Intervista a Domenico Vecchioni: Esperto di Storia, Diplomazia e Spionaggio

Diplomatico, scrittore, appassionato di storia e infine divulgatore, Domenico Vecchioni è tutto questo, ma non solo. Ho avuto il piacere e la fortuna di scambiare qualche e-mail con lui in vista della pubblicazione del suo saggio sui Mercenari, edito da Diarkos editore e da queste è nata quella che spero possa essere un interessante intervista, la prima di una lunga serie di interviste che ho intenzione di presentarvi qui su Historicaleye e chissà, in futuro magari riprendere in mano il Podcast e produrre un podcast dedicato agli appassionati di storia.

Chi è Domenico Vecchioni

Prima di addentrarci nell’intervista, credo sia opportuno inquadrare meglio Domenico Vecchioni, autore di oltre 40 saggi storici e, secondo l’ambasciatore Stefano Baldi, uno dei diplomatici più prolifici in ambito letterario, secondo una classifica redatta da Baldi infatti, Vecchioni si collocherebbe al secondo posto, secondo solo a Sergio Romano, che tra il 1985 e il 1989 fu ambasciatore italiano presso l’Unione Sovietica, e dio solo sa quante cose ha da dire e raccontare un uomo del genere.

Tornando a Vecchioni, la sua carriera diplomatica vede numerosi incarichi di rilievo tra cui spiccano il consolato di Le Havre in Francia, l’ambasciata di Buenos Aires in argentina, e poi ancora diversi incarichi in Europa e presso la NATO.

La Francia e il mondo francofono giocano un ruolo estremamente importante nella vita di Vecchioni, al punto che le sue due figlie saranno italo-francesi e questo elemento, come vedremo nell’intervista, influenzerà in modo importante la produzione letteraria di Vecchioni.

Oltre la brillante carriera diplomatica, come anticipato, Vecchioni può vantare una straordinaria produzione letteraria che si compone di numerosi libri e saggi storici, ma anche di articoli e collaborazioni con diverse riviste in ambito geopolitico, di intelligence e storico, contribuendo a costruire l’immagine di un Vecchioni esperto di storia e storiografia, oltre che di analisi geopolitica, ed essendo storia e geopolitica i due pilastri su cui si fonda non solo Historicaleye ma anche la formazione, mentirei se negassi il mio entusiasmo nel raccontarvi quest’uomo.

Il saggio sui mercenari

L’ultima opera di Domenico vecchioni è un saggio sui mercenari, opera che esplora la figura del mercenario dal mondo antico al mondo contemporaneo, in un viaggio che mette al confronto il mercenario storico nelle varie epoche e le figure che hanno contribuito a creare il mito del mercenario.

Vecchioni definisce il mercenario, la sua professione, il suo ruolo nella storia e, giungendo al mondo contemporaneo, le opportunità ed i rischi che tali figure, attraverso le società militari private, rappresentano per il mondo moderno.

Non mi dilungo oltre sul saggio sui Mercenari, ma se volete approfondire, qui su historicaleye trovate una guida alla lettura in cui il libro è scomposto e analizzato in tutte le sue parti.

Intervista a Domenico Vecchioni

Prima di intervistare Vecchioni ho dato una spulciata alle varie interviste che il diplomatico ha rilasciato, cercando di produrre qualcosa di interessante e soprattutto unico, ho quindi impostato la nostra intervista e le poche domande che ho posto al diplomatico, cercando di appagare in primis la mia curiosità. Ammetto che avrei voluto fargli anche altre domande, ma molte non avrebbero trovato una giusta collocazione qui su historicaleye, di conseguenza, ho ristretto il campo e le domande, ai soli temi e argomenti che oltre me, avrebbero potuto suscitare interesse anche nei lettori di questo sito.

La prima domanda che ho proposto a Domenico Vecchioni, riguarda non tanto il contenuto del libro sui Mercenari, lo preciso perché l’intervista parte dalla collaborazione con Diarkos relativa al saggio sui mercenari, e si sofferma sullo studio che vi è a monte. Più precisamente, leggendo il libro, e in particolare, spulciando la sua bibliografia, non ho potuto fare a meno di una significativa presenza di letteratura francese in materia di Mercenari, da qui la domanda.

Vi è un motivo particolare per cui è stato dato tanto spazio alla letteratura francese o più semplicemente la scelta è legata ad una maggiore attenzione alla materia e gli studi sul mercenariato da parte di autori francesi rispetto ad altri?

Un mix delle due motivazioni. Da una parte, la mia formazione culturale è stata abbastanza influenzata dalla francofonia. Ho costantemente studiato il francese (peraltro obbligatorio ai miei tempi per il concorso d’ingresso nella carriera diplomatica), le mie figlie sono italo-francesi, i miei nipoti pure, nel corso della carriera sono stato tre volte “en poste” in Francia (Le Havre, Strasburgo e Nizza) ecc. Dall’altra, avendo scritto tempo fa un libro sulla Legione Straniera, ho avuto modo di familiarizzare con gli autori e storici francesi, che in materia non sono secondi a nessuno. Dalla “Legione Straniera” ai “Mercenari”, il passo non è stato troppo lungo, incoraggiato anche dall’editore. Non per caso il più celebre mercenario del XX secolo è stato proprio un francese: Bob Denard!

La seconda domanda che le pongo, riguarda la sua attività da scrittore, osservando le opere da lei realizzate, ed avendone lette diverse, tra cui I signori della truffa e Lo sbarco in Normandia, e Le spie del fascismo, si può facilmente notare che, il tema dello spionaggio gode di una certa centralità nella sua produzione letteraria e quindi mi chiedo e le chiedo: Cosa l’ha spinta verso un tema come quello dei mercenari, che, ad un primo sguardo può risultare diametralmente opposto rispetto allo spionaggio. Mi spiego meglio, almeno in apparenza, poi magari entrerà lei nel merito della vicenda evidenziando una maggiore affinità di quella che può apparire, la “spia” è generalmente percepita come un qualcosa che si muove nell’ombra, nelle retrovie, mentre il “mercenario” è una figura più di impatto, diciamo anche da prima linea.

Effettivamente nella mia bibliografia le opere sullo spionaggio e sulle spie (personaggi dalle “mille anime”, come diceva Balzac), sono prevalenti con riferimento soprattutto al XX secolo. La spinta verso i Mercenari me l’ha data in realtà, come accennavo prima, la Legione Straniera. Due mondi certo paralleli e diversi, pur tuttavia con qualche elemento in comune: la disponibilità al sacrificio supremo (nella legione straniera spagnola il motto era “Viva la muerte!”), lo sprezzo del pericolo, lo spirito d’avventura, il cameratismo, l’expertise militare a tutta prova ecc. Ricordo che la Legione Stranera francese fu istituita nel 1831, proprio per meglio coordinare e controllare i diversi corpi mercenari stranieri che – a vario titolo – servivano nell’ambito dell’esercito francese.

La terza domanda che le pongo, è più un gioco che una domanda, e riguarda le quattro opere citate in precedenza, ovvero, i signori della truffa, lo sbarco in Normandia, le spie del fascismo e quest’ultima opera sui mercenari. Ciò che le chiedo e le propongo e di provare a tracciare un filo comune tra queste opere. 

C’è in realtà un filo conduttore che lega tutte le mie opere. Ed è l’attrazione che nutro per personaggi dal destino straordinario, fuori del comune, al di fuori dei sentieri battuti, che hanno lasciato tracce profonde nella Storia, sia in positivo sia in negativo. Quindi, se ho indagato sui tiranni e i dittatori più singolari del XX secolo, ho scritto anche un libro sui più grandi e mitici personaggi del XX secolo (da Lawrence d’Arabia al nostro Amedeo Guillet, leggendario ufficiale di cavalleria ed eccezionale diplomatico, da Nelson Mandela a a Winston Churchill, da Golda Meir a Santa Teresa di Calcutta ecc). Ho indagato anche sugli eroi sconosciuti, da Francesco de Martini, il soldato più decorato della Seconda guerra mondiale, a Raul Wallenberg, il diplomatico svedese che a Budapest nel 1944 salvò 1000.000 ebrei, ma non se stesso.

L’altro filo conduttore, se vuole, è la divulgazione. A me piace raccontare la storia. Condividere, cioè, con i lettori le stesse sensazioni di curiosità, sorpresa e interesse che provo io quando scopro o riscopro un personaggio o una particolare situazione del passato. Non sono uno storico di professione. Non pretendo scrivere libri di Storia, mi basta e mi accontento di raccontarla.

Concludo portando l’attenzione sulla sua figura professionale, oltre che di scrittore, di diplomatico, e le pongo due domande che probabilmente le saranno state poste in mille occasioni, la prima è : Da Diplomatico ha avuto modo di incontrare ed interagire in un modo o nell’altro con figure di primo piano nello scacchiere geopolitico internazionale, le chiedo quindi qual è stato il suo incontro più emozionante, chi è stata la figura “storica” più autorevole se così possiamo dire, che ha incontrato nella sua carriera?. Sempre se le è permesso divulgare questa informazione.

Sul piano professionale, ma non solo, devo dire che la persona che più mi ha influenzato è stata probabilmente l’ambasciatore e scrittore Sergio Romano, di cui sono stato stretto collaboratore in due occasioni, alla Farnesina e alla Rappresentanza permanente d’Italia presso la NATO. Da lui ho appreso alcune regole fondamentali:

preservare la dignità della funzione diplomatica, resistendo alle tentazioni di svendita per mere convenienze personali; avere come stella polare nell’attività diplomatica la difesa degli interessi nazionali e la protezione dei connazionali e, soprattutto, imparare a dire di no quando necessario. La diplomazia non può e non deve essere solo sorrisi, strette di mano, pasticcini e ….compromessi al ribasso. Dall’ambasciatore Romano inoltre ho ereditato l’amore per i libri e per la Storia. Le rivelo in merito una piccola curiosità che forse potrà sorprenderla. Secondo una classifica fatta dal mio collega Ambasciatore Stefano Baldi, circa i libri scritti dai diplomatici italiani ( “La penna del diplomatico”), Sergio Romano risulta il più prolifico. Il “secondo classificato” è …il sottoscritto!

Mercenari di Domenico Vecchioni | Guida alla lettura

In questa guida alla lettura analizzeremo il saggio storico di Domenico Vecchioni, edito da Diarkos.

Il saggio analizza e sviscera la figura del mercenario attraverso i secoli, prestando attenzione alle varie evoluzioni storiche e politiche che hanno caratterizzato la figura del mercenario in varie epoche e località, presta inoltre attenzione alla figura odierna dei Mercenari e delle Società Militari Private, come Black Water e Wagner.

Si tratta di un libro a mio avviso interessante, su un tema complesso, che l’autore è riuscito a trattare in modo eccellente, fornendo al lettore tutti gli strumenti di cui necessita per poter affrontare il tema.

Se dovessi indicare un livello di difficoltà che si può riscontrare leggendo il saggio di vecchioni, direi che è un saggio adatto più o meno a tutti. Che tu sia uno studente di storia, un addetto ai lavori, o un semplice appassionato, il aggio offre spunti interessanti relativi alla storia e alla figura del mercenario.

Chi è Domenico Vecchioni

Cominciamo con il dire chi è Domenico Vecchioni, l’autore di Mercenari, il mestiere della guerra, dall’antica grecia al gruppo Wagner.

Domenico Vecchioni, scrittore e diplomatico, già autore di saggi come I signori della Truffa, Lo sbarco in Normandia e Le spie del fascismo. Per quanto riguarda i primi due saggi, ovvero I signori della Truffa e Lo sbarco in Normandia, ho avuto la possibilità di leggerli grazie all’editore Diarkos e di pubblicare delle guide alla lettura.

Tornando a Vecchioni, la sua carriera diplomatica inizia con gli studi in scienze politiche che lo avrebbe portato a prestare servizio presso il consolato italiano di Havre e l’ambasciata italiana di Buenos Aires, per poi prestare servizio a Bruxelles presso la Nato e a Strasburgo presso il consiglio d’Europa.

Vecchioni ha inoltre ricoperto diversi incarichi presso la Farnesina, come capo segreteria della direzione generale delle relazioni culturali, capo segreteria della direzione generale del personale e capo ufficio “ricerca, Studi e Programmazione” ed è stato in fine Ispettore delle Ambasciate e dei consolati italiani all’estero.

Una carriera invidiabile sul piano diplomatico che si riflette in numerose onorificenze italiane e internazionali.

Sul piano storico e divulgativo, Vecchioni, oltra alla propria produzione saggistica che conta circa trenta saggi storici e politici, ha collaborato con diverse riviste di settore, tra cui la Rivista di studi politici internazionali, e le riviste storiche Storia Illustrata, Cronos, Rivista Marittima, Conoscere la storia e Civiltà Romana. Vi sono poi collaborazioni con le riviste di Intelligence Gnosis, Intellicence e Storia top secret, e le riviste di geopolitica Tempi di guerra. Inoltre, è attualmente collaboratore dell’edizione italiana di BBC History.

Chi è il mercenario

La figura del mercenario, ai giorni nostri, è una figura particolarmente controversa, che, salvo rare eccezioni, soprattutto sul piano narrativo, figura tra le fila degli antagonisti, e in effetti il mercenario è il nemico perfetto, perché, per la propria natura asservita alla pura mercificazione delle proprie competenze, si configura come una figura di estrema opposizione per i protagonisti, ma allo stesso tempo, pronta a farsi da parte, questo perché il rischio ha un prezzo e se il rischio è superiore al prezzo, il mercenario, almeno sul piano narrativo, può farsi da parte.

Il mercenario, detto molto semplicemente, non sempre è il tipo di guerriero disposto a morire sul campo, e questo perché, nella stragrande maggioranza dei casi, quella battaglia su quel campo, non è la sua battaglia e dunque, in qualsiasi momento, può ritirarsi, o addirittura voltare le spalle ai propri committenti, e la storia dell’uomo è piena di vicende in cui eserciti mercenari, soprattutto in età moderna, hanno imbracciato le armi al fianco e contro lo stesso nobile di turno. In alcuni casi, saccheggiando la città che avevano protetto, perché non pagati.

La storia dei mercenari è una storia avvincente, piena di colpi di scena se vogliamo, una storia che Domenico Vecchioni, nel libro “Mercenari, il mestiere della guerra, dall’antica Grecia al Gruppo Wagner” ha provato a ricostruire e raccontare, ripercorrendo le vicende degli eserciti mercenari nelle varie epoche storiche, dal mondo antico ai giorni nostri, si passa quindi dagli opliti ai soldati di ventura e si arriva alle società militari private che al giorno d’oggi, offrono servizi di sicurezza e combattimento, a stati ed organizzazioni, e di queste, probabilmente la più famosa in assoluto, salita alla ribalta per le vicende legate al conflitto in Ucraina, vi è il gruppo Wagner.

Nel proprio libro, Vecchioni analizza la figura del mercenario a 360 gradi, identificandone motivazioni e tratti principali, e lo fa, con una comparazione tra i mercenari dell’antica Grecia, dell’Italia romana precedente la riforma militare di Caio Mario, le legioni barbariche che caratterizzarono le forze romane dal terzo secolo, e poi ancora mercenari italici, normanni, russi, ecc, che imperversarono sull’Europa continentale tra età medievale e moderna, in alcuni casi riuscendo ad elevare il proprio status da, capitano di ventura a nobile, si guardi ad esempio la dinastia degli Sforza a Milano, inaugurata da Francesco Sforza, valente combattente e capitano di ventura che riuscì intorno alla metà del XV secolo, a strappare il ducato di Milano alla famiglia Visconte.

Ripercorrendo la storia dei mercenari tuttavia, possiamo osservare che tale figura, se bene combatta prevalentemente per merce in guerre che non gli appartengono, in alcuni casi può essere motivato da ideologie, avventura o potere. E in questo senso il saggio mostra Giuseppe Garibaldi ed i mercenari garibaldini, a tutti gli effetti soldati di ventura, mercenari, che nella seconda metà del XIX secolo combatterono in giro per il mondo, giocando un ruolo chiave nei nella definizione del mondo, soprattutto in Italia e America Latina.

Garibaldi è un mercenario così come lo è Francesco Sforza, e pure, tra i due uomini vi sono infinite differenze, dettate non solo dal contesto storico in cui vivono e combattono, ma anche in ciò che li spinse ad imbracciare le armi e combattere.

Tre punti chiave del libro di Domenico Vecchioni

Il saggio di Vecchioni propone un analisi della figura storica del mercenario, attraverso tre punti chiave, che sono l’evoluzione del mercenario attraverso i secoli, i protagonisti della storia dei mercenari e in fine, analizzando ed osservando quelle che sono le sfide odierne del mercenarismo, in questo senso, andando ad osservare il fenomeno delle società militari private.

Per quanto riguarda l’evoluzione storica del mercenario, Vecchioni ripercorre le diverse epoche storiche e le diverse aree geografiche, producendo in questo senso un quadro estremamente variegato e completo della figura del mercenario attraverso i secoli. Il libro osserva i nodi storici in cui i Mercenari hanno giocato un ruolo centrale all’interno di conflitti di varia natura, di conseguenza, guerre, rivolte e colpi di stato, sono alla base della narrazione.

I mercenari tuttavia, non sono un corpo unico e vi sono figure diverse, che ragionano in modo diverso e che agiscono in modo diverso, gli eserciti mercenari sono de facto, per molti secoli, agglomerati di combattenti al servizio del miglior offerente, guidati da audaci e brillanti condottieri e capitani di ventura, ed è proprio a loro che Vecchioni dedica ampio spazio nel proprio saggio, attraverso il racconto, abbastanza dettagliato, delle gesta e delle imprese, dei più famosi e controversi mercenari della storia.

Il terzo punto del libro offre uno sguardo all’attualità, e analizza il ruolo delle società militari private (SMP) nel contesto geopolitico e giuridico del mondo contemporaneo, e nel farlo, Vecchioni pone l’accento sulle opportunità ed i rischi che tali società, rappresentano per la sicurezza internazionale, i diritti umani, la sovranità degli stati e le responsabilità dei governi.

Si guardi ad esempio alle recenti vicende dell’Ucraina, in cui, il gruppo Wagner è stato protagonista di vicende controverse e scomode, il gruppo Wagner nello specifico è stato accusato di aver commesso terribili crimini di guerra, a partire dal non rispetto delle convenzioni internazionali e del diritto di guerra, accuse che tuttavia, non hanno avuto lo stesso eco e la stessa portata, ne le stesse conseguenze, che avrebbero avuto se il soggetto accusato fosse stato uno Stato, quale può essere il mandante, in questo caso specifico la Russia.

La struttura del libro

Il saggio di Vecchioni è suddiviso in tre parti, la prima parte del libro, il cui sottotitolo è “storia del mercenarismo” racconta l’evoluzione storica della figura del mercenario, attraverso nove capitoli che inquadrano i mercenari del mondo antico, dell’età medievale, del rinascimento, dell’età moderna fino ad arrivare ai mercenari del novecento.

Nella seconda parte il saggio si sofferma sui mercenari odierni ovvero le società militari private ed i loro rapporti con stati e organizzazioni internazionali. Protagonisti di questa sezione del libro sono le tre grandi società di mercenari del nostro tempo, ovvero, il sopracitato gruppo Wagner, legato alla Russia, la statunitense Black Water, e la britannica Sandline.

La terza parte del saggio il cui titolo è “il quadro giuridico” esamina il diritto internazionale in materia di mercenariato, cercando di individuare i limiti legali e giuridici di questa professione. In questa sezione sono analizzate a affondo la convenzione internazionale dell’ONU e la convenzione regionale dell’OUA che vietano l’attività dei mercenari.

La bibliografia di riferimento

La bibliografia alla base di questo libro è compatta ma interessante, si compone nello specifico di diversi volumi riguardanti la storia dei mercenari, tra cui Historie des mercenaries di Tallander, e Mercenaires (Soldats sans drapeau) di Joaquì Manes Postigo.

Nel complesso la bibliografia alterna opere di ampio respiro a saggi che indagano casi specifici come Mercenari (Gli italiani in Congo) di Ippolito Edmondo Ferrario e Wagner di Lou Osborn e Dimitri Zufferey.

Osservando la bibliografia di riferimento si può osservare una certa influenza della storiografia francese contemporanea.

Le origini del Triskele nel BDSM

E se vi dicessi che il Triskele, il simbolo del BDSM per eccellenza, è stato “creato” da un gruppo di Nerd che discutevano di libri erotici su internet nel 1995?

Il triskele è uno dei simboli più iconici del mondo BDSM e pure, la sua storia è relativamente.
Scavando in rete, e tornando indietro nel tempo si scopre che il triskele viene utilizzato come simbolo del bdsm a partire dalla metà degli anni 90 e che i primi luoghi in cui appare sono alcune pagine web, seguite da sexy shop e feste a tema.

Sembra che il triskele bdsm e la sua precisa codifica ormai “standard” si sia diffuso grazie ad Internet, più precisamente grazie ad alcune community online e discussioni su AOL.

Scavando in rete sono riuscito a trovare numerosi riferimenti ad alcune discussioni su AOL risalenti alla metà degli anni 90, e, elemento comune di questi riferimenti è il nome di Steve Quagmyr, che spesso viene indicato come uno dei “leader” di una discussione avvenuta su AOL proprio intorno alla metà degli anni 90.

Sembra che all’epoca ci fosse la volontà, per almeno una community online, di definire un simbolo di riconoscimento, che fosse allo stesso tempo chiaro, facilmente identificabile, facilmente riproducibile e allo stesso tempo discreto e difficilmente riconoscibile per chi non ne conosceva il significato.

In questa discussione, questo fantomatico Steve Quagmyr, viene indicato come colui che propose l’utilizzo di un simbolo derivante dal romanzo Historie d’O. Nel romanzo infatti appare un oggetto, noto alla community come “ring of O”, l’anello di O, che viene descritto come una ruota a tre raggi, dove ogni raggio ricadeva a spirale su se stesso. Questo simbolo nell’omonimo film del 1975 viene sostituito da un anello con un pendaglio che richiama molto l’aggancio di un collare o una catena.

Sulla base di questo simbolo è stato “codificato” il triskele del BDSM, che si configura come un ampliamento del simbolo dello yin-yang in tre parti su cui, sembra per opera dello stesso Quagmyr, è stato edificato un complesso sistema di significati trivalenti.

Questa codifica sembra essere avvenuta nel 1995. Risale infatti al 1995 la prima “definizione” e codifica del triskele, in cui viene descritto in tutti i suoi dettagli, e in cui viene dato un significato specifico ad ognuna delle sue parti.
Per concludere quindi, sembra che il simbolo del Triskele BDSM sia stato codificato da un certo Steve Quagmyr nel 1995, sulla base di un simbolo che appare nel romanzo Historie d’O di “Pauline Réage” del 1954.

L’arresto di Matteo Messina Denaro è davvero importante?

Non per sminuire la cattura di Matteo Messina Denaro, dopo 30 anni di latitanza, ma, vista la narrazione dei fatti, le condizioni che hanno reso possibile la sua cattura, sembrano tre, e nessuna di queste ha come soggetto un incredibile lavoro di indagine. Almeno dal mio punto di vista.

In questo post alcune riflessioni personali, puramente speculative, sull’arresto di Matteo Messina Denaro.

L’uomo, che si nasconde da trent’anni, e il cui volto è perfettamente noto alle autorità, viene identificato a seguito di accertamenti finalizzati ad un trattamento sanitario, quindi atteso per giorni finché non arriva la data del ricovero.

A meno che il temuto latitante non sia affetto da demenza, se ha scelto quel luogo per le cure è perché ha qualcuno all’interno, e se hai qualcuno all’interno e la polizia ti sta aspettando, o il qualcuno all’interno non ha fatto un buon lavoro, o sei andato lì di proposito per essere arrestato, e poi curato a carico dello stato.
D’altro canto, se non hai nessuno all’interno, il fatto che tu sia riuscito a sfuggire alla legge per oltre trent’anni, è evidentemente il più grande mistero dell’universo. E in questo caso, diciamo pure che il tuo arresto, non è proprio il più grande arresto del decennio.

Facendo un passo indietro. Se la polizia ti ha identificato in quella struttura, è perché probabilmente qualcuno ti ha segnalato, e qui si aprono alcune biforcazioni.

La prima, se ancora conti qualcosa in cosa nostra, e qualcuno ti ha segnalato per farti arrestare, è improbabile che tu non ne sapessi nulla, e se sapevi, perché sei andato lì? Se non sapevi è perché i tuoi uomini contano poco o nulla e la tua rete di informatori decisamente superata… sempre che ne esista una.

C’è anche un altra opzione, ovvero la volontà politica di giovani leve dell’organizzazione di fare piazza pulita e liberarsi delle vecchie mummie ormai inutili, e questo potrebbe suggerire il pericoloso inizio di una lotta di potere che potrebbe avere una conseguente nuova stagione di sangue e violenza. Questo è indubbiamente lo scenario peggiore dei possibili. E ricapitolando, gli scenari possibili dietro l’arresto di Matteo Messina Denaro sono sostanzialmente tre, anzi, quattro.

1. L’uomo era consapevole che sarebbe stato arrestato ed è andato lì, per essere arrestato, così che possa essere curato.

– In questo scenario il suo arresto non è una vittoria per lo stato, ma l’ennesima umiliazione mafiosa allo stato.

2. L’uomo non conta più nulla per cosa nostra e la criminalità organizzata, non ha più una rete di protezione, è letteralmente un vecchio relitto.

– In questo scenario il suo arresto non è una vittoria per lo stato, è l’equivalente di aver raccolto una cicca di sigaretta da terra, mentre un bosco va a fuoco, e festeggiare per la protezione dell’ambiente.

3. L’uomo non era informato di ciò che stava accadendo.

-In questo scenario, il suo arresto è l’equivalente dell’arresto di un ragazzino che spaccia erba fuori la centrale di polizia, e festeggiare l’arresto come se fosse stato preso Pablo Escobar… me pare eccessivo.

4. L’uomo è stato “consegnato” alle autorità dalla stessa cosa nostra, come parte di un accordo all’interno di una lotta di successione.

– In questo quarto scenario le possibilità sono due, Denaro potrebbe essere parte della corrente che lo ha consegnato, e quindi essersi offerto come trofeo, per garantire prosperità alla propria corrente, o al contrario, essere il punto zero di un imminente lotta di mafia.

Conclusioni

L’arresto di Matteo Messina Denaro è indubbiamente un grande traguardo politico, e solo politico. Ma nel discorso generale della lotta alla Mafia, non prendiamoci in giro, il suo arresto è decisamente poco significativo.
Non è un boss attivo, protagonista di questa “stagione” mafiosa, con un reale potere. Matteo Messina Denaro è un relitto di un’altra epoca, un vecchio mafioso ormai insignificante, il cui arresto è solo un successo politico, probabilmente costruito a tavolino, che, mi spiace dirlo, non segna un punto decisivo nella lotta alla mafia. Anzi.

Divieto di trasferta… una norma pericolosa.

Da persona che non è interessata e non segue il calcio, cado letteralmente dalle nuvole nello scoprire che in Italia, dal 2014 (opera del governo Renzi, con Alfano Ministro degli Interni) una legge totalmente incostituzionale ed estremamente discriminatoria che consente il “divieto di trasferta”.

Sono stupito, confuso e inquietato nello sentire al tg che il ministro dell’interno a seguito di alcuni scontri sta ventilando l’ipotesi del “divieto di trasferta” un concetto fino a quel momento, per me alieno e quando vado ad approfondire, mi inquieta e spaventa non poco scoprire di cosa si tratta.

In pratica, nel 2014 è stata introdotta una modifica alla legge n. 401 del 13 dicembre 1989, che autorizza il Ministro degli Interni, a disporre il sopracitato “divieto di trasferta”, ovvero il divieto di aprire il settore ospiti di uno stadio e il divieto di vendere titoli d’accesso (biglietti) a soggetti “residenti” nella provincia delle squadre ospiti.

Questa legge è surreale, imbarazzante e discriminatoria, in modo aberrante, lo è perché viola i principi del diritto italiano e lo stesso diritti italiano. In quanto legge italiana dovrebbe essere letta in funzione della Costituzione, e pure, questa legge, è a tutti gli effetti un “eccezione” ai diritti costituzionali.

Viola i principi del diritto perché viola la “presunzione di non colpevolezza”.

Vietare l’accesso a qualcuno allo stadio, perché altre persone con le quali quel soggetto non ha alcun legame dimostrato e dimostrabile, presuppone la sua colpevolezza e questo è contrario al diritto italiano per il quale si è innocenti, e non colpevoli, fino a prova contraria.

In questa norma, il solo essere residenti di una provincia in cui risiedono, forse, altre persone, che potrebbero aver commesso un reato, è sufficiente a renderti colpevole quanto loro.

Stiamo letteralmente dicendo “tutti i residenti di X sono colpevoli, perché il signor Mario Rossi, residente ad X ha fatto questo”. Non serve un genio per capire la pericolosità di una simile norma.

Viola il diritto italiano, la costituzione, il sacro articolo 3 della costituzione, per il quale tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, smette di esistere, non ha più alcun valore di fronte a questa norma, per la quale, è sufficiente essere residenti di una determinata provincia, nella quale, un soggetto altro, ha commesso un reato, per perdere la propria dignità sociale

Questa norma è contraria ad ogni singolo carattere dell’articolo 3 della costituzione.

Viola la libertà e i diritti civili degli italiani, perché in virtù del sopracitato articolo 3, e della sopracitata presunzione di non colpevolezza, impedire ad un libero cittadino italiano, di accedere ad un luogo, solo perché residente in una determinata provincia, non sta ne in cielo ne in terra.

Il divieto di “trasferta” è l’equivalente del “vietato l’accesso ai cani e agli ebrei” del regime Nazista e del regime Fascista, è una legge raziale, senza se e senza ma.

Totalmente iniqua e incostituzionale, totalmente aliena al nostro ordinamento giuridico, ma soprattutto, è una legge che non ha alcuna utilità in termini di sicurezza.

Se ragionassimo come si ragiona con in questa norma, per un qualsiasi altro campo, vivremmo in un regime totalitario.

Faccio un esempio pratico. Un uomo biondo, di origini sarde entra in un negozio e lo rapina. La risposta delle autorità sulla base dei principi che regolano il “divieto di trasferta” è convocare in questura tutti i sardi. Avvisi di garanzia inviati a tutti i sardi biondi. perché dai, sono sardi, sono biondi, il rapinatore era sardo e biondo… Capiamo che è surreale come cosa, e pure, per il calcio è esattamente così. Il divieto di trasferta fa esattamente questo. Punisce tutti gli abitanti di una data provincia, senza alcuna correlazione logica.

Si tratta di un precedente pericoloso, che da troppi anni si insedia nel nostro ordinamento giuridico offuscato dalla violenza di alcune frange estremiste di tifosi, e, per assurdo, invece di punire loro, punisce tutti gli altri.

Si tratta di una norma norma discriminatoria, degna di un regime totalitario, non di un paese libero come l’Italia.

Magari mi sbaglio, ma personalmente trovo vergognoso che sia stata “varata” una simile legge che in soldoni, autorizza il Ministro degli Interni, che dovrebbe essere il garante della sicurezza, a discriminare e trattare come dei criminali, in maniera puramente arbitraria, i cittadini di una data provincia.

E, a scanso di equivoci, per quanto si tratti di uno strumento a mio avviso delirante, incostituzionale e pericoloso, si tratta comunque di uno strumento che fa parte del nostro ordinamento giuridico ed è più che legittimo che il Ministro degli Interni ne faccia ricorso.

E sempre per chiarezza, legittimo significa che è legale, non che è giusto o rispettoso dei principi costituzionali. E per quanto mi riguarda, questa norma è tutto tranne che giusta e costituzionale.

E per inciso, lo dice una persona che probabilmente in uno stadio, durante una partita, non ci entrerebbe neanche se pagato.

Donne Pitagoriche, Teano

Teano è stata una filosofa greca, allieva di Pitagora, forse compagna o figlia dello stesso, su questo tema le fonti sono discordanti, alcuni indicano Teano come figlia di Pitagora, oltre che sua “erede” filosofica, secondo altri invece era la compagna di Pitagora, oltre che allieva prediletta, figlia di Brontino (successore di Pitagora).

In entrambe le versioni però, Teano, indicata come filosofa, è l’erede principale della scuola pitagorica. Suo è il compito di tramandare gli insegnamenti del maestro.

Teano è in un certo senso la filosofa dell’equilibrio, della “giusta misura”, e della donna. Nei suoi scritti la filosofa greca, vissuta nella Megale Ellas (nome greco di quella che in epoca latina sarebbe diventata la Magna Grecia) del VI a.c. più precisamente a Crotone, affronta più volte il tema della donna, del suo ruolo nella società, delle sue virtù e doti e dai suoi scritti emerge un “pitagorismo” diverso da quello che siamo abituati a conoscere.

La filosofia della giusta misura di Teano parte dal pitagorismo, di cui Teano è allieva e dall’idea, dello stesso Pitagora che la donna, e solo la donna, poteva tramandare senza alterazioni, il proprio pensiero, da cui i filosofi e le filosofe a venire, avrebbero potuto partire.

A differenza dell’uomo, la donna per Pitagora era in grado di acquisire pienamente e totalmente il pensiero del maestro (o della maestra) e tramandarlo in modo autentico e puro.
Il pitagorismo, la scuola di pensiero di Pitagora, poteva sopravvivere allo stesso filosofo grazie alle donne della sua scuola, in particolare grazie a Teano, sua allieva prediletta.

A differenza di molti altri filosofi antichi, Pitagora, non vede un apprendimento fine a se stesso per le donne della sua scuola, ma vede nella donna (in quanto tale) la miglior risorsa possibile per la filosofia pura.

E Teano fa esattamente questo, eredita il pensiero di Pitagora nella sua forma più autentica e pura, per poi ampliarlo, costruendo sulla base del pitagorismo la propria filosofia e la propria scuola, che sarebbe stata un’eccellenza nella Crotone del VI secolo a.c.

Per Approfondire consiglio il testo di Alfonso Mele, Magna Grecia, Colonie Achee e Pitagorismo, in cui vi sono diversi capitoli dedicati proprio alla filosofa Teano.

Voi cosa ne pensate? siete d’accordo con Pitagora ?

Attacco al porto di Sebastopoli, cosa sappiamo e cosa c’è di terroristico?

Stando a quanto riportato dai Media, nella giornata di ieri, sabato 29 ottobre, è stato condotto un imponente attacco che ha visto coinvolte almeno 4 navi, tra cui l’ammiraglia russa del mar nero, nel porto di Sebastopoli.
La Russia accusa Kyiv e Londra di quello che ritiene un attacco “terroristico” e Kyiv e Londra invece parlano di negligenza russa o di un auto attacco russo da usare come pretesto per legittimare l’interruzione degli accordi sul grano.

Questo il contesto generale e il tema più interessante della vicenda è a mio avviso la natura dell’attacco, che la Russia ha definito Terroristico.

è davvero un attacco terroristico?

Un attacco terroristico, ruota attorno alla strategia del terrore e a quello che è il concetto di guerra terroristica, entrambi teorizzati dal generale Giulio Douhet nei primi anni venti. Storicamente un attacco terroristico è un attacco finalizzato a piegare il nemico con la paura, e per farlo colpisce direttamente o indirettamente civili e infrastrutture civili. In questo caso specifico, in cui l’obbiettivo del presunto attacco sono state navi da guerra, è errato parlare di attacco terroristico, e per assurdo, l’unico elemento terroristico della vicenda è la minaccia russa di “interrompere gli accordi sul grano” che colpisce indirettamente i civili e fa pressioni, attraverso la paura della fame, su governi.

L’elemento terroristico di questo attacco è la “conseguenza” minacciata dalla Russia, non l’attacco effettivo, che, tra le altre cose, di terroristico non ha nulla visto che, nell’ordine, ha colpito Navi Militari. Navi che si trovavano in un porto occupato militarmente, in una città occupata militarmente in una regione annessa alla Russia illegalmente.

è un attacco contro la Russia?

Sebastopoli, così come l’intera Crimea, sono state annesse illegalmente alla Russia, e la loro annessione non è mai stata riconosciuta dalla comunità internazionale. Da un punto di vista puramente formale, l’attacco ha colpito la flotta russa in un porto ucraino, e non c’è nulla di terroristico o illegale in tutto questo.

Da un punto di vista puramente formale, essendo Sebastopoli una città Ucraina, occupata illegalmente dalla Russia, l’attacco al porto di Sebastopoli, se fosse stato condotto effettivamente dall’Ucraina, non avrebbe nulla di illegale, anzi, sarebbe nel pieno diritto ucraino attaccare le forze ostili che occupano illegalmente il proprio territorio.

Da un punto di vista formale, da un punto di vista pratico, la Crimea, anche se non ufficialmente, è ormai annessa alla Russia da diversi anni, vi sono migrate in massa milioni di persone dalla federazione, e di ucraino non è rimasto quasi più nulla, se non il ricordo. La comunità internazionale, al momento dell’occupazione ha preferito voltarsi dall’altra parte, per i propri interessi. Già all’epoca la Russia minacciò l’Unione Europea di interrompere le forniture di GNL e l’UE, e l’Europa cedette al ricatto, limitandosi ad una ramanzina, priva di conseguenze per la Russia in cambio di gas naturale a buon mercato.

Possiamo quindi parlare di attacco alla Russia? In teoria si, se l’attacco è un vero attacco allora è un attacco contro la Russia, nello specifico, contro la flotta russa a Sebastopoli. E in questo ripetiamo, non c’è nulla di illegale o illegittimo. Ucraina e Russia sono in guerra, ed è più che legittimo che l’Ucraina, impegnata in una guerra difensiva, colpisca obbiettivi militari e strategici russi, tra cui la base da cui opera la flotta russa nel mar nero.

Non sappiamo però se effettivamente si tratta di un attacco contro la Russia o di un operazione Russa.

Attacchi sotto falsa bandiera

Come detto in apertura, la Russia accusa Kyiv e Londra dell’attacco, ma Kyiv e Londra respingono le accuse parlando di negligenza russa. Tralasciamo la parte della negligenza perché è evidente che ci sia stato un attacco, la teoria dell’incidente non regge, anche perché sembra ci siano immagini che possano dimostrare l’avvenuto attacco con droni aerei e navali.

Resta però da capire chi ha mosso quei droni ed i sospetti sono fondamentalmente due, o qualcuno per conto dell’Ucraina o qualcuno per conto della Russia.

La portata dell’attacco e i danni riportati dalla flotta Russa, sembrano, per il momento, essere molto superficiali, almeno secondo la versione ufficiale di Mosca, questo lascia supporre che l’attacco sia stato voluto dalla Russia per coprire la propria decisione di interrompere l’accordo sul grano.

Si tratta inoltre del secondo attacco, in poco tempo, contro le infrastrutture e la logistica militare russa in Crimea, in poche settimane, prima il ponte tra Russia e Crimea, ora il porto di Sebastopoli, entrambi molto “rumorosi” ma che all’atto pratico hanno fatto pochissimi danni ed hanno dato alla Russia il pretesto per una escalation. Possiamo dire, senza remore che, da entrambi gli attacchi, la Russia e non l’Ucraina, ha avuto un ritorno positivo, e questo, rafforza ulteriormente la teoria dell’auto sabotaggio strategico d alimenta preoccupazioni per il futuro.

La Russia da diverse settimane sta parlando di un possibile attacco ucraino ai danni della Russia, probabilmente Crimea o Donbass, con una bomba sporca. Accuse sempre respinte da Kyiv, ma questi episodi ci forniscono indicazioni su quelle che potrebbero essere le mosse successive della Russia qualora questa strategia di “autoterrorismo” con attacchi sotto falsa bandiera, alle proprie strutture militari e civili dovesse rivelarsi vera.

Detto più semplicemente, la Bomba sporca di cui parla Mosca, se la teoria è corretta, potrebbe esplodere realmente nelle prossime settimane o mesi.

Ma davvero devo difendere Giorgia Meloni per difendere la Scuola?

Posso dire che, per quanto non apprezzi Giorgia Meloni, attaccarla perché si è diplomata, presumibilmente, in un istituto alberghiero, è un qualcosa di una bassezza infinita, esattamente come lo era attaccare Di Maio per il suo lavoro da Steward all’ex stadio San Paolo ora stadio Diego Armando Maradona, anzi, persino più infido.

Nel caso di Di Maio si denigrava un lavoro, umile ma onesto (cit.), nel caso della Meloni si denigra un percorso scolastico che sul piano formativo non ha nulla da invidiare ad altri percorsi di studi (e questo al di la degli scempi che la stessa destra, attraverso le riforme Moratti e Gelmini ha provato a realizzare).

Per essere precisi, non è certo dove Giorgia Meloni si sia diplomata, se in un istituto Alberghiero o in un liceo linguistico, ma, detto francamente, la cosa, per quanto mi riguarda, è del tutto irrilevante.

In ogni caso, focalizziamoci sulla scuola, che è meglio (cit.)

In un Istituto alberghiero il programma di “italiano e storia” o per essere più formali, discipline letterarie, non è diverso da quello di un liceo, così come non lo sono altri programmi, anche se è in opportuno parlare di programmi e sarebbe più consono parlare di obbiettivi formativi, visto che i famosi “programmi ministeriali” in realtà non esistono, esistono invece degli obbiettivi formativi da conseguire entro l’anno determinati dal ministero, che possono poi essere articolati o disarticolati dal docente, ma questo è un discorso tecnico in cui non voglio addentrarmi in questa sede.

Purtroppo in Italia c’è un culto irrazionale per i Licei a discapito di istituti tecnici e professionali, c’è l’assurda, infondata ed errata convinzione che un istituto tecnico sia una scuola di serie B rispetto alla serie A dei licei, e peggio ancora, i professionali siano scuole di serie C.

Questa prospettiva è terrificante, deleteria, meschina e discriminatoria in maniera a dir poco smisurata, perché discrimina non solo gli studenti, ma anche gli insegnanti.

Mettiamo allora a confronto due classi di concorso “simili” ovvero la classe A11 e A12 , rispettivamente Discipline letterarie e latino per licei e Discipline letterarie e storia negli istituti tecnici e professionali.

Prendo ad esempio la mia classe di laurea (LM-84), Laurea magistrale in Scienze Storiche. Per poter accedere ai concorsi per la classe A11 e A12 ho bisogno, rispettivamente, dei seguenti crediti.

Per l’A-11 servono CFU nei seguenti settori scientifico/disciplinari L-FIL-LET, L-LIN, M-GGR, L-ANT e M-STO.

Per l’A-12 servono CFU nei seguenti settori scientifico/disciplinari L-FIL-LET, L-LIN, M-GGR, L-ANT e M-STO.

Notate qualche differenza? Esatto, non ce ne sono.

Andiamo nello specifico però, qualche differenza la incontriamo, per l’A11 infatti devono essere ripartiti in questo modo 24 L-FIL-LET/04, 12 L-FIL-LET/10, 12 L-FIL-LET/12, 12 L-LIN/01, 12 M-GGR/01, 12 L-ANT/02 o 03, 12 M-STO/01 o 02 o 04 mentre per l’A12 devono essere ripartiti in questo modo 12 L-FIL-LET/04, 12 L-FIL-LET/10, 12 L-FIL-LET/12, 12 L-LIN/01, 12 M-GGR/01, 24 tra L-ANT/02 o 03 e M-STO/01 o 02 o 04

La sola differenza che incontriamo riguarda il settore L-FIL-LET/04 che per i licei richiede 24 CFU mentre per tecnici e professionali ne richiede “solo” 12.

Questo settore si identifica con “lingua e letteratura latina”, materia che, nei licei è insegnata, ma nei tecnici e professionali no, e potremmo discutere per ore sull’utilità o inutilità di questo settore necessario per l’A-12, ma il punto è che c’è, quei CFU sono lì, sono necessari, e questo rende praticamente “identici” i percorsi di studi, le conoscenze e le competenze di un insegnante di Italiano che insegna in un liceo, in un tecnico o in un professionale.

E se le competenze del docente sono le medesime e gli obbiettivi didattici che devono essere conseguiti dagli studenti nell’anno sono le medesime, allora perché un tecnico, o peggio ancora, un professionale, vengono considerati di “qualità” inferiori ad un liceo?

La risposta è banalmente, pregiudizio, ignoranza, stupidità.

Dottrina Monroe di Giacomo Gabellini. Guida alla lettura

Come anticipato sui social qualche settimana fa, l’editore Diarkos mi ha inviato, finalizzata alla produzione di una guida alla lettura, una copia del libro Dottrina Monroe, L’egemonia statunitense sull’emisfero occidentale, di Giacomo Gabellini, con postfazione di Giovanni Armillotta.

Quando ho ricevuto il libro, la prima cosa che ho notato è stata la giovanissima età di Giacomo, classe 85, e la sua attività di “ricercatore indipendente” che è una definizione sempre problematica, perché in quell’indipendenza è i rischi di una deriva poco storico analitica e più propagandistica, sono molto elevati. Il rischio principale, quando ci si imbatte in autori indipendenti (e parlo da autore indipendente) è che questi possano lasciarsi trasportare troppo da una visione soggettiva del mondo e della realtà, andando a costruire una narrazione storica molto di parte.

Mentre mi informavo sul libro e l’autore, ho notato però la postfazione di Giovanni Armillotta che collabora con l’Università di Pisa, e, da ex studente dell’ateneo toscano, che ha ancora contatti con qualche docente, ricercatore e assistenti di ricerca vari, non ci ho pensato due volte, ho fatto una serie di telefonate, ho inviato qualche messaggio, per capire di che persona parlavamo.

Mi sono arrivate risposte positive in merito al lavoro di Armillotta, e questo, per me, è stata una prima garanzia, sapere che la postfazione di questo libro è stata scritta da una persona che, senza giri di parole, sa fare il proprio lavoro di storico, mi ha permesso di affrontare più serenamente la lettura del libro di Gabellini.

Oltre la dottrina Monroe

La prima osservazione che voglio fare è che, visto il titolo, mi aspettavo che il libro avesse come topic principale la Dottrina Monroe, ma non è proprio così, la Dottrina Monroe, è un tema sicuramente centrale, e in un certo senso è il punto di partenza del libro, ma non è l’elemento centrale del libro, poiché Dottrina Monroe è in definitiva una “storia dell’imperialismo americano”.

Avete presente le preoccupazioni accennate poco sopra, a proposito di una narrazione potenzialmente distorta da posizioni e preconcetti soggettivi, che caratterizzano gli autori indipendenti? Ecco, rendendomi conto, con l’introduzione, che che il libro non parlava della Dottrina Monroe, ma di tutt’altra cosa, che si legava alla dottrina Monroe in modo indiretto, la preoccupazione aveva ricominciato a crescere.

In ogni caso, la chiave di lettura del libro, la troviamo nella primissima pagina, prima ancora dell’introduzione, c’è una pagina in cui sono riportate tre citazioni. Una di Simon Bolivar, una di Walter Lippmann ed una di Carl Schmitt. Presentate esattamente in quest’ordine, e su queste citazioni voglio ritornare più tardi, perché, in quanto chiave di lettura del libro, sono fondamentali.

Nella citazione alle pagine di Carl Smith troviamo il cardine del libro. La trasformazione della Dottrina Monroe da strategia difensiva a principio espansionistico, aggressivo e imperialista, degli Stati Uniti, prima sul continente americano e poi nel mondo globale (in parte dopo il 45 e in modo assoluto dopo il 1991).

Questo passaggio, nella prima pagina del libro, ci permette di capire, in modo abbastanza immediato, perché un libro sulla Dottrina Monroe, proclamata nel 1823, quasi due secoli fa, fa da filo conduttore per un saggio che si spinge, praticamente, fino all’altro ieri, arrivando ad affrontare anche i più recenti conflitti che hanno visto l’intervento statunitense (Iraq e Afghanistan).

Struttura del libro

Parliamo del saggio in senso stretto, della sua struttura, della sua organizzazione, del modo in cui è costruito e del linguaggio utilizzato.

Partiamo dall’indice, l’elemento a mio avviso più importante del libro, l’indice è uno strumento fondamentale per la lettura analitica e critica di un libro, e in questo saggio, purtroppo, è data pochissima importanza all’indice che si vede relegato in appendice, nell’ultima pagina, dopo le noti bibliografiche e appena prima di alcuni fogli bianchi.

Indice e capitoli

L’indice passa inosservato, e assume la forma di una mera e banale lista di punti che verranno trattati nel libro, con annesse pagine di riferimento.

In ogni caso, il libro si compone di sette capitoli, più un introduzione, una conclusione e una postfazione.

Sfogliando superficialmente il libro, è difficile, se non impossibile, individuare i vari capitoli, il cui inizio è scarsamente indicato ed è difficile capire se si tratti effettivamente di capitoli o di paragrafi.

Il mio consiglio quindi, prima di iniziare la lettura del libro, munitevi di segnalibri, recatevi nell’indice, individuate l’inizio di ogni capitolo, e marcatelo con un marker adesivo, in questo modo, sarà più facile navigare nel libro.

Restando sui capitoli, il primo capitolo intitolato “Controinsorgenza” è quello più corposo, da solo ricopre quasi un quarto del libro, tuttavia, un capitolo così massiccio, che non è al suo interno articolato in paragrafi e sezioni, è complesso da leggere.

Questo è un elemento che caratterizza tutto il libro, i sette capitoli di cui si compone sono l’unica divisione interna che incontriamo, non ci sono paragrafi ne sottosezioni, solo sette grandi capitoli, che affrontano varie sfaccettature dello stesso tema, che non è la dottrina Monroe ma è l’imperialismo americano.

Il linguaggio del libro

Il linguaggio adottato nel libro non è dei più semplici, ma neanche dei più complessi. L’autore è sovente utilizzare lunghi paragrafi ricchi di subordinate, che possono creare confusione se non si presta particolare attenzione. Nel complesso però, il testo risulta scorrevole e non particolarmente ostico.

Dentro la Dottrina Monroe

Come anticipato, il libro Dottrina Monroe, L’egemonia statunitense sull’emisfero occidentale di Giacomo Gabellini, non è un saggio sulla dottrina Monroe, si tratta in vero di una Storia dell’imperialismo americano che comincia proprio con la dottrina Monroe e si articola per oltre due secoli di storia americana, dove per americana si intende del continente americano.

La prima cosa che leggiamo, aprendo il libro, sono tre citazioni, e di queste, la prima citazione che incontriamo è di Simon Bolivar, per essere più precisi, nella prima pagina del libro leggiamo:

Gli Stati Uniti sembrano destinati dalla Provvidenza a piegare con la fame e la miseria l’America intera in nome della libertà

Simon Bolivar

Queste parole di Bolivar appaiono per la prima volta nel 1815, durante l’esilio del Liberator, in Giamaica, in quella che è nota come “lettera guatemalteca” pubblicata sulla Royal Gazzette di Kingston, ed hanno, per gli studiosi dell’America latina, un valore profetico, non solo perché precedono la stessa dottrina Monroe (risalente al 1823) ma anche perché anticipano, di diversi decenni, quello che sarebbe stato l’imperialismo americano. L’impressione errata che possiamo avere da questa citazione è che, sembra quasi come se Bolivar, più di Monroe, avesse dettato la futura linea d’azione degli Stati Uniti.

Siamo però nel 1815 quando appaiono queste parole, e gli Stati Uniti sono tutt’altro che interessati ad una politica espansionista, stanno ancora facendo i conti con i propri squilibri interni e soprattutto, non è ancora iniziata neanche l’espansione verso ovest. Non c’è nulla, nel 1815, che possa far pensare a degli Stati Uniti imperialisti se non la loro natura totalmente borghese.

Aprire dunque il libro con una citazione a Simon Bolivar che precede la dottrina Monroe, per parlare del futuro imperialismo americano, è a mio avviso, anacronistico. Tuttavia, la presenza di questa citazione, ci aiuta ad individuale gli elementi del libro da cui stare in guardia e prendere con le pinze.

Il libro ha una posizione critica nei confronti dell’imperialismo americano, un criticismo dal quale è bene stare in guardia.

Le tre citazioni presenti nella pagina di apertura, ci forniscono uno sguardo d’insieme, da tre punti di vista diversi, sull’imperialismo americano. Il primo è lo sguardo profetico di un uomo che non ha ancora avuto modo di conoscere effettivamente questo imperialismo, il secondo, è uno sguardo introspettivo, di un giornalista statunitense, con posizioni controverse e critiche nei confronti della politica estera ed interna degli USA, e il terzo, è lo sguardo distaccato ed esterno, di Carl Schmitt, che assiste con i propri occhi alla massima espressione dell’imperialismo americano durante gli anni della guerra fredda.

La questione latino americana e la Dottrina Monroe

Il libro di Gabellini, occupandosi principalmente dell’imperialismo americano, non può fare a meno di guardare, con estrema attenzione, dedicandogli moltissimo spazio, alla questione latino americana. Terreno privilegiato dell’imperialismo formale e informale degli USA.

Il libro guarda con attenzione all’America meridionale e alle compagnie petrolifere, e multinazionali agricole. Guarda allo sfruttamento delle risorse dei paesi latinoamericani a vantaggio degli USA. In particolare guarda al Venezuela e a Cuba.

Fornisce un quadro d’insieme molto ampio, ricco di riferimenti concreti e fonti citate direttamente nel testo, particolare che ammetto di aver apprezzato molto.

Proprio in merito alla questione latinoamericana possiamo osservare da vicino la metamorfosi interna della dottrina Monroe, che, come anticipato da Carl Schmitt nella citazione in apertura al libro, si trasforma, e passa dall’essere una strategia “difensiva” a strumento e principio espansionista soprattutto nel continente americano.

Il mondo latino americano fa da sfondo al libro e all’imperialismo americano ben più delle decisioni prese a Washington e sul campo nelle varie operazioni militari ed economiche. L’America latina è il grande laboratorio dell’imperialismo che avrebbe fornito agli USA gli strumenti e le strategie da adottare anche in Europa, Asia e Africa, per il consolidamento della propria egemonia e, per citare Robert Kagan in Paradiso e Potere, ha permesso agli Stati Uniti di appuntarsi da soli la stella di sceriffo sul petto prima di promuoversi come garanti della sicurezza globale.

Fonti bibliografiche di Dottrina Monroe

Apro un ultima parentesi in merito alle fonti e al loro utilizzo in questo saggio.

Ho apprezzato molto il fatto che la maggior parte di esse venissero citate direttamente nel testo, ma allo stesso tempo, ho faticato molto ad orientarmi nello stesso vista la totale assenza di note bibliografiche.

Purtroppo, quando cita qualcosa o qualcuno, l’autore è molto vago. Le stesse citazioni dirette presenti nella prima pagina del libro, non presentano riferimenti bibliografici diretti.

Come già detto, la prima cosa che leggiamo aprendo il libro è una frase di Simon Bolivar, ma il libro non ci dice dove o quando questa frase è stata pronunciata o scritta. Lo stesso per quanto riguarda la citazione a Lippmann e Schmitt, che incontriamo in apertura, ma di cui non abbiamo riferimenti.

Sappiamo, dalle note bibliografiche, che l’autore ha consultato diversi libri di Schmitt, più precisamente Le categorie del “politico”, Il concetto di impero nel diritto internazionale, terra e mare, teoria del partigiano, dialogo sul potere e stato, grande spazio, nomos. Nei riferimenti bibliografici, in appendice al libro, troviamo citate sei opere di Carl Smith, ma non ci viene detto in che modo, o dove queste opere sono state utilizzate nel libro. Non ci viene detto, a meno che non andiamo a leggere queste opere, la citazione a Schmitt, nella prima pagina, da quale di queste opere è stata presa.

E questo rende estremamente difficile capire se e quanto le varie fonti sono state effettivamente utilizzate, e quanto invece possono essere state decontestualizzate.

Ritorno all’esempio di Simon Bolivar, le cui parole sono effettivamente estrapolate dal contesto e poste in essere in apertura di un libro che affronta un tema estraneo allo stesso bolivar. In altri termini, Bolivar è citato in modo anacronistico per favorire la fruizione di un concetto.

Conclusione

Dottrina Monroe di Giacomo Gabellini è un libro particolare, complesso, interessante, confuso e problematico.

L’autore utilizza un linguaggio semplice e una scrittura fluida, si legge bene e velocemente, e cosa più importante, non richiede particolari conoscenze preliminari.

Si tratta tuttavia di un libro non adatto ad un pubblico generalista, poiché i temi trattati possono condurre a facili fraintendimenti.

L’autore si guarda bene dal dare giudizi affrettati e, a scanso di equivoci, non sembra esserci volontà politica nella narrazione. Il tema trattato è un tema politico, e ciò implica, inevitabilmente, che determinate letture possano in un modo o nell’altro influenzare il giudizio dell’autore, tuttavia, Gabellini si sforza di essere il più possibile oggettivo e superpartes nella ricostruzione degli avvenimenti. Anteponendo una narrazione fattuale a eventuali giudizi di merito e demerito che, fortunatamente, e contro ogni previsione vista la prima impressione data dal libro, sono completamente assenti.

In definitiva, consiglio la lettura, ma raccomandando al lettore di stare sempre in guardia, ma questa è una costante che ogni lettore storico dovrebbe attuare in ogni lettura, fosse anche la società feudale di Marc Bloch

Le sinistre occidentali devono smettere di parlare al posto degli ucraini

Le sinistre occidentali devono smettere di parlare al posto degli ucraini.

Verissimo.

Io avrei aggiunto anche, le destre occidentali devono smettere di fare i “pacifisti” col culo degli altri.

Per parafrasare Norberto Bobbio sul tema della guerra giusta, bisogna definire il concetto di giustizia. Sul piano morale la guerra non è mai giusta, nessuna guerra lo è, perché nel momento in cui si uccide qualcuno, fosse anche Hitler, si è fuori dalla giustizia, tuttavia, si può parlare di guerra giusta sul piano legale, legittimo.

Bisogna chiedersi quali guerre sono giuste nel senso di legittime/legali?

Nel mondo in cui viviamo esiste solo un tipo di guerra “legale” ed è la guerra autorizzata dal diritto internazionale per il quale solo la guerra “difensiva” è legittima.

Va da se che, se una nazione invade un’altra nazione, la nazione invasa ha il diritto (legale) di difendersi.

Questo diritto deve essere poi formalizzato dall’ONU che però si ritrova a dover fare i conti con il Consiglio di Sicurezza, in specie quando l’invasione è iniziata da uno dei suoi membri permanenti, Vedi Afghanistan, Tibet o Ucraina, in questi tre casi, rispettivamente gli USA, la Cina e la Russia, hanno sfruttato il proprio potere “giuridico”, mi viene da dire abusato del proprio potere giuridico, per frenare il corso della legalità ed impedire a chi aveva il diritto di difendersi, di essere difeso.

In questo USA, Russia e Cina sono uguali, non vi è differenza alcuna, ed è ipocrita difendere a spada tratta l’uno o l’altro a seconda dei casi.

Al di la della legalità formalizzata tuttavia, il diritto alla legittima difesa non può mai essere negato, anche se non sono rari i casi in cui questo diritto è stato aggirato, sfruttando il concetto di terrorismo, così gli invasori si raccontano al mondo come liberatori, gli USA “liberano” l’Afghanistan dai terroristi talebani, la Russia “libera” l’Ucriana dai terroristi neonazisti, la Turchia “libera” l'”inesistente” Curdistan dai terroristi del PKK, Israele “libera” la Palestina dai terroristi di Hamas, e così via.

In questo caos generale l’ente della legittimità internazionale, l’ONU è messo all’angolo, ed i singoli attori, si appuntano da soli, di volta in volta, la stella dello sceriffo sul petto, promuovendo se stessi come i “tutori” di una pace mondiale, ma uno sceriffo non eletto e non nominato da nessuno, che si appunta da solo la stella sul petto e decide di essere lui il garante della giustizia, non è altro che un bandito che si atteggia a giustiziere.

Ecco allora che abbiamo un immagine chiara di queste realtà, direttamente dal mondo dei fumetti, un immagine in cui dei Vigilantes, agiscono illegalmente, per il proprio distorto senso di giustizia, spingendosi la dove la “giustizia” o meglio, la “legalità” non può arrivare, perché il sistema è corrotto e imbriglia le autorità tra mille vincoli burocratici.

Questi Vigilantes potrebbero essere degli eroi, dei servi della giustizia reale, tuttavia c’è un enorme problema a monte, poiché sono quegli stessi Vigilantes a gettare le basi e costruire quel sistema corrotto che rende necessaria la loro presenza nel mondo.

C’è un inequivocabile e innegabile conflitto di interessi nell’ONU, in specie quando paesi come Russia e USA sono sotto accusa. In un analogia con un tribunale essi sono simultaneamente giudice, giuria e imputato e questo dona loro un’inevitabile immunità che legittima o meglio, oscura l’illegalità delle loro azioni sconsiderate e pericolose.

Hitler non voleva la guerra?

In risposta al video in cui anche Barbero dice che Hitler non voleva la seconda guerra mondiale, dirò due cose.

La prima, se non vuoi una guerra non cominci una guerra e il post potrebbe chiudersi qui.

La seconda più articolata parte da una riflessione sul “cosa si intende per non voleva una guerra”.

è chiaro che Hitler, come nessun altra persona al mondo, non volesse una nuova guerra mondiale e sperasse di non dover combattere, ma, era perfettamente consapevole che, le pretese della Germania su gran parte dell’Europa orientale prima o poi avrebbero messo in moto un meccanismo bellico.

Hitler alla guida della Germania aveva due strade, la prima, evitare la guerra che non voleva, contenendo i progetti espansionisti della Germania, e la seconda, portare avanti quell’espansione che sapeva perfettamente, prima o poi, avrebbe innescato una guerra.

Hitler sceglie la seconda strada, e nel farlo prova a cercare delle “garanzie” per evitare un conflitto. Una di queste garanzie è il patto di non belligeranza con l’URSS, con cui, trova un intesa sui “limiti” dell’espansione tedesca. Limiti che però, la stessa Germania, non troppo tempo dopo, deciderà di non rispettare, e romperà quel patto di non belligeranza.

Rompe un intesa, un trattato internazionale in cui ci si era impegnati a non farsi la guerra e inizia una guerra contro l’URSS con l’operazione Barbarossa.

Certo, nel 1941 la seconda guerra mondiale in un certo senso era già cominciata, ma è proprio la rottura del patto di non belligeranza tra Germania e URSS da parte della Germania a dare al conflitto quella reale dimensione internazionale.

Quella rottura sarà la leva che permetterà ad UK, USA e URSS di ricominciare a dialogare sulla guerra, dialogo che porterà nel 43 alla conferenza di Teheran, e poi alle conferenze di Yalta e Potsdam nel 45.Trascinando forzatamente l’URSS nella seconda guerra mondiale, intesa come la grande guerra tra le forze dell’asse e il resto del mondo, la Germania ha reso quello che era un insieme di conflitti in giro per il mondo, il secondo atto della grande guerra o se preferite, la seconda guerra mondiale.

Tra il 38 ed il 41, se da un lato Hitler “non voleva una guerra mondiale” dall’altro, non ha fatto nulla per evitare che ci fosse un conflitto mondiale, ma anzi, al contrario, come disse Goebbels già nel 1940, la Germania si è organizzata e preparata ad una guerra e solo quando era pronta a sfidare il mondo intero allora la guerra è cominciata.

Più precisamente Goebbels disse, parlando di francesi e britannici “Solo quando ormai eravamo in porto, e armati bene, meglio di loro, allora hanno cominciato la guerra!”.

Queste non sono le parole di un ministro della propaganda che “non vuole la guerra” queste sono le parole di un ministro che sa perfettamente che la Germania ha messo in gioco tutte le risorse necessarie per una guerra mondiale.

Dire che Hitler non voleva una guerra mondiale è errato, bisogna dire che Hitler sperava di poter agire impunemente ed evitare una guerra mondiale, ma non ha fatto nulla per evitarlo e anzi, ha fatto il possibile perché quella guerra iniziasse, e se fai di tutto per dar inizio ad un conflitto e rifiuti ogni possibile alternativa a quel conflitto, forse, quel conflitto che ti attendi, lo vuoi, lo desideri.

Orsini: “Ucraini come i partigiani? Allora anche i talebani.” e in effetti…

Durante un intervento nella trasmissione Cartabianca di Rai Tre, il professor Alessandro Orsini ha dichiarato che

“Se paragoniamo la resistenza ucraina a quella dei partigiani in Italia, servono motivazioni molto forti affinché io non debba paragonare ai partigiani”

Ha poi aggiunto

“Se il principio è che tutti coloro che resistono rispetto ad un invasore straniero sono come i partigiani italiani, allora anche i talebani che resistevano all’invasione americana sono come i partigiani”.

Incredibile ma vero, anche se non era sua intenzione il professor Orsini ha finalmente detto qualcosa di sensato e perfettamente in linea con la “teoria del partigiano” espressa da Carl Schmitt nel saggio “Theorie des Partisanen. Zwischenbemerkung zum Begriff des Politischen” del 1963.

Ora, Orsini dice ciò in modo provocatorio, il suo intento è quello di fare un esempio per assurdo, tracciare un analogia sul negativo e associare i combattenti ucraini ai talebani afgani che, nella retorica occidentale sono dei terroristi e non dei partigiani.

Tuttavia, sul piano teorico e concettuale fallisce, sul paino comunicativo e narrativo purtroppo il discorso è più complesso, ecco perché ho deciso di scrivere questo intervento e sintetizzare alcuni concetti e analisi già espresse qualche anno fa in un articolo pubblicato su notiziegeopolitiche, intitolato Combattenti irregolari: Terorristi, partigiani e rivoluzionari a confronto.

Talebani, terroristi o partigiani?

In breve, anche se siamo abituati all’analogia “Talebani = Terroristi” questa analogia è fondamentalmente errata ed è frutto esclusivo della propaganda occidentale, o per meglio dire, statunitense.

De facto, i Talebani, finché sono Afgani che combattono in Afghanistan contro un invasore straniero (di qualunque nazionalità), in questo caso Stati Uniti e prima di loro URSS, che hanno deciso, in maniera arbitraria e unilaterale di imporre in Afganistan il proprio modello culturale, sono, per quello che è il concetto di Partigiano, dei Partigiani, senza se e senza ma.

Per essere più precisi, durante il conflitto, sono de facto combattenti irregolari, senza un particolare inquadramento, nel senso che sono contemporaneamente, terroristi e partigiani.

Lo sono perché durante il conflitto la differenza sostanziale tra civili in armi che combattono con mezzi e strumenti irregolari e in modo asimmetrico contro un nemico meglio armato, è solo ed esclusivamente lo schieramento. Se dei civili in Afghanistan o in Ucraina, combattono più o meno direttamente con l’Afghanistan o l’Ucraina contro l’aggressore straniero, sono per l’Afghanistan o l’Ucraina dei partigiani, ma per l’aggressore sono terroristi.

Carl Schmitt, nella teoria del partigiano ci dice che il concetto di partigiano è un concetto estremamente aleatorio, proprio come il concetto di “rivoluzionario” (non apro questa parentesi o l’articolo non finirà più) esso si definisce pienamente solo alla fine del conflitto e in base all’esito del conflitto, ma, durante il conflitto, tutti i combattenti irregolari, sono, da una parte e dall’altra, rispettivamente partigiani/rivoluzionari o criminali/terroristi.

Per fare un esempio pratico, i nostri partigiani, coloro che dal 43 al 45 combatterono contro le forze di occupazione nazifasciste, oggi sono considerati partigiani e non terroristi, ma questo perché banalmente sono loro che hanno “vinto” la guerra civile italiana, se le cose fossero andate diversamente e in Italia avesse trionfato la Repubblica Sociale Italiana, i nostri partigiani sarebbero considerati dei terroristi, perché all’epoca erano considerati dei terroristi dal Terzo Reich e dalla RSI, mentre i membri della RSI sarebbero i nostri partigiani.

In altri termini, durante un conflitto, i combattenti irregolari sono considerati terroristi da una parte o dall’altra e allo stesso modo sono considerati partigiani, da una parte o dall’altra.

Nel caso specifico dell’Ucraina e del Donbass, i combattenti filorussi del Donbass sono considerati terroristi dal governo Ucraino e Partigiani dal governo Russo, mentre i combattenti ucraini (come ad esempio i membri del battaglione Azov) sono considerati partigiani dall’Ucraina e terroristi dalla Russia e in questo preciso momento storico sono entrambi entrambe le cose. Ma cosa effettivamente solo o meglio, come effettivamente verranno ricordati dalla storia, potrà definirlo soltanto la fine della guerra e la collocazione geopolitica della regione. In altri termini, se il conflitto si chiuderà con una vittoria russa e il passaggio del Donbass sotto la protezione di mosca, i membri del battaglione Azov, per rimanere sull’esempio, saranno considerati, in quella regione, terroristi, e probabilmente nel resto del mondo degli eroi dell’Ucraina, diversamente, se la guerra si concluderà con un trionfo ucraino che manterrà il controllo dell’area del Donbass, verranno considerati partigiani nella regione e terroristi in Russia.

Che cos’è un partigiano ?

Il concetto di partigiano combe abbiamo visto è estremamente aleatorio e soprattutto, soggetto a cambiamenti politici, quelli che oggi sono partigiani, con un cambio di regime possono diventare terroristi e quelli che oggi sono terroristi, con un cambio di regime possono diventare patrioti o partigiani. Basti guardare all’Afganistan dove i Talebani sono passati da liberatori dell’Afghanistan a terroristi ed ora che sono nuovamente al governo sono di nuovo dei “patrioti”.

In ogni caso, per definizione, un partigiano è un combattente (irregolare) che combatte in casa propria contro un invasore straniero, a tal proposito, nella sopracitata Teoria del Partigiano, Schmitt li definisce “sentinelle della terra” proprio per indicare il loro legame naturale con la terra, con quella terra in cui combattono e per cui combattono.

Il partigiano definito da Smith, conosce come il palmo della propria mano la terra in cui combatte ed è in grado di sfruttarla alla perfezione, questo si applica ai partigiani Italiani durante guerra civile italiana, ai vietcong durante la guerra del Vietnam, ai Mujahideen prima e Talebani poi in Afghanistan e ora ai combattenti ucraini.

Il partigiano conosce il territorio e i suoi abitanti ed ha un profondo legame con i suoi abitanti, perché in linea di massima è anch’egli un abitante di quella regione, che combatte non troppo lontano da casa e va a stringere un rapporto quasi simbiotico con chi rimane nei villaggi perché non può combattere, un rapporto che porta ad una protezione reciproca. Chi è in grado di combattere lo fa clandestinamente, sfruttando il territorio a proprio vantaggio, chi non è in grado di combattere protegge i segreti e l’ubicazione dei propri cari che invece stanno combattono, e questo legame da loro la forza di resistere all’oppressione, alle minacce, alle torture e gli eccidi, allo stesso tempo da loro la forza di rispondere a queste aggressioni.

Resistenza Ucraina è come la resistenza Afgana?

Andiamo quindi in conclusione.

Alessandro orsini traccia un parallelo tra la resistenza ucraina ed i Talebani ed è proprio qui che si configura l’errore atroce, indegno per una persona che ricopre la posizione di Orsini.

Un’analogia concreta e corretta è da fare tra la resistenza Ucraina e la resistenza Afgana e in questa non c’è alcuna differenza, entrambe sono legittime perché si tratta di una resistenza formata da civili in armi di una determinata nazione che combatte contro un invasore straniero, sia esso l’URSS negli anni 80, gli USA negli anni 2000 o la Russia negli anni 20 del ventunesimo secolo, il popolo aggredito da una nazione straniera è legittimato a difendersi, senza se e senza ma.

Indicare i Talebani come espressione totale della resistenza afgana è errato, perché salvo alcune eccezioni in alcune regioni, i talebani non sono sentinelle della terra, non sempre hanno un profondo legame personale con il territorio in cui combattono, in alcuni casi combattono in regioni lontane dalla propria terra d’origine, allo stesso tempo però anche il parallelo tra talebani e terroristi è errato.

I talebani sono considerati terroristi, dal mondo occidentale, per ragioni prevalentemente politiche, e non pratiche, all’atto pratico però, sono dei combattenti irregolari schierati su un fronte opposto a quello “occidentale”.

Il fatto che i Talebani, abbiano compiuto attacchi in Afghanistan contro soldati stranieri, più precisamente statunitensi, (la cui presenza in Afghanistan non era prettamente legale) li rende terroristi solo per gli USA e i suoi alleati, ma non per la popolazione civile afgana. Ciò che li rende tecnicamente, non solo politicamente, terroristi, non sono gli attacchi contro i soldati occidentali in Afghanistan, ma gli attacchi contro i civili afgani o attacchi irregolari compiuti oltreconfine.

In altri termini, un autobomba al mercato afgano messa lì dai talebani è un attentato terroristico, un autobomba che si si fa esplodere nei parcheggi sotterranei di un edificio a New York è un attentato terroristico, un autobomba che colpisce un mezzo blindato statunitense, diretto in un villaggio afgano, mi dispiace dirlo, ma non è un attentato terroristico, ma è un atto di guerriglia, di guerra asimmetrica, di guerra irregolare.

Articolo 11 costituzione Italiana

costituzione italiana

Apro una piccola parentesi sul tema dei limiti della difesa e gli attacchi oltreconfine, almeno per quanto riguarda l’Italia. Su questo punto entra infatti in gioco l’articolo 11 della costituzione italiana la cui articolazione definisce dei limiti ben precisi all’utilizzo della forza.

L’articolo recita

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

In questo articolo, primo articolo della costituzione dopo i principi fondamentali, e per questo dotato di grande rilevanza e solennità, non si dice solo che l’Italia ripudia la guerra, ma si definiscono in modo estremamente chiaro e preciso i motivi di questo ripudio, in altri termini, si dice che tipo di attività belliche sono ripudiate dall’Italia e quali invece sono tollerate.

L’articolo si apre dicendo che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.

L’Italia in altri termini, ripudia le guerre offensive e ripudia l’uso della forza per risolvere dispute internazionali, non ripudia la guerra come strumento di difesa, non ripudia la legittima difesa di un popolo di fronte ad un aggressione straniero e anzi, in determinate circostanze, quando un popolo viene aggredito, l’Italia promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte alla difesa e tutela dell’aggredito, mai dell’aggressore.

Questo articolo, scritto all’indomani della seconda guerra mondiale, vede una fortissima influenza dei reduci del Comitato di liberazione nazionale e dei movimenti antifascisti dell’epoca, perfettamente consapevoli che, una resistenza non armata ad un aggressore armato, era ed è, purtroppo, inefficace.

Nel caso specifico della guerra in Ucraina quindi, l’Italia ripudiando la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come strumento di risoluzione alle controversie internazionali, è tenuta ad esprimere, senza se e senza ma, una forte condanna all’aggressione perpetuata dalla Russia, un offensiva che limita la libertà del popolo ucraino, determinata dalla volontà russa di porre fine ad una controversia internazionale, più precisamente una disputa territoriale relativa alle regioni del Donbass e della Crimea.

Allo stesso tempo però, l’Italia, promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a produrre un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni.

L’Italia dunque, per la propria costituzione, ha il dovere di aiutare l’Ucraina a difendersi, ma questa difesa ha un limite che coincide con i confini stessi dell’Ucraina. L’Italia può aiutare l’Ucraina a respingere gli invasori russi fuori dai propri confini, ma non può sostenere, in alcun modo, l’avanzata ucraina oltre i propri confini e non può sostenere attacchi ucraini in territorio Russo.