Sono laureato in storia contemporanea presso Unipi.
Su internet mi occupo di divulgazione, scrivo storie di storia, geopolitica, economia e tecnologia.
I titoli di stato statunitensi (Treasury), come ci si aspettava, stanno attraversando un periodo di forte instabilità per effetto della crisi dei mercati innescata dai nuovi dazi USA e i contro dazi che il resto del mondo ha e potrebbe applicare nel breve periodo.
L’effetto più diretto, in questi primi giorni, è un impennata dei rendimenti dei Treasuay conseguente al crollo dei prezzi e per la prima volta dalla crisi del 2008 i Treasury sono percepiti dagli investitori non più come un “porto sicuro”. De facto in questo momento (9 aprile 2025) sono considerati come strumenti che, pur presentando maggiori rischi, offrono potenziali rendimenti più elevati.
Come funzionano i titoli di stato
I titoli di stato sono sostanzialmente dei titoli di debito, quando uno stato li emette, ciò che succede è che chi li “acquista” presta dei soldi all’emittente e alla scadenza, l’emittente rimborserà il titolo, in base alla quotazione che il titolo ha in quel momento. Su questo titolo è applicato un tasso d’interesse che l’emissione è tenuto a pagare, con rate intermedie o al saldo.
Facendo un esempio pratico e banale, “io stato” emetto un titolo a 1000$ con scadenza a 10 anni, con un tasso d’interessi minimo del 2% annuo. “Tu investitore” mi presti 1000$ e tra 10 anni, io ti restituirò 1000$ , più 20$ all’anno, pagato per ognuno dei 10 anni, quindi un totale di 1200$.
Di base il funzionamento è questo, tuttavia, la quotazione il tasso d’interesse, possono variare nel tempo, a seconda della “credibilità” di chi emette il titolo.
Sostanzialmente, ciò che succede è che, se l’emittente gode di buona reputazione, allora il valore dei suoi titoli aumenta, perché sono emessi in maniera controllata e limitata e la domanda eccede l’offerta, quindi, se 10 persone vogliono i titoli di stato di un paese ma questi ne ha emesso solo 1, quel titolo varrà tanto e se tutti lo vogliono il tasso d’interesse rimane al minimo stabilito al momento dell’emissione. Se però quel titolo non lo vuole nessuno, allora l’emittente ne aumenta il tasso d’interesse, al fine di convincere gli investitori a comprarlo.
Rimanendo sull’esempio di poco fa, questo significa che se la quotazione scende, il tasso d’interesse sale dal minimo del 2% fino ad un massimo non definito.
L’aumento del tasso d’interessi rappresenta una buona opportunità per gli investitori, ma non per l’emittente e il paese, perché sostanzialmente significa più debito e debito più costoso da dover pagare agli investitori.
Il crollo del valore dei Treasury USA
Nelle ultime settimane il mercato dei titoli di stato americani ha registrato numerose e significative variazioni, che hanno fatto crollare il valore dei Treasury USA al ridosso dell’annuncio di nuovi Dazi da parte di Trump. Il crollo è causato da un incremento delle vendite dei titoli da parte degli investitori, e come abbiamo visto questo ha spinto l’aumento dei tassi d’interesse e di conseguenza dei rendimenti de Treasury USA, un evento più unico che raro poiché sono generalmente considerati dagli investitori tra i titoli più sicuri al mondo.
I titoli più colpiti sembrano essere i rendimenti dei Treasury a lungo termine, ad esempio i rendimenti dei Treasury trentennali sono passati dal 4,7 della scorsa settimana ad oltre l 5%mentre il decennale ha raggiunto il 4,35%.
Un andamento di questo tipo non lo si vedeva dalla primavera 2020, con l’inizio della pandemia e il congelamento degli scambi internazionali. Con una significativa differenza rispetto a quella crisi. Diversamente dal 2020, la crisi è innescata da una scelta politica che ha causato una forte perdita di fiducia è degli investitori nell’economia statunitense.
La perdita di fiducia è legata in larga parte al timore che i dazi voluti da Trump possano spingere gli Stati Uniti verso una recessione e, contemporaneamente, alimentare l’inflazione che negli USA è ancora molto alta per gli strascichi post pandemia.
Treasury a breve termine con rendimenti elevati
Volendo cercare un lato positivo in uno scenario di questo tipo, l’elevata volatilità dei Treasury rappresenta una buona opportunità di investimento, soprattutto per quanto riguarda Treasury a breve termine o con scadenza a breve termine.
Ipotizziamo di acquistare un Treasury dal valore di 1000$ da un investitore che lo sta liquidando, e pagarlo 900$ o anche meno, ipotizziamo anche che questo titolo scadrà tra un anno e in quest’anno il titolo pagherà a noi i tassi d’interesse, per assurdo ipotizziamo al 3%. Tra un anno gli USA, in teoria, dovranno liquidarci 1000$ più il 3% annuo, per un totale di 1130€, che significa un rendimento del 13%.
Sembra tantissimo e in effetti è tantissimo, ma come è possibile? Perché non c’è una corsa a questi titoli? E la risposta sta nel fatto che non sappiamo e non possiamo sapere domani quanto varrà questo titolo, quale sarà il suo rendimento al momento del pagamento e soprattutto, la sfiducia nei confronti dell’emittente fa sì che non abbiamo la certezza che il titolo verrà rimborsato al 100% del proprio valore di emissione. Ed è proprio questo elevato margine di rischio, che rende i rendimenti così alti.
In definitiva quindi, l’attuale contesto di mercato presenta sia rischi che opportunità per gli investitori interessati ai Treasury USA. La volatilità e l’aumento dei rendimenti offrono potenziali guadagni più elevati rispetto al passato, ma con un incremento proporzionale del rischio.
Rischi e opportunità legate ai Treasury USA
L’instabilità del mercato dei Treasury USA come abbiamo più volte ripetuto, è strettamente collegata alle tensioni commerciali e alle potenziali ripercussioni economiche dei dazi voluti da Trump.
In questo contesto i principali rischi per l’economia USA, ovvero la maggiore volatilità dei prezzi dei Treasury, possibile recessione economica negli Stati Uniti, pressioni inflazionistiche che potrebbero erodere i rendimenti reali e limitata capacità della Federal Reserve di intervenire efficacemente, rendono gli eventuali investimenti in Treasury USA non particolarmente sicuri.
Questi rischi però portano con se anche delle opportunità di Investimento, a patto che si accettino i rischi.
La prima e più visibile opportunità sono i rendimenti superiori al 4% per i Treasury a breve e medio termine, rendimenti assimilabili a quelli di alcuni ETF ETF come l’iShares e iBonds Dec 2025.
Inoltre un mercato volatile rappresenta un opportunità per gli operatori di trading, soprattutto per le transazioni e scambi di breve durata.
Conclusione
I Dazi di Trump hanno causato un vero e proprio terremoto finanziario e il mercato dei Treasury USA ne sta risentendo in modo particolare e sta vivendo una significativa trasformazione. Il tradizionale ruolo di “investimento sicuro” è messo in discussione dalle tensioni commerciali e le incertezze economiche.
Allo stesso tempo però, l’aumento dei rendimenti che hanno superato il 5% offre nuove opportunità per gli investitori disposti ad accettare maggiori rischi.
La teoria che Mussolini ridusse il debito pubblico italiano è infondata; in realtà, il debito crebbe e l’Italia pagò un prezzo alto per presunti “tagli”.
Periodicamente torna a circolare su diversi quotidiani e social la storia per cui Benito Mussolini sarebbe stato l’unico uomo ad aver tagliato il debito pubblico italiano. Questa stravagante teoria non è nuova, ed emerge spesso negli ambienti di un certo orientamento politico, vicino agli ideali di Mussolini e del Fascismo, ma corrisponde alla verità o si tratta solo di Propaganda?
Come ogni questione storica, la risposta purtroppo non è semplice, e liquidare il tutto ad una frase non è semplice, ma, al di la della complessità della vicenda, una cosa è certa, dire che Mussolini tagliò il debito italiano è falso, ma andiamo con ordine.
Il contesto economico pre-fascista: L’eredità della Grande Guerra.
Prima dell’ascesa al potere di Mussolini e l’avvento del fascismo, l’italia si trovò ad affrontare diversi e gravi problemi di natura economica, elemento che accompagnò tutti i paesi europei impegnati nella grande guerra.
Per riavviare il paese, riconvertire il sistema produttivo e rilanciare l’economia, l’italia fece ricorso all’emissione di moneta e a molteplici interventi da parte di Banca d’Italia per “salvare” le aziende in difficoltà. La nuova moneta immessa sul mercato era solo in parte coperta dall’emissione di titoli di stato e di conseguenza la moneta italiana andò in contro ad una forte svalutazione.
L’alta inflazione che ne derivò andò a colpire soprattutto le fasce più povere della popolazione, principalmente lavoratori dipendenti che, allo svalutarsi della moneta ed il conseguente incremento dei prezzi, non videro corrispondere un aumento dei salari.
In questo clima economico, fortemente sfavorevole e di grande tensione si verificarono gli avvenimenti del famoso biennio rosso (1919-1920) che causarono gravi disordini in tutto il paese e spinsero molti lavoratori impoveriti a sostenere il Fascismo poiché, neanche Giovanni Giolitti, che in passato era stato protagonista di una stagione splendente per l’economia italiana, riuscì a risolvere la crisi e sanare il debito crescente.
Questa fu la situazione che spianò la strada alla prese di potere da Quando nell’ottobre del 1922 Vittorio Emanuele III affidò il governo a Mussolini, l’italia si trovava in una situazione stagnante, con un enorme debito crescente alimentato da una moneta molto debole ed un enorme spesa statale.
Questa lunga premessa può sembrare noiosa, ma è fondamentale per capire esattamente se Mussolini riuscì a tagliare realmente il debito, se non lo ridusse ma riuscì comunque a contenerlo o se invece provocò un incremento del debito pubblico italiano.
La politica economica fascista: Ruolo di Mussolini e gestione De’ Stefani (1922-1925).
A questo punto bisogna aprire una breve parentesi sull’orientamento economico del regime, la politica economica fascista, detta della terza via, si colloca in un limbo, una zona grigia intermedia che derivavano dall’orientamento dei vari ministri delle finanze, dall’ideologia fascista e da varie contingenze nazionali e internazionali. E a tal proposito è importante ricordare che, se bene Accentrò nelle proprie mani numerosi ministeri ed esercitò grande influenza e pressioni sui ministeri che non erano di sua competenza, Mussolini non fu mai ministro delle Finanze, del Commercio e del Tesoro.
Mussolini fu ministro dell’Areonautica, degli Esteri dell’Africa italiana, delle Colonie, delle Corporazioni, della Guerra, dei Lavori Publici e della Marina, ma nessuno di questi ministeri era in grado di intervenire direttamente sul debito, e anzi, i suoi ministeri erano quelli che assorbirono maggiori risorse economiche, giocando de facto un ruolo attivo nell’incremento e non nella riduzione della spesa, ma andiamo con ordine.
Sul piano puramente linguistico possiamo dire con assoluta certezza che Mussolini, attraverso i suoi ministeri, non fece nulla per ridurre il debito, resta però da capire se invece il governo fascista, nel suo complesso, riuscì in qualche modo a ridurre il debito o comunque a contenere la spesa limitando l’aumento del debito.
Tra il 1922 ed il 1925, il ministero delle finanze e del tesoro fu affidato ad Alberto De’ Stefani che attuò una politica di grandi tagli alla spesa pubblica, e cercò di incrementare le entrate, con l’intento di rimettere in ordine il bilancio dello stato. Una politica comune in situazioni di questo tipo, da Agostino Magliani(ministro delle finanze agli albori della prima crisi economica del regno d’italia nell’ultimo quarto dell’ottocento) a Mario Monti.
Per quanto riguarda la riconfigurazione delle entrate, De’ Stefani non intervenne aumentando le tasse come spesso avviene, ma al contrario, osservando che una fetta enorme della popolazione era esclusa dalla partecipazione contributiva, fece in modo di allargare la base, tassando quelle fasce sociali fino a quel momento escluse, e allo stesso tempo, ridusse le aliquote per categorie sociali ritenute più inclini all’investimento.
Detto più semplicemente, tassò le fasce più povere della popolazione, fino a quel momento esonerati e ridusse le tasse all’alta e media borghesia, producendo così un incremento delle entrate dovuto al maggior numero di contribuenti.
L’intento di De’ Stefani era quello di rilanciare l’iniziativa privata e ridurre le spese dello stato, spese che, in quel momento, erano rappresentate soprattutto dai salari di dipendenti pubblici, e di conseguenza il taglio della spesa si configurò come un taglio netto nel personale dei settori “improduttivi” dello stato, licenziamento di circa 65.000 impiegati pubblici e circa 27.000 ferrovieri e favorendo l’ingresso dei privati in alcuni settori, fino a quel momento sotto il controllo dello stato, come il settore assicurativo, ferroviario e telefonico.
In termini numerici gli interventi di De’ Stefani furono positivi e il bilancio, almeno quello statale, fu riportato in pari, mentre quello degli enti locali non fu mai parificato durante tutto il ventennio. In ogni caso, questi interventi favorirono una leggera ripresa e innescarono un lieve processo di crescita per il paese che però non risolse il problema monetario, la lira valeva sempre meno e anche se, in termini numerici il debito cresceva più lentamente, il minor valore della lira, rendeva più difficile un suo risanamento.
Fin dai tempi dalla grande guerra la Banca d’Italia si era impegnata nel sostegno delle imprese e banche immobilizzate dalla riconversione e questo impegno continuò durante i primi anni del fascismo, producendo tra il 1922 e il 1925 un incremento di liquidità che portò ad un ulteriore ondata inflazionistica, alimentata da un peggioramento della bilancia dei pagamenti. Nel 1925 De’ Stefani promosse alcuni provvedimenti che però si rivelarono insufficienti e portarono ad un tracollo della borsa italiana e al fallimento di numerose aziende italiane.
La gestione Volpi (1925-1928) e la ristrutturazione del debito estero.
Gli industriali rappresentavano lo zoccolo duro del fascismo ed avevano molta influenza sulle azioni del governo, così, per non perdere il loro consenso, Mussolini sostituì il ministro delle finanze, assegnando l’incarico a Giuseppe Volpi.
Volpi rimase in carica dal 1925 al 1928 e durante il suo mandato giocò un ruolo decisivo per le sorti economiche e di bilancio dell’Italia.
Sul piano internazionale il 1924, con il piano Dawes aveva visto la fine alla questione delle riparazioni tedesche e si stava valutando un ritorno delle nazioni al gold standard per stabilizzare le monete, idea nata in seno al trattato di Versailles.
Nonostante questo però, la forte svalutazione della lira, il peggioramento della bilancia commerciale e numerosi altri fattori speculativi, non resero semplice il lavoro di Volpi e come se non fosse abbastanza, il fallimento del rinnovo dei BOT venticinquennali nel 1924, dovuto alla grande richiesta di liquidità di banche e privati, impedì all’Italia di emettere nuovi titoli di stato.
Nel 1925 il bilancio interno ufficialmente era in pari, ma nei fatti non lo era, nel bilancio infatti non erano stati conteggiati i titoli di stato da ripagare e l’italia, fortemente indebitata, non era in grado di ripagare i propri debiti.
Volpi decise quindi di agire in sintonia con la Banca d’Italia che sostenne il cambio, riuscendo a raggiungere un accordo con gli in investitori americani più favorevole in termini assoluti, ma va precisato gli investitori americani raggiunsero accordi simili in tutta europa e tra i tanti, l’accordo italiano fu quello “meno morbido“, il merito di Volpi non fu quindi quello di aver trovato un accordo favorevole, come spesso si dice, ma fu quello di aver trovato un accordo.
Sul finire del 1925 gli il governo statunitense accordò all’Italia un prestito, noto come Prestito Morgan, il cui intento era quello di risollevare la lira, di fatto acquistando parte del debito pubblico italiano. Sulla stessa linea nel gennaio del 1926 l’italia trovò un accordo simile con il regno unito. Secondo questo accordo l’italia cedette al regno unito la propria quota di riparazioni tedesche, gestite della Cassa autonoma di ammortamento dei debiti di guerra, costituita il 3 marzo 1926.
Analisi critica del “taglio”: Un pareggio di bilancio pagato a caro prezzo.
Grazie a questo accordo l’italia riuscì a ripagare parte dei propri debiti esteri, rinunciando al flusso costante di ripartizioni di guerra tedesche.
A questo punto, in termini numerici l’italia era ufficialmente in pari con il bilancio, ma questo pareggio come detto, va contestualizzato e il contesto è quello di un paese che ha dovuto ricorrere letteralmente al baratto.
L’italia ha “cancellato” il proprio debito consegnando ai propri creditori tutto quello che aveva, l’italia ripaga i propri creditori cedendo titoli esteri acquistati dal tesoro in precedenza e rinunciando alle proprie riparazioni di guerra, dal valore di diversi milioni di marchi pagati in oro ogni anno, pagamenti che la Germania avrebbe interrotto qualche anno più tardi con una decisione unilaterale in seguito all’avvento del Nazismo e di Hitler, e che avrebbe ricominciato a pagare nel secondo dopoguerra.
Il Trattato di Versailes aveva imposto alla Germania il pagamento di 132 miliardi di marchi oro, e parte di quell’oro sarebbe andato all’Italia, e anche se rateizzato, la quota italiana delle riparazioni di guerra aveva un ammontare complessivo enormemente superiore al proprio debito.
Conclusione: La smentita storica dell’affermazione sul risanamento del debito.
In conclusione, se è vero che sul piano linguistico è falso dire che Mussolini tagliò il debito, ma nei fatti questo taglio è riconducibile a Mussolini, allo stesso tempo, è vero dire che il fascismo tagliò il debito, ma nei fatti, questo taglio è costato all’Italia miliardi in oro, avrebbe contribuito ad alimentare una progressiva e crescente svalutazione monetaria e produsse, parallelamente alla cancellazione del debito, l’impossibilità per l’italia di ottenere nuovi prestiti e finanziamenti, trascinando il paese verso un progressivo impoverimento generale che non sarebbe stato possibile disinnescare se non fosse stato per gli aiuti postbellici, ricevuti dopo la seconda guerra mondiale.
Dire quindi che Mussolini e il fascismo hanno “sanato il debito pubblico italiano” è la cosa più falsa che si possa dire.
Nelle ultime settimane non sono passate inosservate le numerose “trasformazioni” (decisamente troppo repentine), i cambi di posizione e atteggiamento di Elon Musk, il tutto magistralmente e sistematicamente giustificato dalla sindrome di asperger.
L’effetto più evidente di questo “nuovo” Musk che si sta mostrando in queste settimane lo abbiamo nelle dinamiche tra il patron di Tesla e il presidente Trump. Il miliardario che fino a qualche settimana fa era pronto a difendere a spada tratta Trump su qualsiasi posizione avesse assunto, dopo la sconfitta in Winsconsin, ha decisamente cambiato marcia ed ha iniziato a contestare punti fermi della politica di Trump, che lo stesso Musk aveva ampiamente sostenuto in campagna elettorale. Si pensi alla politica dei Dazi doganali fortemente voluta da Trump, ampiamente annunciata in campagna elettorale e sulla quale, in passato, lo stesso Musk si era dimostrato totalmente allineato.
Musk cambia rotta?
Questo cambio di rotta non sembra casuale, e non è il primo.
Musk nella sua storia personale, ha cambiato molte volte posizione, allineandosi il più delle volte con temi di tendenza e fortemente sostenuti dall’opinione pubblica, insomma, una vera e propria banderuola che è sempre andato là dove soffia il vento, e che con la discesa in campo, al fianco di Trump, ha tirato troppo l’asticella, assumendo posizioni radicali e ampiamente contestate che gli hanno causato la perdita di diverse centinaia di miliardi di dollari.
In quest’ottica, un cambio di posizione così radicale e repentino appare come una goffa strategia di brand revitalization, da parte di un uomo convinto che il mondo sia popolato da idioti… e su questo forse non ha poi tutti i torti…
Cos’è la “Brand Revitalization”?
Ho parlato di “brand revitalization” (rivitalizzazione del marchio) ma che cos’è? Si tratta di un processo strategico attraverso cui un’azienda, un marchio, o come in questo caso caso una figura pubblica, cerca di rinnovare e rinvigorire l’immagine del proprio brand che ha perso attrattiva, rilevanza o credibilità nel tempo. Insomma , cerca di svecchiare e/o ripulirsi e in questo caso specifico, non sarebbe tanto una questione di svecchiamento, quanto più di “pulizia”.
Al di là del caso specifico, l’obiettivo della brand revitalization è quello di riposizionare il brand nella mente del pubblico, adattandolo ai cambiamenti del mercato, ai nuovi valori sociali o per correggere errori passati che ne hanno danneggiato la sua reputazione. Questa trasformazione può avvenire attraverso cambiamenti dei valori comunicati, dei messaggi, delle partnership, ecc.
Il Caso Musk: Politica e Immagine
Come anticipato, non è la prima volta che Musk fa un’operazione di questo tipo, basti pensare che, prima della Pandemia, Musk è stato un acceso sostenitore di temi di inclusività ed ambientalismo, promotore di energie rinnovabili e pulite, tecnologie a basso impatto ambientale ecc. Poi con la pandemia ha cambiato completamente rotta, diventando praticamente un negazionista dei cambiamenti climatici e schierandosi apertamente contro le politiche di inclusione, fino ad arrivare a sostenere personalità con posizioni fortemente xenofobe e intolleranti nei confronti delle minoranze.
In definitiva, Musk è passato dall’essere uno dei “nemici pubblici” più attaccati e contestati dall’estrema destra USA ed UE nel 2019, secondo solo a Soros e Bill Gates, ad essere nel 2024 il più grande sostenitore dell’estrema destra in USA ed UE, ed ora, a poco più di 2 mesi dall’insediamento di Trump alla White House, Musk ha iniziato una nuova trasformazione.
Come un rettile che cambia pelle con le stagioni, Musk ha iniziato a dismettere i panni del Trupiano, in cerca di una nuova identità più “accettabile” dall’opinione pubblica globale.
Parliamo di una figura estremamente polarizzante che negli anni ha costruito parte del proprio personal brand sull’immagine dell’innovatore visionario, fuori dagli schemi, ribelle e controcorrente, elemento quest’ultimo che spesso lo ha portato ad assumere posizioni forti e radicali su temi estremamente controversi e divisivi.
E se questa strategia in passato gli ha sempre portato “fortuna” , l’ultima pelle indossata gli ha portato più danni che benefici, alienandogli una parte significativa del pubblico che in passato lo sosteneva, tra cui anche investitori e potenziali partner commerciali.
Le sue uscite pubbliche, spesso impulsive e provocatorie, e le sue prese di posizione politiche hanno iniziato a proiettare diverse ombre sulle sue aziende, causandogli perdite senza eguali nella storia.
Stando ai diversi report e analisi di mercato, ad oggi la sua immagine personale è considerata un fattore di rischio, ragione per cui diversi fondi di investimento hanno prontamente liquidato i propri investimenti in aziende associate a Musk, causando un crollo nel valore di titoli come Tesla, crollo che è stato amplificato dalla sfiducia dei consumatori.
La Strategia di “Pulizia” del Brand
Il recente, apparente, ammorbidimento delle posizioni di Musk e le prime prese di distanza da Trump, come la volontà di lasciare il DOGE entro qualche mese, o le aperte critiche ai Dazi imposti dal presidente, possono essere facilmente interpretati come un primo tentativo di “ripulire” il proprio brand personale. Prendere le distanze da figure e politiche divisive, come i dazi sostenuti da Trump (che peraltro potrebbero danneggiare le catene di approvvigionamento globali da cui dipendono le sue stesse aziende), potrebbe essere una mossa finalizzata a Riconquistare Credibilità e Appeal, ma soprattutto, potrebbe essere una mossa per proteggere le sue aziende. Si pensi alla fuga massiva di utenti da X (ex Twitter), il cui valore è passato in meno di due anni da 44 miliardi a 12 miliardi, o alle azioni Tesla, il cui valore, fortemente accresciuto dopo l’elezione di Trump, è tornato ad aprile 2025 ai livelli di ottobre 2024 , registrando un calo di oltre il 42,23% negli ultimi 3 mesi.
Conclusione
Il presunto cambio di rotta di Elon Musk non è necessariamente un’abiura delle sue convinzioni passate, anche perché non abbiamo idea di quali siano realmente le sue convinzioni. Musk negli anni ha cambiato innumerevoli posizioni, rimanendo costante su un unico punto. Il suo primo e unico interesse è tutelare se stesso, ed è pronto ad abbandonare qualsiasi partner in qualsiasi momento pur di salvarsi.
Appare quindi abbastanza evidente come le sue critiche ai dazi di Trump, che lo stesso Musk aveva sostenuto in campagna elettorale, non siano altro che una grottesca strategia di brand revitalization, costruita partendo dall’assunto che l’opinione pubblica mondiale non se ne accorgerà.
L’obiettivo delle critiche e l’allontanamento da Trump è chiaro e riassumibile nello slogan, MMGA, Make Musk Great Again, rendere il brand “Musk” nuovamente appetibile a consumatori e investitori, così da rendere meno rischiose le collaborazioni e partnership con le sue aziende e iniziative.
Musk ha puntato sulla stupidità. Resta da vedere quanto questa strategia sarà efficace, e soprattutto se avrà puntato correttamente, o se questa scommessa segnerà definitivamente la sua rovina. Personalmente temo che se non nel breve periodo, nel medio e lungo termine riuscirà a ripulire il proprio brand.
Secondo uno studio pubblicato su arXiv, ChatGPT e Llama3.1-405B avrebbero superato il test di Turing. Ma è davvero così? LA risposta semplice è no, anche perché, contrariamente a quanto riferito dai ricercatori, quello eseguito non è il test di Turing e non ci vengono forniti dati a sufficienza per capire se effettivamente il test è stato superato o meno.
Per i più volenterosi, l’articolo è stato pubblicato da Cameron R.Jones e Benjamin K.Bergen, entrambi ricercatori al dipartimento di scienze cognitive dell’università di San Diego, e per chi volesse recuperare l’articolo integrale, vi lascio qui il link (è pubblico)
Visto che da circa 15 anni, periodicamente inizia a circolare la notizia che una IA ha superato il test di Turing, ma poi, andando a vedere, non è proprio così, e semplicemente qualcuno ha male interpretato alcuni dati, autoconvincendosi che l’IA di turno avrebbe potuto superarlo, senza però mai fornire alcun dato sul test, e senza spiegare chi, come, dove, quando, ecc ha eseguito il test, (tra l’altro fornendo dei punteggi e percentuale di successo che non hanno alcun senso), ho deciso di scrivere un articolo che aggiornerò periodicamente, in cui andrò a spiegare cos’è il test di Turing, come funziona, e perché quello che ci viene spacciato per “test di Turing” in realtà non è il test di Turing.
Alan Turing e il suo esperimento teorico
Alan Turing è stato un matematico britannico, da molti considerato uno dei padri dell’informatica modera, mosso da alcune idee radicali, molto all’avanguardia per il suo tempo, è grazie al suo genio, è riuscito negli anni 40, grazie ad una macchina e ad alcune intuizioni, a bucare i codici Nazisti e superare Enigma. Ma questa è un altra storia.
Ciò che importa è che, dopo la guerra, gran parte del lavoro di Turing e del team di Bletchley Park venne “insabbiato” e messo sottochiave almeno fino ai primi anni 2000, inoltre Turing, per via della sua omosessualità, che nell’Regno Unito dell’epoca era illegale, venne sottoposto a castrazione chimica, cosa che ebbe diversi effetti collaterali sulla sua salute e gli causò una forte depressione.
Negli anni 50 sostanzialmente Turing era un autentico eroe di guerra, completamente sconosciuto al popolo britannico, abbandonato dallo stato e per lo più perseguitato per il suo orientamento sessuale e le sue idee, e quando dico perseguitato, intendo dire che era tenuto sotto strettissima osservazione perché sostanzialmente era un civile in possesso di segreti militai, di grandissimo valore.
In questo contesto Turing, nel 1950, cinque anni dopo la fine della guerra e quattro anni prima che si togliesse la vita, pubblica un articolo sulla rivista Mind, intitolato “Computing Machinery and Intelligence” in cui esponeva un esperimento teorico chiamato “The imitation game” con cui cerca di capire quanto una macchina riesce ad imitare il pensiero.
Col tempo il gioco dell’imitazione, è stato ribattezzato in Turing Test/Test di Turing, e si è diffusa l’idea che tale test cercasse di rispondere alla domanda “le macchine possono pensare?” In realtà, basta aprire l’articolo e nel primo paragrafo scopriamo che Turing non si chiede se “le macchine possono pensare” ma propone una domanda più precisa e meno ambigua.
A questo punto Turing propone una nuova formulazione spiegando qual è l’obbiettivo del suo test. Si tratta in sostanza di un indagine statistica che prevede la ripetizione di un gioco di deduzione per 2*X volte, durante il primo ciclo di gioco ci saranno tre giocatori umani, durante il secondo ciclo invece, uno dei giocatori, con un ruolo ben preciso, sarà sostituito da una macchina.
Cerchiamo allora di capire come funziona il Test di Turing, e quando possiamo dire che una “macchina” ha superato il test di Turing, e soprattutto, se possiamo effettivamente dire che una macchina ha superato il test di Turing.
Come funziona il Test di Turing
Abbiamo tre giocatori, un uomo A, una donna B e un interrogatore C che può essere di entrambi i sessi. L’obbiettivo di C sarà quello di determinare chi tra i due è l’uomo e chi la donna, l’obbiettivo di A sarà quello di far sbagliare C mentre l’obbiettivo di B sarà quello di aiutare C.
Per ridurre al minimo le interferenze e far sì che le deduzioni di C si basino esclusivamente sulle risposte ricevute, durante il gioco C non avrà contatti diretti con A e B, e riceverà le risposte alle sue domande in forma scritta.
C potrà porre domande sia ad A che a B e potrà ripetere le stesse domande tutte le volte che vorrà. A e B invece, potranno sia dire la verità che mentire.
A questo punto può iniziare l’imitation game.
L’interrogatore C ripeterà il gioco diverse volte, con vari A e B, ed i risultati ottenuti verranno registrati, in modo da avere una media delle volte che ha risolto correttamente il gioco, e le volte che è stato ingannato. Dopo un certo numero di tentativi tuttavia, A verrà sostituito da una macchina, e il gioco continuerà, l’interrogatore farà anche in questo caso diversi tentativi e verranno registrate le volte in ha risolto il gioco e le volte in cui è stato ingannato.
Nell’articolo Turing si chiede “Cosa accadrà quando una macchina prenderà la parte di A in questo gioco?Sostituendo all’Uomo una macchina, l’interrogatore, sarà tratto in inganno tante volte come quando al gioco partecipavano un uomo e una donna?”
Come abbiamo già detto, test di Turing, altro non è che un indagine statistica, in cui compariamo i risultati dell’interrogatore ottenuti giocando contro un umano e contro una macchina, aiutato in entrambi i casi da una donna umana.
Come si supera il Test di Turing?
Molto spesso, quando leggiamo articolo in cui ci dicono che una data IA ha superato il test di Turing, in realtà, ci stanno dicendo che l’interrogatore non è riuscito a determinare chi fosse l’Uomo e chi la Donna. Ma questo dato, da solo, senza uno storico di tentativi, dei successi e fallimenti, registrati da quello stesso interrogatore, non vale assolutamente nulla. E anzi, ha la stessa rilevanza di una partita ad Akinator/20Questions, o Indovina chi, anche perché in effetti il gioco alla base dell’imitation game c’è proprio “20 questions”, letteralmente un gioco di deduzione per bambini riadattato e rielaborato.
Purtroppo però, spesso è sufficiente che l’IA riesca ad ingannare l’interrogatore, affinché ci venga detto che l’IA in questione ha “superato” il test di Turing.
ChatGPT ha superato il test di Turing?
Ora che sappiamo come funziona il test possiamo entrare nel merito dell’articolo di Cameron R.Jones e Benjamin K.Bergen, e capire se effettivamente ChatGPT e LLama hanno superato il test di Turing.
E già qui bisogna fare la prima distinzione. Secondo quanto riportato dai media, Chat GPT 4.5 è riuscito ad “ingannare” l’esaminatore, nel 73% dei casi, in sessioni da 5 minuti mentre Llama 3.1-405B ci è riuscita nel 56% dei casi.
Questi risultati sono sicuramente interessanti, ma non significano nulla, perché come abbiamo visto, non è importante quante volte l’IA riesce ad ingannare l’esaminatore, e quel dato ha senso solo se affiancato da altri dati, come ad esempio la percentuale di successo e fallimento, registrata da quegli stessi esaminatori nell’individuare l’Uomo e la Donna, e non solo l’IA.
I primi dati “utili” ci vengono forniti a pagina 5 dell’articolo e mostrano la percentuale di successo di diversi modelli IA e ci viene detto che una percentuale di successo nell’ingannare l’esaminatore, superiore al 50% porta sostanzialmente al superamento del test di turing.
Ma come abbiamo visto, non è così che funziona il test di Turing.
Nell’articolo ci vengono forniti molti altri dati, informazioni sulle domande, sui modelli linguistici esaminati, sui prompt utilizzati per la configurazione delle diverse IA affinché questa si comportassero come umani, e non fraintendetemi, sono tutti dati estremamente interessanti e sicuramente utilissimi per molte ragioni, ma che non ci dicono assolutamente nulla sul test di Turing. Di seguito un esempio di prompt utilizzato per “istruire” l’IA.
Come abbiamo visto, il test di Turing, si divide in due fasi, ma in questo articolo, non ci parlano della fase 1, e i ricercatori hanno eseguito solo la fase due. Il problema è che la fase 1 del test di Turing è fondamentale per la sua corretta esecuzione.
Nella prima fase, come abbiamo già visto, l’esaminatore “gioca” con degli umani, un uomo e una donna, l’uomo prova ad ingannarlo mentre la donna prova ad aiutarlo, e l’esaminatore deve individuare l’uomo. Questa fase serve per determinare un valore di riferimento che riguarda la percentuale di successo dell’esaminatore. Solo una volta ottenuto questo dato, è possibile sostituire l’uomo con l’IA mentre la donna che dovrà aiutarlo rimarrà un umana.
A questo punto, si esegue una nuova serie di test, tante partite quante ne sono state “giocate” contro umani, e si compareranno i dati finali.
Se la percentuale di successo contro l’IA, con un certo margine d’errore, vicina alla percentuale di successo registrata contro giocatori Umani, allora, e solo allora, il test può dirsi superato.
In questo articolo tuttavia, questa comparazione manca totalmente. Non vi è alcun riferimento a test comparazioni e test in cui sono stati coinvolti tre “giocatori” umani. L’unico dato effettivo che ci viene fornito da questo articolo è la percentuale di “successo” registrata dall’esaminatore contro l’IA. Un dato che, come abbiamo già detto innumerevoli volte, nell’ottica del test di Turing, non vuol dire assolutamente nulla.
Conclusione
L’articolo di Jones e Bergen è sicuramente molto interessante, ma a differenza di quanto riportato dai media, non ci dice che ChatGPT e LLama hanno superato il test di Turing, e con i dati che vengono forniti non è possibile determinarlo.
È un po’ come se un vostro amico vi invitasse a cena da lui dicendo che sa preparare uno dei piatti di Cannavacciuolo e che non riuscireste a sentire la differenza tra il suo piatto e quello di Cannavacciuolo, vi fa assaggiare la sua versione del piatto, ma voi non avete mai mangiato da Cannavacciuolo, non sapete che sapore ha il piatto originale.
Come fate a dire se il piatto del vostro amico è uguale o diverso da quello di Cannavacciuolo? Semplicemente non potete.
Fonti
Per chi fosse interessato vi lascio di seguito l’articolo originale di Alan Turing del 1950, sono solo 22 pagine, ma il funzionamento e gli obbiettivi del test sono sostanzialmente spiegati nelle prime 3 pagine. E l’articolo di Jones e Bergen
La storia di Pozzuoli è una storia lunga almeno 2500 anni e come per molte città antiche, anche le sue origini si perdono nel mito. Pozzuoli sorge infatti in un area di grande rilevanza storica e culturale, totalmente immersa nella mitologia greco romana, ma curiosamente, la sua fondazione, non sembra essere legata a particolari miti e questo perché sorge in “età storica” e tra i primi a parlarci della sua fondazione abbiamo Erodoto in persona, colui che secondo Cicerone fu il “padre della storia”.
Grazie agli scritti di Erodoto sappiamo tantissimo sulla fondazione e le origini di quel piccolo insediamento che sarebbe divenuto nei secolo successivi un elemento chiave dell’economia romana al punto da essere considerata “il porto di Roma” e non solo, sappiamo che Pozzuoli ha maturato una certa importanza simbolica anche nella tradizione cristiana attraverso i vangeli che raccontano Pozzuoli come la città in cui approdò San Paolo, in viaggio verso il martirio a Roma.
Da un certo punto di vista, Pozzuoli è una delle città di cui conosciamo meglio le origini e la sua evoluzione storica, soprattutto in epoca pre-romana, ed è proprio la sua evoluzione che da sempre alimenta alcune domande, come ad esempio, come è possibile che Pozzuoli, una città che sorgeva tra crateri di vulcani attivi, incastrata tra importanti insediamenti greci come Cuma e Napoli, sia diventata così importante e centrale nella storia di Roma? E soprattutto, come è possibile che a differenza della più antica Cuma, Pozzuoli sia sia sopravvissuta fino ad oggi, nonostante innumerevoli terremoti, maremoti, eruzioni vulcaniche e il fenomeno del Bradisismo che da almeno 40.000 anni accompagna le terre dei campi flegrei.
In questo articolo cercheremo di dare una risposta a questa domanda, e andremo alla scoperta delle origini di Pozzuoli, una città particolare, poiché praticamente priva di “miti della fondazione” nonostante sia totalmente immersa in una terra “mistica”, fortemente legata per diverse ragioni alla mitologia greco-romana. Basti pensare che, alle spalle di Pozzuoli sorge il Lago d’Averno, che nell’Eneide è descritto come la porta d’accesso agli inferi in cui Enea, l’eroe greco, è accompagnato dalla Sibilla Cumana, oracolo legato a diversi miti delle origini di roma.
Le origini mitiche di Pozzuoli
Come anticipato, a differenza di molte altre città antiche, nonostante sia totalmente immersa nella mitologia greco-romana, Pozzuoli non ha un vero e proprio mito delle origini, questo perché pochi decenni dopo la sua fondazione, Erodoto, storico, geografo e cartografo greco, ci ha fornito una ricca narrazione delle origini della città.
Secondo la tradizione Pozzuoli venne fondata nel 528 a.c. da esuli di Samo, un isola del Mar Egeo, in quel temo governata dal tiranno Policrate, che si rifugiarono nella Megale Ellas (Magna Grecia) e sappiamo per certo che non furono i soli, durante la tirannide di Policrate infatti, in molti lasciarono Samo per rifugiarsi nelle colonie dell’Italia meridionale. Tra i gli esuli illustri di Samo è importante citare anche Pitagora che trovò ospitalità a Crotone dove fondò la sua scuola.
Come Pitagora, molti degli esuli di Samo trovarono rifugio in varie colonie e altre città greche, altri invece decisero di fondare un nuovo insediamento, che non fosse solo una “colonia” anche perché da esuli i rapporti con la madre patria erano abbastanza compromessi. In ogni caso, secondo la tradizione, una delle nuove città fondate dagli esuli di Samo fu proprio Pozzuoli, o meglio Δικαιάρχεια (Dicearchia), il nome Pozzuoli sarebbe arrivato più tardi. Il nome originale dell’insediamento rifletteva le intenzioni dei suoi fondatori che puntavano a creare un qualcosa di nuovo. Il suo nome significa “luogo in cui regna la giustizia” e almeno in origine è un autentico esperimento politico, non lontano da alcuni importanti centri urbani con cui con molta probabilità intratteneva rapporti commerciali e nutre l’ambizione di diventare un autentica città stato con le proprie leggi e il proprio sistema di governo.
Una delle grandi domande che storici e archeologi si pongono quando si parla di Pozzuoli e le sue origini, è perché lì. L’Italia meridionale, da Crotone a Napoli offriva innumerevoli tratti costieri in cui era possibile insediarsi, con terre fertili, e vicini con cui commerciare, ma per qualche ragione scelsero di stabilirsi proprio lì, in una terra apparentemente non particolarmente ospitale.
Il paesaggio che i fondatori di Pozzuoli si trovarono d’avanti era tutt’altro che ospitale, l’aria sapeva di marcio, la terra trasudava tremava di continuo e trasudava fumi. Ma non solo, le vicine Cuma e Partenope (Napoli) erano impegnate in una guerra commerciale, per l’egemonia sul golfo di Napoli, contro gli Etruschi. Guerra che appena 4 anni dopo la tradizionale fondazione di Pozzuoli confluì in una battaglia nota come Battaglia battaglia di Cuma del 524 che segnò la fine di Partenope da cui i Cumani uscirono sconfitti e presumibilmente Partenope venne distrutta. E in questa furia distruttiva, Pozzuoli appariva come un piccolo insediamento, forse poco più di un villaggio, circondato da giganti in guerra tra loro.
Secondo alcune ipotesi (non confermate, e di natura abbastanza speculative, che riporto solo perché divertenti) è possibile che i fondatori di Pozzuoli non fossero interessati alle lotte di potere e le battaglie commerciali o per il controllo del golfo di Napoli, erano esuli politici desiderosi di un posto tranquillo in cui vivere in pace e armonia, e in questa prospettiva, gli apparentemente poco ospitali Campi Flegrei, offrivano un rifugio ideale, inoltre la presenza di innumerevoli vulcani rendevano la terra estremamente fertile e il mare ricco di pesci, e a chiusura del cerchio, l’area ricca di zolfo era particolarmente adatta alla coltivazione della vigna, permettendo così di produrre vino. Se a questo aggiungiamo la presenza di ricchi vicini con cui commerciare, l’area dei Campi Flegrei in cui venne fondata Pozzuoli si presentava come una realtà idilliaca, un’autentico paradiso terrestre, poco appetibile al resto del mondo a causa delle esalazioni di zolfo che rendevano l’aria non particolarmente gradevole… ma nulla che un paio di boccali di vino non potessero correggere.
Al di la di questa simpatica teoria, sappiamo che almeno nel primo secolo di vita Dicearchia mantenne un forte legame con i cumani prima con Cuma e successivamente, a seguito della rifondazione di Partenope con il nome di Neapolis, Dicearchia si legò molto alla nuova città che governava sul golfo.
Le trasformazioni di Dicearchia: Da città greca a Puteoli romana
Il dominio dei cumani sul golfo di Napoli fino dopo le guerre etrusche durò poco. E già nel V secolo venne messo in discussione dall’avanzata sannitica che dall’area umbro adriatica si era spinta fino al basso Lazio e la Campania. Senza entrare nel merito delle guerre sannitiche, il loro arrivo segnò in un certo senso la fine dell’impero marittimo dei cumani e permise alla piccola Dicearchia di staccarsi dall’influenza cumana per rivendicare la propria autonomia e, secondo alcune ipotesi, in questa fase la città cambiò la propria denominazione adottando il nome di Fistelia (o “Fistlus”/”Fistulis”).
A questa fase della storia di Pozzuoli viene fatta risalire la “Phistluis” una moneta che secondo la tradizione venne coniata dalla città di Pozzuoli in una fase intermedia tra l’influenza cumana e la conquista romana. A proposito di questa moneta ci sono molte leggende e soprattutto molti falsi risalenti ad epoche molto recenti. Ciò che sappiamo di concreto è che, almeno fino al V secolo .a.c. la moneta in uso a Pozzuoli era la dracma cumana, e dal III secolo in poi, dopo la conquista romana, adottò la monetazione Roma. Non sappiamo invece se Pozzuoli abbia mai coniato moneta propria, nè se abbia mai coniato moneta cumana o romana.
Indipendentemente dalla moneta in uso, ciò che ormai è dato per certo è che a seguito dell’avanzata sannitica e con il declino dell’impero cumano, Pozzuoli acquisì una maggiore autonomia, sia politica che commerciale. Questa autonomia venne mantenuta almeno fino alla seconda metà del IV secolo a.c. più precisamente fino al 318 a.c.
Nel 318 a.c. la città di Puteoli, nome latino della città greca di e Dicearchia/Fistelia venne inclusa ufficialmente nel regime giurisdizionale di prefettura, insieme a Capua e Cuma. Non sappiamo per certo quando sia iniziato il processo di latinizzazione di Pozzuoli, ma alcuni studi indicano che potrebbe essere iniziato circa 20 anni prima della sua annessione ufficiale, ovvero nel 338 a.c.
Pozzuoli, ora inglobata nella rete di città, municipi e colonie romane, diventa un importante snodo commerciale, e la sua vicinanza strategica ad una ricca area termale, la renderà particolarmente apprezzata dai romani, ma il vero punto di svolta della città, lo avremo durante la seconda guerra punica quando la sua baia venne utilizzata come presidio navale contro la flotta cartaginese di Annibale.
La guerra aveva evidenziato la posizione strategica di Pozzuoli, e negli anni successivi alla seconda guerra punica la città portuale, divenne uno dei porti porti commerciali più importanti del mediterraneo romano, mentre la flotta militare venne trasferita sul versante opposto del golfo di Pozzuoli, a Capo Miseno, dove sappiamo era ancora stanziata, sotto il comando di Plinio il Vecchio, nel 79 d.c. ma questa è un altra storia.
Napoli e Partenope sono la stessa città o sono città diverse? Nell’epoca dei social non è difficile imbattersi in post che parlano di Napoli e Partenope come se fossero città e realtà diverse, anche se vicine e in un certo senso legate tra loro, così come non è difficile imbattersi in post in cui i due nomi fanno riferimento alla stessa città in momenti differenti, ma qual è la verità? Napoli e Partenope sono la stessa cosa o sono città diverse ma molto vicine tra loro che col tempo si sono fuse insieme?
Per cercare di rispondere a questa andremo alla riscoperta delle origini di Napoli tra archeologia, storia, miti e leggende, e prometto che cercherò di essere il più breve possibile.
Le origini mitiche di Napoli
Come molte città antiche, anche l’origine di Napoli si perde nel mito e tra le tante versioni che si sono susseguite nei secoli in merito alla fondazione di Napoli, il mito di Partenope è forse uno dei più affascinanti che è giunto a noi in varie versioni.
Secondo la tradizione popolare Partenope era una sirena, raffigurata secondo i canoni della mitologia greca, un ibrido con il corpo di uccello e la testa di donna, dal canto melodioso. Molto simile esteticamente alle arpie, ma con caratteristiche differenti, nella mitologia greca infatti le arpie sono più violente e punitive, mentre le sirene sono creature seducenti. Per quanto riguarda Sirene e Arpie nella mitologia greca, va detto che ci sono diverse teorie secondo cui sarebbero la stessa creatura in momenti diversi.
Tornando alla sirena Partenope, secondo la leggenda questa fu la sirena che tentò di ammaliare Ulisse con il proprio canto, tuttavia, l’eroe, avvertito dalla maga Circe, si era fatto legare all’albero maestro della nave così da resistere al canto delle sirene. Secondo la leggenda napoletana, la sirena Partenope, non riuscendo nel proprio intento, si gettò in mare e il suo corpo fu trasportato dalle onde fino all’isolotto di Megaride, dove oggi sorge il Castel dell’Ovo dando origine alla città di Napoli.
La cosa più interessante di questo mito è che se si immagina la sirena moderna, creatura marina per metà donna e per metà pesce, non ha alcun senso, tuttavia, se si considera la sirena greca, per metà donna e per metà uccello, tutto cambia.
Questa versione prende le battute dalla tradizione omerica e dall’odissea ed è la versione più conosciuta del mito di partenope, soprattutto fuori da Napoli, vi sono tuttavia altre versioni del mito, proprie della tradizione locale.
Una di queste versioni, molto presente nella tradizione popolare napoletana, racconta di una sirena Partenope, che viveva nel golfo di Napoli, innamorata del centauro Vesuvio. Il loro amore è tuttavia ostacolato da Zeus, a sua volta invaghito di Partenope, decise di separarli per sempre. Vesuvio venne così trasformato in un vulcano e Partenope nella città di Napoli. I due amanti sono così condannati ad un supplizio, un amore eterno e impossibile, con il Vesuvio condannato a vegliare costantemente sulla città senza poterla mai raggiungere. La cosa interessante di questo mito è che non sappiamo a quando risalga, e nella tradizione popolare Partenope è generalmente descritta come una sirena “moderna” metà donna e metà pesce, elemento che potrebbe suggerire un origine medievale del mito, probabilmente derivato da un mito più antico.
Ultima versione del mito di Partenope che voglio riportare, ci arriva attraverso la raccolta “Le leggende napoletane” di Matilde Serao, ed è una versione molto particolare, molto legata alla fondazione della città e poco legata al “mito”. In questa leggenda infatti Partenope non è una creatura mitica ma una giovane donna greca innamora dell’eroe ateniese Cimone. Tuttavia, il padre di Partenope avendo promesso sua figlia in sposa ad un altro uomo, cercherà di ostacolare il loro amore. Cimone e Partenope decidono quindi di lasciare la Grecia e dopo un lungo viaggio approdano sulle coste del golfo di Napoli, qui costruiranno il proprio nido d’amore, e la loro discendenza darà vita al popolo napoletano. In questa versione del mito Partenope è sostanzialmente un antica colonizzatrice e madre mitica del popolo napoletano.
Ciò che questi tre miti hanno in comune, ma che in realtà lega insieme tutti i miti della fondazione di Napoli legati a Partenope, è il fatto che Partenope incarna l’essenza stessa di Napoli. La sua bellezza ammaliante, il suo fascino seducente, il suo legame indissolubile con il mare e la sua storia travagliata e appassionata, e solleva una domanda, ci fu davvero una “Partenope” nella storia di Napoli? E la risposta a questa domanda è si.
Cosa sappiamo sulla fondazione di Napoli
Mettendo da parte il mito e rivolgendo lo sguardo verso l’archeologia, noi oggi sappiamo che intorno all’VIII secolo coloni greci arrivarono nel golfo di Napoli, all’epoca chiamato kratèr, e fondarono un importante colonia con il nome di Kýmē (odierna Cuma) legata alla storia e al mito delle origini di Roma. Cuma divenne immediatamente un importante snodo commerciale per altre sub-colonie nella regione, tra cui la colonia mineraria di Πιθηκοῦσσαι (Pithecusa oggi Ischia) e una colonia commerciale tra Vesuvio e Campi flegrei, chiamata Παρθενόπη, ovvero Partenope.
Se Cuma sorge come avamposto, Partenope viene fondata per una ragione differente, la sua posizione strategica sul colle di Pizzofalcone offre il un ampio controllo litoraneo e del traffico marittimo nel golfo. E vista la sua posizione strategica fondamentale verrebbe da chiedersi, perché i greci si insediarono prima a Cuma e solo in seguito nel golfo di Napoli con la fondazione di Partenope?
Non abbiamo una risposta certa a questa domanda, ciò che sappiamo è che nell’area dell’attuale basilica di Santa Maria degli Agnelli a Pizzofalcone, dove sappiamo sorgeva l’acropoli della città greca di Partenope, sono stati rinvenute tracce di insediamenti risalenti al Neolitico e soprattutto all’Età del Bronzo. Questi reperti ci suggeriscono che l’area fosse già occupata prima della colonizzazione greca.
Nei secoli successivi, per almeno due o tre secoli, il nome della città greca che controlla il golfo di Krater (il golfo di Napoli) è Partenope, ed è un avamposto Cumano, estremamente importante per il controllo della regione e che tale espansione non fu esente da conflitti e scontri con gli altri popoli italici, in particolare latini ed etruschi. A tale proposito sappiamo che nel VI secolo, si ipotizza intorno al 524 a.c. le rivalità tra cumani ed etruschi culminarono nella battaglia di Cuma, che vide la sconfitta dei cumani e segnò l’inizio del declino della città di Partenope. In quello stesso periodo, tra Partenope e Cuma , esuli di Samo fondarono l’insediamento di Pozzuoli. Il declino di Partenope che durò circa mezzo secolo e approssimativamente intorno al 474 a.c. ci fu un nuovo scontro navale tra la flotta etrusca e quella cumana guidati da Ierone I di Siracusa. La coalizione delle colonie greche riuscì a sbaragliare le forze etrusche, permettendo alla città di Partenope di risorgere.
Secondo la tradizione il 21 dicembre 475 a.c. (data presumibilmente scelta in maniera simbolica) Partenope venne rifondata sore una Neapolis, adiacente alla Palepolis, ovvero una città nuova accanto alla città vecchia. In cui, il vecchio sito di Partenope rappresentava la Palepolis, mentre la nuova area urbanizzata divenne la Neapolis.
Da fonti del V secolo sappiamo che il nuovo insediamento di Neapolis, che inglobava la vecchia Partenope, non era considerato all’epoca una vera e propria espansione di Partenope, quanto più una nuova città, che sorgeva in qualche modo dalle ceneri di Partenope, motivo per cui la tradizione ci riporta come data di fondazione della città, la “rifondazione” del V secolo, con un nuovo nome, mentre il vecchio nome di Partenope è progressivamente abbandonato.
Perché Napoli ha cambiato nome ed ha abbandonato quello di Partenope?
A questo punto la domanda sorge spontanea, sappiamo che Napoli ha un forte legame con la tradizione e con il mito di Partenope, e sappiamo che i suoi abitanti non hanno mai ufficialmente dismesso il nome di “partenopei” sentendosi in qualche modo discendenti di Partenope. Partenope ancora oggi, lo vediamo nella narrazione di Matilde Serao, è considerata la Madre mitica di Napoli e dei suoi abitanti, ma allora perché Napoli non si chiama più Partenope?
Se avessimo una risposta chiara a questa domanda, sapremmo molte più cose sul nostro passato di quante non ne sappiamo effettivamente, perché purtroppo, una risposta chiara e netta non l’abbiamo, sappiamo che il nome cambia a seguito di una serie di scontri durati più di mezzo secolo, ma non sappiamo se tra la prima e la seconda battaglia di Cuma, la città di Partenope venne abbandonata o meno.
Secondo alcuni storici il motivo per cui il nome Partenope venne dismesso in favore di Neapolis è perché dopo la prima battaglia di Cuma la città di Partenope cadde completamente e solo dopo la vittoria cumana nella seconda battaglia di Cuma, la città venne effettivamente rifondata. Secondo altri il cambio di nome indica un a trasformazione, un cambio al vertice. Partenope era una colonia Cumana, Neapolis esiste grazie all’aiuto dei siracusani. Ma queste sono solo due delle innumerevoli ipotesi e leggende sul perché, nel V secolo Partenope si trasformò in Napoli, mentre i suoi abitanti continuarono a considerarsi “figli di Partenope”.
Se l’articolo è stato interessante ti invito a condividerlo. Facci sapere se vuoi approfondire la storia della fondazione di Cuma e il suo legame con la storia e i miti delle origini di Roma.
Alla fine i Dazi di Trump sono arrivati come promesso e senza sconti per nessuno, o quasi, tra gli oltre 60 paesi colpiti dai nuovi dazi che vanno da un minimo del 10% ad un massimo del 49% per la Colombia, ci sono ovviamente la Cina, l’India, il Bangladesh, l’UE, Taiwan, c’è persino Israele, ma, con grande sorpresa non ci sono Russia, Corea del Nord e Bieloorussia
Molti si sono chiesti perché mancassero questi paesi, in particolare la Russia e la risposta ufficiale non ha tardato ad arrivare. Ufficialmente, secondo la Casa Bianca, gli USA non hanno innalzato i dazi alla Russia perché le sanzioni imposte alla Russia dagli USA per via della guerra in Ucraina, pregiudicano già gli scambi commerciali in modo significativo. Ma è davvero così?
Scambi tra USA, Russia, Iran e Corea del Nord e Bielorussia
Per quanto riguarda la Corea del Nord, così come per l’Iran, la risposta è si, gli scambi commerciali tra USA e Corea del Nord o Iran, sono praticamente nulli, il discorso si fa invece più complicato per quanto riguarda Russia e Bielorussia.
Non ci sono sanzioni USA contro la Bielorussia, ma neanche grandi scambi commerciali, questo perché sostanzialmente la Bielorussia commerciava solo con i paesi adiacenti e alcuni paesi BRICS, e il suo principale partner commerciale era ed è ancora oggi la Russia le cui esportazioni e importazioni coprono da sole più del 75% del volume degli scambi bielorussi.
Per quanto riguarda gli scambi commerciali tra Russia e USA invece, la situazione è molto più complessa, perché negli ultimi 30 anni tra i due paesi gli scambi sono cresciuti esponenzialmente, in parte perché in epoca sovietica erano prossimi allo zero, e in parte perché la Federazione Russa, la cui economia interna era fortemente indebolita dagli enormi costi dell’URSS, in particolare dall’industria bellica sovietica, aveva necessità di aprire le proprie frontiere commerciali.
Tra le principali esportazioni dalla Russia agli USA abbiamo soprattutto risorse naturali, materie prime e prodotti chimici e, secondo i dati del 2021 gli USA erano il principale mercato di sbocco per i prodotti chimici russi e allo stesso tempo la Russia era il principale mercato estero per l’industria farmaceutica USA.
Nel 2021 gli scambi commerciali tra USA e Russia valgono circa 34,4 miliardi di dollari, rendendo gli USA il quarto partner commerciale non CSI (comunità stati indipendenti), secondo solo a Paesi Bassi (46 miliardi), Germania (57 miliardi) e Cina (140 miliardi). Sappiamo inoltre che nel corso del 2020 (ultimo anno del primo mandato Trump), in piena pandemia, gli scambi tra USA e Russia sono cresciuti più degli scambi tra Russia e Cina, rispettivamente il 143% rispetto al 135%.
Durante il mandato presidenziale Biden, e soprattutto a seguito dell’inizio della guerra in Ucraina, gli scambi commerciali tra Russia e USA sono effettivamente crollati, passando da 35 miliardi nel 2021 a 3,5 miliardi circa nel 2024, di cui, 3 miliardi in esportazioni dagli USA alla Russia e 0,5 miliardi di importazioni dalla Russia.
Sanzioni USA alla Russia
Va detto che il crollo degli scambi commerciali tra USA e Russia non è propriamente legato alle sanzioni imposte dagli USA alla Russia, quanto più alle sanzioni imposte dall’UE alla Russia.
L’UE ha infatti imposto numerose sanzioni, dirette e indirette, alla Russia, sanzioni che hanno compromesso anche gli scambi tra USA e Russia. Dal canto suo, gli USA di Biden non sono rimasti con le mani in mano, e anche loro hanno applicato diverse sanzioni alla Russia, in particolare dazi al 500% sul Gas Naturale e Petrolio, de facto l’unica sanzione.
Ad oggi gli USA continuano ad acquistare materie prime e minerali, in particolare terre rare e uranio, dalla Russia, i cui volumi tuttavia sono sempre stati molto limitati. Non si hanno invece indicazioni chiare sulle importazioni di prodotti chimici, ma sembrano che non ci sia stato un rallentamento significativo.
In sostanza, i rapporti commerciali tra USA e Russia, ad oggi, sono abbastanza unidirezionali, gli USA importano poche risorse minerarie di grande valore ed esportano prodotti lavorati, dall’inizio della guerra in Ucraina tuttavia, le esportazioni dagli USA alla Russia sono crollate per via delle sanzioni USA, mentre le importazioni dalla Russia agli USA non hanno subito molti rallentamenti. E le sole sanzioni USA applicate alla Russia riguardano petrolio e gas naturale.
Di conseguenza, quando Trump dice che le sanzioni compromettono già gli scambi commerciali tra Russia ed USA in parte dice il vero, le sanzioni hanno ridotto ad un decimo gli scambi commerciali tra USA e Russia, tuttavia, quel decimo riguarda una parte di scambi che non ha subito alcuna variazione e anzi, le nuove sanzioni sulle materie prime imposte all’UE potrebbero avere come effetto un incremento delle esportazioni di quelle stesse risorse dalla Russia.
I Dazi sull’UE avvantaggiano la Russia?
In effetti, i nuovi dazi generalizzati degli USA imposti a gran parte del mondo, ma non alla Russia, hanno l’effetto indiretto di limitare l’efficacia delle sanzioni UE contro la Russia e rappresentano un vantaggio strategico soprattutto per la Russia.
Se le increspature commerciali tra USA e UE e la “guerra dei dazi” rischia di danneggiare tanto l’economia UE quanto quella USA, per assurdo, l’economia Russa ne ottiene un vantaggio. Non essendoci infatti sanzioni USA o dazi sulle esportazioni di minerali, ferro, uranio, prodotti chimici, prodotti tessili ecc, dalla Russia agli USA, ed essendo queste risorse che la Russia, fino a qualche anno fa esportava in grande quantità verso l’UE (nel 2021 gli scambi tra Russia ed UE valevano complessivamente circa 200 miliardi, contro i 140 miliardi degli scambi tra Russia e Cina, ed ora sono fermi per effetto delle sanzioni UE, possono ora essere reindirizzate verso il mercato USA per sopperire la carenza di risorse causate dall’incremento dei dazi all’UE.
In definitiva, i dazi USA all’UE potrebbero rilanciare parte delle esportazioni russe verso gli USA.
Periodicamente l’attenzione dei media globali torna su Taiwan, il conflitto con la Cina per la sua “indipendenza” e gli interessi USA nella regione. MA perché un isola grande appena un decimo dell’Italia, con una popolazione di appena 24 milioni di abitanti e un PIL pari a 2/5 di quello italiano, è così importante per USA e Cina?
Taiwan è per la Cina quello che Fiume fu per l’Italia dopo la prima guerra mondiale. L’emblema di una “vittoria mutilata“, di una promessa tradita da parte degli alleati. O almeno questo è quello che la Cina nazionalista (come l’Italia dell’epoca) racconta a se stessa e ai propri cittadini.
Siamo nel pieno della seconda guerra mondiale, la Cina, al fianco degli alleati, combatte l’impero giapponese al fianco dell’asse. Per la Cina vincere significa riconquistare l’isola di Formosa, persa contro i giapponesi durante l’ultima guerra sino-nipponica (circa 50 anni prima) e garantirsi una maggiore influenza sul pacifico e il traffico tra pacifico e mar cinese meridionale.
La guerra finisce, l’isola è conquistata, ma neanche 5 anni più tardi, la rivoluzione di Mao cambia il volto del paese. La Nuova Repubblica Popolare Cinese controlla il continente, ma a Taiwan, dove la rivoluzione non attecchisce, si stabilisce il vecchio governo della Repubblica di Cina e per vent’anni entrambi i governi rivendicano la propria sovranità sull’intero territorio cinese, (compresa Taiwan), ed è qui , nel 1949 che iniziano i problemi.
Facciamo allora qualche passo indietro, cerchiamo di capire perché le varie versioni, molto diverse tra loro, fornite da Cina, USA e Taiwan, sono così fortemente politicizzate e polarizzate e sostanzialmente appaiono agli occhi della storia come narrazioni distorte di una realtà che in qualche modo si è perduta.
In questo articolo, senza altri giri di parole, voglio andare alla scoperta delle “origini” di Taiwan e delle ragioni che si celano dietro le pretese territoriali di Cina, USA e Taiwan.
Le origini di Taiwan
Storicamente è difficile parlare di Taiwan senza parlare del conflitto con la Cina, poiché le due realtà viaggiano parallelamente e affondano le proprie radici nella Cina moderna e sono il frutto di un articolato intreccio di guerra civile, interessi economici nazionalisti e imperialisti, forze interne e pressioni esterne, in particolare degli Stati Uniti, ma non solo.
Secondo fonti ufficiali, l’Isola di Taiwan, originariamente chiamata Formosa, venne colonizzata dagli esploratori europei nel XVI secolo, tra 1500 e 1600 e secondo annali, registri commerciali e atti diplomatici, l’isola rimase sotto il controllo diretto delle potenze occidentali almeno fino al XIX secolo, quando venne inglobata nella neonata provincia di Fujian-Taiwan, istituita dall’impero cinese intorno al 1887 e rimase sotto il controllo cinese, fino alla guerra sino-giapponese (1894-1895) al cui termine, i giapponesi sottrassero l’Isola al controllo cinese.
Nel mezzo secolo successivo l’isola fa parte dell’impero giapponese e solo i trattati di pace alla fine della seconda guerra mondiale, videro la cessione dell’Isola alla Cina. Ed è proprio in questi anni, tra il 1945 ed il 1949, con la rivoluzione di Mao, che ebbe inizio il “conflitto” diretto tra Taiwan e la Cina continentale.
Più precisamente, mentre nella Cina continentale il partito comunista cinese guidato da Mao Zedong avanzava e trionfava nella guerra civile, ciò che rimaneva dell’altra parte, il governo del Kuomintang, si rifugiarono sull’isola di Formosa a Taiwan ed è questo il momento di rottura.
Le forze militari del Kuomintang, asserragliate sull’isola, riescono a resistere alla rivoluzione maoista, e mentre nella Cina continentale veniva costituita la Repubblica Popolare Cinese (RPC), che rivendicava la propria sovranità su tutto il territorio della Cina continentale e possedimenti extraterritoriali della Cina, dall’altra parte, il governo separatista di Taiwan riconosceva se stesso come legittimo governo della Repubblica di Cina (RPC) istituita nel 1912 e di conseguenza rivendicava la propria autorità sull’intero territorio cinese, sia continentale che extraterritoriale.
Disputa territoriale tra Cina e Taiewan
A questo punto ci sono due istituzioni, la RPC e la ROC, con due governi distinti, che rivendicano entrambe la sovranità sull’intera Cina, la prima controlla effettivamente il paese e governa da Pechino, la seconda in esilio a Taiwan senza alcun controllo diretto o indiretto sul territorio cinese.
Questa disputa viene parzialmente risolta nel 1971 con la risoluzione 2758 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, risoluzione che riconosce la Repubblica Popolare di Cina come l’unico rappresentante legittimo della Cina continentale all’interno delle Nazioni Unite, e di conseguenza riconosce il governo di Pechino come legittimo governo cinese, espellendo i rappresentanti della ROC dall’ONU.
La questione sembra risolta, tuttavia il governo di Taiwan, rivendica il proprio diritto a partecipare alle Nazioni Unite, poiché la risoluzione 2758, non la riconosce ufficialmente come parte del territorio cinese. Dall’altra parte per la Cina continentale, e la stessa ONU, tale riconoscimento non può avvenire in maniera arbitraria, ma deve esserci un istanza di indipendenza da parte di Taiwan, la cui assenza rende de facto Taiwan una regione autonoma della Cina (esattamente come Hong Kong, Macao ecc).
Dal 1971 ad oggi, Taiwan ha presentato diverse richieste all’ONU per essere riconosciuta come stato sovrano, richieste per lo più respinte in favore delle opposizioni della Cina.
Dall’altra parte, va detto che il governo di Pechino è tutt’altro che indulgente con Taiwan, ha sempre considerato Taiwan una parte irrinunciabile del territorio cinese, e de facto considera qualsiasi movimento estero a sostegno dell’indipendenza formale dell’isola come una minaccia diretta all’integrità territoriale della Repubblica Popolare Cinese.
Su questo punto è bene fare un chiarimento aggiuntivo. Le opposizioni della RPC all’indipendenza di Taiwan, sono sia interne che esterne, e si fondano prevalentemente sulla “costituzione” cinese, il diritto cinese e lo stesso statuto dell’ONU.
Si tratta delle stesse opposizioni mosse dal governo spagnolo nei confronti dell’indipendenza catalana, o delle opposizioni Italiane alle richiesta di indipendenza della padania, o degli USA alle recenti richieste di indipendenza di alcuni stati federali.
Sebbene la RPC sia contrario e si opponga fortemente all’indipendenza formale di Taiwan, non ne esclude esclude la possibilità, e in più occasioni il governo di Pechino si è detto disposto ad accettarle a condizione che questa richiesta venga formulata seguendo la prassi riconosciuta dall’ONU e il principio di autodeterminazione dei popoli. Ed è su quest’ultimo punto che sorge il vero problema dell’indipendenza di Taiwan, perché la stessa Taiwan, pur rivendicando insistentemente la propria indipendenza dalla Cina, non ha mai riconosciuto se stessa come un popolo diverso da quello cinese, rigettando de facto l’idea di un nazione diversa.
Ricordate la risoluzione 2758 del 1971 che riconosce al governo di pechino la sovranità sull’intero territorio della Cina? Ecco, Taiwan non ha mai accettato apertamente tale risoluzione e, anche se espulsa dall’ONU, ha continuato e continua tutt’oggi, sostenuta dagli USA a riconoscere se stessa come parte del territorio cinese e continua a rivendicare la propria sovranità sull’intera cina.
Prendete quanto segue molto con le pinze, ma sembra quasi che tra Cina continentale e Taiwan, la vera disputa territoriale, continui ad essere non la sovranità sull’isola di Taiwan, ma la sovranità sulla Cina continentale, o almeno così è stato fino a circa 20 anni fa.
Fino a gli anni 90 anche nei documenti ufficiali, sia Taiwan che USA e Giappone, hanno continuato a definire Taiwan come “Taiwan-Cina”, e solo di recente questo nominativo è scomparso in favore del semplice “Taiwan“.
Tutti vogliono Taiwan
Come abbiamo visto, la questione di Taiwan è molto più che una semplice disputa territoriale per il controllo di un isola, e se per la Cina rappresenta una risorsa strategica, ma soprattutto un importante obbiettivo politico in termini di unità nazionale, per fare un esempio pratico, per la Cina, Taiwan è un po’ quello che Fiume era per l’Italia dopo la prima guerra mondiale. Ma non solo, dal punto di vista geopolitico, Taiwan occupa una posizione strategica estremamente rilevante, l’isola venne colonizzata nel XVI secolo per la sua posizione chiave per il controllo delle rotte e l’accesso l’accesso marittimo tra il Mare della Cina Meridionale e l’Oceano Pacifico.
Per la Cina controllare Taiwan significherebbe permetter alla propria marina di ottenere uno sbocco diretto sul Pacifico, estendendo di conseguenza la propria influenza marittima e mettendo in discussione l’attuale supremazia navale statunitense nelle acque dell’estremo oriente. Supremazia ottenuta a seguito della vittoria sul Giappone nella seconda guerra mondiale e la nascita di Taiwan, che de facto ha “mutilato” la vittoria cinese.
È passato quasi un anno da quando, nel luglio 2024 Google, o meglio Alphabet, la holding proprietaria di Google, ha lanciato la propria offerta da 23 miliardi di dollari per l’acquisizione di Wiz, offerta rifiutata dalla startup che nel frattempo ha iniziato a sondare il terreno in vista di una possibile IPO (offerta pubblica iniziale) ovvero in vista della propria quotazione in borsa.
Era il 22 luglio 2024 quando Wiz annunciava al mondo di aver rifiutato l’offerta di Google, ma nei successivi 8 mesi, Google non ha lasciato correre e anzi, ha più volte rivisto l’offerta, tentato una lunga negoziazione e alla fine, a metà marzo 2025, dopo mesi di corte sfrenata, Wiz ha ceduto.
Il 17 marzo 2025 il Wall Street Journal dava per la prima volta la notizia della possibile acquisizione di Wiz da parte di Google, per circa 30 miliardi di dollari, e nei giorni seguenti la notizia è stata divulgata ufficialmente, la startup israeliana con sede a New York, sembra aver effettivamente accettato l’offerta da 32 miliardi avanzata da Alphabet, ma ai piani alti di Google non possono ancora cantare vittoria, poiché, per ufficializzare l’acquisizione manca ancora uno step, il più delicato di tutti, l’OK definitivo dell’Antitrust, che potrebbe arrivare non prima del 2026.
In questo articolo voglio parlarvi di come è andata la trattativa, del perché Google (Alphabet) ha investito così tanto in una singola società, e cosa implica questa acquisizione.
Alphabet e Google non hanno bisogno di troppe presentazioni, anche mia nipote di 5 anni conosce Google, discorso diverso invece vale per Wiz, una società che negli ultimi anni è diventata una vera e propria celebrità nel panorama della sicurezza informatica, ben nota agli esperti e professionisti del settore, ma sostanzialmente sconosciuta a chiunque altro.
Molto velocemente, Wiz è una startup relativamente giovane, fondata nel 2020 da Assaf Rappaport, Yinon Costica, Ami Luttwak e Roy Reznik e si occupa di sicurezza informatica e cloud security, che in pochissimo tempo, in meno di un anno, è diventata un vero e proprio punto di riferimento globale nel campo della cybersecurity.
Tra le ragioni a blla base del grande successo di Wiz il suo core business innovativo, l’azienda di sicurezza informatica è specializzata nella sicurezza in cloud, o meglio, nella sicurezza informatica per i sistemi in cloud. Più nel dettaglio l’azienda fornisce ai propri clienti una piattaforma, che Wiz stessa definisce “sicura e facile da usare” che permette di connettere tutti i principali cloud e ambienti di codice, per scansionarli, analizzarli, cercare eventuali falle e vulnerabilità, il tutto supportato da un intelligenza artificiale specifica, progettata e addestrata per rilevare e prevenire minacce in tempo reale.
Wiz ovviamente non è l’unica società a fare ciò, ma senza troppe remore, possiamo dire che è una delle aziende che in questo momento lo fa “meglio” rispetto alla concorrenza. Punto di forza di Wiz è l’analisi in tempo reale che ha già dimostrato in diverse occasioni di essere in grado di rilevare vulnerabilità nelle infrastrutture cloud, identificare falle nel sistema e fornire all’utente finale, una serie di soluzioni per mitigare le minacce.
In pratica un potentissimo antivirus, che lavora in cloud, ed è supportato da una potente intelligenza artificiale.
L’ascesa di Wiz nel settore della cybersicurezza
Wiz è stata fondata nel 2020 e nel 2021 era già una punto di riferimento nel settore. Quattro anni dopo la sua fondazione, nel 2024 Wiz vanava un portafogli clienti di tutto rispetto, poiché includeva più del 50% delle aziende presenti nella classifica Fortune 100, tra queste anche Microsoft, Amazon e Google, che operano attivamente nel settore del cloud computing.
L’ascesa di Wiz nell’olimpo della cybersecurity è legato a due importanti avvenimenti, il primo, è la Pandemia, Wiz è stata nel 2020 una delle tante Startup che hanno fatto fortuna grazie alla Pandemia, poiché il dilagare di servizi in cloud e piattaforme per videoconferenze, condivisione dati e lavoro da remoto a partire dal 2020, ha creato e alimentato una crescente domanda di sicurezza, e in quell’incremento della domanda Wiz è riuscita a insediarsi proponendo una soluzione solida e credibile.
I primi clienti conquistati nel 2020 sono stati testimonial dell’efficienza e delle capacità dell’azienda ma è solo nel 2021 che Wiz ha fatto il grande passo. Grazie ai suoi sistemi automatici è riuscita ad individuare una serie di vulnerabilità e critica nei sistemi Microsoft Azure, vulnerabilità che fino a quel momento erano sfuggite anche agli esperti del settore. L’impresa sensazionale ha posto Wiz sotto i riflettori dei principali media di settore, innescando una reazione a catena che ha amplificato enormemente la fama e la credibilità dell’azienda. Ne consegue non solo un incremento dei clienti, ma anche degli investitori. Wiz attira così a se numerosi e importanti investitori e fondi di investimento della silicon Valley tra cui Sequoia Capital, Index Ventures e Insight Partners, che a loro volta amplificano la fama e credibilità di Wiz, permettendole di acquisire nuovi clienti e di crescere ulteriormente, fino a diventare un gigante valutato nel luglio 2024 circa 16 miliardi di dollari.
Perché Alphabet ha comprato Wiz?
Come anticipato, già nel 2024 Alphabet aveva messo gli occhi su Wiz provato ad acquisire la startup, offrendole molto più del suo valore di mercato, all’epoca infatti l’offerta di Alphabet fu di circa 23 miliardi di dollari, mentre la valutazione di Wiz oscillava tra 12 e 16 miliardi. Wiz ha successivamente tentato la via della quotazione ma a quel punto Alphabet ha offerto ancora di più, arrivando a 32 miliardi di dollari, offerta che ad oggi sembra essere stata accettata.
Ma perché Google ha puntato così tanto su Wiz? Già l’offerta del 2024 rappresentava una supervalutazione, e ad oggi, il valore di Wiz non supera i 16 miliardi di dollari. Inoltre Google, giù nel 2022 aveva investito circa 6 miliardi di dollari in società che operano nel settore.
Uno dei motivi, probabilmente non l’unico, è legato al fatto che, come abbiamo visto Wiz, è all’avanguardia nel settore della sicurezza delle infrastrutture in cloud ed è considerata una delle migliori aziende al mondo per quel tipo di servizi, e banalmente, molti dei servizi di google, in questo momento, da Youtube a Drive, a Gemini, da fogli di lavoro e Workspace ai tool per videoconferenze come Meet, sono sostanzialmente servizi in cloud.
Ad oggi, garantire sicurezza ai propri sistemi e infrastrutture, tutelare i dati di clienti ed utenti, è certamente un tema cruciale per un azienda nella posizione di Google, ed certamente un valido motivo per acquisire un azienda che opera nel settore della sicurezza dei dati, ma sembra sufficiente a giustificare un investimento di questa portata, de facto il più grande nella storia di Google. Per questo scopo infatti, Mandiant e Siemplify, acquistate da Alphabet nel 2022 rispettivamente per 5,4 miliardi e 500 milioni, sarebbero state sufficienti. Eppure Google ha deciso comunque di arrivare ad offrire 32 miliardi di dollari pur di accaparrarsi Wiz. Viene da chiedersi perché?
Ed una delle possibili risposte sta nell’attuale contesto geopolitico globale. Tra crescenti tensioni tra nazioni che sembrano essere sempre più sull’orlo di una nuova guerra mondiale e la previsione che i futuri conflitti verranno combattuti anche e soprattutto sul piano informatico, fa sì che, quello della cybersecurity sia un tema caldo, e prospero, che interessa sia governi che imprese.
In definitiva, ad oggi vi è una costante e crescente richiesta di soluzioni affidabili in termini di sicurezza, sia per l’archiviazione dei dati che per la gestione delle comunicazioni, ed è qui che le cose si fanno interessanti per un azienda come Google che fornisce sia strumenti di comunicazione, che di archiviazione dati.
Va inoltre osservato che, tra computer quantistici, ormai alla portata di tutti e avanzate intelligenze artificiali, in grado di individuare falle nella sicurezza informatica, molto più velocemente di qualsiasi altro operatore umano, è come se stessimo vivendo l’incubo di Turing, per cui solo una macchina può battere un altra macchina.
Dal Movimento Sociale Italiano a Fratelli d’Italia, una parte della destra italiana ha sempre esibito con fierezza e orgoglio un simbolo di partito, la fiamma tricolore, un simbolo che porta con se un eredità storica oltre che politica, si tratta infatti di uno dei simboli politici più longevi nella storia della Repubblica Italiana, secondo solo allo scudo crociato della Democrazia Cristiana, usato anche nel regno d’Italia e la falce e martello comunista, anche questo usato già prima della repubblica.
Fin da quando esiste la repubblica italiana, la fiamma tricolore, emblema della destra e in alcuni momenti estrema destra italiana, ha mantenuto una presenza costante nel panorama politico evolvendo nel tempo insieme alla stessa politica italiana, con risvolti complessi e controversi e soprattutto con diverse interpretazioni legate alle sue origine e al suo significato.
Il simbolo, creato agli albori della Repubblica, da un partito formato da ex fascisti ed esponenti della Repubblica sociale italiana, quasi sempre è stato ricondotto al fascismo italiano, tuttavia, la storia di questo simbolo è molto più ampia e si radica in un Italia che precede il fascismo stesso.
In questo articolo andremo alla scoperta della storia, le origini e le leggende legate alla fiamma tricolore, simbolo storico della destra italiana, e forse sfateremo qualche mito e falsa credenza legati a questo simbolo.
La Fiamma Tricolore
Partiamo dalla sua creazione ufficiale, siamo sul finire degli anni quaranta, più precisamente tra 1946 e 1947, il 26 dicembre 1946 alcuni reduci della Repubblica Sociale Italiana ed ex esponenti del regime fascista, tra cui Giorgio Almirante e Pino Romualdi, si riuniscono per fondare un nuovo partito da inserire nel panorama nazionale, nasce così il Movimento Sociale Italiano, MSI, e nel gennaio del 1947, appare per la prima volta La fiamma tricolore come simbolo di questo nuovo partito, erede e allo stesso tempo distaccato dall’esperienza fascista.
Non sappiamo con precisione chi progettò il simbolo, secondo alcuni fu opera dello stesso Almirante che nel 1946, scrisse “Siamo nati nel nome d’Italia/stretti attorno alla nostra Bandiera/è rinata con noi primavera/si è riaccesa una Fiamma nel cuor/Italia, sorgi a nuova vita, così vuole/Chi per te morì”. Secondo altre versioni invece, la fiamma sarebbe un simbolo preesistente.
Ad oggi non sappiamo con certezza chi abbia concepito la fiamma e la sua simbologia, e sebbene alcuni studi ipotizzino che, questo simbolo sarebbe una derivazione del distintivo del reggimento degli Arditi, corpo speciale del Regio Esercito italiano durante la Prima Guerra Mondiale. Tuttavia, l’unica fiamma che troviamo tra i simboli del regimento degli arditi è quella del IX reparto d’assalto, ed è una fiamma molto diversa da quella usata dal MSI e molto più simile alla fiamma dei Carabinieri, in uso fin dal 1882, mentre il simbolo ufficiale degli arditi era un teschio con una corona d’alloro e un pugnale tra i denti.
Cercando tra simboli militari e politici in uso negli anni precedenti la nascita del MSI possiamo tuttavia trovare un simbolo, molto simile, alla fiamma tricolore adottata dal MSI, ed è il simbolo del Rassemblement national populaire, RNP, fondato nella Francia di Vichy nel 1941 dall’ex ministro dell’aviazione francese Marcel Déat. Il RNP fu uno dei tre partiti “collaborazionisti” (che collaborarono con i nazisti) della Repubblica di Vichy, e fu sostanzialmente un partito nazionalsocialista e di ideologia fascista, francese.
La fiamma nel simbolo del RNP ci apre una nuova strada alle origini della fiamma tricolore del MSI, e soprattutto smentisce le parole di Fabio Rampelli, secondo il quale “la fiamma è un simbolo del secondo dopoguerra che nulla ha a che vedere con i totalitarismi del Novecento. Il simbolo simmetrico alla falce e martello è la croce uncinata nazista e il fascio littorio e tutti e tre sono stati stigmatizzati dal Parlamento europeo da una risoluzione” poiché è vero che la fiamma tricolore non era il simbolo del fascismo, ma è anche vero che, almeno dal 1941, vari movimenti fascisti e collaborazionisti, adottarono la fiamma.
Va detto che un altra fiamma, prima di quella del MSI e successiva alla fiamma del RNP appare nella simbologia politica italiana nel 1942, e contrariamente a quello che ci potremmo aspettare a questo punto della storia, appare in un partito antifascista, ovvero il Partito d’Azione di Perruccio Parri, Emilio Lussu, Ugo La Malfa e Riccardo Lombardi.
Si tratta, come possiamo vedere, di una fiamma molto diversa da quella del MSI e del RNP francese, che invece sono tra loro molto affini, soprattutto se si considera che il simbolo del Front National del 1972, erede in un certo senso del RNP, è una fiamma tricolore identica alla fiamma del MSI, con la sola differenza che i colori sono Blu, Bianco e Rosso e non Verde, Bianco e Rosso
Anche in Belgio, nel 1985, il Front National di Daniel Féret, ha adottato come simbolo una fiamma tricolore, che sembra incrocio tra la fiamma del MSI e la fiamma del RNP.
Come possiamo osservare molti partiti, con ideologie simile, generalmente partiti di destra, fortemente Nazionalisti, in molte parti d’Europa, hanno adottato, nel corso del tempo il simbolo della fiamma, molto spesso derivato dal simbolo del MSI, che a sua volta sembra essere derivato da simboli precedenti.
Cosa significa la fiamma?
Il simbolo della Fiamma Tricolore viene inizialmente concepito come un trapezio, al cui interno è presente la sigla del MSI. Secondo il Michelangelo Borri dell’Università di Trieste, la Fiamma ha un forte legame con il MSI, e qualunque sia la sua origine, diventa a tutti gli effetti un simbolo politico, nel 1946 grazie al MSI. Secondo Borri infatti, nel 1946 il MSI prende il simbolo della fiamma e lo carica di significato, attraverso il suo utilizzo come logo, come stemma e attraverso il suo racconto trasversale. La fiamma non è solo il logo, è presenta anche nell’inno del partito, il “canto degli Italiani” scritto da Almirante.
Siamo nati un cupo tramonto Di rinuncia, vergogna, dolore: siamo nati in un atto d’amore riscattando l’altrui disonor. Siamo nati nel nome d’Italia, stretti attorno alla nostra Bandiera: è rinata con noi primavera, si è riaccesa una Fiamma nel cuor. Italia, sorgi a nuova vita, così vuole Chi per te morì, chi il suo sangue donò chi il nemico affrontò Giustizia alla Patria darà. Italia, rasserena il volto, abbi fede: nostro è l’avvenir. Rispondi, rispondi, o Italia! Si ridesta la tua gioventù. Noi saremo la vostra avanguardia, Italiani, coraggio: in cammino. Solo ai forti sorride il destino; liberate la Patria, il Lavor. Noi saremo la Fiamma d’Italia, il germoglio di un’alba trionfale, la valanga impetuosa che sale: Italiani, coraggio: con noi! Italia, sorgi a nuova vita.
C’è poi un interpretazione più diretta e audace, fornita da Anna Foa, secondo cui il simbolo della fiamma “sta probabilmente a significare lo spirito fascista che risorge”. Questa interpretazione che collega esplicitamente il simbolo a una continuità ideologica con il fascismo, potrebbe avere un senso, se non fosse che, come abbiamo visto, nel 1941 il simbolo della Fiamma era già in uso a movimenti filofascisti d’oltre alpe, e dunque l’idea di una “rinascita” dello spirito fascista, ha poco senso.
C’è allora da caire cosa vuol dire effettivamente la Fiamma prima della seconda guerra mondiale. Ma prima della guerra non sembrano esserci utilizzi effettivi della fiamma, o meglio, non ci sono utilizzi chiari, forti e carichi di significato. Come già osservato, l’unico utilizzo riconosciuto di una simbologia analoga lo abbiamo con la fiamma del RNP francese del 1941, ed è un caso interessante poiché il contesto storico, politico, culturale, in cui esistette il RNP è analogo all’esperienza vissuta in Italia dal della RSI, tra 1943 e 1945, ovvero una dittatura militare con un governo fantoccio per un regime collaborazionista della Germania nazista. E proprio in quel contesto incontriamo molti dei futuri fondatori del MSI, tra cui lo stesso Giorgio Almirante che nella RSI fu capo di gabinetto del Ministero della Cultura Popolare.
Da un certo punto di vista quindi, più che una continuità diretta tra il “fascismo” e il MSI, potremmo dire che, almeno nel MSI delle origini, ci fu una continuità tra il MSI e la RSI, visto che innumerevoli funzionari della RSI, scampati alla galera per via dell’amnistia, confluirono nel MSI, e questo forse è anche più grave, poiché prendendo per buona l’idea che il Mussolini dittatore d’Italia “ha fatto anche cose buone”, è decisamente più “difficile” individuare qualcosa di positivo nell’esperienza della RSI, de facto una provincia del Reich, complice di rastrellamenti, deportazioni, linciaggi e innumerevoli crimini di guerra. Ma non siamo qui a dare giudizi, siamo qui per individuare le origini del simbolo della fiamma tricolore.
La fiamma tricolore, così come è stata concepita nel 1946, e per come è stata utilizzata dal 47 ad oggi, porta con se una serie di idee, ideologie, e valori, che possono piacere o meno, essere condivisi o meno, alcuni dei quali sono appartenuti anche al fascismo e l’antifascismo italiano degli anni 30 e 40. Principalmente un ideologia nazionalista radicale, generalmente militarista, con elementi di socialismo rivoluzionario e irredentista, e tali principi sono ancora fortemente radicati nella fiamma.
Il simbolo, generalmente rappresentata come una fiamma più o meno stilizzata, colorata con i simboli della bandiera nazionale, ad oggi è utilizzato, non più solo in Italia e Francia, per lo più da partiti, movimenti e forze politiche di forte ispirazione nazionalista e ultranazionalista, antiglobalista, generalmente di destra ed estrema destra, e in alcuni rari casi dichiaratamente di ispirazione “nostalgica”. Tale simbolo è presente nell’iconografia politica Italiana e Francese, ma anche Belga, Portoghese, Spagnola, Greca, Ceca, Romena, Argentina, Cilena, Norvegese e Polacca, e se in Francia e Italia ha avuto origine in epoca fascista, o comunque da uomini che hanno avuto un ruolo attivo nell’esperienza fascista, come Giorgio Almirante e Marcel Déat, nel resto del mondo in realtà stato adottato molto più recentemente. Fatta eccezione per il Belgio che l’ha ereditata dalla Francia negli anni ottanta, il resto del mondo l’ha adottata a partire dalla fine degli anni novanta e inizio anni 2000, e nel complesso, si tratta per lo più di movimenti politici che in momenti differenti hanno manifestato e dichiarato, in maniera più o meno aperta, un desiderio di continuità con l’ideologia fascista e nazional-socialista.
Molti di questi movimenti hanno avuto un evoluzione simile, sono nati con un impronta fortemente radicale e in continuità con un passato, più o meno recente, di ispirazione fascista, e crescendo si sono aperti a correnti più moderate, in sostanza, man mano che i loro consensi crescevano, le posizioni più radicali venivano abbandonate in favore di posizioni più moderate, questo è particolarmente evidente nei casi di maggior rilievo, come il MSI italiano e il Front National francese, la cui continuità con il passato fascista e nazionalsocialista è stata progressivamente abbandonata e in alcuni casi apertamente rinnegato.
Dal MSI ad oggi
Come abbiamo visto, la fiamma tricolore è cambiata negli anni e con essa è cambiato il MSI e i suoi eredi, assumendo col tempo posizioni sempre più moderate. Negli anni sessanta assistiamo ad un vero e proprio rinnovamento del partito che porterà all’allontanamento di individui pericolosi come Juno Valerio Borghese (ex comandante della X-MAS e futuro golpista italiano), evoluzione e ammorbidimento che negli anni 90 porterà allo scioglimento del MSI e la nascita di Alleanza Nazionale sotto la guida di Gianfranco Fini, tra i primi in quell’ambiente politico a prendere ufficialmente le distanze dall’ideologia fascista, fino a quel momento riconosciuta come una parte importante del proprio passato. Fin dal 1948 il MSI aveva adottato come proprio slogan l’idea di “non rinnegare, ne restaurare” il Fascismo, e questa visione, già allontanata da Augusto De Marsanich negli anni 60, venne definitivamente abbandonata con Fini.
L’effetto di questo rinnovamento come sappiamo portò nel 2009 alla fusione di Alleanza Nazionale con Forza Italia nel Popolo della Libertà segnando per la prima volta la sparizione della fiamma tricolore dalla simbologia politica italiana, una sparizione che sarebbe durata solo 5 anni, ovvero fino alla sua riapparizione nel 2014 come parte del simbolo di partito di Fratelli d’Italia in quanto erede di Alleanza Nazionale.
Dopo mesi di trepidante attesa, sembra che dal Ministero dell’Istruzione e del Merito, si stia per compiere un primo passo per riconoscere il merito degli Idonei degli ultimi concorsi. Secondo quanto riportato da Orizzonte Scuola, il governo sarebbe prossimo ad approvare il nuovo Decreto Legge sulla scuola (DL Scuola), con cui verrebbero introdotte nuove misure urgenti per risolvere una delle grandi criticità lasciate aperte dai concorsi PNRR, ovvero la condizione degli Idonei, coloro che hanno superato entrambe le prove del concorso, ma che non sono rientrati tra i vincitori.
Diversi sindacati da tempo, tra cui Anief, sono impegnati in battaglie anche legali per richiedere a gran voce la produzione di una graduatori degli idonei per le immissioni in ruolo, come accaduto già per i concorsi precedenti e finalmente sembra che la loro voce sia stata in parte ascoltata e il problema riconosciuto.
Si tratta di un primo passo e non una vera e propria risoluzione per la stabilizzazione di migliaia di insegnanti, e i sindacati rimarcano la necessità ulteriori interventi più incisivi, affinché venga garantita equità nel sistema e nei processi di selezione degli insegnanti.
Equità che è venuta a mancare tra 2021 e 2022 quando i 24 CFU per l’insegnamento sono stati sostituiti dai 60CFU i cui percorsi sono molto più costosi e a numero chiuso, e a poco è servita la fase transitoria, predisposta dal governo Draghi, affinché i titolari dei 24 CFU potessero ottenere nel biennio successivo l’abilitazione, poiché in due anni, è stato abilitato un unico turno di percorsi integrativi da 36 CFU, riservato esclusivamente ai vincitori del PNRR1, mentre gli idonei si sono ritrovati nella condizione di doversi iscrivere ai più costosi percorsi da 60CFU , pagando una preiscrizione che a seconda delle Università oscilla tra i 100 ed i 150€ senza garanzia di ammissione. E sono migliaia gli aspiranti docenti che nel 2024/2025 hanno letteralmente buttato via più di 100€ perché non rientrati nei posti disponibili.
Oltre al danno anche la beffa, è il caso di dirlo, perché da gennaio 2025, non sarà più possibile partecipare ai concorsi senza i 60CFU, ma verranno erogati percorsi abilitanti a numero chiuso in numero pari o comunque leggermente superiore ai posti disponibili, in altri termini, il ministero autorizzerà, per ogni classe di concorso X percorsi abilitanti, che permetteranno ad X abilitati di partecipare al un concorso nel quale ci saranno X posti a bando. Va da se che la vera selezione non è fatta tramite il concorso, ma tramite le università che erogano i percorsi abilitanti. E questo significa che laureati di vecchia data, in possesso dei 24 CFU, potrebbero non essere mai abilitati, poiché, i 24 CFU non conferiscono alcun punteggio aggiuntivo, e a parità di punteggi, si darà precedenza al candidato anagraficamente più giovane. Significa che un neolaureato con 110 e lode, ha più probabilità di essere abilitato di un laureato di 10 anni fa che non ha ottenuto la lode, ma non è tutto, perché in realtà il punteggio può essere gonfiato, basta solo avere la disponibilità economica per poter spendere migliaia di euro. In tutto questo il merito è un puro miraggio.
Tornando agli idonei esclusi, questi non hanno alcun riconoscimento, significa che, pur avendo totalizzato lo stesso punteggio complessivo dell’ultimo vincitore e risultati non vincitori per ragioni anagrafiche, non solo sono stati esclusi dall’immissione in ruolo, in fondo non erano vincitori, ma non hanno avuto neanche la possibilità di essere abilitati, rimanendo così relegati nella seconda fascia delle GPS, mentre altri colleghi, semplicemente più giovani o con più disponibilta economiche, hanno avuto la possibilità di abilitarsi, passare in prima fascia e assicurarsi delle supplenze a lungo termine.
Ora però, forse, le cose potrebbero iniziare a cambiare e sembra che il ministero stia per compiere un primo passo per permettere a questi aspiranti docenti di uscire da quell’inferno burocratico che da 2 anni gli sta consumando l’anima e prosciugando il conto in banca.
Cosa introdurrà il nuovo DL Scuola
Secondo quanto riportato da Orizzonte Scuola, il nuovo DL dovrebbe introdurre almeno due importanti novità per gli Idonei dei concorsi PNRR1 e PNRR2 , la prima è il Recupero degli idonei non utilizzati, in altri termini gli Uffici Scolastici Regionali dovranno convocare, per l’anno 2023/2024 gli idonei esclusi per coprire i posti rimasti vacanti dopo le operazioni di assunzione ordinarie. Non è chiaro però se gli idonei avranno priorità o meno rispetto alla Prima Fascia di GPS.
Dovranno inoltre essere Stabilizzati dei docenti con riserva, ciò significa che in teoria verranno riconosciuti i diritti dei docenti con “riserva” (ad esempio, coloro che hanno vinto ricorsi o hanno titoli specifici), garantendo loro priorità nelle assunzioni.
La posizione di Anief
In merito a questa notizia si è espresso anche il sindacato Anief accoglie attraverso il presidente Marcello Pacifico, che si è detto ottimista nei confronti del decreto, definendolo “un primo passo necessario”. Tuttavia, il presidente ha anche sottolineato che le misure anticipate sono insufficienti “Il decreto risolve solo una parte del problema. Servono interventi strutturali per evitare che ogni anno migliaia di docenti competenti restino esclusi a causa di norme ambigue o di posti che il Ministero non assegna”. Anief precisa anche che resta ancora irrisolto il problema della trasparenza nelle graduatorie.
Implicazioni per i docenti
Per i docenti con riserva o idonei, il decreto potrebbe rappresentare un’opportunità concreta per ottenere un contratto stabile. Tuttavia, restano dubbi sull’applicazione pratica poiché alcune scuole, potrebbero non avere posti disponibili dopo le prime fasi di assunzione, limitando l’efficacia della norma, ma, anche se limitata, rimane comunque un primo importante passo in avanti.
Le novità di questo decreto offrono agli idonei del PNRR2 (ancora in corso di svolgimento), un importante opportunità, poiché, a differenza del PNRR1, gli idonei del PNRR2, saranno pochi, in quanto hanno accesso alla prova orale solo un numero estremamente limitato di docenti, ovvero il triplo dei posti a bando più tutti coloro che hanno ottenuto un punteggio pari all’ultimo degli ammessi, significa che per una classe di concorso come la A19, per la quale in Campania si sono solo 3 posti a bando, avranno accesso all’orale poco più di 9 candidati e questo significa poco più di 9 idonei, a differenza del PNRR1 che ha visto, nella stessa regione, per la stessa classe di concorso, oltre 300 idonei.
Ad oggi, sebbene la maggior parte degli storici convenga sul fatto che non ci fu un momento unico che segnò le sorti della seconda guerra mondiale, tuttavia, in molti, soprattutto tra i più politicizzati, sostengono varie teorie, i più orientati a sinistra vedono nell’ingresso dell’URSS nella seconda guerra mondiale, un momento cruciale che forzò la mano degli USA ad entrare nel conflitto assicurando così una coalizione URSS+USA abbastanza potente da poter sconfiggere l’asse. Secondo altri il solo ingresso degli USA fu determinante ed è quindi merito esclusivo degli USA se la guerra si è conclusa con la vittoria alleata. Altri ancora sostengono che, se l’Italia non avesse iniziato il conflitto con l’Asse, le forze Naziste non si sarebbero frammentate per sopperire ai disastri bellici dell’Italia, e questo avrebbe reso molto più ostica la vittoria alleata.
La verità è che probabilmente non ci fu un singolo momento o attore decisivo per la seconda guerra mondiale, ma una serie di momenti e attori determinanti, che permisero nel tempo, agli alleati, di ottenere un vantaggio strategico sull’asse, che fu decisivo solo come insieme di una serie di innumerevoli fattori.
E uno di questi fattori vede come protagonista un matematico, l’intelligence britannica, e una macchina che permise agli alleati di sconfiggere Enigma, l’arma segreta dei nazisti.
Siamo nel 1940, la seconda guerra mondiale è iniziata da qualche mese e le comunicazioni naziste sembrano inviolabili agli occhi dei servizi britannici. I nazisti usano infatti Enigma, una sofisticata macchina in grado di cifrare i documenti e solo conoscendo la chiave di decrittazione è possibile decifrare il messaggio, ma c’è un problema, la chiave, i codici nazisti cambiano ogni giorno…
L’Intelligence militare britannica, per contrastare Enigma, avvia il programma Ultra, che raccoglie matematici, ingegneri ed esperti di crittografia, per riuscire nell’epica impresa di decifrare, ogni giorno, i codici di Enigma.
Occasionalmente riescono in tarda serata o dopo la mezzanotte, quando ormai è troppo tardi ed i codici sono già cambiati. Tra di loro c’è un giovane matematico, Alan Turing, di cui ho già parlato in un episodio del mio podcast, con una visione innovativa, una macchina in grado di eseguire migliaia di operazioni complesse e riuscire così ad individuare la chiave di Enigma in tempi rapidi. I suoi colleghi lo considerano un folle ma qualcuno nei servizi gli dà una possibilità. Non sappiamo quando, ma tra il 1940 ed il 1942, Turing riesce, più o meno, nell’impresa, trova una vulnerabilità nelle comunicazioni Naziste, una vulnerabilità che permetterà alla sua macchina Bomba, di decifrare i codici di Enigma in pochi secondi.
Sappiamo che almeno dal 1942 i britannici decriptano migliaia di documenti al giorno, conoscono ogni mossa dei Nazisti, i dettagli delle operazioni prima ancora che queste abbiano inizio, e grazie a loro, grazie al lavoro di Turing, gli Alleati dispongono di informazioni chiave e determinanti per poter vincere la guerra. Decidono però di non usarle, non sempre, non vogliono che i Nazisti sappiano e possano correggere la vulnerabilità.
Finita la guerra Bomba viene distrutta e tutti i documenti relativi al programma insabbiati. Solo nei primi anni 2000 il governo britannico rivela al mondo la verità.
Turing aveva trovato una vulnerabilità nelle comunicazioni naziste, non in Enigma, per questo è stato nascosto tutto, perché fino a quel momento, nessuno era riuscito a violare realmente Enigma.
Alan Turing: Il Genio di Bletchley Park
La svolta che Turing diede alla guerra parte da un’intuizione, ovvero che una macchina come enigma poteva essere battuta solo da un altra macchina, ed è proprio sulla base di questa visione e delle altre teorie di Turing che oggi il matematico britannico è considerato uno dei padri dell’informatica moderna, e per certi versi l’uomo che compì il primo cyber attacco della storia, gettando le basi non solo dell’informatica moderna, ma anche di un nuovo modo di fare e concepire la guerra, cerchiamo allora di conoscere meglio Alan Turing.
Alan Mathison Turing nasce a Londra nel 1912 e stando alle sue biografie, mostrò fin da subito uno spiccato acume matematico, si dice che a soli sedici anni fosse già in grado di comprendere gli studi di Einstein. Nel 1939, quando inizia la seconda Guerra Mondiale Turing, all’epoca ventisettenne, venne reclutato dai servizi segreti britannici come crittografo e assegnato alla Stazione X, la base militare segreta di Bletchley Park a circa 75 km a nord ovest da Londra.
In poco tempo viene nominato alla guida di un team di ricercatori il cui obiettivo è quello di decifrare il sofisticato codice Enigma utilizzato dai nazisti nelle loro comunicazioni riservate.
I Britannici sono infatti in grado di intercettare diverse comunicazioni crittografate dell’aviazione tedesca, comunicazioni che però sono inutili se non decifrate e decifrarle significa conoscere i piani segreti ed i dettagli delle operazioni naziste in corso, in termini pratici sarebbe come avere accesso ai centri di comando dell’asse.
Il team di Turing si compone di menti brillanti, matematici, linguisti, egittologi e si ipotizza anche giocatori di scacchi ed esperti di cruciverba, le cui competenze prese singolarmente non erano significative, ma combinate diventavano determinanti nella lotta contro Enigma.
In tutto questo però, Turing è mosso da un idea innovativa e controversa, è fermamente convinto che solo una macchina possa sconfiggere una macchina come Enigma, il dispositivo tedesco usato per cifrare i messaggi nazisti.
Enigma: La Macchina “Impenetrabile”
Enigma era considerata all’epoca l’arma segreta del Reich, un dispositivo complesso, progettato negli anni 20 e perfezionato nel corso di due decenni, dall’aspetto e le dimensioni di una macchina da scrivere dotata di due tastiere: quella inferiore serviva per scrivere, mentre quella superiore componeva il testo cifrato.
Alla base di enigma, un ingegnoso meccanismo di cifratura basato su rotori mobili che, attraverso una complessa griglia elettrica e vari rotori permette di cifrare il messaggio. In sostanza, quando operatore digitava una lettera sulla tastiera inferiore, il meccanismo si attivava e producendo come risultato una lettera completamente diversa. Inoltre, i rotori si attivavano ad ogni input, così che la stessa lettera, se digitata più volte, venisse cifrata in modi differenti.
Dal 1932 prima il governo di Weimar e poi del Reich, autorizzarono l’utilizzo del dispositivo Enigma-I e durante la seconda guerra mondiale, i nazisati introdussero in enigma un sistema a cinque rotori di cui ne venivano utilizzati tre diversi ogni giorno, e la taratura dell’apparecchio (basata sulla scelta dei rotori, dei cavi da connettere e della loro posizione) cambiava ogni 24 ore, a mezzanotte, che aggiungeva un ulteriore livello di difficoltà, un limite tempo che rendeva la decifrazione di Enigma, qualcosa di virtualmente impossibile. Le forze armate naziste erano certe di disporre di un canale di comunicazione assolutamente sicuro motivo per cui non si preoccupavano troppo di possibili intercettazioni. Ed è qui che i nazisti commisero il primo errore.
La Bomba di Turing: Battere una Macchina con un’Altra Macchina
Turing era assolutamente certo che l’unico modo per sconfiggere una macchina come Enigma fosse attraverso l’utilizzo di un altra macchina, fortunatamente per lui, già altri matematici, ben prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, avevano iniziato a lavorare ad una macchina per decifrare Enigma, ed è proprio da questa macchina già esistente, denominata The Bombe, progettata dal matematico polacco Marian Rejewsk dell’università di Poznan, che partirono gli studi di Turing.
The Bombe era sostanzialmente un clone di Enigma, reso “obsoleto” dai miglioramenti adottati dai nazisti negli ultimi anni e il lavoro di Turing consistette principalmente nel potenziare The Bombe, sfruttando complessi circuiti logici che permettevano alla macchina di elaborare una sofisticata catena di deduzioni logiche, attraverso una serie di condizioni “se-allora-altrimenti”, ancora oggi uno dei concetti di base di qualsiasi software informatico, dalla banale calcolatrice alle LLM.
In sostanza, sfruttando vari passaggi logici, la macchina di Turing eliminava velocemente le combinazioni impossibili, riducendo drasticamente il tempo necessario per trovare la configurazione corretta.
Secondo alcune fonti (non confermate), il 14 gennaio 1940 Turing riuscì per la prima volta nella propria impresa decifrando i codici di Enigma. Non sappiamo se questa data è reale perché per anni il governo britannico impose il segreto sull’operazione di intelligence che fornì agli Alleati un vantaggio strategico incalcolabile durante il conflitto. Oggi sappiamo che dal 1942 i britannici furono in grado di decifrare regolarmente e in maniera sistematica i codici nazisti, non abbiamo però informazioni certe sul periodo che va tra il 1940 e il 1942.
La vulnerabilità dietro i codici nazisti
Che i britannici avessero decifrato i codici nazisti è noto fin dagli anni 50, ma il modo in cui i britannici hanno sconfitto enigma, è diventato di pubblico dominio solo nei primi anni 2000, quando il governo britannico ha declassificato le informazioni relative al programma Ultra.
Oggi sappiamo che, nonostante le teorie e gli sforzi tecnologici messi in campo da Turing, in realtà la teoria per cui solo una macchina poteva sconfiggere Enigma, si è rivelata errata. Perché Enigma non è stata sconfitta realmente da una macchina, ma i suoi codici sono stati violati da una vulnerabilità esterna alla macchina, sfruttando un errore umano.
I crittografi di Bletchley Park scoprirono che, nonostante il cambio quotidiano della taratura, esistevano una serie di pattern ricorrenti nei messaggi. Alcune comunicazioni seguivano formati standard, come ad esempio i rapporti meteorologici o i saluti militari formali.
La presenza di questi elementi offriva ai crittografi quello che chiamavano “cribs” (indizi) – frammenti di testo che si supponeva essere presenti nei messaggi cifrati e che era facile decifrare.
Turing intuì che queste vulnerabilità potevano essere sfruttate sistematicamente attraverso un approccio meccanico e logico e di conseguenza calibrò la sua Bombe affinché cercasse all’interno dei messaggi specifici pattern. Non bisognava più “decifrare” l’intero documento, era sufficiente individuare questi pattern, decifrarli e partendo da questi ricavare i codici con cui decifrare qualsiasi altro messaggio della giornata.
L’Arte dell’utilizzo selettivo
Secondo alcuni documenti resi pubblici, il 12 giugno 1940, venne decrittato un messaggio della Luftwaffe nel quale venivano rivelati importanti dettagli sul sistema di navigazione radio utilizzato dai bombardieri tedeschi. Si trattava di un’informazione cruciale, dal valore inestimabile, ma poneva gli Alleati di fronte a un dilemma strategico fondamentale. Usare quelle informazioni significava rivelare ai tedeschi che erano riusciti a superare i codici di Enigma, e questo avrebbe comportato una contromossa da parte dei tedeschi, che potenzialmente avrebbe reso nulla la scoperta di Turing e il vantaggio acquisito dai britannici.
I comandanti alleati si ritrovarono così nella complessa situazione di dover decidere come e quando utilizzare le informazioni acquisite, in modo che i tedeschi non sapessero che il loro sistema era compromesso.
Si rendeva quindi necessario utilizzare le informazioni in maniera selettiva, così da non allertare i nazisti, facendo in modo che questi continuassero a credere Enigma sicuro e inviolabile. Non tutte le informazioni decifrate venivano utilizzate, e quando lo erano, si cercava sempre di mascherarne l’origine, giustificando la loro acquisizione tramite ricognizioni aeree, informatori o intercettazioni radio convenzionali.
Questa cautela, e il sacrificio morale che ne conseguì, fu qualcosa di essenziale per per mantenere il vantaggio strategico per tutta la durata della guerra e non solo. In altri termini, il sacrificio di obiettivi secondari garantiva che il segreto di Ultra rimanesse tale, garantendo agli Alleati un vantaggio strategico nei momenti davvero decisivi del conflitto.
Un po’ come un baro al tavolo che ha in mano un poker d’assi e scarta la mano, rinunciando ad una grossa vincita, per poi vincere una cifra molto minore alla mano successiva, in modo da non destare sospetti. Allo stesso modo gli alleati rinunciarono a molte “battaglie” assicurandosi la vittoria finale.
Conclusioni
Come abbiamo visto la decrittazione di Enigma fu determinante per l’esito della seconda guerra mondiale, forse persino più significativa dell’ingresso nel conflitto di URSS e USA, si stima infatti che il lavoro di Turing abbia contribuito a ridurre la durata della guerra in Europa di circa due anni, salvando così milioni di vite. Non a caso, Churchill ed Eisenhower, sostennero che Ultra rappresentò una vera e propria svolta nel conflitto, e non solo.
Oltre al suo indubbio valore militare, la macchina di Turing fu anche la prima dimostrazione concreta dell’efficacia di un “calcolatore elettronico”, aprendo la strada allo sviluppo dei moderni computer e l’informatica moderna.
Nonostante ciò, per ragioni di sicurezza dovute al fatto che a Bletchley Park avevano sì sconfitto Enigma, ma per una vulnerabilità umana, Turing e gli altri membri del programma Ultra furono costretti a mantenere il segreto su tutto il suo lavoro a Bletchley Park e solo decenni dopo la fine della guerra, all’inizio degli anni 2000, il loro contributi è stato finalmente riconosciuto e celebrato.
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