerio.

M. I. Finley, Colonies. An Attempt at a Typology, “Transaction of the Royal Historical Society”, 1976/26, pp. 166-188.

E. Lepore, La fioritura delle aristocrazie e la nascita della polis, “Storia e Civiltà dei Greci”, 1978/1, pp. 183-253.

E. Lepore, I Greci in Italia, “Storia della Società Italiana I. Dalla Preistoria all’Espansione di Roma”, 1981/1, pp. 213-268.

C. Mossé, La colonisation das l’antiquité, Paris, 1970.

D. Musti, L’economia in Grecia, Laterza.

C. Bearzot, Manuale di storia greca, Il Mulino.

L. Braccesi, F. Raviola, Guida allo studio della storia greca, Laterza.

D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Laterza.