Ci sono state civiltà terrestri prima della nostra? Per la scienza la risposta è no

Sono esistite civiltà avanzate sulla terra prima di quella umana? la risposta per la scienza è no e in questo articolo cercheremo di capire perché la scienza da una risposta così netta a questa domanda e perché lascia così poco spazio ad altre interpretazioni.

Cominciamo col dire che, un civiltà, per essere definita tale, deve rispettare determinati requisiti, che diventano sempre più difficili da raggiungere man mano che il livello tecnologico della civiltà si innalza.

C’è poco da dire al riguardo, la civiltà globale contemporanea è enormemente più avanzata di qualsiasi forma di civiltà umana del mondo antico, e questo dislivello è dovuto principalmente al più elevato livello tecnologico raggiunto nel nostro tempo rispetto al mondo antico, ma si lega anche alla qualità della vita, alla diffusione di “diritti umani” sempre più elevati e principi etici e morali sempre più stringenti, oltre che ad una maggiore e più ampia conoscenza dei fenomeni fisici che regolano la vita e l’universo.

Per quanto possano sembrarci molto “avanzate“, in alcuni campi, alcune civiltà del mondo antico, e prendo ad esempio la civiltà Greca in età classica o la civiltà dell’antico Egitto, in altri campi queste popolazioni erano molto primitive.

Il mondo greco raggiunse una consapevolezza politica elevatissima e la democrazia ateniense raggiunse un livello così elevato che forse, ancora oggi, non siamo in grado di eguagliare, tuttavia i greci credevano che il mondo fosse stato creato dalle divinità e che quelle divinità regolassero la vita, la morte e l’universo. Vi erano enormi distinzioni sociali legate al censo, ed erano fondate su equilibri predeterminati e immutabili, per non palare poi dell’idea di schiavitù, di privazione della libertà individuale, del possesso di altri esseri umani, concepita come strumento educativo e formativo per stranieri provenienti da civiltà considerate inferiori e che dunque dovevano essere rieducati. E in fine, il fabbisogno energetico della civiltà greca era esiguo rispetto alle civiltà contemporanee, e questo dislivello era dettato dal fatto che, la civiltà greca potendo scegliere tra il lavoro della macchina a vapore e quello umano degli schiavi, preferì l’utilizzo della schiavitù.

Il fabbisogno energetico può sembrare banale, ma è uno degli elementi più importanti, se non il più importante, per definire il livello di avanzamento di una civiltà, almeno secondo la scala di Kardašëv per la classificazione delle civiltà in funzione del loro livello tecnologico. Questa scala fu proposta da Nikolaj Kardašëv nel 1964 e classificava le civiltà avanzate su tre diversi livelli. Successivamente questi livelli furono ampliati ed utilizzati per definire il livello delle civiltà più avanzate delle opere fantascientifiche, ma restando ai primi tre livelli, quelli ipoteticamente accessibili alla civiltà umana, al primo gradino di questa scala di civiltà vengono poste quelle civiltà che sono in qualche modo in grado di utilizzare l’energia disponibile sul proprio pianeta, e la nostra civiltà rientra ancora in questa categoria, se bene sia ormai giunta alle fasi finali del primo livello e si stia apprestando a raggiungere il secondo livello.

Al di sotto del livello 1 vi sono tutte le altre civiltà (umane) precedenti la nostra rivoluzione industriale, le cui principali fonti di energia erano il corso dei fiumi, il vento e il lavoro delle braccia.

Al livello due della scala di Kardašëv vi sono quelle civiltà in grado di sfruttare tutta l’energia del proprio sistema solare, e in fine, al livello tre, vi sono quelle civiltà in grado di sfruttare tutta l’energia della propria galassia. Ovviamente noi oggi non conosciamo alcuna civiltà reale di livello due o livello tre, e credo sia inutile proseguire verso i livelli successivi.

Fatta questa premessa sulla scala di Kardašëv e appurato che la civiltà umana (intendendo per civiltà umana il massimo livello tecnologico raggiunto da una qualsiasi civiltà del nostro pianeta) ha raggiunto il livello uno poco più meno di due secoli fa, e che tutte le civiltà precedenti a noi note, erano di livello zero, ovvero civiltà in fase pre avanzata, ci dà già un importante indizio per rispondere alla domanda posta nel titolo.

Ad ogni modo, la teoria convenzionale dello sviluppo di civiltà sul nostro pianeta, sostenuta da numerosi ricercatori è che prima della civiltà umana, sulla terra non vi fossero altre forme di civiltà avanzate e anzi, si ipotizza che prima della civiltà umana sulla terra non vi fu alcuna forma di civiltà, intendendo per civiltà qualcosa di molto simile alle civiltà umane negli ultimi 10000 anni, con la sola differenza che queste ipotetiche civiltà precedenti quella umana appartenessero a qualche altra specie vivente non ben definita, terrestre o non terrestre.

In ambito storiografico l’assenza di tracce rappresenta essa stessa una traccia, ma non è questo il caso e il fatto che di queste ipotetiche civiltà precedenti quella umana non sia stata trovata alcuna traccia ci fa sospettare che effettivamente quella umana sia stata la prima forma di civiltà terrestre.

La traccia più importante che una civiltà si lascia alle spalle, può sembrare strano, sono i rifiuti, e la cosa interessante è che più e avanzato il livello tecnologico, più numerosi e difficili da distruggere sono i rifiuti, di conseguenza, se sulla terra fosse esistita una qualche antica civiltà pre-umana, avremmo dovuto trovarne i rifiuti, e così non è stato, non abbiamo trovato antichi rifiuti pre-umani.

Vi è però un caso in cui le civiltà smettono di produrre rifiuti, ed è quando queste ipoteticamente è prossima al raggiungimento della fase due della scala di Kardašëv, in quanto questa ipotetica civiltà in grado di convertire totalmente i propri rifiuti in energetica e questa energia unita a tutta l’altra energia del pianeta, non è più sufficiente a soddisfare il fabbisogno energetico di quella civiltà che si ritrova quindi ad avere la necessità di estrarre energia dagli altri mondi del proprio sistema solare, e va detto che la civiltà umana contemporanea è prossima a questo passaggio che tuttavia non è ancora in grado di compiere totalmente.

Ad ogni modo, una civiltà minimamente evoluta produce rifiuti e la loro assenza è indicativa o dell’assenza di un antica civiltà evoluta o della presenza sulla terra di una civiltà aliena, non terrestre, che ipoteticamente era già giunta al livello due o tre della scala di Kardašëv.

Sappiamo per certo che quest’ultima ipotesi non ha alcun senso, ma fingiamo di non saperlo e cerchiamo capire se effettivamente è possibile che sulla terra vi siano state un tempo antiche civiltà aliene.

Ipotizzando che una civiltà di livello due o livello tre sua giunta sulla terra, ipoteticamente per sfruttarne le risorse energetiche, è facile dedurre che il passaggio di questa civiltà sul nostro pianeta avrebbe lasciato tracce ben visibili della loro presenza, e per tracce intendo qualcosa di molto più sofisticato e incisivo di qualche graffito su delle rocce in america latina o degli edifici in pietra dalla forma piramidale.

Se antiche civiltà avanzate avessero messo piede sulla terra avremmo trovato certamente le rovine di antiche città hyper tecnologiche e soprattutto, avremmo notato una forte riduzione, per non dire l’assenza di risorse energetiche e minerali nel sottosuolo. In fondo queste antiche civiltà sono giunte ipoteticamente sulla terra per recuperare e sfruttare le materie prime e le fonti energetiche del pianeta, in questa ipotesi non ha senso la presenza di enormi giacimenti di petrolio, carbone, gas, ferro, rame, oro, platino ecc ecc ecc sulla terra, ma queste risorse come sappiamo sono presenti sul pianeta e sono la base della nostra civiltà e della nostra tecnologia.

Insomma, sul piano scientifico, storico, archeologico e antropologico, non vi è alcun dubbio, la civiltà umana è stata la prima e unica civiltà ad essersi sviluppata sulla terra e ad aver abitato sulla terra.

Non vi è alcun dubbio, non vi è alcuna possibilità, non vi è alcun caso, non vi è alcuna traccia che possa sostenere la teoria del passaggio sulla terra di antiche civiltà avanzate con un livello tecnologico pari o superiore al nostro, e non vi sono tracce dell’evoluzione di civiltà terrestri pre-umane, con un livello tecnologico pari a quello delle civiltà umane del mondo antico.

In quel giorno di maggio, Napoleone era morto – Storia Leggera

Questa settimana la storia leggera cambierà leggermente la sua veste, assumendo quasi i tratti di un commento letterario ad un’opera classica, questa settimana sotto la nostra lente non passerà una canzone, ma un ode di Alessandro Manzoni, con cui, il grande poeta italiano avrebbe celebrato la morte di Napoleone Bonaparte, un uomo che aveva trasceso la propria umanità, diventando l’incarnazione stessa di un cambiamento epocale, non serve che lo scriva, sto ovviamente parlando dell’Ode “il cinque maggio”.

Ci tengo a precisarlo, il mio non sarà un commento classico alla poesia, ma come per ogni altro articolo di questa rubrica, partirò dal cinque maggio di Manzoni, per parlare di altro.

Mentre scrivo questo articolo sorrido, perché penso che su sei articoli pubblicati fino ad oggi in questa rubrica, questo è il terzo in cui Napoleone Bonaparte la fa da protagonista e questa sua onnipresenza tra le pagine di questa rubrica, tradisce in qualche modo quello che è il mio affetto personale per questa incredibile figura storica.

Nei diversi articoli abbiamo sognato il sogno napoleonico ed abbiamo assistito alla decaduta dell’imperatore e il cinque maggio di Manzoni è un po’ la summa di tutto ciò che Napoleone era stato in vita, di tutto ciò aveva rappresentato e di ciò che la sua morte avrebbe significato. Il cinque maggio è un opera totale, scritta di getto all’indomani della notizia e perfezionata nel tempo, è un opera con cui l’autore mette a nudo i propri sentimenti, a tratti contrastanti, per l’ex imperatore e per la nefasta notizia.

Quando Manzoni viene a sapere della notizia che Napoleone Bonaparte aveva lasciato il mondo degli uomini, compiendo il proprio destino e ricongiungendosi al regno senza tempo degli spiriti eterni, il grande imperatore era passato a miglior vita già da diversi mesi. Ci troviamo ancora nella prima metà del secolo XIX, più precisamente nel 1821, la rivoluzione industriale non si era ancora compiuta e le notizie impiegavano ancora molti mesi per girare il mondo. Persino una notizia così clamorosa e importante come il decesso di Napoleone Bonaparte aveva bisogno di molti mesi per girare il mondo intero e in questo caso, il fatto che Napoleone al momento della sua morte, si trovasse prigioniero sull’isola di Sant’Elena, l’isola più lontana e irraggiungibile dell’impero Britannico, di certo non rese semplice la rapida diffusione della notizia, in quanto le uniche navi che potevano giungere su quell’isola erano quelle della flotta britannica e ciò significava che la notizia della morte di Napoleone dovette prima raggiungere Londra e da lì poté diffondersi in tutto il mondo. De facto erano passati più di settante giorni tra la morte effettiva dell’ex imperatore, avvenuta il 5 maggio 1821 sull’isola di Sant’Elena e la scoperta della sua morte da parte di Manzoni, avvenuta tra le pagine della Gazzetta di Milano del 16 luglio 1821.

Purtroppo non sono riuscito a recuperare nessuna scansione di giornali dell’epoca che riportarono la notizia della morte di napoleone, ma dagli archivi dei relativamente pochi giornali esistenti all’epoca, sappiamo che la maggior parte dei giornali europei diede la notizia della morte di napoleone nel mese di luglio e alcuni giornali americani diedero la notizia nel settembre del 1821, coerentemente con i tempi di traversata dell’atlantico dall’isola di Sant’Elena all’Europa e dall’Europa alle Americhe.

Non c’è dunque da sorprendersi per questo sfasamento temporale che oggi può sorprendere ma che in realtà, all’epoca era qualcosa di estremamente ordinario. Diciamo anzi che la diffusione della notizia della morte di Napoleone fu estremamente rapida, probabilmente per l’importanza e la rilevanza che aveva avuto la figura di Napoleone. Altre notizie impiegavano molto più tempo a diffondersi, possiamo quasi dire che, in alcune regioni del mondo, giunse prima la notizia della morte di Napoleone e poi quella della sua capitolazione o addirittura della sua incoronazione imperiale. Ovviamente questo è un estremo ironico, non dovrei neanche spiegarlo, ma su internet è meglio mettere le mani avanti, in ogni caso credo che il senso credo sia chiaro.

Testo de “Il cinque maggio” di Alessandro Manzoni: https://it.wikisource.org/wiki/Il_cinque_maggio

Nella sua opera Manzoni è diretto, il suo messaggio è chiaro, incisivo e lascia poco spazio alle interpretazioni, sceglie lo stile dell’Ode e intitola il proprio componimento con una data ben precisa, il cinque maggio.

La sola scelta del titolo ha di perse un valore simbolico ed un peso specifico enorme, quella data rappresenta un richiamo più che diretto a quel giorno in cui un uomo che nel bene e nel male aveva incarnato i sogni di milioni di europei, aveva lasciato per sempre il mondo mortale, e già nei primissimi istanti della sua Ode, Manzoni rompe ogni dubbio, scioglie ogni nodo.

“ei fu, siccome immobile” ci dice al di la do ogni ragionevole dubbio che, in quel giorno di maggio, in terra britannica del basso atlantico, era tradito e perso Nepoleone Bonaparte, e non è un caso se in questo passaggio prendo in prestito le parole di Stagioni di Francesco Guccini, canzone con cui il cantautore italiano celebra il ricordo e la percezione della scomparsa di Ernesto Guevara, per parlare di Manzoni e del suo annunciare il decesso di Napoleone. Non è un caso perché le due opere sono molto simili, se pur molto diverse e molto distanti tra loro, e sono simili perché Guccini parte dal cinque maggio per scrivere Stagioni.

Entrambe le opere raccontano la percezione del mondo a quella notizia sconcertante e sconfortante della morte prematura di un grande personaggio storico, molto amato dai propri “compagneros” e molto odiato e a tratti rispettato dai propri avversari, dai propri rivali, dai propri nemici.

In quel giorno di maggio, Napoleone era morto e con la sua morte sembravano morire anche i sogni e le speranze di un intera generazione che stava vivendo una nuova ondata rivoluzionaria, Napoleone muore nel maggio del 1821 e proprio in quei mesi l’aristocrazia europea stava sedando le ultime insurrezioni e rivolte esplose nel 1820. La nobiltà europea temeva una nuova rivoluzione francese e più di ogni altra cosa, temeva un nuovo Napoleone e la notizia della sua morte, ebbe un doppio effetto. Per i bonapartisti, per i rivoluzionari, per i repubblicani, la scomparsa di Napoleone scomparsa segnò la fine di un epoca e segnò un momento di grande dolore, sofferenza e sconforto, poiché era venuta a mancare una figura estremamente carismatica, uno dei più grandi ed importanti simboli della rivoluzione. Dall’altra parte, la nobiltà europea gioiva della scomparsa di quel demonio che aveva strappato corone e stravolto gli equilibri europei in maniera così profonda da rendere impossibile un reale ritorno al passato, nonostante al congresso di Vienna fu tentata una restaurazione totale dell’Europa pre-rivoluzionaria e soprattutto pre-napoleonica, nel vano tentativo di ricostituire l’antico regime calpestato e distrutto dalle cariche bonapartiste.

Nel luglio del 1821 il mondo intero ebbe la notizia, Napoleone era morto e chi credeva in lui, chi aveva creduto in lui, continuò a credere che la sua morte non fosse definitiva, che la morte di Napoleone non potesse significare la morte delle idee di Liberà, Uguaglianza e Fraternità. Il lutto dovuto alla sua celebrazione non doveva essere la fine della rivoluzione ma doveva essere soltanto un momento di pausa, un momento di riflessione e di riorganizzazione di quelle idee, di quei moti, di quegli ideali che andavano contro l’ordine precostituito dei popoli europei, nettamente divisi nelle varie nazioni tra nobili e non nobili, tra aristocratici ed uomini comuni, tra “padroni” e “servi”.

I moti del 1820-21 erano stati un fallimento totale perché dei moti troppo borghesi, nati in un mondo in netto contrasto e in lotta con l’aristocrazia tradizionale, ma troppo debole per combattere e vincere da solo quello scontro e troppo distante dalle masse popolari ed i loro interessi per riuscire a coinvolgerle nella lotta e nella rivoluzione. Tuttavia quel fallimento non rappresentò una sconfitta totale e la morte di Napoleone diede in qualche modo un nuovo slancio ai movimenti, ai club e alle società segrete che decisero di andare avanti, di non fermarsi, di non arrendersi, decisero invece di continuare a lavorare, cospirare e pianificare nell’ombra, portando avanti le proprie bandiere ed intonando canti anarchici e di rivolta, mobilitando una reale ribellione che lentamente si sarebbe insinuata nelle strade dei quartieri più poveri delle città, nelle campagne, creando una rete universale che copriva l’intera europa riuscendo così a penetrare nei cuori delle masse popolari, delle masse contadine e successivamente anche delle masse operaie, fino ad esplodere nella maniera più clamorosa e dirompente che si possa immaginare, con i moti rivoluzionari del 1848.

La figura storica di Napoleone è importante non solo per la sua vita, ma anche per la sua morte e per ciò che iniziò dopo la sua morte, indipendentemente dal suo reale coinvolgimento e del suo ruolo nell’europa post imperiale.

Nel 1821 l’uomo Bonaparte non aveva più alcun potere in Europa, ma la sua morte lo avrebbe consacrato all’immortalità, rendendolo nuovamente un simbolo, rendendolo nuovamente un icona splendente che inglobava dentro di se gli ideali di una rivoluzione permanente, una rivoluzione che si sarebbe conclusa soltanto con l’effettivo superamento e con il collasso dell’antico regime. Ma l’ironia del destino volle che il nuovo mondo nato dalle ceneri dell’antico regime ne assumesse alcuni tratti, riproponendone i modelli gerarchici e sociali, riproponendone le strutture, segnando l’ascesa di una nuova classe dirigente, di una nuova leadership europea, segnando la nascita di una nuova élite borghese che grazie al potere acquisito con il commercio e le rivoluzioni industriali sarebbe divenuta una sorta di nuova aristocrazia contro cui le masse popolari sarebbero state chiamate a confrontarsi e a combattere in un idealistica lotta sociale che Kalr Marx avrebbe definito, lotta di classe.

Il libro nero dell’Impero britannico di John Newsinger | Recensione

Questa è la prima volta che mi ritrovo a scrivere seriamente una sorta di recensione di un libro storico, di un saggio storico, e mi scuso preventivamente se quella che verrà fuori avrà poco la forma di una recensione, di fatto quello che troverete in questa rubrica mensile assomiglierà molto di più ad una sorta di racconto della mia personale esperienza di lettura di questo libro e a dei consigli su come approcciarsi alla lettura di questo libro, piuttosto che ad una recensione nel senso classico del termine, e vi dico fin da subito che in questo ciclo di “recensioni” che curerò tra queste pagine di historicaleye, verranno affrontati prevalentemente libri che in qualche modo hanno contribuito alla mia formazione di storico o di testi che per un motivo o per un altro mi hanno colpito ed affascinato, insomma, e questo significa che difficilmente troverete recensioni “negative”, ma, nel peggiore dei casi, potrete trovare delle osservazioni critiche, e prima di iniziare con la recensione vera e propria, volevo chiudere questa breve premessa ringraziando 21 Editore per avermi dato la possibilità di recensire quest’opera di John Newsinger.

Chi è John Newsinger?

Newsinger è uno storico inglese di orientamento Marxista e docente alla Bath Spa University (da non confondersi con la Bath University), ed è diventato particolarmente celebre al grande pubblico britannico per aver collaborato in diverse occasioni con la BBC e in particolare per aver ricoperto il ruolo di consulente storico della televisiva Scozia & Impero prodotta dalla BBC. Per quanto riguarda invece il suo “mestiere di storico”, le sue opere hanno rappresentato un importante contributo alla critica, di sinistra, alla storia moderna britannica e americana, soprattutto alla luce degli avvenimenti politici e militari degli ultimi anni.

La sua attività di ricerca è iniziata con lo studio del movimento repubblicano irlandese tra XIX e XX secolo che lo avrebbero portato alla pubblicazione di Orwell Politics, edito nel 1999, un saggio che va ad indagare sulla visione politica di George Orwell, contestualizzando storicamente le opere di Orwell nello sfondo dell’imperialismo britannico, della disoccupazione degli anni Trenta, della Guerra civile spagnola e della Seconda guerra mondiale.

Si tratta di una chiave di lettura al limite del revisionismo storico, un revisionismo che sarebbe stato accentuato nel saggio British counterinsurgency: from Palestine to Northern Ireland, un’opera caratterizzata da un approccio estremamente critico e revisionista nei confronti della politica dell’impero britannico, soprattutto per quanto riguarda le questioni legate alla gestione stessa dell’impero delle colonie, ed è proprio da qui che parte Blood Never Dried: A People’s History of the British Empire edito in italia con il titolo il libro nero dell’impero britannico.

Il libro nero dell’impero Britannico

Il libro nero dell’impero Britannico eredita dalle precedenti opere di Newsinger un approccio critico alla politica britannica e tra le sue circa 343 pagine racconta una storia alternativa e parallela alla storia del grande impero britannico, ne racconta i panni sporchi, ne racconta la decadenza, il degrado e l’insoddisfazione coloniale, e racconta gli abusi imperiali e le contraddizioni che si celavano dietro il velo di glorioso splendore di una delle ultime corone imperiali del vecchio continente.

Come ha scritto Jacopo Bassi nella sua recensione a quest’opera pubblicata tra le pagine di Diacronie,

“Il libro nero dell’impero britannico è, anzitutto, una replica polemica all’apologia dell’impero britannico portata avanti da alcuni tra i più famosi storici che si sono occupati dell’argomento: Niall Ferguson, Max Boot e Robert Kaplan. Newsinger adotta un approccio che si concentra sul tema della resistenza all’impero britannico, denunciando la politica di violenza perpetrata nel mondo sotto le insegne imperiali. Il libro può dunque essere considerato come una storia della repressione britannica o, più precisamente, una storia della resistenza al colonialismo britannico.”

E c’è veramente poco da aggiungere a queste parole di Bassi, il libro nero dell’impero britannico è semplicemente questo, uno sguardo sugli aspetti “dimenticati” o ignorati dell’impero britannico, uno sguardo su quei tratti cupi e contraddittoria a cui una larga schiera di autori britannici ha dedicato uno spazio marginale nelle proprie opere, preferendo soffermarsi sui tratti più splendenti e gloriosi, e in questo senso le critiche di Newsinger si rivolgono soprattutto ad autori come Niall Ferguson, Max Boot e Robert Kaplan portatori di una (re)visione acritica della grandezza dell’impero britannico, in particolare a Ferguson che nel 2003 aveva pubblicato un opera dal titolo “Empire: How Britain Made the Modern World”, edito in italia da Mondadori con il titolo “Impero: Come la Gran Bretagna ha fatto il Mondo Moderno“.

Questo libro mette in risalto le contraddizioni dell’impero britannico, un impero che la storiografia tradizionale britannica esaltava per il proprio impegno nella lotta al commercio di schiavi e alla schiavitù, ignorando le numerose rivolte di schiavi, avvenute nei Caraibi britannici prima che la corona si impegnasse nella lotta alla schiavitù, e trascurando il fatto che il commercio atlantico degli schiavi fu alimentato per diversi secoli anche dai traffici marittimi britannici.

Il secondo capitolo prende di mira l’amministrazione politica dell’impero, prendendo in esame soprattutto la devastante carestia irlandese degli anni quaranta, sottolineando come, da una parte la popolazione irlandese morisse per la fame, e vivesse di erba raccolta in strada impossibilitata ad acquistare pane e patate, perché troppo rare e costose, ma nello stesso periodo, 1846, 47 e 48 l’Irlanda abbia comunque esportato patate per un valore di circa 15 milioni di sterline.

Nel terzo capitolo la lente di Newsinger viene puntata sul traffico illecito dell’oppio che affluiva a fiumi nelle strade dell’impero e in tutta europa. La storiografia tradizionale ci ha abituati ad immagine edulcorata delle fumerie d’oppio tanto care ai grandi uomini del XIX secolo e descritte in maniera quasi poetica e romantica nelle loro opere e Newsinger sottolinea come quella realtà appartenesse soltanto alle grandi città europee e vivesse di una clientela molto elitaria, ma nella maggior parte dei casi, le fumerie d’oppio erano luoghi di decadenza frequentati da personalità poco raccomandabili e generalmente gestite in maniera rozza e brutale ed erano dei ricettacoli di malattie veneree, e situazioni di degrado e sfruttamento.

Il quarto capitolo ci racconta la grande rivolta irlandese del 1857-1858, spesso liquidata nei manuali in poche righe o al massimo in qualche paragrafo, senza dare troppo spazio e spessore alla repressione a tratti cruenta e quella che sarebbe più opportuno definire, secondo Newsinger come una guerra civile o una fallimentare guerra di indipendenza.

Sulla stessa linea si muovono i capitoli successivi, il quinto rivolge il proprio sguardo all’occupazione dell’Egitto di fine ottocento, e introduce appena il lettore all’analisi critica della brutale colonizzazione dell’Africa. Guardando alla colonizzazione dell’Africa Newsinger ci fa notare che i crimini compiuti da Leopoldo del Belgio hanno canalizzato la critica alla “spartizione dell’Africa” lasciando ben poco spazio ai “crimini” compiuti da francesi, olandesi e britannici e in questo capitolo Newsinger cerca di riempire il vuoto, soffermandosi sull’Egitto perché trattare nella loro interezza le politiche coloniali britanniche avrebbe richiesto forse un intero libro e non escluderei che questo possa essere proprio l’oggetto di studio del prossimo lavoro di Newsinger.

Il testo continua affrontando in maniera critica il ruolo britannico nelle guerre mondiali e quasi tutta la seconda parte del libro è dedicata alla gestione e l’amministrazione britannica dei territori coloniali durante la decolonizzazione e in particolare, durante le guerre di indipendenza che esplosero nell’intero impero britannico, dando particolare attenzione alla questione dell’India, alla crisi di Suez, del Kenya, della Malesia e dell’estremo oriente.

Negli ultimi due capitoli infine, viene introdotto il rapporto d’amicizia tra Inghilterra e “impero americano”, e gli effetti di questa “amicizia” nella politica internazionale e in particolare nella gestione dei conflitti moderni, fondamentalmente dal Vietnam all’Afganistan.

Consigli per il lettore

Per una buona lettura e comprensione de Il libro nero dell’Impero Britannico è raccomandabile una conoscenza, anche basilare, dell’età contemporanea e dei principali eventi storici, legati all’impero britannico. La sua natura di opera critica e revisionistica che un po’ sfida il canone classico della storiografia britannica, proponendo una storia in qualche modo parallela a quella ufficiale, rende il libro potenzialmente fuorviante, soprattutto se approcciato in maniera troppo superficiale.

Parafrasando Andrea Galeazzi, nelle sue recensioni di smartphone cinesi, il libro nero dell’impero britannico è un libro per utenti consapevoli, ma consapevoli di cosa?
Consapevoli del fatto che l’opera di Newsinger è un opera critica che va a riempire gli spazi vuoti lasciati dalla storiografia tradizionale e nel fare questo l’autore tende a dare per scontate alcune informazioni basilari, che un lettore generico non è tenuto a conoscere, un esempio di questo tipo possiamo incontrarlo nel primo capitolo, quando Newsinger critica la “propaganda imperiale” e antischiavista puntando la propria lente sulle rivolte di schiavi nelle colonie britanniche. Nel fare questo l’autore ci da uno sguardo “alternativo” e dietro le quinte, dando però per scontato che il lettore sia a conoscenza del successivo impegno britannico nella lotta al commercio degli schiavi ed il ruolo centrale avuto dall’impero britannico, agli inizi del secolo XIX nella messa al bando del commercio degli schiavi e della schiavitù in gran parte del mondo.

Consiglio di affiancare il testo di Newsinger alla lettura o rilettura di un manuale di storia contemporanea, meglio ancora se un manuale di storia dell’Impero britannico in età contemporanea. Questo perché il testo di Newsinger non è un manuale e non vuole essere un manuale. Il libro nero dell’impero britannico è una raccolta di saggi riguardanti l’impero britannico in età contemporanea e questi saggi sono accomunati dal sottile filo rosso delle politiche di “repressione” del suddetto impero britannico.

Conclusione

Il Libro nero dell’Impero Britannico di John Newsinger fornisce sicuramente uno sguardo nuovo ed interessante alla storia dell’impero britannico, racconta la storia oscura di questo impero, racconta le sue malefatte e quei momenti, quegli atteggiamenti di cui forse gli inglesi si vergognano e che forse vorrebbero cancellare dal proprio passato, ci racconta una storia che non è la storia dei vincitori e ci ricorda che la storia non è scritta dai vincitori. E’ scritta dagli storici e agli storici interessa capire più che tifare.

Che qui si fa l’italia o si muore! Dalla parte sbagliata, si muore | Storia Leggera

Quando ho iniziato questa rubrica settimanale avevo solo una canzone in testa, un unica canzone che sapevo, prima o poi avrei trattato e questa canzone è Il cuoco di Salò di Francesco de Gregori, pubblicata nell’album “amore al pomeriggio” del 2001 e sapevo che avrei parlato di questa canzone perché il Cuoco di Salò incarna tra i suoi versi, tra le sue strofe, tra le sue parole, tutto ciò che questa rubrica, nelle mie aspettative, vuole rappresentare. Si tratta di una canzone straordinaria che trascende lo spaziotempo e con una semplicità, con una poetica e con una geniale ingenuità ci racconta un tempo ed un mondo che è davvero difficile raccontare senza lasciarsi trasportare dalle ideologie politiche, e pure, Francesco de Gregori, con una maestria degna del più grande illusionista della storia, riesce in questa impresa impossibile.

Questa canzone ci racconta Salò, ci racconta la Repubblica Sociale Italiana, ci racconta la guerra civile italiana e lo fa in modo fiabesco, presentandoci un mondo incantato nonostante il disincanto della realtà storica, e mentre pensavo a come raccontare questa canzone e come utilizzare questo brano per parlare della RSI mi sono imbattuto in un “commento” di Roberto Vecchioni a questa canzone, e allora ho deciso di prendere in prestito le sue parole e per una volta non sarò io ad accompagnarvi nella storia attraverso la musica e la canzone, ma lascerò che sia proprio Roberto Vecchioni, con il suo commento a fare il grosso del lavoro.

Commento di Roberto Vecchioni a “il cuoco di Salò” di Francesco de Gregori” tratto da Il linguaggio in canzone (ciclo di lezioni sui cantautori italiani che Vecchioni ha tenuto nelle università italiane)

Il cuoco di Salò è una canzone inimmaginabile e fuori da ogni canone. Primo straordinario coup de théâtre è il corner storico da cui viene guardata la vicenda, perché di vicenda storica si tratta e così recente che la ferita fa ancora male. La trovata del corner per raccontare un grand affair non è nuova in arte. Il personaggio minore, angolare, che fa da protagonista e racconta dal suo punto di vista un evento più grande di lui c’è già in Shakespeare, c’è in molto cinema (La Tunica, Ben Hur, Il mondo nuovo, etc.), esiste in parecchie opere letterarie. Nella canzone in esame il trucco di lasciar descrivere gli ultimi giorni del fascismo da un personaggio ignaro, a digiuno di politiche e intrighi, ingenuo quel che basta, permette a De Gregori una descrizione non solo imparziale, quasi naturalistica (i fatti son desunti da rumori, voci, pettegolezzi) ma perfino più disincantata, lontana e nel contempo paradossalmente più vera e tragica. Il cuoco pensa a sé, alla sua vita, al suo lavoro: è lui nella sua piccola dimensione il centro: tutto il resto che è la storia fa da sfondo e risulta ai suoi occhi come occasionale incidente, ininfluente. Il cuoco vede soltanto i riflessi esterni del grande dramma che si sta compiendo, e in questo fiume in piena, in questo mondo che si sconvolge e cambia, continua quasi imperturbato a pensare come il giorno prima, come sempre, alla sua professione, al suo quotidiano. Ma, e qui sta la trovata, quando si spinge a giudicare oltre il suo orto non ha, non conosce pensieri di parte, torti o ragioni, e accomuna nel delirio di una sola morte tutti, anche quelli che stanno dalla parte sbagliata.

L’espediente della voce esterna narrante permette a De Gregori di fermare le bocce e provare un umana, universale pietà per tutti i nemici, rivali compresi. Quel che gli sarebbe stato più ostico in prima persona (vedi “Le storie di ieri“), in questa falsariga di svolgimento a tema gli risulta semplice, non contraddittorio e soprattutto coerente.

Non è il De Gregori di Bella ciao, il ragazzo che guarda il muro e si guarda le mani a raccontare.

Non è il De Gregori passionario e comunista, il populista contro ogni potere.

Partendo da sé e dal suo vissuto non avrebbe mai potuto scrivere una canzone simile. E allora ecco il cuoco di Salò, creatura in una tempesta più grande di lui che appena avverte e non può capire in tutte le sfumature, se non nell’unica che gli risulta leggibile: la morte, lo sfascio, la fine. L’aggiramento dello scoglio ideologico è molto più apparente che reale. De Gregori si avvale di uno schermo per permettere a se stesso uno sfogo di dolore universale che altrimenti non potrebbe esprimere in una libertà così assoluta, e non potrebbe permettersi senza suscitare contraddizioni o dover elargire spiegazioni o precisazioni al suo pensiero. Perché anzitutto Il cuoco di Salò non è una giustificazione né totale né minima al fascismo e ai suoi disastri. Non è e non vuol essere un accumunare morti di un tipo ad altri morti in una specifica contingenza storica. È semplicemente un grido muto, da espressionismo tedesco, un grido lacerante e silenzioso sull’inutilità, sull’occasione perduta, sull’insensatezza di un periodo evitabilissimo e non evitato, sull’esaltazione pilotata, ingannevole e incolpevole di alcuni, di molti giovani.

E allora siamo ben oltre i primi anni quaranta, siamo in tutte le guerre, in tutte le irruzioni di morte nella storia, perché di questo si tratta, del confronto cioè tra la bellezza della vita (del sole, dei giorni, della luce) e il disfacimento della morte, una morte melliflua, ingannatrice, subdola nell’apparente meraviglia delle sue promesse di vittoria e potere.

Il cuoco è ragazzo, è infante, le ballerine venute da Venezia, il frusciare dei loro vestiti, le musiche notturne, le porte che sbattono, le scale salite e ridiscese la mattina spargendo ovunque profumo, lo colpiscono molto di più degli spari che vengono da fuori.

Quando le ragazze scendono a far colazione il primo pensiero è alla vita che va, che continua (se quest acqua di lago fosse acqua di mare, quanti pesci potrei cucinare). Il primo pensiero è quello di aggrapparsi ai giorni, alle abitudini e di sentirsi in qualche modo importante: anche un cuoco può essere utile e anche in mezzo a un naufragio si deve mangiare. Ma il secondo pensiero, oppressivo, alto e incombente come un nuvolone è la morte, quel che sta accadendo fuori. Che qui si fa l’Italia e si muore, dalla parte sbagliata, in una grande giornata si muore. Non è un approccio critico, né di parte, è solo come un titolone letto su un giornale al bar o dal barbiere. Così lo prende, così lo fa suo il cuoco, che neppure sa se sian banditi, eroi o americani quelli che stan sparando sui monti. È la disinformazione tipica dell’uomo di tutti i giorni, che ha un solo attimo di apparente dolore nella riflessione davanti alle ballerine sculettanti: quante storie potrei raccontare stasera, quindicenni sbranati dalla primavera. Ma attenzione, non è pietà vera e propria, bensì una sorta di fatalismo, di impotenza, di cosa ci posso fare io di fronte a cose così imponenti.

E infatti prevale nel suo piccolo modo di ragionare da Abbondio coraggioso un sense of humor perfino irresponsabile: Io mi chiedo che faccia faranno (i partigiani) a trovarmi in cucina e se vorranno qualcosa per cena . Attraverso questo magistrale fool, cui tutto nella sua astoricità è permesso, De Gregori dice il non detto, molto più che se lo dicesse espressamente. E lui sì, lui dalla sua anima con la sua voce, distinto se pur ben mascherato nella inattualità del cuoco, piazza quella stridente contraddizione tra illusione e realtà, errore e verità, sole o morte, che sono pianto per l’inspiegabile catastrofe del destino umano dove colpe e torti per una volta tanto non entrano in scena”

tratto da Il linguaggio in canzone (ciclo di lezioni sui cantautori italiani che Vecchioni ha tenuto nelle università italiane)

Passaggi biblici sovrascritti dal corano- il mistero del primo palinsesto islamico

Sono stati scoperte tracce residue di inchiostro in alcuni antichi manoscritti islamici, copie del corano, segno che quella “carta” in precedenza ospitava altri testi e si è scoperto che, quelle pagine, prima di diventare pagine del corano ospitavano dei passaggi biblici, si tratta fondamentalmente di un testo palinsesto, ovvero un foglio di carta, rotolo di pergamena o libro che è stato cancellato completamente per essere riutilizzato. Questo tipo di pratica va detto che era molto diffusa tra i copisti cristiani nel tardo medioevo e questo documento, per la prima volta, ci mostra che la pratica era diffusa anche nel mondo islamico.

La notizia di questa sensazionale scoperta è stata commentata con grande stupore e sorpresa, ed è giusto così, è una scoperta inaspettata e qualcuno ha addirittura alzato l’asticella, scrivendo che si tratta di una scoperta straordinaria, e forse è il caso di ridimensionare l’entusiasmo e cercare di fare un po di chiarezza.

La scoperta è sicuramente una scoperta sensazionale e molto interessante, che avrà importanti ripercussioni sia filologiche che nella storia economica dell’impero islamico, ma da qui a dire che è una scoperta straordinaria, forse è un po eccessivo.

Una scoperta straordinaria è una scoperta che esula dall’ordinario, è un qualcosa di raro, è anomalia e non è questo il caso, non totalmente almeno, in quanto i testi palinsesti sono in realtà molto diffusi, l’unico elemento “anomalo” in questo caso è legato al fatto che, il testo palinsesto sia un testo islamico e non cristiano, e questa scoperta può sorprendere perché per molto tempo il mondo islamico godette di una sorta di “monopolio” della produzione di pergamene e di conseguenza ci si aspetterebbe che, nel mondo islamico la pergamena fosse molto diffusa e a basso costo, e questa scoperta ci dice che, probabilmente, non è sempre andata così e anche i copisti islamici ebbero qualche difficoltà nel reperire rotoli di pergamena.

Cominciamo col dire che nel XII secolo, cancellare dei testi antichi per “riciclare la carta” (in realtà si trattava di rotoli di pergamena) e utilizzare il foglio ripulito per scrivere dei nuovi testi era una pratica molto comune e molto diffusa tra i copisti cristiani, in particolare i copisti cristiani erano soliti cancellare testi antichi o comunque testi pagani per poi ricopiare nuovi testi teologici o comunque testi religiosi in quanto i copisti cristiani ricopiavano prevalentemente testi teologici e religiosi, per i copisti islamici oltre ai testi teologici e religiosi c’era una varietà maggiore, di fatto si copiavano anche testi poetici, “trattati scientifici”, testi pagani e opere greche e latine, tutte opere che molto probabilmente non sarebbero mai giunti fino a noi se non fosse stato per i copisti islamici, visto che i copisti cristiani li cancellavano per copiare testi sacri, teologici e anche testi laici ma di autori rigorosamente cristiani.

In questo processo di ripulitura e sovrascrittura della carta o pergamena, che la filologia chiama “palinsesto” perché in un singolo foglio si trovano più testi “sovrapposti”, i cristiani hanno cancellato intere collezioni di opere antiche, rischiando di distruggere totalmente la memoria di opere di letteratura greca e latine e, più in generale, hanno cancellato una quantità impressionante di testi “pagani”, per far spazio, come dicevamo, ai testi sacri, teologici e laici.

Questo processo, va detto che non aveva tanto il fine di distruggere la letteratura non cristiana, o almeno non aveva totalmente questo scopo. L’obbiettivo principale era quello di sopperire alla carenza di rotoli di pergamena, e per farlo, dovendo scegliere cosa salvare e cosa invece poteva andare distrutto, i copisti cristiani sacrificarono tutto ciò che non era cristiano o precedente all’avvento del cristianesimo.

Il problema della carenza di pergamena deve aver colpito anche il mondo islamico, e molto probabilmente i copisti islamici si ritrovarono a dover fare la stessa scelta tra cosa salvare e cosa poteva andare distrutto, e questa scoperta ci conferma questa teoria, avanzata per la prima volta più di cinquant’anni fa.

E, mi permetto di aggiungere, che molto probabilmente non è un caso se i copisti islamici scelsero di sacrificare copie della bibbia piuttosto che altro, il motivo non credo sia religioso e questo è dimostrato dal fatto che nelle antiche biblioteche islamiche vi fossero copie tradotte in arabo, della bibbia e dei testi teologici prodotti e copiati dai cristiani, ed è proprio perché i cristiani copiavano queste opere che quindi erano molto diffuse in europa che, ipotizzo, i copisti islamici le sacrificarono per far spazio ad altro.

Cancellando testi in prosa o poetici, persiani, greci, latini (precedenti l’avvento del cristianesimo) ecc c’era il rischio di distruggere per sempre quelle opere, questo stesso pericolo però non esisteva con la sovrascrittura della bibbia, abbondantemente copiata dai copisti europei.

Va detto inoltre che, tra il secolo VIII e il secolo XII, i copisti islamici avevano un bisogno di carta, immensamente superiore a quello dei copisti cristiani, principalmente perché più numerosi dei copisti cristiani e perché i copisti islamici copiavano molto di più dei cristiani, nel senso che copiavano molte più opere di quante non ne copiassero i cristiani e in questo senso è grazie ai copisti islamici che molti testi antichi, del mediterraneo e non, si sono salvati e sono giunti fino a noi. Ricordiamo inoltre che, nel secolo X, la più piccola delle grandi biblioteche islamiche, quella di Cordova, ospitava circa mezzo milione di opere e contava una varietà di oltre centomila testi differenti, nello stesso periodo, la più grande biblioteca europea, quella del Vaticano, ospitava poco più di diecimila testi, ed una varietà di circa cento testi differenti.

Come dicevo, la scoperta di questo testo palinsesto islamico è sicuramente molto interessante, in primis perché ci dice che anche gli islamici ricorsero alla tecnica della ripulitura delle pergamene, inoltre questo ci da un informazione importantissima sull’economia del tempo, perché significa che, molto probabilmente ad un certo punto i produttori di pergamena non riuscirono più a soddisfare la domanda continua di pergamena, probabilmente perché la domanda aumentava più rapidamente della produzione, o perché per qualche motivo, si iniziò a produrre meno pergamena, magari in seguito ad una crisi agraria.

Questa scoperta come abbiamo già detto è sicuramente molto interessante, importantissima e sicuramente molto affascinante, ma da qui a dire che è qualcosa di straordinario mi sembra leggermente eccessivo, diciamo che è straordinaria solo a metà, poiché la ripulitura della pergamena era qualcosa di estremamente ordinario soprattutto per i copisti cristiani, e questa scoperta ci dice che, per qualche ragione, in un certo periodo, si diffuse anche, tra i copisti islamici e come ogni scoperta storica che si rispetti, ci fornisce un informazione aggiuntiva che, invece di dare finalmente una risposta, solleva altre domande.

Perché i copisti islamici ricorsero alla ripulitura della pergamena? per quanto tempo è stata utilizzata questa pratica nel mondo islamico? quali e quanti testi sono stati cancellati? e perché proprio quei testi?

L’ultima domanda è forse quella a cui è più semplice rispondere, oppure no, la mia teoria sulla disponibilità di testi biblici che quindi rappresentavano una perdita meno dolorosa, potrebbe essere in realtà una teoria errata confutata dal ritrovamento di altri palinsesti islamici.

Fonte : https://www.theguardian.com/books/2018/apr/25/passages-from-the-bible-discovered-behind-quran-manuscript-christies?CMP=share_btn_fb

Bibliografia :

G.Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi 1997
L.Canfora, Per una storia delle biblioteche, il Mulino
F.Barbier, Storia delle biblioteche. Dall’antichità a oggi

Quel giorno d’aprile in cui l’italia aspettava i propri figli, partiti come soldati e non ancora tornati | Storia Leggera

Il 25 Aprile, il giorno della celebrazione della liberazione, l’autentica pasqua laica della tradizione della nuova repubblicana e antifascista.

Qualche giorno fa, mentre sceglievo la canzone da cui partire per questo articolo, una cara amica ha pubblicato su Instagram la foto di un glicine in fiore e vedendo quella foto mi è venuta in mente una canzone che adoro e che è perfetta per questa rubrica, soprattutto in questo periodo dell’anno e quindi voglio ringraziare questa cara amica per aver involontariamente influenzato la scelta di questa canzone.
La canzone che ho scelto è “quel giorno d’aprile” contenuta nell’album L’ultima Thule di Francesco Guccini e ci racconta proprio quel giorno d’aprile del 1945, quel giorno d’aprile che ha segnato in un certo senso l’inizio della fine della guerra civile italiana, iniziata in seguito all’armistizio del settembre 1943, e che ha rappresenta uno dei passaggi più forti, dolorosi e importanti della recente storia italiana. Quel giorno ci viene raccontato attraverso gli occhi di un bambino e la canzone attinge ai ricordi di infanzia dello stesso autore accompagnandoci in un viaggio lungo tutta la storia italiana, un po come il film Forrest Gump ci ha raccontato quarant’anni di storia americana attraverso gli occhi e la vita del protagonista.

Quel 25 aprile, il futuro presidente della repubblica Sandro Pertini, che nel 1943 insieme a Pietro Nenni e Lelio Basso aveva contribuito a riportare il socialismo in Italia con la costituzione del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, partecipò attivamente agli eventi e alle manifestazioni che di li a poco avrebbero portato alla liberazione dell’Italia dall’occupazione nazifascista.

«Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire.»

Proclama dello sciopero generale, Sandro Pertini, Milano, 25 aprile 1945.

All’epoca Pertini, insieme a Luigi Longo, Emilio Sereni e Leo Valiani, presiedeva il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia(CLNAI) la cui sede si trovava a Milano e proprio a Milano e da Milano, quel 25 aprile, fu organizzata e annunciata l’insurrezione generale che avrebbe portato alla liberazione del paese.

In realtà la liberazione su larga scala era già cominciata da qualche tempo, la ritirata delle forze nazifasciste era già in atto e con essa era in atto la distruzione sistematica di infrastrutture, impianti industriali e campi che avrebbero condannato l’Italia a fame certa e ad una lunga e lenta ricostruzione che fu resa meno insostenibile grazie agli aiuti dell’European Recovery Program. Prima di Milano il CLNAI aveva indetto scioperi e insurrezioni anche in altre città del nord Italia, in particolare a Bologna che si era liberata il 21 aprile e a Genova che si era liberata il 23 aprile, ma Bologna, Genova e le altre città liberate erano solo delle città occupate dalle forze nazifasciste, Milano invece era diversa, Milano era qualcosa di più, Milano era un simbolo dell’occupazione Milano era una delle roccaforti del comando nazifascista e la sua caduta fu molto più significava delle altre, la caduta di Milano significava in qualche modo la sconfitta delle forze nazifasciste, rappresentava la fine dell’occupazione perché Milano era in qualche modo la testa del serpente e una volta tagliata, una volta liberata, il corpo sarebbe morto, si sarebbe arreso.

Dopo la caduta di Milano le insurrezioni in tutta Italia si intensificarono e in meno di una settimana si giunse all’effettiva liberazione del paese il 1 maggio 1945 l’Italia intera era stata liberata. Ma questa liberazione non era stata facile e costrinse uomini, donne e bambini a compiere scelte difficili e dolorose, in particolare la liberazione di Milano si concluse nel sangue e avrebbe portato, tra le altre cose, alla cattura di Benito Mussolini, avvenuta il 27 aprile ad opera della 52° Brigata Garibaldina.
Come sappiamo Mussolini sarebbe stato condannato a morte e giustiziato in meno di ventiquattro ore e tra gli uomini che firmarono e votarono la sentenza, c’era anche anche il sopracitato Sandro Pertini, tuttavia, va detto che il trattamento che la 52° brigata riservò all’ex primo ministro italiano fu tutt’altro che brutale e nell’ultimo scritto di Mussolini redatto a Germasino, sopra Dongo, il 27 aprile 1945, si può leggere:

“La 52a Brigata Garibaldina mi ha catturato oggi venerdì 27 aprile nella Piazza di Dongo. Il trattamento usatomi durante e dopo la cattura è stato corretto”

Dall’ultimo scritto di Benito Mussolini, Germasino, 27 aprile 1945

La brutalità e la barbarie sarebbero sopraggiunte soltanto dopo l’esecuzione, con l’esposizione del cadavere a modi trofeo.

Il 25 aprile 1945 segnava la vittoria della resistenza sull’occupazione straniera e sarebbe diventata, una delle feste nazionali più importanti, se non addirittura la più importante dopo la festa della repubblica e nella sua celebrazione è stato possibile gettare le basi di una nuova Italia, di una nuova tradizione e di un nuovo folcklore italiano, quello di un Italia che è risorta dalle proprie ceneri come una fenice, un Italia che ha riconquistato la propria dignità perduta ed ha ritrovato un onore quasi dimenticato, è un Italia fatta di paesi finalmente in festa, che può salutare i soldati tornati dalla guerra e lentamente può ritornare alle stanze della propria vita quotidiana, come i fiori nei prati e come il vento di aprile.

Ma è anche un Italia speranzosa e dolorante che in quei giorni di aprile e di inizio maggio si affacciava insistentemente alle proprie finestre e passa ore intere sull’uscio delle case e nei cortili, nell’amara speranza di rivedere i propri cari, in attesa di vedere apparire all’orizzonte i propri padri, figli e mariti partiti volontari per la guerra, partiti come soldati non ancora tornati, partiti come partigiani per la resistenza, partiti per essere uomini liberi e senza pretesa di diventare eroi, e in quei giorni non si aspettavano eroi, perché non c’erano eroi, c’erano solo ma padri, mariti e figli che tardavano a ritornare.

Per molti quella speranza sarebbe sfumata, perdendosi nel tempo avvolta dal fuoco e dal fumo di un camino, offuscata dai litri di vino versato per festeggiare e anche un po’ per dimenticare, versato per non pensare, per non capire, per non accettare la realtà e restare aggrappati all’amaro pensiero che un giorno i propri cari sarebbero tornati, ed averebbero raccontato di fronte a quel camino le mille avventure vissute. Ma quel giorno, per migliaia di italiani, non sarebbe mai arrivato, furono a migliaia le famiglie che non rividero mai più i propri cari, perché caduti prigionieri o giustizia sul posto chissà dove, chissà quando e chissà da chi, solo perché avevano scelto di essere uomini liberi, solo perché avevano scelto di combattere per la libertà di tutti, per la propria terra e senza pretesa di essere ricordati come eroi quella libertà l’avrebbero pagata con la propria vita.

GLI DEI DEL FUOCO

Perché ad un certo punto della nostra storia, il fuoco da simbolo di luce e vita è diventato un simbolo infernale sinonimo di morte e malvagità?

Il fuoco è splendente, è luminoso, permette di cuocere il cibo ed era un elemento centrale nelle pratiche sociali delle civiltà pre-arcaiche, ma allora perché se il fuoco “è vita” ad un certo punto della nostra storia è stato associato agli inferi, diventando sinonimo di morte e malvagità?
Perché ad un certo punto della nostra storia, il fuoco ha smesso di essere un elemento positivo ed è diventato un elemento negativo?

Cerchiamo di andare con ordine e ragionando insieme cerchiamo di capire come, quando e perché è avvenuto questo cambiamento e se davvero è avvenuto un cambiamento.

Come sappiamo, la capacità di controllare il fuoco rappresenta uno dei passi più importanti compiuti dagli esseri umani, si tratto probabilmente dell’unica vera grande conquista della nostra specie, la prima conquista che appartiene esclusivamente all’uomo, e in quanto conquista esclusiva è anche il primo, reale, elemento di distinzione tra l’essere umano e qualsiasi altra specie animale.

La conquista del fuoco da parte dei primi esseri umani rappresenta infatti un punto di svolta unico nella nostra storia e nella nostra evoluzione, sia culturale che “fisica”, in quanto il fuoco diede accesso all’uomo ad una fonte di calore che in alcune fasi particolarmente fredde del nostro pianeta significò la differenza tra la vita e la morte, la differenza tra la sopravvivenza e l’estinzione. Inoltre il fuoco ha fornito protezione dalle altre creature ed ha permesso il miglioramento delle tecniche di caccia e in fine, ma non meno importante, un efficiente metodo per cucinare il cibo.

È grazie al fuoco e solo grazie ad esso che l’uomo si è distinto dalle altre creature, è grazie agli importanti avanzamenti “tecnologici” e alimentari derivati direttamente dalla scoperta del fuoco che l’uomo ha potuto intraprendere la propria strada alla “conquista del pianeta”.

Il miglioramento degli strumenti da caccia e i cambiamenti alimentari dovuti alla cottura del cibo, portarono ad un significativo miglioramento delle condizioni della vita e soprattutto un allungamento della vita stessa che si sarebbe tradotto in un rapido incremento del numero effettivo di esemplari della nostra specie, e conseguenza diretta dell’ampliamento delle comunità primitive, vi fu una riduzione della quantità disponibile di cibo che costrinse l’uomo a cercare nuovi luoghi in cui abitare e nuove tecniche per procurarsi del cibo.

Lo spirito di sopravvivenza e di preservazione, innati in ogni specie vivente, avrebbe spinto i più giovani a separarsi dal luogo di nascita, avviando un processo migratorio che avrebbe portato alla dispersione geografica della specie umana su tutto il pianeta. Va detto inoltre che il controllo del fuoco diede all’uomo più tempo per poter vivere e portare a termine le proprie attività, oltre all’allungamento della vita vi è infatti anche un allungamento delle giornate che non sono più scandite esclusivamente dal ciclo giorno notte, ma grazie al fuoco è possibile illuminare le notti e di conseguenza, molte attività non sono più limitate alle sole ore diurne, ma possono essere portate avanti anche nelle più fredde e buie ore notturne rese meno fredde e buie grazie al calore e la luce generati del fuoco. Secondo lo stesso principio il possesso di una fonte di luce “artificiale” e “portatile” permise un ampliamento dell’orizzonte esplorativo.

Prima della scoperta del fuoco era impensabile per gli uomini inoltrassi troppo a fondo nelle gallerie e nelle caverne, ma grazie alla luce del fuoco, le oscure profondità della terra divennero accessibili, trasformandosi in veri e propri luoghi di rifugio, molto più caldi e sicuri della semplice imboccatura delle caverne.

Purtroppo non sappiamo esattamente come o quando la specie umana abbia imparato a controllare il fuoco, sappiamo, da alcuni reperti datati a circa 600.000 anni fa che molto probabilmente già l’Homo Erectus, antenato dell’Homo Sapiens, era in grado di controllare il fuoco, e sappiamo che in quel frangente il fuoco aveva un accezione positiva.

Un possibile indizio riguardante il passaggio “al lato oscuro” del fuoco, lo incontriamo intorno ai 300.000 anni fa, in questa fase il pianeta ospita le prime primitive comunità di Homo Sapiens, una specie che ha smesso da tempo di vivere nelle caverne e che ha cominciato a costruire rifugi “artificiali” prevalentemente con fango, legna, paglia e pelli di animali. Può sembrare una banalità, ma osservando le differenze tra le due tipologie di abitazione, la caverna ha tra i propri vantaggi il fatto di essere molto ampia e di poter ospitare molti esemplari, di contro, non è possibile spostarle, di conseguenza impone alla specie umana di adattarsi alla presenza di caverne. Tuttavia, essendo le pareti della caverna, fondamentalmente di pietra o comunque di materiali e minerali difficilmente infiammabili, il fuoco non rappresenta un reale pericolo. Il discorso cambia quando si comincia a vivere fuori dalle caverne, in villaggi e abitazioni che da un lato rendono più semplice seguire le migrazioni degli animali, ma dall’altro, essendo realizzate prevalentemente in legname e altri materiali leggeri e facilmente infiammabili, il fuoco inizia a diventare un pericolo, soprattutto se non è controllato a dovere.

Proprio in questo senso, alcune lame di selce, bruciate molto probabilmente in un incendio avvenuto circa 300.000 anni fa, trovate vicino ai fossili di un Homo Sapiens nell’odierno Marocco, ci conferma queste osservazioni. Un fuoco fuori controllo può distruggere un abitazione, può distruggere un intero villaggio e uccidere i suoi abitanti, tuttavia, va detto che i vantaggi sono nettamente superiori ai rischi e l’uomo non avrebbe smesso di utilizzare il fuoco, ma avrebbe perfezionato la propria capacità di domare le fiamme. Sappiamo infatti, da numerosi ritrovamenti sparsi un po ovunque sul pianeta che, circa 125000 anni fa, il controllo del fuoco era molto diffuso tra le comunità umane (stiamo ancora parlando di Homo Sapiens), inoltre sappiamo che circa 120.000 anni più tardi, circa 10.000 anni fa l’uomo avrebbe iniziato a ricercare metodi per aumentare la temperatura del fuoco, riuscendo così a modellare e manipolare i metalli, una conquista che avrebbe proiettato l’uomo nell’età dei metalli e che avrebbe inaugurato la nostra breve storia, che dura da circa 10.000 anni.

In questo momento il cambiamento non è ancora avvenuto, il fuoco è ancora un elemento positivo.

Nelle prime fasi embrionali delle più antiche civiltà, deve essere successo qualcosa, qualcosa di devastante ed estremamente grave che avrebbe spinto gli antichi ad associare il fuoco alla distruzione e alla morte, ciò nonostante le divinità del fuoco non sono divinità malvagie, anzi, ricordiamo che ancora ai tempi di Roma, il fuoco ha un valore positivo, nella mitologia Greco-Romana, il dio Efesto per i Greci e il suo equivalente romano, il dio Vulcano, sono dei del fuoco, associati però alla “tecnologia”, sono i fabbri degli dei, divinità protettrici della metallurgia, della tecnologia, delle fucine, della scultura, dell’ingegneria e delle armi appena forgiate, e probabilmente questo sottile filo rosso che lega gli dei del fuoco alla forgiatura di armi può essere la chiave per risolvere il mistero degli dei del fuoco.

Il fuoco diventa sinonimo di morte quando associato alla guerra? quanto viene utilizzato per la guerra, come arma e per produrre armi?

Nella mitologia greca il fuoco si mantiene in bilico tra la vita e la morte e questo è particolarmente evidente nel mito delle origini in cui il fuoco è morte e distruzione, ma allo stesso tempo è anche il punto di origine di un nuovo mondo inaugurato dal trionfo di Zeus, dio del cielo e del tuono, sulle antiche divinità, i Titani.

Vulcano ed Efesto sono forgiatori di armi e sono forgiatori di morte e se nella mitologia greca questo passaggio non appare immediato, va ricordato che il titano Prometeo, fu duramente punito da Zeus per aver fatto dono agli uomini del fuoco, oltre che dell’intelligenza e della memoria. Prometeo fu punito da Zeus perché il padre degli dei temeva che questi doni, il fuoco in particolare, rappresentassero un pericolo per l’intera umanità.

Come dicevamo, se nella cultura greca, il pericolo del fuoco non è totale e definitivo, in altre culture e civiltà, gli dei del fuoco, sono connotati da un più forte e diretto legame con la morte e la distruzione, se bene non esistano molti dei del fuoco che siano effettivamente divinità oscure e malvage.

Tra gli esempi più antichi di divinità in qualche modo associate al fuoco, se bene non fossero divinità totalmente malvagie, abbiamo la figura di Moloch, si tratta di una divinità Cananea il cui mito e le pratiche rituali ad esso associate potrebbero essere la chiave per comprendere il cambio di significato del fuoco, da elemento di luminosità e vita ad elemento di oscurità e malvagità.

Secondo la mitologia Cananea, Moloch dimorava nella Geenna, una vallata scavata dal torrente Hinnom, lungo il versante meridionale del monte Sion e in questo luogo i Cananei praticavano un particolare rituale in onore e gloria del dio Moloch, una pratica che prendeva il nome dello stesso dio.
Il Moloch prevedeva il sacrificio di bambini, precedentemente sgozzati e poi offerti in olocausto al dio Moloch, quindi bruciati in un fuoco perpetuo, tenuto acceso in onore del dio. Secondo la mitologia Cananea, il dio Moloch si cibava dei corpi dei bambini, molto probabilmente il primogenito della famiglia, trasformandoli in una sorta di divinità familiare che avrebbe protetto la propria famiglia.

Il Moloch era praticato anche da altre culture mediterranee oltre a quella cananea, ed è molto probabile che questa diffusione sia avvenuta in concomitanza con l’espansione delle rotte commerciali di fenici prima e cartaginesi poi e nella maggior parte dei casi, questi rituali furono soppiantati dal declino degli antichi pantheon e l’ascesa di nuove divinità, come ad esempio nel caso del Titano greco Kronos, dio che secondo la mitologia greca divorava i propri figli (tra cui lo stesso Zeus) e per questa ragione è stato più volte identificato come la trasposizione greca del dio Moloch.

Con il tracollo della civiltà fenicio-cananea e l’avvento dell’epoca giudaica che sotto la guida di re Davide, il popolo ebraico trasformò la Geenna da luogo in cui era praticato il Moloch a luogo di destinazione dei rifiuti prodotti a Gerusalemme.

La Geenna passò dall’essere un luogo sacro ad un antica discarica e la divinità che secondo la mitologia Cananea dimorava in quel luogo, come accadde a tutte le divinità cananee, fu trasformata in un demone. Nell’interpretazione ebraica il dio Moloch era un demone malvagio che si nutriva di neonati e che dimorava nella Geenna.

Come sappiamo il cristianesimo avrebbe ereditato gran parte della propria mitologia dall’ebraismo e in questa eredità vi è anche il destino di Moloch e della Geenna, in particolar modo, in alcuni passaggi del Nuovo Testamento, in seguito ad alcune traduzioni errate, la Geenna venne associata all’inferno, mentre in altri passaggi il suo nome rimane invariato e se sul piano mitologico il suo significato varia leggermente, sul piano materiale, la sua funzione resta invariata, la Geenna continua ad essere la discarica di Gerusalemme e trattandosi di una discarica del mondo antico, i rifiuti che vi finivano erano per lo più di natura organica e facilmente infiammabili, di conseguenza gli incendi nella Geenna non erano rari, come non sono rare testimonianze e riferimenti ai numerosi incendi che coinvolsero la Geenna.

Gli incendi costanti nella Geenna e il precedente fuoco permanente acceso in onore di Moloch, è probabile che si fusero insieme creando l’immagine di una terra, dimora di un demone, in cui il fuoco esiste da sempre e se questa terra è associata all’inferno cristiano allora è facile capire perché l’inferno nella cultura ebraico cristiana è dominato dalle fiamme, ed essendo l’inferno dei cristiani un luogo di dannazione eterna, popolato da spiriti dannati e in qualche modo malvagi, il ragionamento può trovare un epilogo.

Il fuoco, un tempo simbolo di luce e vita è oggi un simbolo infernale, sinonimo di morte e malvagità, molto probabilmente (ma non ne abbiamo la certezza) per via dell’associazione del Fuoco alla produzione di armi in molte mitologie antiche e soprattutto per via della tradizione ebraico-cristiana che trasformò il dio Moloch in un demone infernale e la sua casa in una discarica successivamente associata agli inferi, rendendo così, il demone che vi dimorava, l’incarnazione stessa del male.

Storia romana sui social Network : quando il mito supera la realtà

Nel 1936, più precisamente il 16 agosto 1936, Giorgio Pasquali pubblicò nella “nuova antologia” un saggio intitolato “La grande Roma dei Tarquini” pp. 405-416.

Il saggio del Pasquali, fu per l’epoca estremamente controverso e problematico, soprattutto perché nel 1936 in italia c’era il fascismo che, come sappiamo, aveva mitizzato la storia romana e costruito un culto di roma fondato su una visione parziale e distorta della storia romana. Il saggio del Pasquali nel 1936 segna un punto di rottura con la storiografia tradizionale e ad oggi è considerato un momento epocale per la ricerca riguardante soprattutto la Roma del VI secolo a.c., ovvero la Roma delle origini, una Roma in piena età monarchica.

Come è facile immaginare, la visione e l’interpretazione proposte dal Pasquali suscitarono grande scalpore, tra le altre ragioni perché le sue teorie minavano le origini del mito di Roma costruito dal fascismo.

La cosa interessante è che le teorie del Pasquali, nonostante l’epoca, furono largamente accettate e apprezzate dal mondo accademico e ci furono molti meno oppositori di quanto si possa immaginare, questo grande favore era legato soprattutto all’ampio progresso di conoscenze legate alle scoperte archeologiche e confermate dalla tradizione storico-letteraria.

Il modello di ricerca elaborato dal Pasquali è ancora oggi un modello solido e valido, e la sua interpretazione della Roma del VI secolo è largamente accettata, anche se continua ad essere al centro di un intenso dibattito storiografico sulle origini della civiltà romana e più precisamente sulle origini di “Romolo”.

Il motivo per cui oggi ho deciso di fare questo post riguardante le ricerche del Pasquali è perché uno dei capisaldi della sua metodologia di ricerca era la comparazione di diverse fonti storiografiche, ponendo sullo stesso piano sia fonti documentarie che archeologiche, e soprattutto prendeva in esame fonti contrastanti provenienti da epoche differenti e dalla cui comparazione era possibile individuare ed estrapolare gli elementi comuni che, nell’ottica del Pasquali erano i soli elementi di verità accettabili.

Questa modalità di ricerca rompeva la tendenza di alcuni storici dell’epoca di “ascoltare una sola campana” e professarla come verità assoluta ed è il motivo per cui oggi ho deciso di parlarne.

Il mondo accademico, per quanto riguarda la ricerca storiografica, ha ormai ampiamente assorbito questa modalità di studio e di ricerca, di fatto la comparazione di fonti differenti, provenienti da momenti diversi e la comparazione di diverse chiave interpretative, oggi sono alla base della ricerca storiografica.
Diversamente, sul web non funziona così, e molti “colleghi divulgatori” che si occupano di storia, tendono a non accettare e non accoglie questo modello di pensiero, non voglio stare a sindacalizzare sul modello di pensiero, ognuno è libero di approcciarsi alla storiografia nel modo che ritiene opportuno, ma focalizzarsi su una visione univoca della storia ed accettare solo “fonti favorevoli” alla propria visione, tacciando le fonti contrastanti come inesatte o inappropriate è estremamente deleterio, perché la tendenza è quella di divulgare “il mito di roma” e non la storia romana.

Sinceramente mi sono stancato di vedere community sui vari social network, anche molto ampie, di “appassionati” di storia, e soprattutto di storia romana che, invece di fare storia, invece di parlare di storia e di confrontarsi con la ricerca storiografica, tendono a propinare una storiografia parziale e accuratamente selezionata per confermare una visione distorta e inesatta della storiografia e sopratutto della storia romana.

La storia di Roma è una storia molto lunga, molto complessa e molto variegata, e questo perché è la storia di un popolo che ha inglobato nella propria civiltà innumerevoli popolazioni e civiltà contemporanee, di fatto la storia romana non è solo la storia di roma, ma è la storia di tutti i popoli del mediterraneo e in larga parte d’europa tra il secondo secolo avanti cristo e quinto secolo dopo cristo, è una storia pullulante di scontri politici interni e di crisi politiche interne oltre che di guerre con l’esterno, ma la maggior parte dei miei “colleghi” tende a puntare lo sguardo solo sulla storia gloriosa, sui successi di roma, dimenticando, forse troppo facilmente i periodi più cupi della storia romana, i momenti più dolorosi e soprattutto dimenticando che Roma non ha vinto ogni battaglia che ha combattuto.

Quando si parla di storia romana sui social network bisogna stare attenti ad un grande rischio.
Bisogna stare attenti a non confondere il Mito di Roma con la Storia di Roma, perché il mito è bello, è affascinante, è glorioso, ma la storia romana, come la storia di qualsiasi altra epoca, è fatta di alti e di bassi e se si crede che Roma non abbia mai perso una battaglia allora, forse è meglio fare qualche passo indietro e riaprire qualche vecchio e polveroso manuale di storia romana.

Ho scritto questo post perché sono stanco di vedere il mito di Roma sovrapporsi alla storia Romana.

Quel piccolo nano Francese che crede d’essere lui la storia – Storia Leggera

Forse non avrei dovuto giocare così presto la carta di Waterloo, perché si tratta di una canzone potente, di una canzone completa e di una delle mie canzoni preferite. Dopo Waterloo, dopo la disfatta dell’imperatore è difficile, se non impossibile trovare una canzone altrettanto forte e penetrante, è estremamente difficile trovare un altra canzone che riesca con tanta semplicità a proiettarci in un un altro mondo, in un altra epoca, in un altra realtà che è aliena al nostro tempo, ma alla fine una canzone l’ho trovata, ed è ancora una volta una canzone di Roberto Vecchioni che racconta Napoleone, ma visto e raccontato con occhi diversi, in un altro momento. La scorsa settimana Waterloo ci ha mostrato la caduta di quel piccolo nano francese convinto d’essere lui la storia, il cielo di Austerlitz invece, ci racconta un altra realtà, ci racconta un grande e inaspettato trionfo di Napoleone, visto dalla parte dello sconfitto impero Russo.

Il cielo di Austerlitz ci racconta un momento esatto della storia napoleonica, ci racconta una battaglia in particolare, delle tante battaglie combattute durante le guerre napoleoniche, ci racconta una battaglia che avrebbe segnato in qualche modo l’inizio e la fine dello stesso impero napoleonico, ci racconta la battaglia di Austerlitz combattuta il 2 dicembre del 1805 e che vide l’impero francese scontrarsi contro la terza coalizione antifrancese formata dall’Impero Russo e dal Sacro Romano Impero. È uno scontro epocale, è lo scontro che la storia avrebbe consacrato come la battaglia dei tre imperatori, in cui Napoleone Bonaparte ed il suo esercito, nonostante l’inferiorità numerica, avrebbe sconfitto l’Imperatore del sacro romano impero Francesco II d’Asburgo-Lorena e lo Zar di tutte le russie Alexandr Pavlovič Romanov.

La battaglia di Austerlitz è uno scontro leggendario, è una battaglia che sarebbe entrata nel mito oltre che nella storia ed avrebbe rappresentato un punto di rottura epocale, un punto fisso nella storia dal quale si sarebbe dipanato un nuovo mondo, è uno scontro così maestoso, così sfolgorante che Lev Tolstoj lo avrebbe eletto a cardine del suo romanzo immortale Guerra e Pace, ed è proprio tra le pagine del grande romanzo storico russo che storia, poesia e letteratura si fondono insieme, per spalancare le porte ad un mondo nuovo.

Ciò che ci viene raccontato è un cambiamento epocale, che si mostra apparentemente come la fine dell’antico regime, ad Austerlitz il vecchio mondo sembra giunto alla propria conclusione, i vecchi imperi sembrano destinati a scomparire, l’aristocrazia tradizionale sembra costretta a cedere il passo alla storia, le antiche casate reali, che da generazioni regnavano incontrastate sull’Europa e sul mondo sembrano essere ad un passo dalla fine, quasi costrette a cedere le proprie corone. La battaglia di Austerlitz sembra segna il trionfo assoluto di un nuovo ordine mondiale, un ordine post rivoluzionario in cui un soldato non è più sola e semplice carne da macello, lasciato a morire sotto gli incessanti colpi di artiglieria del nemico, mentre gli ufficiali ed i nobili sono al sicuro nelle retrovie e guardano la battaglia da lontano senza che questa li coinvolga, senza che questa sembri reale, semplicemente muovendo delle pedine di carne ed ossa su un qualche campo di battaglia. Ad Austerlitz gli ufficiali sono sul campo, sono in prima linea, devono essere in prima linea perché si battono contro un nemico che non gioca secondo le regole tradizionali della guerra tra gentiluomini, ma cavalca alla testa del proprio esercito e che combatte al fianco dei propri uomini.

Il Napoleone di Austerliz non è solo un imperatore che assiste alla battaglia, non è solo un generale pianifica la battaglia, ma è anche un soldato come tanti altri, che vive nell’accampamento insieme ad altri soldati e un uomo che cammina tra i propri uomini e parla con loro, li ascolta, vive e ama come loro, il Napoleone di Austerlitz è un comandante che divide il pane ed il vino con i propri uomini, compreso l’ultimo degli stallieri e non soltanto con i propri generali.

Di fronte a questo nemico così potente, così umano, l’antica aristocrazia non può più restare in disparte, non può più restare al sicuro nelle retrovie, non può continuare a giocare alla guerra con le vite dei propri soldati, ma è costretta a scendere dal proprio idilliaco piedistallo, è costretta a lasciare il proprio olimpo personale per scendere e mescolarsi tra gli uomini, tra i soldati. Napoleone nella battaglia di Austerlitz trascina due imperatori nel fango di terriccio umido e sangue, li trascina tra i cadaveri dei soldati ancora caldi, li trascina in quell’inferno terreno che è il campo di battaglia durante gli scontri e lì, quei bambini viziati e capricciosi che giocavano a fare la guerra ma che non avevano mai realmente combattuto, vengono travolti dalla ferocia e dalla furia cieca ed incontrollabile dei soldati bonapartisti.

Ad Austerlitz ancora di più che nella stessa rivoluzione francese, le masse popolari si scontrano contro l’aristocrazia e contro ogni aspettativa, contro ogni logica, nonostante l’enorme inferiorità numerica e il minor numero di cannoni, quell’esercito di contadini armati e non addestrati che costituiva le armate napoleoniche, sarebbe riuscito non solo a vincere, ma a trionfare sul nemico, subendo un numero minimo di perdite tra caduti, feriti e prigionieri rispetto alle perdite del nemico, più numeroso, meglio addestrato e meglio armato. Ad Austerlitz, forse per la prima ed unica volta nella storia, un esercito meno numeroso, meno armato e non addestrato, è riuscito a sconfiggere il nemico sfidandolo in campo aperto, è riuscito a trionfare su un nemico più imponente nello scontro diretto. E pure, per assurdo, la battaglia in cui Napoleone ed il suo esercito sono riusciti a sbaragliare senza troppe difficoltà la terza coalizione, non avrebbe segna la fine definitiva dell’antico regime, la fine dell’opposizione antifrancese, ma l’inizio dei un interminabile serie di campagne militari che avrebbero portato l’Impero Napoleonico al proprio apice e rapidamente alla sua fine.

Dopo Austerlitz, dopo il trionfo bonapartista ad Austerlitz, Napoleone si sentirà onnipotente e si convincerà che il suo esercito è in grado di sconfiggere qualsiasi avversario. Napoleone cadrà vittima del proprio successo e lo stesso esercito napoleonico si convincerà di non poter essere sconfitto. In particolare la guardia imperiale, l’elité dell’esercito bonapartista, cadrà vittima del proprio successo e dell’aura mistica che da Austerlitz in avanti l’avrebbe accolta. Dopo Austerlitz la guardia imperiale diventa qualcosa di leggendario, il cui nome è diventato quasi un impronunciabile sinonimo di morte e sconfitta, e la cui carica è temuta, per la sua invincibilità dalla maggior parte degli eserciti europei. Da Austerlitz in avanti, l’irruzione sul campo di battaglia della guardia imperiale diventa il preludio alla sconfitta, l’atto finale che avrebbe segnato l’ennesimo successo bonapartista.

La guardia imperiale e formata dai veterani che avevano combattuto mille battaglie al fianco di Napoleone ed è infusa simultaneamente da un aura mistica e da un ombra demoniaca. Il potere ed il prestigio di questo corpo scelto sono legati a ragioni puramente strategiche e all’acume militare di Napoleone, il cui intuito lo aveva spinto a giocare la carica della guardia imperiale soltanto come carta finale, l’asso nella manica che avrebbe segnato le sorti della battaglia. La guardia imperiale è scagliata contro il nemico soltanto nelle fasi finali della battaglia, quando il nemico è ormai debole, stanco e quasi completamente privo di difese, in alcuni casi la carta della guardia imperiale è giocato addirittura quando le sorti della battaglia sono già decise e il nemico è già sconfitto. Allora e solo allora, la guardia imperiale può scendere in campo, forte e ancora immacolata, scagliandosi contro un nemico inerme e producendo una carica estremamente efficace e letale. In alcune battaglie la carica della guardia imperiale è totalmente inutile ai fini della vittoria in quella battaglia, poiché il nemico si è già o è prossimo alla ressa, e l’ultima carica appare come un atto di crudele ferocia, un inutile massacro che però è fondamentale per rinforzare l’idea di invincibilità delle forze napoleoniche e in particolare per alimentare il mito della guardia imperiale.

Nella battaglia di Austerlitz ad essere travolti dalla carica imperiale non sono soltanto i soldati del sacro romano impero e dell’impero russo, gli stessi Imperatori verranno travolti, vedendo con i propri occhi l’impossibilità di vincere contro un nemico così potete, feroce e crudele, ed è proprio in quel momento di sconforto e sconfitta, che si dipana la narrazione del cielo di Austerlitz.

Il campo di battaglia è raccontato attraverso gli occhi ed i pensieri di Aleksandr Romanov, l’Imperatore si sente lontano come mai prima d’allora, dal proprio mondo, dalle feste, dalla gloria, dalla sua reggia di Pietroburgo e in quella lontananza, tra le urla altissime dei soldati francesi, riesce a capire di aver trascorso tutta la propria esistenza in un mondo irreale, in un mondo lontano dalla realtà e lontano dal proprio popolo ed è questa consapevolezza che qualche anno più tardi lo avrebbe convinto ad accettare l’aiuto dell’acerrimo nemico di Napoleone, il generale prussiano Carl von Clausewitz, le cui intuizioni avrebbero portato alla riorganizzazione degli eserciti della coalizione e la sconfitta di Napoleone.

Sul campo di battaglia di Austerlitz, quando la battaglia è ormai finita e l’esercito russo è ormai sconfitto, Aleksander si lascia trasportare dai mille pensieri che affollano la propria mente, osserva quel piccolo nano francese chiamato Napoleone Bonaparte ergersi come fosse un gigante tra i cadaveri mentre “meschino come la sua vittoria” conta i morti quasi con cortesia, consapevole della portata epocale di quella vittoria, consapevole di aver inferto un duro colpo all’antico regime e illudendosi che quel colpo fosse un colpo letale, quasi a convinse di essere lui la storia.

Perché in fondo Napoleone è anche questo, è un grande canalizzatore della storia, il cui impero più che la sua vita, avrebbe cambiato per sempre il volto del mondo, inaugurando una nuova epoca nel sangue di milioni di uomini che sarebbero morti per un ideale che non gli apparteneva e per il quale, forse, non erano ancora pronti.

In un mix sfolgorante di storia, musica e letteratura, la Battaglia di Austerlitz, celebrata nel romanzo guerra e pace di Tolstoj è anche il cuore pulsante del brano il cielo di austerlitz di Roberto Vecchioni​.
Austerlitz segna il trionfo del piccolo, grande imperatore, mette in luce il suo acume militare e la sua crudeltà di uomo, Austerlitz è il momento in cui vengono spalancati i cancelli dell’inferno, permettendo ai demoni della guardia imperiale di liberarsi in europa portando l’inferno sulla terra, la battaglia dei tre imperatori segna apparentemente il declino dei vecchi imperi, dei vecchi imperatori e contemporaneamente il passaggio al lato oscuro della forza di Napoleone.

Siria, una Guerra Giusta ?

Queste sono le due diverse chiavi interpretative di ciò che sta succedendo in queste ore.

“Trump ha “smesso di fare l’idiota” ed ha deciso di intervenire in Siria.”
“L’intervento in Siria è un azione unilaterale di USA, UK e Francia.”

Il dibattito in corso su scala globale sulla legittimità e la giustizia di un intervento militare in Siria è qualcosa che mi tocca da vicino, in quanto il mio percorso di studi storici si è concluso con una tesi di laurea sul dibattito italiano sulla guerra giusta, nei conflitti del golfo e dei Balcani avvenuti negli anni novanta, e ciò che sto leggendo e sentendo in questi giorni sa di già visto, di già sentito, poiché le ragioni di chi è favorevole ad un intervento e chi si oppone ad esso sono le medesime utilizzate negli anni novanta.

Per quanto riguarda la legittimità dell’intervento è indubbio che, sul piano giuridico questa guerra non sia una guerra giusta, ma anzi, sia un operazione illegittima che non rispetta la volontà delle nazioni unite, ma andiamo con ordine.

Sul piano “giuridico” questo intervento non può considerarsi legittimo poiché mancando l’autorizzazione dell’ONU, di conseguenza questo intervento è da considerarsi “illegittimo” ed è illegittimo perché la carta delle nazioni unite vieta ogni intervento militare internazionale non approvato dal consiglio di sicurezza dell’ONU, e perché un intervento militare internazionale venga approvato è necessario che prima si cerchi una soluzione diplomatica, se questa non avviene, l’ONU prevede l’utilizzo di strumenti di pressione diplomatici e non violenti, come Embargo, blocchi navali e l’allontanamento dalla comunità internazionale con la chiusura dei rapporti diplomatici. In fine, e solo in fine, l’articolo 42 riconosce che, nell’eventualità in cui siano state tentate tutte le possibili soluzioni non violente e questi tentativi diplomatici non abbiano dato risultati, allora, e solo allora, il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite può autorizzare la formazione di una coalizione internazionale, che faccia rapporto allo stesso CDS.

C’è però da considerare anche altri fattori, uno su tutti è la conformazione del Consiglio di Sicurezza delle nazioni unite e in particolare i suoi membri permanenti ed il loro diritto di veto.

In questo momento, così come è accaduto durante tutta la guerra fredda, il CDS dell’ONU è bloccata dal veto di uno dei membri permanenti del CDS, ovvero la Russia, il cui diritto di veto, da diversi anni, sta ostacolando ogni tentativo di l’intervento diplomatico della comunità internazionale nella risoluzione della questione siriana, di fatto bocciando ogni risoluzione proposta dall’ONU nella gestione della crisi. Alla base di questo ostruzionismo non ci sono certamente ragioni umanitarie, o giuridiche, vi sono invece diversi interessi di carattere economico, strategico e geopolitico, rafforzati da una grande amicizia che lega il governo di Mosca al governo di Damasco, oltre ad un amicizia personale tra Putin ed Assad.

Nella vicenda siriana la Russia di Putin non si è certamente comportata “in maniera responsabile”, ostacolando ripetutamente l’operato delle nazioni unite, arrivando a minacciare, in alcuni casi, interventi militari in risposta alle domande e le richieste dalla stessa ONU e questo atteggiamento bellicoso e violento della Russia di Putin ha, come già detto, bloccato totalmente le azioni legittime del consiglio di sicurezza, spianando la strada ad un intervento internazionale “illegittimo” poiché non autorizzato dall’ONU.

Da questa vicenda emerge l’impossibilità di agire dell’ONU, il cui operato può essere ostacolato dalle decisioni individuali dei singoli membri permanenti del consiglio di sicurezza. De facto, al momento è sufficiente che una sola di queste cinque nazioni, ovvero Cina, Francia, Russia, UK e USA, abbia un qualsiasi interesse personale per rendere illegittima una qualsiasi operazione internazionale e bloccare ogni risoluzione dell’ONU, compreso il semplice invio di osservatori internazionali e tutto questo a discapito delle popolazioni civili che vivono in quella regione e stanno affrontando una determinata crisi umanitaria da non si sa quanti anni.

Nel caso specifico della crisi siriana, l’ostruzionismo della Russia ha reso impossibile l’accertamento dei presunti crimini di guerra attribuiti al governo di Damasco, ed ha reso impossibile l’intervento internazionale anche quando c’erano prove più che evidenti di azioni illegali compiute dal governo a discapito della popolazione civile, come ad esempio l’utilizzo di armi chimiche e il coinvolgimento della popolazione civile nei bombardamenti.

Questa vicenda, mette in luce la necessità di un aggiornamento dello statuto dell’ONU, mette in evidenza la necessità di rinnovare la carta delle nazioni unite, questo aggiornamento era già necessario e da molti anche richiesto quasi 30 anni fa, quando, finita la guerra fredda e superata un iniziale collaborazione tra USA e Russia, il sistema dei veti incrociati era tornato a bloccare l’operato del CDS e di conseguenza dell’ONU, vedi Jugoslavia, vedi Ruanda, vedi crisi del Kosovo ecc.

L’attuale conformazione del CDS è solo un retaggio della seconda guerra mondiale e della sua conclusione, un eredità lasciata dai vincitori della guerra in cui, era riconosciuto il diritto di veto alle potenze vincitrici della guerra e questo diritto dava loro il potere di di decidere non dove intervenire, ma dove non era possibile intervenire, in questo modo Cina, Francia, Russia, UK e USA potevano tutelare i propri imperi coloniali e le rispettive reti di alleanze.

Sono passati più di settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale e ancora le sue dinamiche postbelliche riescono ad influenzare il mondo, ancora oggi i vincitori della seconda guerra mondiale hanno il potere di decidere dove non è possibile intervenire, per tutelare i propri interessi personale e se da una parte Francia ed UK nel frattempo hanno perso i propri imperi coloniali, USA e Russia hanno, nel frattempo, ampliato o rielaborato la propria rete di alleanze.

Settant’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale l’ONU dovrebbe evolvere e diventare ciò per cui è nato, dovrebbe riuscire a superare il veto e solo così potrà finalmente assolvere alla sua finzione primaria di garante della pace e della sicurezza globale, poiché finché esisterà il diritto di veto, le cinque potenze vincitrici della seconda guerra mondiale potranno rendere illegittimo ogni tentativo internazionale di porre fine ad una crisi regionale che in qualche modo, direttamente o indirettamente, garantisce loro un qualche tipo di vantaggio o la cui risoluzione porterebbe un potenziale vantaggio ad una potenza rivale.

Nel 2018 è inaccettabile che con un organismo internazionale come l’ONU, il cui compito primario è quello di garantire la pace e la sicurezza internazionale si debba ancora fare ricorso alle azioni individuali delle nazioni e ci si debba affidare ad un gruppo di cowboy solitari, chiamati ad intervenire fuori dalla legalità e che prima sparano e poi fanno domande, per risolvere una crisi che invece l’ONU potrebbe risolvere utilizzando strumenti di pressione non violenti e senza ricorrere all’uso della forza.

Personalmente non approvo interventi internazionali non approvati dalle Nazioni Unite e vorrei sempre che l’iter previsto dalla carta delle nazioni nel capitolo VII, in cui gli articoli dal 39 al 51 vanno a definire proprio l’ “Azione rispetto alle minacce alla pace, alle violazioni della pace ed agli atti di aggressione” venisse rispettato. Purtroppo, l’esistenza stessa del diritto di veto, riconosciuto esclusivamente ai vincitori della seconda guerra mondiale, il più delle volte rende impossibile l’attuazione dell’iter previsto dall’ONU e nella maggior parte dei casi rappresenta il più grande ostacolo alla corretta esecuzione di queste procedure.

Nel caso specifico della crisi Siriana, finché la Russia di Putin avrà diritto di veto ed utilizzerà questo suo privilegio per proteggere i propri interessi nella regione, l’ONU non potrà utilizzare i propri strumenti diplomatici per porre fine alla crisi e di conseguenza le opzioni che restano alla comunità internazionale sono soltanto due.

  • la mobilitazione internazionale senza l’autorizzazione delle Nazioni Unite.
  • fingere che ciò che succede in quella regione non riguardi l’intera umanità e dunque lasciare che la guerra continui a spese di milioni di civili.

La mobilitazione dell’ONU è auspicabile ma in questa particolare circostanza è impossibile poiché la Russia ha il diritto ed il potere di bloccare ogni risoluzione del consiglio di sicurezza e come si è visto negli ultimi anni, proprio nella crisi siriana, la Russia esercita sistematicamente questo suo diritto per bloccare le risoluzioni del CDS che possono minacciare i propri interessi esteri.

Dall’altra parte, vista l’impossibilità di un intervento legittimo e la mancata volontà di restare in disparte a guardare silenziosamente milioni di vite spazzate via, ciò che resta è un intervento, non autorizzato dall’ONU che, oltre ad avere una natura illegittima, almeno sul piano giuridico, presenta un ulteriore problema di fondo, poiché, diversamente da un intervento autorizzato dall’ONU che porrebbe come obbiettivo dell’intervento la sola pacificazione della Siria e la fine della guerra civile, impedendo così alla coalizione internazionale che verrebbe a formarsi di superare questo limite dettato dal rispetto della carta delle nazioni, per conseguire altri obbiettivi quali ad esempio la riorganizzazione dello stato siriano. Purtroppo senza l’autorizzazione dell’ONU per la coalizione internazionale non ci sarà alcun limite imposto dall’ONU, verrà a mancare l’obbligo di rispettare la sovranità nazionale siriana e di conseguenza, lo scenario più probabile è che il fine ultimo dell’intervento, oltre alla pacificazione della Siria e la fine della guerra civile, molto probabilmente prevederà anche la deposizione e l’arresto di Bashar al Assade che, nel migliore e più auspicabile dei casi, verrà condotto di fronte ad una corte internazionale per rispondere dei crimini di guerra compiuti dal governo siriano durante la crisi.

Per quanto riguarda le posizioni dell’Europa, temo che l’Unione Europea abbia sprecato un importante occasione di mostrarsi unita, forte e compatta nell’affrontare una questione internazionale, piegandosi ancora una volta all’influenza, le pressioni e le minacce della Russia di Putin che, tuttavia, nella vicenda può vantare la piena legittimità delle proprie azioni, in quanto la Russia ha agito nel pieno dei propri diritti internazionali di potenza alleata della Siria e di membro permanente del CDS.

È una situazione al limite del paradossale, in cui la legittimità e la legalità viene utilizzata per insabbiare abusi e probabili crimini di guerra e dall’altra, un intervento apparentemente umanitario è di fatto un intervento illegittimo, perché illegale, in quanto non autorizzato dalle nazioni unite ed è reso illegale dall’opposizione della Russia. Un opposizione giuridicamente legittima ma dettata da ragioni non del tutto chiare trasparenti.

L’uso strategico dell’urbanistica in età Romana

Tra le tante, infinite, meraviglie storiche che il nostro tempo ha ereditato dalla civiltà romana, la posizione di alcune importanti città europee è forse l’eredità più grande perché la loro fondazione ha determinato l’evolversi stesso delle civiltà europee e mediterranee, ma perché i romani scelsero di fondare le proprie città proprio in quei luoghi invece che in altri?

Perché se guardiamo una mappa delle città fondate dai romani, notiamo una serie di agglomerati urbani nelle regioni più esterne dei territori imperiali e nell’entroterra invece, al sicuro da invasioni barbariche e scorribande troviamo solo poche città sparse e molto lontane le une dalle altre?

Guardando questa carta che mostra la moderna disposizione di città romane, una domanda sorge spontanea, perché ci sono così tante città di romane ai confini dell’impero così poche nell’entroterra francese o ispanico ?

Non dovrebbero esserci più città nelle regioni “sicure” e meno in quelle più “pericolose”?

La risposta più immediata è , “certamente si” chiunque dotato di buonsenso andrebbe a costruire le proprie città in regioni sicure e non sulla linea del fronte ad un passo dalle barbariche tribù germaniche, e pure, Roma non agì in questo modo e fondò molte più città in territori pericolosi.

Guardando questa carta più attentamente possiamo notare che le città in area germanica non sono città sparse, ma anzi, sono molto vicine tra loro, sono così vicine che è quasi difficile capire dove finisce una città e dove inizia la successiva, sembra quasi che formino una linea continua, sembra quasi una barriera urbana, una muraglia di città posta lì, per qualche motivo, una muraglia urbana situata al confine estremo dell’’impero, costruita proprio sotto il naso delle vicine tribù germaniche con cui Roma era in guerra.

Deve esserci una ragione di qualche tipo, e di teorie sul perché Roma abbia fondato così tante città al confine delle regioni belligeranti ce ne sono effettivamente tantissime. In questo articolo non andrò ad esporle tutte ma mi soffermerò sulla combinazione di teorie che personalmente ho sempre trovato più interessante e prenderò le battute da due delle teorie più interessanti e maggiormente accreditate, che riguardano l’economia militare e la strategia militare.

Per quanto riguarda la teoria dell’economia militare questa prende in considerazione soprattutto l’età imperiale e l’ultimo secolo della repubblica, ovvero il periodo che va dalla riforma dell’esercito di Mario in avanti.
La riforma dell’ordinamento militare di Mario come sappiamo, aveva reso l’esercito professionistico e non più volontario e questo significava che i soldati romani vivevano per anni in accampamenti “al fronte” impegnati a pattugliare i confini dell’impero ed impedire eventuali invasioni barbariche.

La presenza di terre oltre i confini romani ad oriente e l’oceano ad occidente può aiutarci a comprendere perché nelle regioni occidentali Roma investì meno sulle frontiere, limitandosi a pattugliare le coste e allo stesso tempo ci da un importante indizio sul perché il fronte orientale fosse decisamente più militarizzato.
Iniziamo col dire che l’oceano rappresentava di per sé un importante difesa naturale per l’impero, mentre dall’altra parte, la presenza di terre significava anche la presenza di altri popoli non sempre amichevoli o pacifici e proprio la presenza delle belligeranti popolazioni germaniche ad oriente ci aiuta a fare chiarezza.

Un impero che teme i propri nemici tende ad allontanare le proprie città dai confini, o meglio, tende ad espandere i propri confini creando un cuscinetto di terre disabitate tra il confine dove sono stanziati i soldati e le proprie città, questo è il motivo per cui vengono costruite fortificazioni e si sceglie di fondare città dove è presente una minima difesa naturale, la stessa Roma non è da meno e nella sua prima fase espansionistica, soprattutto nella prima età repubblicana, si è comportata esattamente in questo modo. Roma per secoli ha vissuto protetta da delle mura e da un fiume, tuttavia, l’espansione di Roma e l’assorbimento di numerose civiltà molto avanzate, in alcuni casi persino più avanzate della stessa civiltà romana, e il sempre maggiore allontanamento dei confini permise all’impero romano di compiere un enorme balzo in avanti sul piano urbanistico, tecnologico e militare. Non a caso la maggior parte delle città interne, fondate in età imperiale, è sprovvista di mura e fortificazioni, questo perché de facto si era creata un enorme disparità di forza tra l’esercito romano ed i primitivi eserciti delle tribù che per un motivo o per un altro, non erano state inglobate nell’impero, e soprattutto perché si erano messi molti chilometri tra quelle città ed i potenziali nemici, ma allora, ancora una volta, perché ci sono così tante città vicino i territori popolati dalle tribù germaniche?

Cerchiamo di inquadrare la situazione e osservare i rapporti di forza tra Roma e le popolazioni germaniche. La dinamica militare che incontriamo è quella “classica” della guerra asimmetrica, in cui una delle due fazioni è tecnologicamente più avanzata dell’altra ed è dotata di un esercito più grande, meglio addestrato e meglio armato. In questo contesto la logica ci suggerisce che l’esercito “migliore” sia quello romano e che, di conseguenza, con più semplicità avrebbe ottenuto la vittoria in uno scontro diretto. Tuttavia, come sappiamo, dinamiche di questo tipo sono le più imprevedibili e molto spesso, l’esercito più piccolo e disorganizzato riesce ad avere la meglio su quello più imponente evitando lo scontro diretto ed utilizzando strategie alternative che, come sappiamo, permisero alle tribù germaniche di resistere per secoli nello scontro con Roma e a conferma di questo, come sappiamo, Roma non riuscì mai a sconfiggere totalmente le tribù germaniche.

Se bene l’esercito romano fosse militarmente superiore sotto ogni punto di vista alle milizie germaniche, le tribù germaniche riuscirono a resistere grazie a strategie e tecniche che oggi chiameremmo anacronisticamente “di guerriglia” (termine introdotto soltanto nel XIX secolo) compiendo raid improvvisi, assalti, sabotaggi ecc ecc ecc.

Nella guerra contro le tribù germaniche Roma era impegnata a combattere contro un nemico invisibile e letale, un nemico che era in grado di colpire e sparire prima ancora che Roma si accorgesse dell’attacco e per fronteggiare questo nemico Roma utilizzò quella che molti indicano come una strategia “psicologica”. Roma combatté contro le popolazioni germaniche mostrando al nemico di non temerlo, e per farlo, unì insieme economia militare e strategia.

Ai confini dell’impero i tantissimi soldati che lo proteggevano vivevano in accampamenti militari e fortini che gli permettevano di presidiare il confine. Oltre la linea di frontiera, al di la dei fortini, delle barricate e delle trincee, solitamente vi era un ampia area in cui i romani avevano abbattuto ogni albero per centinaia di metri, permettendo così ai soldati di sorvegliare un area estremamente vasta.
Sul fronte interno invece, vennero sviluppati numerosi villaggi, inizialmente con funzioni ausiliarie alle attività militari, in cui vi erano prevalentemente fabbri, artigiani, locandieri e prostitute e la vita economica di questi villaggi dipendeva quasi esclusivamente dalla presenza del vicino accampamento militare. Col passare del tempo questi villaggi iniziarono a svilupparsi autonomamente, con la creazione di fattorie e distillerie in cui venivano allevati maiali e si produceva prevalentemente più grano e birra.

Questi primitivi nuclei urbani, in cui grazie ai soldati romani circolava molto denaro, attiravano sempre più lavoratori, soprattutto contadini, mercanti e prostitute, ed i villaggi si espandevano sempre di più fino a diventare delle vere e proprie città, in cui, molto spesso, l’imperatore preferiva risiedere per stare vicino alle armate ma senza rinunciare alle comodità urbane che nella vita da campo gli erano negate.

Queste città nate in conseguenza alla presenza dei vicini accampamenti permanenti dei militari, vennero utilizzate sul piano strategico, in primo luogo dando al nemico l’idea che Roma non temesse minimamente le scorribande barbariche, poiché appunto, aveva costruito delle città ai confini, e queste città erano protette soltanto dalla presenza del vicino accampamento militare. In secondo luogo, queste città mostravano al nemico i comfort della vita urbana e le comodità che la civiltà romana aveva da offrire. Più o meno come quando durante la guerra fredda ai confini con l’Unione Sovietica venivano innalzati ripetitori radio e televisivi che permettevano nell’est europa di ascoltare e vedere i programmi TV e le serie televisive europee e americane, che davano l’idea di un occidente da sogno in cui vivere, ma questo è un altro discorso.
Tornando a Roma, questi elementi messi insieme davano al nemico un idea di invincibilità romana che molto spesso e per molti anni, fu sufficiente ad impedire tentativi di invasione e in alcuni casi spinse gli abitanti di villaggi germanici a passare il confine per vivere nei più sicuri e civilizzati territori romani.
L’efficacia della strategia urbana venne meno soltanto negli ultimi decenni dell’impero, quando la ricchezza e la grandezza di Roma era ormai soltanto un lontano ricordo e in molte città di frontiera le elité fuggirono via lasciandosi contadini, artigiani, soldati e prostitute alle spalle.

Morir per niente, però tra i fiori, di Waterloo

Storia Leggera

Sono passati quasi sei mesi da quando ho iniziato a cercare e selezionare canzoni da utilizzare come pretesto per parlare di storia e l’idea era quella di restringere il campo in modo da avere meno difficoltà al momento della scelta di una specifica canzone di cui parlare. In questi mesi però di canzoni ne ho ascoltate e selezionate così tante da essere tornato quasi al punto di partenza, le canzoni che ho scelto sono diventate così numerose da rendermi difficile sceglierne soltanto una alla volta, anche perché sono canzoni a cui in qualche modo voglio bene, mi ci sono affezionato perché le ho ascoltate e riascoltate centinaia di volte, soprattutto in questi mesi, e allora, riflettendo sulla mia indecisione e la difficoltà nello scegliere una canzone per questa settimana, alla fine sono riuscito a trovarne una.

La canzone che ho scelto è una canzone “rara”, nel senso che non è stata mai pubblicata dall’autore in un vero e proprio disco, ma figura soltanto in una raccolta di canzoni inedite e cantate al Club Tenco che è stata pubblicata nel 1999 con il titolo “Roba di Amilcare” in onore ad Amilcare Rambaldi, storico fondatore del club della canzone d’autore italiana, in onore e memoria di Luigi Tenco.La canzone che ho scelto si intitola Waterloo, è stata scritta ed interpretata Roberto Vecchioni che, a modo suo e con il suo stile unico è riuscito ad intrecciare la realtà musicale, il sogno di Amilcare e la storia di una delle più grandi e importanti battaglie del secolo XIX.

Il brano si dipana nel lontano 1815, all’indomani della storica battaglia che avrebbe segnato la definitiva disfatta di Napoleone, raccontando lo sguardo affranto di un soldato che in qualche modo è sopravvissuto alla battaglia ed ha assistito alla fine di un sogno, perché in fondo Waterloo non è altro che questo, l’ultimo grido di un piccolo gigante che inseguiva il proprio sogno.

La battaglia di Waterloo in un certo senso rappresenta l’atto conclusivo del grande spettacolo bonapartista che nel piccolo teatro europeo aveva chiamato in scena nuovi attori e aveva messo all’angolo i vecchi burattini e burattinai. Waterloo rappresenta il punto di contatto con la realtà di migliaia per4 sognatori che, come quelli venuti prima di loro, avevano scelto di seguire Napoleone in un’ultima marcia, questi soldati erano stati allettati dai racconti fantastici dei veterani, erano stati tentati dalla promessa di gloria, fama e libertà, marciavano al seguito di napoleone in nome di un ideale di libertà e uguaglianza e assetati di avventure straordinarie, sognavano di diventare eroi e di camminare un giorno, con indosso l’uniforme imperiale, fieri tra le strade di una Parigi in festa che celebrava il loro trionfo.

Napoleone non era solo un uomo, Napoleone era un sogno, l’incarnazione stessa del sogno rivoluzionario, Napoleone era una promessa, una visione, ma nei lunghi anni del suo impero, in suo nome era stato versato tanto sangue, forse troppo sangue e quel sogno che un tempo aveva rinvigorito le cariche della cavalleria napoleonica, permettendogli di scagliarsi impavida contro i colpi di cannone, di mortaio e di moschetto del nemico, quella furia cieca che era stata alimentata dal senso rivalsa nei confronti dell’aristocrazia europea, col tempo si era affievolita perché il nemico era mutato e con esso anche le masse popolari che un tempo rinfoltivano le fila dell’esercito napoleonico. La coalizione antifrancese o forse è meglio dire anti-napoleonica aveva imparato dalle proprie sconfitte, dai propri insuccessi e dai propri errori e ne aveva fatto tesoro, Inglesi, Prussiani e Tedeschi avevano capito che il solo, vero punto di forza di Napoleone e delle sue armate affondava le proprie radici negli ideali rivoluzionari, era la forza delle masse popolari che combattevano e morivano per la propria rivalsa e che vivendo in nome di un sogno di pace e libertà universale. E pure, quel sogno che un tempo riempiva i cuori dell’intera popolazione europea, all’alba della caduta di Napoleone appariva nitido soltanto a tratti, soltanto nel fuoco dei falò che si accendevano dopo le battaglie, quando il vino scorreva a fiumi, quando il battere incessante di tamburi e tamburelli sostituivano le raffiche di artiglieria e la musica a festa quasi copriva il ricordo dei caduti, quando l’aria già pesante per i respiri affannosi dei soldati e satura dell’aspro aroma odore della cordite, si diradava, quando all’alba i i raggi primi raggi di sole illuminavano i corpi gelidi dei caduti ed i soldati riuscivano per un istante a rivedere la miseria della vita quotidiana del mondo contadino, un mondo dal quale proveniva la maggior parte dei soldati che combattevano tra le fila di napoleone, quando la festa era ormai lontana, ciò che restava della era soltanto un forte mal di testa, puzza di piscio e l’amaro in bocca per la perdita di cari amici, fratelli e commilitoni.

C’era stato un tempo in cui l’arrivo dei bonapartisti era percepito dalle popolazioni europee come un momento di festa, un momento di gioia, c’era stato un tempo in cui il loro arrivo era percepito come il preludio all’inizio della rivoluzione che avrebbe ribaltato gli equilibri europei, il preludio alla fine dell’oppressione delle masse popolari da parte dell’aristocrazia e le uniformi imperiali erano più che delle semplici uniformi, erano un simbolo di libertà, di grandezza, di opportunità, i bonapartisti erano delle vere e proprie rockstar, vivevano una vita da sogno, densa di avventure vissute in giro per il mondo, in giro per l’europa e quelle uniformi, le loro uniformi profumavano di libertà, di sogni, ambizioni e speranza, ma quei tempi erano ormai lontani e in alcune realtà erano stati persino già dimenticati.
Già prima della battaglia di Lipsia del 1813 l’arrivo dei bonapartisti aveva smesso di essere percepito con gioia, orgoglio e speranza ed era diventato sinonimo di guai, la presenza nei villaggi e nelle città di soldati bonapartisti significava soldati da sfamare, dissetare e soddisfare, significava nascondere i maiali e le riserve di grano, di alcolici e le donne, soprattutto quelle più giovani e carine, significava tenere lontano dagli occhi dell’esercito il proprio futuro perché di quei maiali, di quel grano e di quel vino le forze imperiali aveva bisogno, ne avevano bisogno per il proprio sostentamento, per difendere la libertà di tutti, o almeno così dicevano, ne avevano bisogno per difendere i privilegi che la borghesia europea era riuscita a conquistare, riempendo il vuoto di potere lasciato dalla caduta delle vecchie teste coronate, ed era una libertà il cui prezzo era pagato non da quella stessa borghesia che dalle campagne napoleoniche aveva tutto da guadagnare e da perdere, ma dai piccoli contadini, mercanti ed allevatori, che non possedevano ricchezze ed i cui figli si erano arruolati per seguire quel sogno di libertà ed avventura, i cui raccolti erano stati requisiti per sfamare le forze imperiali e le cui figlie avevano giaciuto con quei soldati, figli di chissà chi, venuti da chissà dove, per difendere un ideale a cui non le masse popolari, già da tempo, non sentiva più di appartenere.

A Waterloo le uniformi dei soldati non profumavano più di libertà e di avventura, non erano la rappresentazione di sogni, ambizioni e speranze, quei temi erano già lontani, a Waterloo quelle uniformi puzzavano di sudore, piscio e sterco di cavallo.

Waterloo ci racconta tutto questo in poche strofe e lo fa attraverso gli occhi di un soldato sopravvissuto alla battaglia finale del grande imperatore, una battaglia alla quale il soldato era sopravvissuto perché fuggito, ed era fuggito non per codardia, per vigliaccheria o paura della morte, perché la morte l’aveva vista da vicino in mille occasioni e lì a Waterloo la morte l’aveva guardata negli occhi, l’aveva già vista cavalcare sull’Europa e falciare soldati così come suo padre falciava l’erba vecchia prima di una nuova miserevole semina di cui forse non avrebbe visto il raccolto.

Di fronte a quell’immagine proveniente dal mondo contadino, il soldato, figlio probabilmente di allevatori o contadini, si era interrogato sul senso di quel massacro, sul senso di quella guerra, di quelle innumerevoli battaglie e si era interrogato sul perché lui stesse lì a combattere e morire, si era chiesto se quelle idee in cui credeva fossero realmente le sue o se le aveva accettate, ascoltate da chissà chi, chissà quando e dove e mentre tutte queste domande attraversavano la sua mente sotto una pioggia di frecce e palle di cannone si era reso conto che quella rivoluzione che tanto aspettava e in cui credeva di credere, non era realmente la sua, che gli ideali per cui si batteva con tanto ardore non erano i suoi, che quella guerra non era la sua guerra e con la lungimiranza di chi conosce già il susseguirsi degli eventi futuri, si era reso conto che lui era un contadino e indipendentemente dall’esito della battaglia, per lui non sarebbe cambiato nulla, non sarebbe diventato un generale, non avrebbe marciato per le strade di Parigi come un eroe, o forse si, magari sarebbe stato celebrato come un eroe, uno dei tanti che aveva combattuto con onore per il grande imperatore ma poi, a guerra finita, sarebbe dovuto tornare ad una terra che forse non possedeva, per completare una semina che qualcuno forse aveva incominciato e allora il soldato, stringendo la propria vita forte al petto, decidere di combattere per se, decide di combattere la propria battaglia e non quella di qualcun’altro.
Il soldato scappa, comincia a correre il più forte possibile, il più lontano possibile e continua a correre finché ha fiato in gola e forza nelle gambe, corre come nemmeno Forrest Gump ha mai corso in vita sua, corre per l’unica cosa che gli appartiene veramente, corre per se, per la propria vita e per il proprio futuro, e nel correre ci mostra forse un anticipazione del fallimento dei moti rivoluzionari del 20/21, quei moti troppo borghesi per coinvolgere realmente le masse popolari, troppo elitari per i contadini che da quella rivoluzione non avrebbero ottenuto nulla se non, come a Waterloo, un vano sacrificio ed una morte onorevole. E allora il soldato preferisce vivere piuttosto che morire per niente tra i fiori di Waterloo.

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