L’evoluzione del concetto di guerra giusta

Nessuna guerra è giusta, scriveva Norberto Bobbio nel saggio “una guerra giusta”, ma, esistono guerre legittime, legittime nel senso di legali.

Bobbio sosteneva a ragione, che, per il diritto internazionale, le sole guerre “giuste” nel senso di legittime/legali fossero le guerre di “legittima difesa”, ovvero quei conflitti nati dalla necessità di difendersi da un aggressione o aggressore.

Questo concetto è stato poi distorto nei primi anni duemila con la creazione del concetto di “guerra preventiva” in cui si utilizzava la retorica della guerra difensiva come giustificazione per un aggressione contro una minaccia che ancora non aveva fatto la propria mossa.

La guerra condotta da Putin in Ucraina, rientra in quest’ottica, è una guerra offensiva, di invasione, giustificata come una guerra difensiva.

Nel dibattito politico che sta avvenendo in queste settimane, molti si sono schierati “contro la guerra” in una forma a mio avviso discutibile.

Nel senso, un politico che da sempre sostiene il diritto alla legittima difesa e promuove la liberalizzazione della vendita delle armi nel nostro paese, che d’improvviso si risveglia “pacifista” e contro ogni forma di violenza, è alquanto surreale, soprattutto se, nel proprio schierarsi a favore della pace, e ripudiando l’idea di fornire armi alla popolazione ucraina, poi parla di fuga dall’Afghanistan.

Come puoi essere a “favore della pace” se difendi l’occupazione illegale da parte di uno stato sovrano ai danni di un altro stato sovrano?

Per poi appellarsi ad uno spirito cristiano, che lo spinge ad opporsi alle forniture militari alla popolazione Ucraina.

Fatemi capire, in Afghanistan si possono inviare soldati armati e mezzi, in Iraq si possono inviare soldati e armi, si deve applaudire all’assassinio di un alto funzionario Iraniano ad opera delle forze armate USA, ma, non si devono inviare armi agli Ucraini che vedono il proprio paese invaso e occupato da migliaia di soldati stranieri?

C’è una profonda incoerenza e disonestà intellettuale in queste posizioni, oltre ad una profonda ignoranza del concetto stesso di “bellum iustum” (guerra giusta).Questo concetto ha una lunga storia evolutiva che ha attraversato la storia occidentale dal mondo greco romano ad oggi e non sono pochi i filosofi e teorici cristiani che si sono interrogati su questo concetto.

A tal proposito, Agostino d’Ippona, noto anche come Sant’Agostino, osserva che, contrariamente al vangelo di Matteo in cui c’è una presa di posizione di totale distacco dall’uso della forza, nel vangelo di Luca, è presente un racconto in cui dei soldati romani chiesero al Battista se dovessero deporre le armi una volta battezzati e, il battista, nella sua risposta invitò loro alla moderazione, senza però imporre loro di abbandonare le armi.

Segue un estratto della mia tesi di laurea magistrale sul dibattito occidentale relativo ai conflitti del golfo e dei Balcani negli anni novanta.

Parte Seconda, Capitolo Primo sull’evoluzione del concetto di guerra giusta.

Gli anni novanta furono inaugurati dalla fine della guerra fredda e della pace armata tra il mondo occidentale e l’unione sovietica.

Dalle ceneri di questo conflitto, in un certo senso anomalo rispetto al tradizionale concetto di guerra, i leader mondiali cercarono di costruire, grazie alle Nazioni Unite, un nuovo ordine mondiale che puntasse al superamento della guerra in un mondo sempre più interconnesso ed interdipendente in cui, come già avvenuto durante gli anni della guerra fredda, si sarebbe assistito ad un sempre minore numero di scontri tra le nazioni, tuttavia questo non significato la fine della guerra né la fine della storia, al contrario, la fine della guerra fredda avrebbe segnato la nascita di un nuovo tipo di guerra che si sarebbe strutturata e definita lungo tutti gli anni novanta.

I dibattiti che accompagnarono i due grandi conflitti dell’ultima decade del ventesimo secolo, riportarono alla luce le “antiche” teorie sulla guerra giusta, le cui radici possono essere ritrovate già nella Politica di Aristotele.

Il concetto di guerra nel mondo romano cristiano

In epoca romana che aveva fatto la sua apparizione il termine “bellum iustum”, inizialmente utilizzato per indicare una guerra dichiarata attraverso una complessa serie di procedure giuridico-religioso e solo in un secondo tempo, con l’avvento del cristianesimo e di Agostino di Ippona, il concetto di bellum iustum sarebbe stato rielaborato in senso etico e adattato ai precetti nonviolenti dei testi evangelici, dimostrando in questo modo che, anche se nel vangelo di Matteo era presente una netta presa di posizione contro la violenza e l’uso delle armi, nel vangelo di Luca, Giovanni Battista avrebbe invitato i soldati che gli chiesero consiglio alla moderazione, senza però imporre loro di abbandonare le armi.

L’obiettivo di Agostino era quello di dimostrare che anche i cristiani potevano combattere, scongiurando così la tesi secondo cui il cristianesimo avesse indebolito lo spirito guerriero dei romani provocando la crisi dell’impero stesso.

La questione riguardante la possibilità, per i cristiani, di combattere, sarebbe tornata in auge con la filosofia scolastica medievale.

Secondo il pensiero di Tommaso d’Aquino infatti, la guerra era inserita tra i peccati contro la carità e la pace, tuttavia in determinate condizioni la guerra poteva essere lecita.

Diversamente da Tommaso d’Aquino, che colloca la teoria della guerra giusta sul terreno della teologia, nel sedicesimo secolo, Francisco de Vitoria avrebbe ricollocato la teoria della guerra giusta nel terreno del diritto, legandola alla questione della legittimità della conquista spagnola del nuovo mondo.

La posizione di Francisco de Vitoria

Per Vitoria il fatto che gli indios non fossero cristiani non era un’argomentazione sufficientemente valida per legittimare la conquista Spagnola, tuttavia, introducendo il concetto di ius gentium, avrebbe affermato l’esistenza di una comunità globale e questo implicava una serie di diritti, come ad esempio il diritto al predicare il vangelo e il diritto a diventare cittadini.

Per Vitoria la negazione di questi diritti, poteva essere considerata una ragione valida e legittima per intraprendere una guerra che avesse come fine ultimo la difesa di questi diritti universali.

Sempre Vitoria avrebbe individuato un parallelismo tra la guerra difensiva e la legittima difesa individuale, riconoscendo a principi e repubbliche, oltre al diritto alla difesa anche il diritto a rispondere ad una grave offesa.

Tuttavia, in questa ottica, si veniva a creare un pericoloso inconveniente poiché una guerra poteva essere rivendicata come guerra giusta da entrambe le parti.

Per Vitoria ciò era possibile perché, una delle due parti era vittima di un “insopprimibile difetto di coscienza” e questo appariva particolarmente evidente in quelle situazioni di conflitto che contrapponevano la società cristiana al mondo islamico o a quello delle civiltà precolombiane, dove islamici e indios si ritrovavano a combattere una guerra ingiusta credendo tuttavia di essere nel giusto.

Vitoria era però convinto che il principe giusto, ovvero colui che realmente combatteva una guerra giusta, era posto in una condizione nettamente superiore a quella del principe ingiusto, che era impegnato in una guerra non giusta, creando uno squilibrio di potenza tale che, alla fine, avrebbe condotto il principe giusto alla vittoria.

La guerra dopo la pace di Westfalia

Con la fine della guerra dei trent’anni e l’affermazione della pace di Westfalia si sarebbe aperta per l’Europa una nuova fase politica, caratterizzata dalla sovranità degli stati e della loro eguaglianza sul piano giuridico.

Ogni stato europeo dopo Westfalia era delimitato dai confini degli altri stati e all’interno di questi confini, ogni stato era libero di contrapporsi agli altri.

Il riconoscimento di questa auto-limitazione avrebbe trasformato il concetto stesso di guerra, rendendola la massima espressione della vita internazionale.

Da questo momento in avanti, il dibattito filosofico sulla legittimità e la liceità della guerra si sarebbe trasferito definitivamente dal campo teologico al campo giuridico, in questi termini il concetto di guerra giusta fu svuotato da ogni possibile significato etico-morale, e sarebbe stato dal reciproco riconoscimento tra le nazioni europee e questo riconoscimento avrebbe reso, ogni guerra combattuta sul suolo europeo, una guerra giusta, a condizione del fatto che, come avrebbe scritto Ugo Grozio in De iure belli ac pacis, “entrambe le parti che la fanno siano investite nella loro nazione dall’autorità sovrana”.

Con l’avvento dell’età moderna si avverte in Europa un progressivo ritorno al modello romano della guerra, sia nelle modalità con cui si giunge al conflitto, sia nelle modalità con cui lo si affronta.

Diritto alla guerra per Carl Schmitt

Per Carl Schmitt la netta distinzione tra tra guerra e pace, è la distinzione che vi è tra ciò che è interno allo Stato e ciò che ne è all’esterno, tra un nemico ed un amico, e questa distinzione rappresenta il primo fondamento per il diritto pubblico europeo, la cui natura universale avrebbe permesso un progressivo ritorno a forme più ordinate di guerra.

Con l’avvento della modernità, le guerre sarebbero passate dall’essere scontri tra coalizioni feudali, dove un monarca aveva il potere di dar vita ad un esercito convocando i propri vassalli, per diventare scontri tra eserciti mercenari, e successivamente tra eserciti permanenti.

Questo nuovo ordinamento militare avrebbe posto gli eserciti permanenti sotto il diretto controllo dello Stato, che di fatto avrebbe iniziato a detenere il monopolio della forza.

La trasformazione degli eserciti ebbe avuto come effetto diretto la trasformazione stessa della guerra, e con essa, del concetto di guerra giusta, portando all’affermazione, sul finire del XVIII secolo, dell’idea che la guerra fosse un attività di stato, per Carl Von Clausewitz di fatto la guerra era solo la guerra tra stati, si trattava di “un atto di forza che ha per scopo il costringere l’avversario a seguire la nostra volontà” precedente storico di questa concezione della guerra era offerto dall’esperienza romana, poiché ne le guerre tra le città stato greche, ne le guerre combattute in Europa dopo la caduta dell’impero romano, erano vere e proprie guerre tra stati.

Fonti

L. Baccelli, Ritorno a Vitoria? La parabola della “guerra giusta”, in La guerra giusta, concetti e
forme storiche di legittimazione dei conflitti, a cura di L. Baldissara, pp 39-56.
A. Colombo, La guerra ineguale, pace e violenza nel tramonto della società internazionale, Il Mulino, pp 178-181.
M. Kaldor, Le nuove guerre, la violenza organizzata nell’età globale. Carocci editore, 8° ristampa, aprile 2008, Roma, pp 25-41.

400 mercenari della Wagner per assassinare Zelensky

Zelensky è diventato, negli ultimi giorni, il fulcro della resistenza antirussa in Ucraina, non solo un presidente, ma un vero leader, che, nonostante il pericolo, continua a mantenere vivo il contatto con il popolo Ucraino. Un patriota che sceglie di restare in prima linea e non fuggire all’estero o di rifugiarsi in un bunker segreto.

Per fiaccare lo spirito Ucraino, l’ho già detto altre volte, la Russia sta cercando in ogni modo di allontanare Zelensky da Kyiv, i negoziati a Gomel avevano principalmente questo intento, che il presidente ucraino è riuscito ad aggirare, inviando al tavolo, i suoi più stretti collaboratori, mentre lui rimaneva a Kyiv, con il suo popolo.

Non sorprende dunque che, quasi contemporaneamente all’inizio delle negoziazioni, secondo quanto riportato dal Times, siano stati avvistati proprio a Kyiv, diversi mercenari della compagnia militare Wagner.

La ChVK Vagner, è una compagnia militare fondata da Dmitrij Utkin, che si ritiene essere di proprietà di Evgenij Prigozin, un oligarca russo fortemente legato a Putin.

Nonostante la Vagner sia una società privata, il NY Times, soprattutto per il ruolo che ha svolto in Siria, ritiene che la compagnia di mercenari operi per conto del ministero della difesa russa. Una sorta di esercito privato, al soldo esclusivo di Putin.

Non è la prima volta che la Vagner interviene in Ucraina, già nel 2014 i suoi mercenari sono stati schierati dal Cremlino al fianco dei separatisti del Donbass, e, secondo voci non verificate, si ipotizza che la Vagner sia l’eminenza grigia alle spalle dei separatisti.

Tornando a Kyiv, verso le 14 (ora italiana) il Times ha riportato l’ingresso, di circa 400 mercenari della Wagner a Kyiv, in abiti civili.

Si ipotizza che il loro intento sia quello di assassinare il presidente Zelensky approfittando delle sue “uscite” pubbliche, facendo passare l’omicidio come una risposta reazionaria di ucraini “stanchi” della pessima gestione della crisi da parte di Zelensky, sfruttando la retorica della mancata volontà del presidente di trovare un accordo con la Russia e dell’incompetenza occidentale (per usare le parole di Donald Trump).

Una strategia semplice e potenzialmente efficace, ma con un risvolto della medaglia.

La morte di Zelensky per mano di un civile “filorusso” potrebbe avere un doppio esito. Da un lato, nelle mire della Russia, far cadere l’uomo simbolo della resistenza e minare le fondamenta stesse del movimento di liberazione dell’Ucraina.

Dall’altro, qualcosa che Putin forse non ha preso in considerazione. L’assassinio di Zelensky potrebbe accrescere enormemente la sua popolarità, creerebbe letteralmente un martire, un eroe che si è sacrificato per il proprio popolo.

Zelensky diventerebbe un nuovo “che guevara”, e nel suo nome, la resistenza Ucraina, potrebbe trovare maggiore forza e vigore.

Inoltre, l’omicidio di un capo di stato “occidentale”, potrebbe inasprire ulteriormente le posizioni degli alleati dell’Ucraina e rappresentare un causus belli estremamente forte, che potrebbe spingere l’Occidente ad intervenire direttamente nel conflitto.

In ogni caso, nel 2004 Francesco Guccini, in Stagioni, cantava “da qualche parte un giorno, dove non si saprà, dove non lo aspettate, il che ritornerà” … che le sue parole siano profetiche e il nuovo “che” sia nato nell’Ucraina occupata dalla Russia?

Continua a seguire i nostri aggiornamenti, commenti, analisi e verifica delle informazioni sulla crisi in Ucraina, con il nostro Live blog, aggiornato in tempo reale, qui su Historicaleye.

Quale futuro per l’Ucraina?

La Russia continua a chiedere al presidente ucraino di lasciare il paese e sedere al tavolo dei negoziati in Bielorussia, alleata della Russia.

Mosca sa perfettamente che, nel momento in cui Zelensky lascerà il paese, lo spirito ucraino verrà piegato e si registrerà nel paese una perdita di fiducia per il presidente che ora è letteralmente in prima linea.

L’obbiettivo di Mosca è chiaro, allontanare Zelensky quel tanto che basta per mettere in ginocchio Kyiv, e con un po’ di fortuna, condurlo in territorio ostile e farlo prigioniero.

Anche se la Bielorussia continua a ribadire che non è coinvolta nel conflitto, perché non ci sono soldati bielorussi in Ucraina, è innegabile che il paese sia alleato e schierato apertamente con la Russia a cui permesso di lasciar transitare e stazionare i propri soldati.

La Bielorussia, al momento, non sta combattendo attivamente, ma sta fornendo supporto logistico alla Russia e, secondo fonti del governo Ucraino, sembra si stia preparando a prendere parte all’offensiva, probabilmente con l’intento di ottenere il controllo di alcune regioni dell’Ucraina una volta terminata la guerra.

Molto probabilmente c’è stato un accordo di ripartizione territoriale dell’Ucraina tra Mosca e Minsk, un accordo che smembra l’Ucraina in diverse parti, alcune di queste, come la Crimea e il Donbass, passeranno sotto il controllo diretto della Russia, altre, è probabile passeranno sotto il controllo della Bielorussia, altre ancora vedranno l’insediamento di governi fantoccio filorussi, e forse, solo la parte più occidentale del paese, circoscritta all’Oblast, che diventerà uno stato a riconoscimento limitato, sotto la protezione dell’ONU, il che, de facto, impedisce allo stato di prendere parte ad alleanze militari ed integrarsi in strutture sovranazionali.

Il destino dell’Ucraina sembra essere già segnato, al momento la via più probabile e plausibile per il paese è uno scenario “balcanico”, ovvero, un evoluzione del conflitto molto simile a quello che abbiamo visto, circa 30 anni fa, coinvolse i territori dell’ex Jugoslavia, in particolare del conflitto in Bosnia.

Anche all’epoca l’ONU si attivò per poi essere fermato dalla Russia, in nome della vicinanza culturale tra il popolo russo e le popolazioni slave dell’area balcanica.

L’Ucraina molto probabilmente, faccio questa previsione sulla fine del conflitto, verrà divisa, seguendo linee di confine che non piaceranno alle popolazioni, spingendo l’acceleratore sulle tensioni etniche e rivalità delle varie popolazioni interne all’ucraina, probabilmente portando all’inizio di futuri conflitti interni alle varie regioni. Soprattutto quelle non militarizzare e occupate militarmente.

UCRAINA: Mosca convoca seduta straordinaria del Consiglio di Sicurezza

Ucraina: La russia convoca una seduta straordinaria del consiglio di sicurezza, per discutere della questione ucraina

Contro ogni previsione e in modo completamente inaspettato, l’ONU entra in gioco sulla questione Ucraina (finalmente) , su richiesta della Russia.

A quanto si legge, la Russia ha chiesto una seduta straordinaria del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Perché la Russia ha convocato il cds? che, vista l’occupazione illegale della crimea e la presenza di militari russi in diverse regioni dell’ucraina, dovrebbe attivarsi contro la Russia, attivando un embargo totale (come previsto dall’articolo 41 della carta dell’ONU) contro la Russia che sta minacciando l’integrità e la sovranità nazionale dell’Ucraina?

La risposta a queste domande è nella retorica dell’isteria occidentale e la parallela fuga in massa di russofoni dall’Ucraina verso la Russia.

Il Cremlino parla di oltre 60mila rifugiati ucraini in Russia, rifugiati vessati da anni di conflitto interno al paese, che sono ora “esasperati” dalla presenza di militari occidentali nel paese.

Questo mi riporta alla mia teoria, avanzata diverse settimane fa, per cui, sarebbe arrivato il giorno in cui la Russia, avrebbe fatto un passo in avanti nella propria strategia, indicando gli USA come responsabili dei disordini in Ucraina

.La presenza in Ucraina di occidentali è, per la Russia, una minaccia, non solo ai propri confini, ma anche all’integrità della stessa Ucraina, e dunque, possiamo aspettarci che il consiglio di sicurezza delle nazioni unite, si esprimerà a favore dell’ucraina, richiedendo il ritiro delle forze NATO dal paese, o, più probabilmente, con un nulla di fatto dovuto all’attivazione di un veto degli USA che rifiuteranno di lasciare il paese.

Ecco quindi che la retorica dell’Isteria si trasforma in “legittima preoccupazione” della Russia, che sulla carta non ha ancora fatto nulla di male e anzi, ha addirittura convocato una seduta straordinaria del Consiglio di Sicurezza, dando l’idea di una “fiducia” istituzionale nel ruolo pacificatore delle nazioni unite.

Sta per iniziare, come avevo anticipato nel mio articolo del 15 febbraio, una nuova fase nella strategia russa, una fase che, molto probabilmente sarà incentrata sulla retorica dell’imperialismo americano, una retorica che ha il fine ultimo di legittimare l’ingresso nella regione del Donbass di militari Russi, perché il loro sarà un ingresso di carattere “difensivo” al fine di “pacificare” la regione e permettere ai rifugiati Ucraini in Russia, di rientrare nel proprio paese e nelle proprie case, che in questo momento non sono sicure a causa della guerra civile tra una “resistenza” da parte dei separatisti, e occupanti occidentali.

Sintetizzando al massimo quindi, il motivo per cui la Russia ha attivato l’ONU è che vuole rendere “illegittima” la presenza di militari occidentali in Ucraina, e, se dovesse fallire a causa del veto degli USA, potrò parlare di occupazione americana dell’Ucraina orientale.

Bettino Craxi, i suoi ultimi vent’anni, di Umberto Cicconi | Guida alla lettura

Bettino Craxi, i suoi ultimi vent’anni. Una biografia molto intima di Craxi curata da Umberto Cicconi, fotoreporter e caro amico Craxi

Qualche settimana fa, l’editore Diarkos mi ha contattato per la pubblicazione del nuovo libro di Umberto Cicconi, “Bettino Craxi, i suoi ultimi vent’anni“. Si tratta di una biografia di Craxi, scritta da una persona che, al di la delle vicissitudini politiche e storiche, è stato, per lungo tempo “un ombra discreta” dello stesso Craxi, almeno secondo le parole di Vittorio Michele Craxi, meglio noto come Bobo Craxi, figlio secondogenito dell’ex presidente del consiglio, a cui è affidata la prefazione del libro.

Come anticipato su Instagram, quando ho ricevuto il libro, la mia guida non sarà esente da critiche all’opera e anzi, punterò soprattutto la lente sulle problematiche del libro, il cui racconto, senza nulla togliere alle competenze dell’autore, è molto personale e vivido.

Umberto Cicconi non è solo un reporter e fotografo che ha seguito da vicino l’ultimo ventennio di Craxi, ma è anche un amico di famiglia dei Craxi, legato a Bettino di cui è stato fotografo personale e, per ammissione dello stesso Bobo, un caro amico anche dei figli.

Oltre alla prefazione di Bobo Craxi, il libro contiene anche una postfazione a cura di Ananda Craxi, figlia di antonio Craxi, fratello minore di Bettino.

Come Bobo anche Ananda sottolinea la vicinanza di Cicconi a Craxi, e, nella sua postfazione scrive “Cicconi, come lo chiamava lo zio (Bettino) è l’unica persona che io conosca rimasta fedele alla storia della vita di Bettino Crazi. Lui è letteralmente accanto a zio per tutti i sette anni trascorsi ad Hammamet, quando lo Zio era solo ed il mondo gli aveva voltato le spalle”. aggiungendo poi che Cicconi, “si è dimostrato più di un figlio per Bettino, fino alla fine della sua vita.”

Prefazione e postfazione ci mostrano in maniera evidente e inopinabile che vi è un profondo legame umano tra l’autore dell’opera e il soggetto della stessa, tuttavia, la presenza di questi tasselli in apertura e chiusura della biografia, contribuiscono a mettere in guardia il lettore da quell’opera che, come l’ha definita Bobo, non è propriamente un racconto storico di Craxi, quanto più un “lungo omaggio affettuoso” all’uomo e all’amico.

Vi è dunque una profonda onestà intellettuale da parte dell’autore che non nasconde e anzi, tende a sottolineare il proprio affetto all’uomo e la vicinanza alla famiglia Craxi, di cui in un modo o nell’altro è entrato a far parte.

Prima di cominciare con la guida alla lettura voglio segnalarvi un interessante intervista al professor Luigi Musella in cui il nostro collaboratore Sunil Sbalchiero, in cui hanno parlato proprio di Craxi e del PSI.

Chi è Umberto Cicconi

Come anticipato nell’introduzione, Umberto Cicconi è un fotoreporter che ha seguito da vicino le vicende e la storia personale politica di Craxi in qualità di suo fotografo personale e, a partire dalla fine degli anni novanta e primi anni duemila, ha pubblicato diversi libri di carattere biografico e aneddotico legati alla figura di Craxi, e, a ridosso della scomparsa dell’ex leader socialista, nel 2001 pubblica, in collaborazione con la fondazione Craxi, un album fotografico intitolato “Craxi. Una Storia“, ricco di fotografie che raccontano non solo il politico e lo statista, ma anche e soprattutto l’uomo Craxi.

Sulla stessa linea nel 2005, insieme all’editore Sapere 2000 pubblica un libro intitolato “Segreti e Misfatti – Gli ultimi vent’anni con Craxi“, un opera che dal sapore biografico, con prefazione del giornalista Antonio Ghirelli, ricca di aneddoti personali che la critica all’epoca definì come un racconto contenente giudizi, pensieri e ricordi di Craxi.

Al di la del legame personale con Craxi, Cicconi si è occupato anche di altro nella propria carriera, pubblicando numerose fotografie su riviste di attualità e politica come L’Espresso, Panorama, Oggi, e Chi.

Volendo esprimere un giudizio critico su Cicconi, possiamo dire che le sue fotografie, le sue raccolte e le sue mostre fotografiche, hanno raccontato parte della storia quotidiana, politica e non solo, del novecento italiano. E proprio su questo tema si è concentrata una delle sue mostre più importanti, realizzata collaborazione con la Casa del Cinema di Roma, in cui sono state esposte, nel 2010, decine di fotografie dell’Italia dal secondo dopoguerra al boom economico.

Per quanto riguarda la vicinanza di Cicconi alla famiglia Craxi, come anticipato nell’apertura, questa è evidente, la stessa Ananda Craxi, nipote di Bettino, precisa, nella postfazione all’opera che Cicconi, durante gli anni dell’esilio tunisino di Craxi, è rimasto al fianco di Bettino.

La struttura del libro

Chiusa la parentesi sull’autore che, utile per capire meglio quali possono essere i limiti dell’opera, guardiamo ora alla struttura del libro.

Copertina del libro Bettino Craxi, i suoi ultimi vent'anni, di Umberto Cicconi, edito da Diarkos editore
Copertina del libro Bettino Craxi, i suoi ultimi vent’anni, di Umberto Cicconi, edito da Diarkos editore

La biografia si apre con tre prefazioni, la prima a cura di Bobo Craxi, figlio di Bettino, la seconda, a cura di Giancarlo Governi e la terza a cura di Antonio Ghirelli, già curatore della prefazione di Segreti e Misfatti.

Alle prefazioni, che raccontano il legame dell’autore con il soggetto della biografia, fa seguito il vero corpus narrativo dell’opera, in cui Craxi viene raccontato da diverse angolazioni, con una narrazione trasversale che, attraverso l’uso massiccio di aneddoti, racconta gli ultimi 20 anni della vita di Craxi, dall’esperienza politica degli anni ottanta, fino alla fine dei suoi giorni ad Hammamet.

Seguono poi la postfazione di Ananda Craxi , nipote di Bettino e in fine, ma non meno importante, un capitolo intitolato “Profilo biografico di Bettino Craxi” curato da Angelo Ruggieri, già curatore della biografia di Craxi presente nel primo libro di Cicconi “Segreti e misfatti”.

Quest’ultimo tassello dell’opera si configura come una breve biografia che, in forma cronistica, traccia in modo estremamente puntuale i momenti salienti della vita di Benedetto Craxi, dalla sua nascita a Milano, presso la Clinica di via Macedonio Melloni il 24 febbraio 1934, alle 5 del mattino, passando per le tappe fondamentali della sua carriera politica, fino all’esilio e poi alla morte, avvenuta il 19 gennaio del 2000, alle 16:30.

Ruggiero ci fornisce un autentica crono storia di Craxi, puntuale e fattuale in cui gli avvenimenti che hanno segnato la vita dell’uomo e del politico, vengono esposti in maniera pura, senza alcun tipo di giudizio personale e vizi di forma.

La biografia

Prefazioni, postfazione e biografia finale sono ornamenti fondamentali per comprendere a meglio l’opera, ma la sua vera essenza si riversa nei 21 capitoli curati da Cicconi.

Questi, come anticipato, raccontano circa vent’anni di vita e storia Craxi, in modo trasversale, attraverso un massiccio utilizzo di aneddoti e considerazioni dell’autore.

Ognuno di questi capitoli, proprio per la loro natura trasversale, può essere letto in maniera scollegata da tutti gli altri, il lettore ha quindi la possibilità di soffermarsi su uno o più temi, senza dover necessariamente leggere l’intera opera, io stesso, durante la seconda lettura del libro, ho preferito soffermarmi solo su alcuni capitoli.

Particolarmente toccanti e vividi sono quei capitoli che forniscono una narrazione umana e personale, molto intima per certi versi, come ad esempio il capitolo dedicato alla famiglia Craxi che, da pagina 145 a 152 ci racconta una dimensione di Craxi esterna alle cronache e vicissitudini politiche.

Vi è un passaggio a pagina 149 in cui Cicconi racconta un aneddoto che ha come protagonisti se stesso, Bettino e Anna Maria Moncini, moglie di Craxi.

L’autore racconta di una festa alla quale, tra gli altri era presente l’allora segretario del PSDI Pietro Longo. Terminata la festa, mentre tutti rincasavano Craxi chiese a Cicconi se avesse trovato posto in albergo, Cicconi racconta che durante tutta la serata aveva detto di non aver trovato posto in albergo, allora Craxi, dopo una risata, lo invitò a passare la notte in casa sua e Anna aggiunse che bisognava procurargli anche un pigiama e una camicia per l’indomani, poiché Cicconi non aveva portato con se nulla.

L’aneddoto continua raccontando che, all’indomani mattina, Anna gli portò il caffè in camera.

Questo aneddoto è uno dei tanti che compongono il libro, e tra i tanti mi ha colpito particolarmente per la sua genuinità, è un ricordo personale, molto intimo e in un certo senso dolce che rimarca la già menzionata vicinanza dell’autore alla famiglia Craxi e che, allo stesso tempo, ci racconta l’uomo Craxi e non il politico o lo statista.

Ed è proprio in questo tipo di aneddoti che la biografia acquisisce il proprio valore, unico e inestimabile, poiché ci fornisce un racconto umano, ci racconta le sensazioni e le emozioni di Craxi attraverso la sua vita quotidiana.

In queste pagine non troviamo molto spazio per i grandi momenti politici, troviamo invece l’armonia familiare di un Craxi che si risveglia da una pennichella pomeridiana in una giornata di riposo, di una passeggiata domenicale, di una cena in famiglia, di una colazione veloce, ancora in vestaglia e pigiama.

Troviamo l’intimità e la normalità di uno dei grandi e controversi protagonisti della recente storia italiana.

Se da un lato capitoli come quello sulla famiglia Craxi sono in grado di strappare un sorriso al lettore che immagina il grande statista sporcarsi la camicia con del caffè durante la colazione, altri, come il capitolo dedicato alla parentesi tangentopoli, proiettano l’uomo nel contesto politico dell’Italia dei primi anni novanta, un Italia attraversata da scandali e inchieste giudiziarie che, nella narrazione dell’autore, Craxi visse con grande preoccupazione e solitudine.

Questi capitoli sono a mio avviso i più problematici, proprio per effetto della vicinanza dell’autore al protagonista della biografia, che in un momento storico di grande tensione e incertezza, viene raccontato in modo parziale. L’opera purtroppo, manca di distacco storico e i ricordi personali dell’autore, mettono in secondo piano le problematiche giudiziarie dello statista.

Considerazioni personali sul libro

L’opera in se è molto interessante e fornisce un racconto diverso, un immagine di Craxi che difficilmente troviamo in altre opere e in altre narrazioni. Quello di Cicconi è un racconto molto appassionato e vivido, sicuramente di parte per effetto del suo legame personale con Craxi, ma allo stesso tempo interessante.

Se si tiene a mente questo legame durante la lettura, e l’autore non mancherà di ricordarlo in tutto il corpus narrativo dell’opera, l’esperienza della lettura è sicuramente interessante e appagante.

Il libro è scritto in modo eccellente, la lettura è fluida e il lettore, grazie agli innumerevoli aneddoti è incentivato dalla curiosità ad andare avanti. In altri termini è un libro ben scritto, che si legge bene, in modo fluido, ma, bisogna stare attenti a non cadere nell’illusione.

Cicconi è un amico, quasi un figlio per Craxi, vede se stesso come parte della famiglia Craxi e la stessa famiglia Craxi lo vede e tratta come parte della famiglia e questo conduce al problema dell’imparzialità, che manca in modo assoluto nel libro.

La narrazione non è imparziale e non vuole esserlo, ma questo, per assurdo, non è un problema, non lo è perché l’autore è perfettamente consapevole del suo essere di parte e non lo nasconde ma al contrario lo ribadisce più e più volte nell’opera.

Come scritto da Bobo Craxi nella prima prefazione al libro, “Bettino Craxi, i suoi ultimi vent’anni” è un lungo omaggio affettuoso alla figura di Craxi, ed è esattamente così che deve essere trattato il libro. Come un racconto familiare, come un ricordo dell’uomo al di la della politica e delle vicende giudiziarie e, anche in quei più momenti cupi, l’autore rimane vincolato e fedele all’uomo, all’amico, senza alcuna pretesa di voler fornire una narrazione oggettiva e superpartes.

Se devo esprimere un giudizio complessivo sul libro, direi che alcuni capitoli sono più validi di altri e avrei preferito un libro con qualche capitolo in meno.

Non me ne voglia Cicconi, ma se avesse omesso i capitoli su Tangentopoli, sul primo governo socialista dell’Italia repubblicana e i capitoli sulle vicissitudini giudiziarie, lo avrei apprezzato molto di più.

A tal proposito, consiglio particolarmente la lettura dei capitoli sulla Famiglia Craxi e il capitolo intitolato “padri e figli” e sconsiglio il capitolo “Le Regole ci sono, ma gli arbitri sono di parte”.

Quest’ultimo è forse il capitolo nero del libro, un capitolo a mio avviso totalmente sbagliato, e per certi versi fuori luogo, che non dovrebbe essere presente nel libro, perché racconta un Craxi vittima, puntando il dito, proponendo giudizi, quasi puntando il dito contro la magistratura per aver svelato i misfatti dell’ex presidente del consiglio.

Un capitolo in altri termini vittimista e fazioso, di carattere politico, oltre che polemico, che, a mio avviso stona con i temi e i toni, del resto dell’opera.

Conclusioni

Bettino Craxi, i suoi ultimi vent’anni, è un libro da prendere con le pinze, per una buona lettura dell’opera, il lettore deve essere costantemente attento, per distinguere fatti e considerazioni personali. L’autore non manca di sottolineare la propria vicinanza a Craxi, e, se questa vicinanza nella maggior parte del libro, quando si parla dell’uomo Craxi rappresenta un valore aggiunto, in altre parti del libro, quando si parla del politico e dello statista Craxi, soprattutto in rapporto alle vicende giudiziarie dell’ex primo ministro, rappresentano un forte elemento di criticità che porta l’autore a commentare e raccontare da un punto di vista molto personale, alcuni eventi e avvenimenti storici che invece andrebbero affrontati con un forte distacco emotivo che nell’intera opera manca totalmente.

Ucraina: Via al ritiro delle truppe russe dal Confine. Per Mosca il Ritiro era pianificato da tempo.

Mosca ritira le truppe dal confine ucraino, continuando a parlare di isteria occidentale

Per la Russia sono finite le esercitazioni, non c’è alcun merito dell’occidente nel ritiro delle truppe dal confine con l’Ucraina e continua la retorica dell'”isteria occidentale”.

Ora, la domanda da porsi è, in cosa si stavano “esercitando” accerchiando l’Ucraina?

La risposta più ovvia a questa domanda, che non vedrà mai un ammissione da parte della Russia è che, si stavano esercitando all’invasione dell’Ucraina.

Probabilmente l’intento russo era quello di mettere pressione al paese confidando sul menefreghismo europeo e americano, facendo leva sul proprio Gas Naturale da cui l’Europa è dipendente.

Questa leva però, non ha funzionato, questa volta, grazie all’attivazione di canali alternativi che avrebbero portato Gas in Europa da altre parti del mondo.

Le esercitazioni, che nelle mire del Cremlino, servivano a sondare il terreno in vista di un occupazione su larga scala dell’Ucraina, hanno dato l’esito inverso, ed hanno portato alla Russia un messaggio chiaro, forte e deciso, la Russia, non può invadere ulteriormente e impunemente uno stato sovrano (di cui comunque controlla ancora un importante regione, la Crimea).

Ufficialmente la Russia sta ritirando le proprie truppe, ma, le sta ritirando davvero? Secondo la NATO non è proprio così, ma di questo parleremo più avanti nel post.

Ora però si apre un nuovo scenario.

In Ucraina c’è una forte presenza di militari occidentali, che, ufficialmente sono lì in difesa della sovranità dell’Ucraina su richiesta della stessa Ucraina, ma, allo stesso modo, per le correnti filorusse del paese, possono apparire ed essere raccontate come forze di occupazione.

In altri termini, possiamo aspettarci che, nei prossimi mesi, se i militari occidentali rimarranno nel paese, la Russia, inizierà a raccontare questa versione, probabilmente coadiuvata dalle varie forze filorusse di tutta l’Europa orientale, e delle varie leadership sovraniste (molto vivine a Putin).

La domanda che quindi dobbiamo porci a questo punto è, quanto gli USA rimarranno in Ucraina? e, se l’Ucraina chiederà agli USA di lasciare il paese, lo faranno senza obiettare? o la paura di un invasione russa dell’Ucraina restituirà, agli occhi di molti, l’immagine di un avvenuta invasione americana dell’Ucraina?

Quasi certamente, nei prossimi mesi, sentiremo parlare di imperialismo americano a danno della sovranità Ucraina, da parte di un paese, la Russia, che, fino a ieri, ammassava soldati, e mezzi ai confini dell’Ucraina.

Tornando alla NATO di cui sopra.

La NATO, come anticipato, non è certa dell’effettivo ritiro, o del fatto che il ritiro fosse programmato, e, l’esempio storico della recente crisi in Crimea, in seguito occupata dalla Russia, parla da solo.

Già all’epoca la Russia iniziò delle esercitazioni al confine, per poi ottenere un referendum, privo di alcun valore, in cui la minoranza Russa della regione, richiedeva l’indipendenza della Crimea dall’ucraina e l’annessione alla Russia.

Contestualmente al referendum, ricordiamo, fecero ingresso in Crimea, numerosi uomini armati e mezzi, senza bandiera, che, ufficialmente non erano legati in alcun modo alle forze armate Russe, anche se poi, finita la crisi e ottenuta l’annessione, sulle uniformi di quegli uomini sono magicamente apparse bandiere russe.

Molto probabilmente la Russia intende ripetere la stessa strategia, con una differenza sostanziale rispetto al 2014. All’epoca l’Ucraina venne abbandonata dal resto del mondo, con l’Europa che guardava dall’altra parte e gli USA che guardavano da lontano. Oggi invece, nel paese, c’è una massiccia presenza occidentale e la possibilità che il paese entri a far parte della NATO.

Ucraina nella NATO

Il possibile ingresso dell’Ucraina nella NATO è, senza troppi giri di parole, il fattore scatenante di questa crisi, la Russia, per sua stessa ammissione, non vede di buon occhio l’espansione della NATO ad oriente, e non gradisce un paese NATO ai propri confini, soprattutto se quel paese garantisce alla NATO un accesso secondario al Mar Nero, il cui ingresso è controllato da un altro paese membro dell’alleanza atlantica, la Turchia.

Se dovesse concretizzarsi l’adesione dell’Ucraina al patto atlantico, il potere di negoziazione della Turchia verrebbe meno, e, quel paese strategicamente significativo, che per la propria posizione gode di imponenti scudi diplomatici che gli garantiscono impunità ai propri crimini, si ritroverebbe costretto a dover ammorbidire le proprie posizioni.

Allo stesso tempo però, la Turchia, rappresenta una risorsa fondamentale per l’Europa, sia per quanto riguarda il controllo dei flussi migratori, poiché il paese trattiene gran parte dei migranti della rotta balcanica, sia perché il paese anatolico ospita uno dei principali oleodotti e gasdotti che trasportano gas e petrolio in europa.

La Turchia gioca quindi un ruolo chiave per l’Europa, nel frenare le pressioni Russe, permettendo in parte all’Europa di non piegarsi ai ricatti energetici di Putin, ma questo ha un prezzo, e il prezzo è che ora, la Turchia, se da un lato perde una piccola parte della propria centralità nel controll o del Mar Nero, dall’altra acquisisce centralità e importanza sul piano energetico, diventando potenzialmente uno dei principali interlocutori dell’Europa, per quanto riguarda l’afflusso di idrocarburi e gas naturale.

I Savoia rivogliono i Gioielli della Corona custoditi da Banca d’Italia

I Savoia rivogliono i gioielli della corona custoditi dalla Banca d’Italia ma, lo statuto albertino dice che quei gioielli, anche in età monarchica, non appartenevano ai Savoia.

I Savoia rivogliono i “gioielli della corona” custoditi presso la Banca d’Italia, sostenendo che appartengono a loro.

Facciamo allora un discorso storico in merito a quei gioielli per capire a chi appartengono e se c’è un fondo di legittimità nelle richieste avanzate dall’ex famiglia reale.

Premetto che, la risposta più breve alla domanda “a chi appartengono i gioielli della corona” è che quei gioielli appartengono, anzi, appartenevano alla corona, non alla famiglia regnante o a chi portava la corona e dunque, la loro rivendicazione è illegittima.

Questa asserzione parte dal diritto, parte dai documenti, un documento in particolare che, nell’Italia monarchica aveva un enorme rilevanza, ovvero lo statuto albertino, la costituzione del regno d’italia.

Nello statuto figurano 2 articoli, 19 e 20 in cui si parla della corona e del tesoro della corona.

Per completezza ve li riporto, ma se non vi fidate cliccando qui verrete rimandati sul sito del senato dove c’è il testo integrale dello statuto albertino. Sono solo 9 pagine.

Art. 19. – La dotazione della Corona è conservata durante il Regno attuale quale risulterà dalla media degli ultimi dieci anni. Il Re continuerà ad avere l’uso dei reali palazzi, ville e giardini e dipendenze, non che di tutti indistintamente i beni mobili spettanti alla corona, di cui sarà fatto inventario a diligenza di un Ministro responsabile. Per l’avvenire la dotazione predetta verrà stabilita per la durata di ogni Regno dalla prima legislatura, dopo l’avvenimento del Re al Trono.

Art 20. – Oltre i beni, che il Re attualmente possiede in proprio, formeranno il privato suo patrimonio ancora quelli che potesse in seguito acquistare a titolo oneroso o gratuito, durante il suo Regno. Il Re può disporre del suo patrimonio privato sia per atti fra vivi, sia per testamento, senza essere tenuto alle regola delle leggi civili, che limitano la quantità disponibile. Nel rimanente il patrimonio del Re è soggetto alle leggi che reggono le altre proprie

Come possiamo vedere, questi articoli, stabiliscono che la corona, in quanto oggetto fisico e con essa i gioielli della corona, sono dati in dotazione al Re, che può disporne, ma la loro proprietà è dello stato, che in quel momento era il regno d’Italia.

Lo statuto albertino precisa che il Re è l’amministratore del Regno ma non ne è il proprietario, in quanto lo statuto albertino è lo statuto, la costituzione, di un regno moderno e non di una monarchia assoluta. Nei suoi articoli, con tutte le limitazioni del caso, si riconosce comunque la sovranità al popolo italiano, che smette di essere suddito.

Il Re regna ma non governa, per usare una dicitura in voga nella seconda metà del XIX secolo.

Per dirla in modo più semplice, la corona rappresenta la sovranità in una monarchia e lo statuto albertino stabilisce che la sovranità appartiene al popolo ed il popolo, tramite il parlamento, la “cede” al Re.

Questo comporta un passaggio obbligatorio in parlamento per la monarchia, passaggio che segna l’effettiva nascita del regno d’Italia con la legge 17 del marzo 1861 il cui testo recita

Il Re Vittorio Emanuele II assume per sè e pei suoi successori il titolo di Re d’Italia. Ordiniamo che la presente, munita del sigillo dello Stato, sia inserta nella raccolta degli atti dal Governo mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato. Data a Torino addì 17 marzo 1861.

Nel regno d’Italia quindi, la corona è data in dotazione al Re e con essa i gioielli, ma cosa succede quando la monarchia smette di esistere?

Durante il referendum del 1946 il popolo italiano è stato chiamato ad esercitare il proprio diritto “costituzionale” riconosciutogli dallo statuto albertino e dunque è chiamato a decidere se se rinnovare la monarchia o riprendersi la sovranità (e con essa la corona) ed esercitarla in forma diversa, la forma della repubblica.

L’esito del referendum lo conosciamo, ha vinto la Repubblica e la monarchia è stata sciolta, in questo articolo vi spiego anche come e perché.

La corona quindi, con il referendum del 46 è tornata al popolo, che l’ha poi affidata, in dotazione temporanea (cinque anni) al parlamento, visto che ha prodotto una repubblica parlamentare in cui, parafrasando l’articolo 1 della costituzione la sovranità appartiene al popolo che la esercita attraverso il parlamento chiamato a legiferare.

Tornando però ai gioielli della corona, nel momento in cui la famiglia Savoia è stata privata dei propri titoli ed il Re ha smesso di essere il portatore della corona, ha anche perso il diritto ad utilizzare quei gioielli, la cui proprietà, ricordiamo i sopracitati articoli 19 e 20 dello statuto albertino, appartenevano alla “corona” e non al portatore della corona, appartenevano al regno d’Italia.

Concludiamo quindi la nostra avventura dicendo che, i gioielli della corona del regno d’Italia appartenevano e appartengono tutt’ora allo stato Italiano e non alla famiglia Savoia.

Hanno ancora senso di esistere le regioni in italia? | Podcast

Nella prima puntata parliamo di attualità italiana, e con uno sguardo storico ci caliamo nel dibattito tra regioni e governo, nello specifico tra la Regione Campania di Vincenzo de Luca e il ministero dell’Istruzione di Patrizio Bianchi, sul tema della riapertura in presenza e DAD nelle scuole italiane a partire da oggi.
Un dibattito politico, giuridico e, soprattutto mediatico, perché se da una parte la decisione della Campania di non ripartire in presenza dal 10 gennaio fa eco, la stessa decisione, presa da altre regioni, è passata decisamente in sordina.

Le origini del concetto di Bisessualità

Il concetto di bisessualità viene usato per la prima volta nel 1886, ed è inizialmente considerata una forma di malattia mentale.

La storia della bisessualità è antica come l’uomo, come ci insegna Eva Cantarella nel suo libro Secondo natura, la bisessualità nel mondo antico, tuttavia il concetto di bisessualità è relativamente recente, soprattutto il suo utilizzo applicato alla sfera sessuale.

In questo post andremo alle origini del concetto di bisessualità, applicato alla sfera sessuale cercando di decifrare il contesto storico culturale in cui questo concetto appare per la prima volta.

Il concetto di bisessualità

Il concetto di bisessualità è un concetto coniato nel XIX secolo e originariamente apparteneva al mondo della botanica, ma, sul finire del secolo, venne preso in prestito dalla psichiatria tedesca e utilizzato nello spettro delle malattie mentali.

Il termine bisessuale venne utilizzato per la prima volta in riferimento alla sessualità, nel 1886, nel trattato Psychopathia Sexualis di Richard Freiherr von Krafft-Ebing.

Nella stessa opera appaiono anche per la prima volta i termini Sadismo e Masochismo, derivati dal nome del “marchese De Sade”. Questi due concetti sono stati coniati di proprio pugno da Krafft-Ebing, diversamente il termine bisessuale, come anticipato, è stato preso in prestito dalle scienze botaniche, dove era utilizzato da oltre mezzo secolo.

Psychopathia Sexualis è un testo molto controverso e alo stesso tempo rilevane, non tanto per le proprie teorie ma per il ruolo che ha ricoperto nella storia della sessualità, si tratta infatti di uno dei primissimi studi sul tema, purtroppo però, è un testo figlio del proprio tempo, scritto sul finire del XIX secolo da un uomo del XIX secolo.

Nel testo lo psichiatra tedesco si concentra soprattutto sul tema dell’omosessualità maschile, e, insieme ai tre concetti sopracitati, la inserisce tra le “patologie sessuali” o più comunemente parafilie.

Nella sua opera Krafft-Ebing fonde insieme le teorie di psichiatrica di Karl Ulrichs alla teoria della malattia di Bénédict Morel, arrivando a concludere che “la maggior parte degli omosessuali soffre di una malattia mentale“.

Il testo, estremamente popolare all’epoca, per il quale in appena 6 anni, tra il 1886 e il 1892 vennero realizzate 7 diverse edizioni (dalla settima edizione il testo è stato tradotto anche in lingua inglese), è stato considerato per molto tempo un pilastro delle scienze psichiatriche ed ha avuto una fortissima influenza sulla prima psichiatria forense, nonostante ciò, già dalla prima pubblicazione è stato considerato estremamente controverso e aspramente criticato da diversi ambienti.

Controversie legate al libro di Krafft-Ebing

Come anticipato, il libro, già nel 1886 suscitò scalpore e rabbia, soprattutto negli ambienti ecclesiastici e la chiesa fu tra i più accesi detrattori delle teorie di Krafft-Ebing, anche se, la motivazione delle critiche, purtroppo depone troppo a loro favore del mondo ecclesiastico.

Per la chiesa del XIX secolo, gli uomini bisessuali ed omosessuali erano peccatori, non malati e la malattia mentale costituiva, una forma di “assoluzione morale” dei peccatori che la chiesa non poteva accettare.

In pratica la chiesa attaccava le teorie di Krafft-Ebing perché, considerando omosessuali e bisessuali dei malati di mente, li assolveva dai propri peccati e ciò era inammissibile, in altri termini la malattia mentale era considerata una scusa, una giustificazione, per compiere atti contro natura.

Sul finire del XIX secolo e gli inizi del XX, la bisessualità maschile e l’omosessualità maschile, si trovarono sotto il fuoco incrociato della scienza dell’epoca, che li considerava malati mentali e della chiesa che li considerava peccatori immorali. Diversamente, la bisessualità femminile invece era “accettata” o per meglio dire, tollerata, e in alcuni casi richiesta, soprattutto nei bordelli… ma questa è un altra storia.

Società segrete, poteri occulti e complotti, di Roberto Paura | Guida alla lettura

Guida alla lettura del saggio Società Segrete, poteri occulti e complotti di Roberto Paura, edito da Diarkos.

Lo scorso agosto Diarkos Editore mi ha inviato il libro di Roberto Paura, Società Segrete, poteri occulti e complotti, edito da diarkos, al fine di realizzare una guida alla lettura o comunque una recensione.

Ho appena finito di leggerlo e queste sono le mie prime impressioni, seguirà la guida alla lettura e forse un intervista all’autore per il podcast L’Osservatorio.

Prima di cominciare con l’analisi e guida alla lettura, come al solito, voglio aprire una parentesi sull’Autore.

Chi è Roberto Paura?

Roberto Paura è un giovane divulgatore scientifico, laureato Relazioni e Politiche Internazionali presso l’Università di Napoli “L’Orientale” che ha collaborato e collabora con diverse realtà divulgative, tra cui le riviste i Il Tascabile, L’Indiscreto, Delos Science Fiction, e la rivista Query del CICAP.

Tra i suoi libri incontriamo titoli di diverso genere, che si occupano di storia e scienza, soffermandosi, sul piano storico, soprattutto sul periodo illuminista, in particolare il periodo che va dalla rivoluzione francese alla caduta di napoleone, attraverso i libri La strada per Waterloo. Declino e caduta dell’Impero napoleonico, Odoya, Bologna, 2014, ISBN 978-8862882415, Storia del Terrore. Robespierre e la fine della Rivoluzione francese, Odoya, Bologna, 2015, ISBN 978-8862882811 e Guida alla Rivoluzione francese, Odoya, Bologna, 2016, ISBN 978-8862883276.

Oltre a questo, Roberto Paura è fondatore e promotore dell’Italian Institute for the Future, un associazione che si pone l’obiettivo di diffondere in Italia i futures studies e la futurologia sociale, una branca di ricerca, e soprattutto di pensiero, diffusasi a partire dagli anni 50, che ha come obbiettivo “lo studio del futuro”, ovvero l’analisi dell’attualità nel tentativo di individuare la direzione che l’umanità sta prendendo.
Conosco poco questo settore disciplinare, se interessati vi rimando ad un articolo di Roberto Cobianchi, in cui racconta i futures studies. Cercando in rete è presente anche un articolo dello stesso Roberto Paura sui futures studies.

Inquadrato l’autore, cerchiamo di capire il libro, e, come in tutte le mie guide alla lettura, voglio soffermarmi soprattutto su quelli che reputo i difetti e le mancanze, in modo che, grazie a questa guida, la lettura del libro possa essere il più possibile chiara e semplice.

Osservazioni generali sul libro Società Segrete, poteri occulti e complotti.

Cominciamo con il dire che la prefazione/introduzione in cui si parla e osservano le fallace della teoria cospirativa QAnon, raccontandone la genesi, gli elementi caratterizzanti. L’introduzione è a mio avviso la parte migliore dell’intero libro perché permette al lettore di partire dall’attualità, per andare poi a studiare fenomeni analoghi nel passato, come le varie teorie cospirative che si sono susseguite nei secoli. Il tutto risulta molto interessante, così come è molto interessante il racconto e la ricostruzione delle varie teorie cospirative che viene fatto nell’intero libro attraverso i vari capitoli dedicati alle varie teorie.

Per come è strutturato il libro può essere letto in ordine sparso, nel senso che, i vari capitoli non sono propedeutici al capitolo successivo, si può quindi scegliere la teoria cospirativa o “società segreta” che si preferisce o si reputa più interessante, e leggere ciò che l’autore ha scritto, indipendentemente dal resto del libro.

Nel complesso il saggio si organizza come una serie di racconti storici, ricchi di dettagli e informazioni, anche se, da per scontate alcune informazioni e passaggi che, a mio avviso, sarebbe stato meglio includere nel libro al fine di fornire al lettore una una maggiore comprensione dei fenomeni trattati.

Senza troppi giri di parole, il libro è interessante, ma ha delle mancanze, che lo penalizzano molto. Mancano delle informazioni chiave che, se inserite, avrebbero alzato di molto il valore dell’intero volume e reso la comprensione dei fenomeni storici analizzati, molto più semplice anche per lettori inesperti. Senza queste informazioni è purtroppo molto facile cadere in un errata interpretazione del fenomeno e trarre conclusioni errate.

Il saggio di Roberto Paura presenta però anche un altro “difetto” se così lo si può chiamare, relativo alle fonti utilizzate, o meglio, relativo al modo in cui le fonti vengono utilizzate.

Nello specifico, tra le fonti citate incontriamo saggi storici e filosofici, opere analitiche e letterarie e si passa da un contesto all’altro in modo molto repentino, e senza segnalazioni di sorta.

Per fare un esempio pratico, durante la narrazione di un fenomeno come la rivoluzione francese, si raccontano alcuni aneddoti legati al romanzo Cagliostro di Alexander Dumas, intrecciando questi elementi narrativi agli avvenimenti storici e le varie teorie cospirative, con il rischio di far passare concetti errati, come ad esempio l’idea che prima della rivoluzione francese si discutesse e prevedesse una rivoluzione, perché nel libro di Dumas, successivo alla rivoluzione, ci viene raccontata questa storia.

Va però detto che è possibile sopperire a questo difetto prestando attenzione ai riferimenti bibliografici presenti nel testo cosa che, per un lettore “esperto” risulta naturale, ma che, un utente alle prime armi, che non è pratico della lettura critica di un saggio, generalmente non fa.

Il mio consiglio a tal proposito è quello di avere sempre un occhio rivolto alle fonti citate a pie pagina, così da capire esattamente se il passaggio che è stato appena letto è storico, filosofico o narrativo.

Conoscenze preliminari necessarie per una lettura efficace.

Come anticipato, nel libro ci sono delle mancanze, che rendono necessarie al lettore alcune conoscenze preliminari, a mio avviso importanti per una maggiore comprensione del testo.

Un primo elemento mancante, che mi è dispiaciuto non incontrare, soprattutto perché nei primi capitoli si affrontano le teorie del complotto di epoca illuminista, è il tema del Realismo Politico di matrice Hegeliana. Hegel è stato, insieme a Thomas Hobbes tra i primi filosofi ad ipotizzare quello che oggi definiamo “realismo politico” o “realpolitik”, anche se, un precedente a queste idee lo incontriamo già nel Principe di Machiavelli. Detto molto brevemente, il realismo politico, in chiave filosofica, è la teoria per cui la politica mente a priori. La politica, o più precisamente, il potere, di cui, secondo Weber, la politica è un espressione, mente per il mantenimento del potere, e questo attraverso diversi contesti e interessi, la politica può mentire per interessi “politici”, economici, sociali, culturali, personali, bellici, ecc, in definitiva, indipendentemente dalle motivazioni, la politica (attraverso i politici) ed il potere, mentono, in modo più o meno ampio.

In un saggio che affronta il tema del complottismo e delle teorie cospirative, per quando mi riguarda, non può mancare una parentesi sul realismo politico, o quanto meno accennare a tale teoria, perché grazie ad essa l’autore può fornire al lettore, uno strumento critico e di analisi dei fenomeni che si vanno a raccontare, inoltre, grazie a questo elemento, la comprensione delle varie teorie cospirative e della loro genesi, apparirebbe molto più chiara. Tuttavia, l’assenza di una parentesi legata al realismo politico non discrimina troppo la narrazione generale del libro che, se bene non ne parli direttamente, lascia intuire che la maggior parte delle teorie cospirative, sono per lo più fenomeni reazionari a momenti di turbamento volte al conseguimento o comunque al mantenimento del potere.

Altro elemento che mi è dispiaciuto non incontrare, è un accenno alle origini dell’ordine dei Rosa Croce. Ordine che viene citato e chiamato in causa in diverse occasioni nel corso dei vari capitoli, ma in merito al quale, non viene detto molto, e soprattutto, non ci vengono raccontate le origini dell’ordine.
Non ci viene detto che le sue origini sono ignote, sia in età moderna che contemporanea, non ci viene detto l’ordine “vero e proprio” appare solo nel XVIII secolo e che prima d’allora abbiamo solo vaghi riferimenti simbolici, disconnessi e scostanti tra loro e questa informazione mancante, determinante per analizzare le varie teorie legate all’ordine, fa si che l’ordine venga percepito dal lettore come un ordine “millenario”, strutturato e organizzato, che sopravvive attraverso i secoli, percezione che, tuttavia, non coincide con la realtà storica dell’ordine dei Rosacroce.

Apriamo quindi una parentesi sui rosacroce, così che la lettura del saggio possa essere più semplice grazie a questa guida.

Una delle ipotesi più accreditate riguardante l’origine dell’ordine dei rosacroce vedrebbe la nascita effettiva dell’ordine solo in età illuminista, più precisamente nel XVIII secolo, e vedrebbe questo ordine inizialmente fittizio, costruito artificialmente da un solo uomo che ne aveva codificato la ritualità sulla base dei riti e della simbologia massonica, attraverso l’appropriazione indebita di simboli precedenti, creando così l’apparenza di una simbologia antica e millantando un ordine millenario.

Se torniamo all’introduzione del saggio, possiamo osservare che, questo stesso fenomeno, viene messo in atto dalla teoria QAnon, che, come ci viene detto nel libro, individua simboli e gestualità, attribuendo ad essa dei significati specifici, per cui, l’individuazione di quei simboli in determinati contesti, diventa espressione di appartenenza a qualche strana società segreta e cospirazione.

Conclusioni personali

Per concludere, visto il background autoriale di Roberto Paura, mi aspettavo che il contesto filosofico e culturale in cui si sono sviluppate le varie teorie del complotto, in particolare le teorie risalenti al XVIII e XIX secolo, venisse raccontato non solo per fare da sfondo alla narrazione delle teorie cospirative che circolavano in quegli anni, ma anche, e soprattutto, per ragionare sulle origini di quelle teorie cospirative.

In definitiva, il libro di Roberto Paura è un racconto quasi cronistico delle varie società segrete e teorie cospirative ad esse collegate e che si sono succedute nei secoli, è un libro sicuramente interessante, ma poco ambizioso, al quale però manca quello slancio in più, quella componente più analitica e riflessiva, sui fenomeni storici che va a raccontare, che lo avrebbe reso un piccolo tesoro, storiografico oltre che divulgativo.

Il saggio ha un carattere prettamente divulgativo, la narrazione è avvincente, densa, divertente e mai noiosa, ed è un vero peccato che manchi quella decina di pagine, quel capitolo, quella postfazione analitica, in più che lo avrebbe reso, allo stesso tempo, più semplice per un pubblico inesperto e adatto anche ad un pubblico esperto.
Così com’è il libro si colloca in un limbo per il quale non riesco a trovare un pubblico adatto, nel senso che sono richieste, per una lettura ampia e completa, diverse conoscenze preliminari, storiche e filosofiche, senza le quali i vari saggi contenuti nel libro possono risultare incompleti, confusionari, o, nel peggiore dei casi, portare il lettore ad un errata comprensione del fenomeno storico raccontato.

Allo stesso tempo però, ad un lettore più esperto, che ha già una discreta conoscenza delle varie teorie relative a società segrete e cospirazioni, il libro non da molto in più su cui riflettere.

Detto questo, per una buona lettura del saggio, da parte di un lettore inesperto, consiglio caldamente, come già detto in precedenza, di fare molta attenzione alle note bibliografiche e alle fonti citate, in modo da avere ben chiaro ciò di cui si è letto e riuscire a mettere in ordine le informazioni, senza che elementi storici e narrativi si intreccino tra loro.