Bob Dylan ha vinto il premio Nobel per la letteratura, ecco perché lo meritava

Quest’anno il Premio Nobel per la letteratura è stato assegnato da un autore, e per la prima volta da un musicista che apprezzo tantissimo, e fin dal primo momento in cui ho sentito della sua candidatura ho sperato che fosse lui a ricevere il prestigioso riconoscimento che negli anni ha premiato innumerevoli eccellenze. Il Nobel segna di fatto l’affermazione ultima, in questo caso per un autore e di un musicista, è l’ultimo tassello di un lungo percorso, di crescita che ha scandito la maggior parte della sua vita.
Il premio Nobel per la letteratura di questo 2016 è stato assegnato a Robert Allen Zimmerman, per chi non lo sapesse, è il vero nome di Bob Dylan, un uomo che con le sue parole e la sua musica ha saputo ispirare intere generazioni.

why-bob-dylan-won39t-win-the-nobel-prize

Molti considerano Dylan il padre della musica d’autore e della canzone impegnata, in effetti è probabilmente il cantautore impegnato più celebre in assoluto, tuttavia non è stato il primo, e grazie proprio al suo contributo e alla sua influenza ncertamente non sarà l’ultimo.

La musica d’autore americana, internazionale e anche quella italiana, deve a Bob Dylan un enorme tributo. Qualche tempo fa insieme a Michele Salaris abbiamo tenuto una diretta streaming su Youtube intitolata “Dylan & Son’s” in cui abbiamo parlavato di quanto e come Dylan avesse influenzato alcuni dei più autorevoli cantautori (italiani e non) segnando di fatto una nuova rotta per la storia della musica, rendendola qualcosa di più che un semplice strumento di intrattenimento, trasformandola in ciò che probabilmente, in fondo era sempre stata, ovvero, uno strumento di comunicazione, dei più immediati ed efficaci per raccontare una storia, e Dylan con le sue storie, con le sue parole ha descritto il mondo in cui viveva, la realtà più cruda di un mondo che stava cambiando, diventando in un certo senso uno dei pilastri di quei fermenti che sul finire degli anni sessanta iniziavano a diffondersi nelle nostre piazze e università, contaggiaando milioni di giovani e studenti di tutto il mondo.

Non sono così folle da indicare Dylan comme la sola ed unica colonna portante del sessantotto, quei fermenti esistevano e sarebbero esplosi comunque, a prescindere dal cantautore, Dylan semplicemente incalanò ciò che stava accadendo attorno a lui e sfidando le regole del mercato e i gusti degli americani (e non solo) divenne uno dei primi portabandiera di quel fenomeno culturale che in quegli anni iniziava ad avanzare.

Dylan cavalcò nell’avanguardia culturale di quegli anni, ponendosi alla testa di un esercito disarmato e intenzionato a cambiare il mondo, e Dylan stesso divenne uno dei simboli di quella generazione, riuscendo a sopravvivere al suo tempo per portare i suoi interrogativi fino a noi, e per molte generazioni a venire la sua musica continuerà a risuonare finché gli uomini avranno orecchie per ascoltare, poiché la risposta a quegli interrogativi, come disse lo stesso Dylan in una delle sue più celebri canzoni “the answer my friend is blowin in the wind“.
In quegli stessi anni, in quel vento, dispiegava le sue ali alzandosi in volo un altra grande forza, “parole che dicevano, gli uominii son tutti uguali”, questa forza avrebbe alimentato quello stesso vento caldo e avrebbe continuato a soffiare fino a quando gli uomini non avessero imparato ad ascoltare quelle parole, e, solo in quel momento quel vento avrebbe potuto finalmente posarsi, ma purtroppo, ancora oggi, quelle parole sono ignorate, costringendo quel vento a soffiare ancora.

Molti hanno criticato l’assegnazione del Nobel per la letteratura ad un “cantante”, reputando altri autori, soprattutto poeti e scrittori, decisamente più adatti a quel riconoscimento altissimo.
Io credo invece che non vi sia uomo più adatto di Robert allen Zimmerman, per ricevere il premio nobel per la letteratura nel 2016.

Credo che non vi sia uomo più adatto perchè le sue canzoni e le sue parole sono oggi più attuali che mai, poichè la miseria e la devastazione dell guerra, già cantate da Dylan nei primi anni sessanta, continuano ad affliggere ed insanguinare il nostro mondo, costringendo milioni di persone a fuggire e lasciare la propria terra, la propria casa, che ormai non è più una casa, ma un cumulo di macerie, e con essa tutti i propri averi, in cerca di un posto migliore in cui sopravvivere.

Quegli stessi uomini, donne e bambini in fuga dagli orrori della guerra,  nel lungo pellegrinaggio perdono ogni cosa, compreso il proprio nome, e la propria storia… questi uomini senza volto diventando semplicemente dei numeri, numeri enormi che indicano masse in movimento, private della propria umanità, che di tanto in tanto, assumono il volto di qualche bambino mai nato o annegato, mentre i poveri sopravvissuti vengono chiamati “invasori” e a causa del proprio “egoistico desiderio di sopravivenza” sono messi al bando da uomini “che difendono la propria terra“.

Nel 1962 Dylan scriveva Blowin in the Wind, la cui prima strofa in italiano farebbe più o meno così “quante le strade che un uomo farà, prima di poteressere chiamato uomo ?“…

Non credo ci sia molto da aggiungere in merito, non credo ci sia molto da spiegare, il suo significato è fin troppo chiaro, e come dicevo, fin troppo attuale, basti guardare a ciò che ogni giorno accade lungo le coste del mediterraneo e lungo le frontiere europee (e non solo), basti guardare come vengono etichettati quegli uomini, donne, vecchi e bambini che, semplicemente, hanno avuto la sfortuna di nascere “dalla parte sbagliata di un muro” un muro che cresce giorno dopo giorno, mattone dopo mattone, diventando sempre più alto.

Le muraglie costruite per mantenere fuori gli altri,”barbari invasori e raziatori“, non sono certo un’invenzione del nostro tempo, basti qui citare il celebre Vallo di Adriano, costruitoo dai Roma per tenere lontane le popolazioni celtiche a cui aveva strappato la propria terra, portando civiltà, modernità e progresso, che nessuno aveva chiesto, o ancora, la grande muraglia cinese, innalzata nel IV secolo avanti cristo per la medesima ragione, e ancora prima, le mura di cinta che proteggevano le antiche città.

Insomma, la nostra storia è piena di muri costruiti per migliaia di anni, al fine di dividere e separare gli uomini, creando la finta illusione di proteggere quallcuno dal nemico all’esterno, mentre il vero pericolo si nasconde da sempre dentro le mura.

La presenza di muri rende difficile percpire l’umanità di chi si trova dall’altra parte, ma basta un semplice sguardo dall’alto per capire che, sia dentro che fuori, vi sono uomini, donne, vecchi e bambini, e questi possono vivere insieme, basta semplicemente abbattere quei muri, ed è proprio questo che fanno da oltre sessant’anni le canzoni di Dylan, ci ricordano che ogni muro può essere abbattuto.

 

La fine dell’impero Romano fu causata dei pochi nati e troppi stranieri ?

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere un articolo di Rino Camilleri, pubblicato su Il Giornale intitolato “L’Impero romano ? cadde per le poche nascite e i troppi stranieri” l’articolo si basa sul libro “Gli ultimi giorni dell’impero romano”, un romanzo spacciato per saggio storico, scritto da Michel De Jaeghere, un giornalista francese, che sta facendo discutere la Francia per il presunto legame con l’attualità.
Non ho avuto modo di leggere il libro e se le premesse sono quelle esposte nell’articolo di Camilleri non sono molto interessato a leggerlo.
In questa sede mi limiterò a dare una risposta critica all’articolo e indirettamente al libro.

Per chi conosca un minimo la storia romana, saprà che la scala sociale sia in età imperiale che repubblicana, e addirittura in età monarchica, era molto dinamica, diciamo pure che il famoso “sogno americano” dove il figlio di un contadino può ambire a diventare presidente degli stati uniti d’america, all’epoca era il sogno romano, poiché anche l’ultimo degli schiavi, poteva ambire a migliorare la sua condizione e ascendere alle più alte cariche dello stato, non dimentichiamo che sotto Tiberio, i suoi liberti (ex schiavi dell’imperatore liberati) controllavano la burocrazia imperiale.

Certo, non era “facile” ma neanche impossibile.

Allo stesso modo gli stranieri, saranno un elemento fondamentale per l’ascesa e la crescita di Roma che già in età monarchica, vedrà tra i suoi re, un certo Tarquinio Prisco, e se detto così può non avere nulla di strano, le sue origini danno molto a cui pensare. Tarquinio Prisco, a differenza dei suoi predecessori non aveva origini Sabine ma Etrusche, di fatto era un forestiero che giunto a Roma si era arricchito fino a diventare talmente influente da ascendere alla monarchia.

Aggiungo un ultimo esempio, questa volta non politico, ma semplicemente economico, e che tocca da vicino il mondo religioso e il personaggio biblico di San Paolo, nato Saulo di Tarso. Stando al racconto Biblico, San Paolo una volta arrestato fu condotto a Roma per essere giustiziato, e fu giustiziato a roma perché cittadino romano. Paolo/Saulo non era nato a Roma, e come lui nessuno della sua famiglia probabilmente neanche erano mai stati nella capitale imperiale, e pure la sua famiglia era una famiglia romana.

L’esempio di Paolo è importante per ricordare che anche un forestiero poteva ottenere, conquistare o comprare la cittadinanza romana, e non solo negli ultimi anni dell’impero, ma già nella prima età imperiale e anche in età repubblicana.
L’immigrazione e la grande mobilità della società romana non sono la causa della sua fine, ma bensì la causa della sua ascesa. E trovo inammissibile che in un articolo (e spero nel libro non sia così, ma purtroppo non avrò mai modo di scoprirlo) di questo tipo, non si faccia alcun riferimento alla più grande e insostenibile delle spese che l’impero era chiamato a sostenere, ovvero il mantenimento dell’esercito permanente, una risorsa che per lungo tempo si era auto alimentata durante l’età delle espansioni, ma che da un certo momento in poi, divenne troppo costosa, rendendo necessarie diverse manovre di svalutazione della moneta, aumento della tassazione, e svendita della cittadinanza romana.

roma-impero

La causa del crollo di Roma, secondo questo articolo/libro, ha a sua volta una causa scatenante, ben precisa, e nota da tempo, che tuttavia non viene citata nell’articolo, creando confusione e caos.

Continuando a ragionare su questa linea, se davvero fosse vera l’ipotesi della fine dell’impero a causa della forte immigrazione, causata dai costi eccessivi dello stato romano, e soprattutto dell’esercito, allora, la riforma dell’ordinamento militare, realizzata da Gaio Mario tra il secondo ed il primo secolo avanti cristo, rappresenterebbe l’inizio della fine dell’impero romano, una fine iniziata prima ancora che Roma potesse raggiungere la sua massima espansione territoriale.

Questa situazione alquanto paradossale, solleva inevitabilmente molti dubbi sulla tesi di Michel De Jaeghere e del suo collega italiano Rino Camilleri, che probabilmente colpiti dall’enfasi del momento, hanno dato una lettura frettolosa e anti storica dei fatti.

Personalmente reputo la tesi poco mal concepita e soprattutto mal esposta, epurata di numerosi elementi fondamentali per la comprensione di una problematica estremamente ampia, e infinitamente più complessa di come viene proposta (nell’articolo) quale la fine dell’impero romano, una problematica talmente ampia che è impossibile ridurla ad uno ed un solo ed unico elemento.
Temo che, nella frettolosa euforia del momento, dettata dalla possibilità di dare una “motivazione storica” all’intolleranza e alle attuali crisi umanitarie, sempre più diffuse ai confini dell’europa, unita al desiderio di proporre un articolo provocante e soprattutto acchiappa click, il giornalisti non abbia effettivamente letto le oltre seicento pagine del testo di De Jaeghere, ne sfogliato un qualsiasi altro libro sulla storia di Roma, arrivando a proporre un articolo fuorviate, basato su un libro, temo dettato dalle medesime motivazioni.

Come dicevo, non ho avuto modo di leggere “Gli ultimi giorni dell’impero romano” e non credo di voler spendere più di 35 euro per acquistare un saggio storico, che propone una tesi anti storica.

L’Ombelico del mondo

Se non siete membri della Flat Earth Society dovreste sapere che la forma della Terra è, approssimativamente, sferica.  L’ipotesi della Terra sferica fu proposta dai filosofi greci verso il VI secolo a.C. e già nel III a.C. secolo Eratostene riuscì a calcolare la circonferenza terrestre con incredibile precisione.

Da allora l’idea del globo non è stata più messa seriamente in discussione, nemmeno nel Medioevo, contrariamente a un noto pregiudizio diffuso nell’Ottocento. Rimase qualche dubbio solo sulla misura della circonferenza (clamoroso fu il fortunato errore di Colombo che la sottostimò fortemente), fino a quando la spedizione guidata da Magellano tra il 1519 e il 1522 (ma Magellano morirà l’anno prima) riuscì nell’impresa di circumnavigare il pianeta.

Ben prima di individuare la forma sferica, gli uomini si preoccuparono di fissare un centro ideale del pianeta, l’Ombelico del mondo. Questa idea, presente sin dagli albori dalla civiltà, perdurerà ben oltre la scoperta della forma sferica. La necessità di fissare un punto di origine è, infatti, ben più forte della banale constatazione geometrica che la superficie della sfera non ha un centro. Ancora oggi basti guardare un planisfero per costatare come siamo ancora legati all’idea eurocentrica, ma anche cinesi e americani si mettono al centro delle loro mappe.

Avete mai immaginato che il mondo si possa rappresentare anche così?

projection-hobo-dyer

Tuttavia l’idea di Ombelico del mondo è molto più forte che semplici considerazioni geografiche, perché è quasi sempre intrinsecamente legata a convinzioni religiose.

Per i greci fu Zeus a trovare l’esatto centro del mondo. Il re degli Dei liberò due aquile agli antipodi, per scoprire dove si sarebbero incontrate. Questo luogo era Delfi e qui sarebbe sorto il più importante santuario dell’antichità, dedicato al dio Apollo. Il luogo dell’incontro è rappresentato da una pietra a forma di cupola che rappresenta l’Omphalos (l’ombelico), cioè l’esatto centro del mondo.

omphalos-di-delfi
Omphalos di Delfi

Il santuario di Delfi era legato anche ai celebri responsi dati dal Dio tramite la sua sacerdotessa, la Pizia. La Pizia era scelta tra le vergini del luogo, dopo essersi purificata nella fonte Castalìa e aver bruciato nel tempio foglie di lauro (pianta sacra ad Apollo) e farina d’orzo. La sacerdotessa scendeva nella cella sotterranea (àdyton) e cadeva in una sorta di trance (forse indotta da fumi o sostanze naturali) nel corso della quale la divinità la ispirava. Per accedere alla profezia, i fedeli sacrificavano generalmente un animale e portavano doni in denaro.

Alla Pizia, però, non si poteva chiedere il futuro, ma solo se fosse opportuno intraprendere qualche cosa. I responsi erano spesso molto ambigui e di non facile interpretazione. Celebre è l’episodio di Creso, il re di Lidia, che chiese se fosse opportuno intraprendere una guerra contro i persiani. L’oracolo gli rispose che un grande impero sarebbe crollato e Creso, fiducioso, mosse guerra senza sapere che l’impero destinato a cadere sarebbe stato il suo.

tempio-di-delfi
Tempio di Apollo a Delfi

Dopo le guerre persiane, durante le quali il tempio tenne un atteggiamento ambiguo, il centro di Delfi perse progressivamente d’importanza. Il santuario rimarrà, comunque, attivo fino al 381 d.C., quando Teodosio I ne sancì la chiusura.

Una nuova religione aveva, infatti, preso il posto degli antichi culti: il mondo aveva bisogno di un nuovo centro.

Per gli ebrei il centro del mondo era situato nel tempio di Gerusalemme, dove era custodita l’Arca dell’Alleanza. Con l’avvento della religione cristiana e il declino del paganesimo, l’Omphalos da Delfi troverà una nuova collocazione all’interno della chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme.  In questa città, Santa per le tre grandi religioni monoteiste, gli uomini fisseranno il nuovo centro del mondo. Come Delfi, l’Omphalos di Gerusalemme è un luogo di contatto tra la terra, la divinità e il mondo ctonio (sotterraneo, gli inferi).

gerusalemme
Mappamondo a T

Nel corso del medioevo saranno prodotti diversi splenditi mappamondi tutti con al centro Gerusalemme. I mappae mundi medievali erano molto diversi dalle moderne mappe geografiche, perché avevano uno scopo differente. Non erano un semplice strumento geografico, ma rappresentavano un mondo ideale costruito intorno alle Bibbia e a Cristo. Più che di rappresentazioni del territorio, si tratta di apparati simbolici atti a fornire la chiave cosmologica dell’universo cristianamente inteso. Ne consegue che i luoghi reali si mischiano con luoghi biblici come l’Eden o il monte del Purgatorio. I mappae mundi più grandi, come quello di Ebstorf, furono delle vere e proprie enciclopedie del sapere medioevale.

ebstorf-mappae-mundi
Mappamondo di Ebstorf

La tradizione dell’ombelico del mondo non è solo una pratica occidentale. Quasi tutti i popoli cercarono di stabilire il proprio centro ideale. Nel caso di Cusco, l’ombelico corrispondeva addirittura al centro dell’universo oltre che, similmente a Delfi e Gerusalemme, essere il luogo d’incontro tra inferno, paradiso e terra.

cuzco
Cusco

 

Cusco (o Cuzco) fu la capitale dell’impero Inca. Il suo nome in lingua quechua è Qusqu che significa ombelico del mondo. Era il punto d’incontro delle quattro grandi regioni in cui era diffuso l’impero. La leggenda ne attribuisce la fondazione a un re leggendario, Manco Capat. Il punto esatto per fondare la città gli era stato fornito dal Dio del sole Inti.

Dopo la conquista da parte di Francisco Pizarro nel 1534, la città rimase un centro cardine per la nuova amministrazione coloniale e fu arricchita da eleganti edifici barocchi. Ma aveva ormai perso il ruolo di centro del mondo.

Spostandosi all’estremo oriente, il monte Kailash è un luogo sacro per almeno quattro religioni. I buddisti la considerano il centro dell’universo, per gli Induisti è la residenza di Shiva e anche i Giainisti e i Bön lo considerano un luogo sacro.

La montagna si trova in Tibet e fa parte della catena dell’Himalaya. Nonostante sia meno alta (6638 metri) e difficile di altre cime tibetane, il Kailash non è mai stato scalato proprio per il suo altissimo valore religioso.  Ogni anno, però, la montagna è meta di pellegrinaggio per migliaia di persone. Percorrere i 52 Km alla base del Kailash è, infatti, considerato di buon auspicio ed è una tradizione vecchia di migliaia di anni.

Monte Kailash

Il centro del mondo può essere posto in cima a un monte altissimo, oppure in un’isola sperduta in mezzo al mare. Se sei un abitante dell’isola di Pasqua la tua isola è l’unica terra emersa che conosci. Non c’è quindi da stupirsi che gli indigeni di Rapa Nui chiamassero la loro isola “Te Pito The Henua” che significa nuovamente ombelico del mondo.

Luoghi lontanissimi e pure così simili perché frutto del pensiero della medesima umanità.  Stesso tentativo di mettere ordine e trovare un centro ideale cui guardare. Il maestro Zen Harada-Roshi diceva “Dovete arrivare a comprende e rendere reale che il centro dell’universo è il vostro Ombelico!”.

In fondo per la fisica non è nemmeno del tutto falso, perché l’universo è in continua espansione e ogni punto potrebbe essere considerato il centro.

Certo, ora sappiamo che siamo un minuscolo pianeta sparso nel cosmo, come ci hanno mostrato le fotografie dallo spazio.

Un piccolo puntino in cui vive una specie che ha coscienza di sé in continua ricerca “di un Centro di Gravità permanente” per dirla alla Battiato.

Chiudiamo in chiave pop. Negli anni 90 l’Ombelico del mondo è legato a una celebre canzone di Jovanotti (a molti sarà la prima cosa venuta in mente leggendo il titolo dell’articolo).  Nel motivetto, semplice ma efficace, c’era lo spirito degli anni 90, quando i muri cadevano e l’ecumenismo e l’europeismo erano obiettivi condivisi. Le paure dell’11 settembre 2011 erano di là da venire e la speranza, ingenua ma genuina pervadeva il vecchio continente.

pal-blue-dot
Pal Blue Dot

Molte cose sono accadute da allora. Ma guardando la terra da oltre l’orbita di Nettuno, da sei miliardi di Km, come la celebre fotografia Pale Blue Dot fatta da Voyager I, dovremmo riuscire a capire siamo tutti figli dello stesso pianeta. Abbiamo le stesse paure e aspirazioni. La Terra è un enorme ombelico che ci nutre ogni giorno e che viaggia nel cosmo cinto da miliardi di miliardi di stelle. Una piccola sfera da salvare dalle nostre follie.

 

Olimpiadi, il vero volto deli giochi tra sport e politica estera

In questi giorni si sta svolgendo la trentunesima edizione delle Olimpiadi, o per meglio dire, dei giochi olimpici estivi. Nell’immagine qui di seguito possiamo vedere i marchi/loghi di tutte le edizioni olimpiche svolte dal 1896, anno della prima edizione del nuovo corso olimpico, fino ad oggi.

olimpiadi-marchi-01 (1)

Guardando attentamente le immagini si noterà che le olimpiadi del 1916, 1940 e 1944 non figurano nell’elenco, questo perché in quegli anni i giochi olimpici non si svolsero, tuttavia, quelle edizioni furono ugualmente conteggiate e di conseguenza si passò dalla V edizione,  svoltasi a Stoccolma nel 1912, alla VII edizione, svoltasi ad Anversa) o ancora, si passò dalla XI edizione, svoltasi a Berlino nel 1936, alla XIV edizione (svoltasi a Londra nel 1948).

In questo modo il conteggio delle edizioni sarebbe continuato, incrementandosi di uno ogni quattro anni, indipendentemente dallo svolgimento o meno dei giochi, dando così un senso visivo di continuità che superava i limiti dell’uomo.

I giochi olimpici assumono in questo senso una veste molto più alta di quella di semplice torneo sportivo, sono un evento internazionale a tutti gli effetti, luogo di scontro e rivalità tra le nazioni in cui sfidarsi direttamente sul campo da gioco, mettendo in tavola le eccellenze atletiche di ogni paese. Eccellenze che hanno, da un lato, il compito di mantenere alto il nome della propria nazione nel mondo, e dall’altro di assicurare la presenza della propria nazione nel mondo.

Come scriveva il New York Time dopo l’edizione di Berlino del 1936

with these Olympics Germany has got its place among the nations.

con queste olimpiadi, la germania ha riottenuto il proprio posto tra le nazioni

Le olimpiadi dunque servono ad unire i popoli nella competizione e proiettare la civiltà umana oltre i confini della propria nazione, in una dimensione collettiva globale, riuscendo la dove, probabilmente anche le Nazioni Unite hanno fallito.

Probabilmente è per questo che oggi, i giochi olimpici sono riconosciuti, tutelati e patrocinati dalle nazioni unite. E in questo senso gli esempi di efficacia diplomatica dei giochi olimpici ed i giochi politici nei confronti delle olimpiadi, sono più che numerosi.

1470438232-olimpiadi-cerimonia-di-apertura-rio-2016-586219492-722x491

Dalla scelta di Berlino nel 1931, come città ospite dell’undicesima edizione dei giochi, al fine di riportare la Germania nella comunità internazionale dopo le vicende della prima guerra mondiale, e soprattutto dopo le decisioni prese nel corso dei trattati di Versailles. Oppure la scelta di Londra per le olimpiadi del 1948, la prima edizione dopo la fine della seconda guerra mondiale. O ancora, la scelta di Mosca, capitale e città simbolo dell’unione sovietica, per l’edizione del 1980.

Possiamo considerare questi episodi come esempi “positivi”, diversamente il tentato boicottaggio delle olimpiadi del 1936 o il boicottaggio effettivo delle olimpiadi di Mosca del 1980 da parte degli Stati Uniti d’America, totalmente inserito nelle dinamiche della guerra fredda, ci mostrano l’altra faccia della medaglia, ovvero l’utilizzo delle Olimpiadi come strumento di pressione politica, di conseguenza il loro boicottaggio diventa uno strumento diplomatico di un’efficacia straordinaria.

La natura internazionale e in un certo senso sovranazionale dei giochi olimpici spalanca le porte ad una lettura più “politica” dei giochi, una lettura politica dalla doppia faccia. Le olimpiadi hanno il compito indiretto di delineare il profilo della civiltà umana ed i rapporti tra gli stati, in maniera forse più chiara di quanto non possa fare un vertice internazionale.
Ad un vertice i capi di stato sono “obbligati” ad andare e magari, saranno presenti anche là dove non vorrebbero essere, durante i giochi olimpici invece, non vi è alcun “obbligo di presenza”, e dunque, dalla presenza o dall’assenza di uno o l’altro leader mondiale è possibile intuire i veri rapporti diplomatici ed i rapporti di forza tra gli stati.

Va detto, per completezza che le olimpiadi, in questa chiave di lettura, si caricano di propaganda, soprattutto da parte del paese ospite, il quale, forse più di chiunque altro, può utilizzare la competizione come strumento di propaganda, sia interno che esterno, dando così al mondo un immagine di se, un immagine volta a rafforzare la propria posizione internazionale, anche se, non sempre questa immagine è totalmente in linea con la realtà.

Le olimpiadi dei Nazisti

Nell’agosto del 1936 per circa due settimane, dal primo al sedici del mese, la città di Berlino avrebbe ospitato, per quell’anno, i giochi olimpici.

Come da tradizione, i giochi olimpici estivi si svolgono ogni quattro anni, e saranno ospitati da una città designata già prima dell’inizio dell’edizione precedente, e il 1936 non venne meno a questa tradizione. La scelta della capitale tedesca di fatto risaliva al 1931, si tratto di una scelta di natura politica, un segno di riavvicinamento alla Germania che nel primo periodo dopo la fine della grande guerra era stata messa al bando dalla comunità internazionale.

21774

La scelta tuttavia avvenne ben prima dell’avvento al potere di Adolf Hitler e del partito Nazionalsocialista, e quando il cancelliere tedesco iniziò ad accentrare nelle proprie mani numerosi poteri, in diversi paesi europei ed extraeuropei sorsero numerosi movimenti di protesta che avrebbero portato alla decisione di un boicottaggio dei giochi olimpici berlinesi.

Oly 3

Il boicottaggio tuttavia fallì quando nel 1935 l’Associazione degli atleti dilettanti degli stati uniti d’America, votò a favore della partecipazione, il suo voto fu immediatamente seguito da quello di altre associazioni e organizzazioni negli USA e in Europa.

L’organizzazione e la promozione dei giochi olimpici nazisti fu molto meticolosa e curata nei minimi dettagli, Hitler e la Germania approfittarono di questa opportunità per mostrarsi al mondo con un abito nuovo, nascondendo alle apparenze l’ideologia razzista ed antisemita. Per questi motivi, vista la grande presenza a Berlino di turisti e giornalisti provenienti da tutto il mondo, in previsione delle olimpiadi la città si ripulì di ogni simbolo e riferimento razzista, portando avanti le proprie operazioni nella maniera più cauta possibile, e in questo senso riuscì a nascondere il rastrellamento di Rom avvenuto proprio a Berlino in quei giorni. E ci si assicurò che gli ospiti stranieri non sottoposti alla legge tedesca contro gli omosessuali, evitando loro le eventuali conseguenze penali.

Furono costruiti palazzetti dello sport, stadi e quant’altro, il tutto adornato in maniera fatiscente con stendardi, bandiere e svastiche.

81610

Per quanto riguarda la promozione e la propaganda, il Reich non mancò di fare largo uso dei mezzi a propria disposizione. Fu creato un legame mitico tra la Germania e l’Antica Grecia, la quale rappresentava visivamente il mito nazista della superiorità della civiltà tedesca come “l’erede di diritto dell’antica cultura classica Ariana”.

Quella visione dell’antichità classica enfatizzava i caratteri somatici “Ariani”

Portamento eroico, occhi azzurri, capelli biondi e lineamenti finemente cesellati.”

Lo sforzo propagandistico continuò ben oltre la conclusione dei giochi e raggiunse il suo culmine nel 1938, con la proiezione del film “Olympia” diretto da Leni Riefenstahl, un film commissionato dal regime prima dell’inizio dei giochi e che aveva il compito di documentare lo svolgimento delle olimpiadi.

L’XI edizione dei giochi olimpici estivi fu inaugurata ufficialmente, da Hitler in persona, il 1 agosto 1936 quando un atleta giunse nello stadio con in mano una fiaccola che con un sistema di staffe era arrivato da Olimpia in Grecia.

Presero parte a quella edizione 49 squadre e un totale di circa 15.000 atleti, la squadra più numerosa fu schierata dalla Germania nazista con un totale di 348 atleti, seguita a ruota dagli Stati Uniti d’America con i suoi 312 atleti di cui 18 afro-americani.

Le olimpiadi si conclusero con un trionfo tedesco in quasi tutti i giochi, e non solo, l’ospitalità tedesca fu particolarmente apprezzata dai visitatori giunti in città ed i giornali di tutto il mondo si espressero in favore del finalmente avvenuto rientro della Germania nella comunità internazionale.

Il New York Times scrisse che, grazie ai giochi, la Germania aveva riavuto “il suo posto tra le nazioni” e “un volto nuovamente umano”.

Purtroppo però, si trattò solo di una bella facciata, e gli scheletri nazisti furono tirati fuori dagli armadi già all’indomani della conclusione dei giochi.

 

Non appena gli articoli post-olimpici furono archiviati Hitler e la leadership nazista accelerarono l’attuazione dei propri progetti espansionistici e ricominciarono epurazioni, rastrellamenti e persecuzioni. Il 18 agosto 1936 appena due giorni dalla fine delle XI Olimpiadi, il capitano Wolfgang Fuerstner, responsabile del villaggio olimpico, fu espulso dall’esercito perché discendente di Ebrei, questa espulsione avrebbe portato al suo suicidio.

L’accelerazione subita dall’autoritarismo nazista si tradusse nella trasformazione in fuorilegge di rom ed ebrei, i quali furono considerati “nemici dello stato” e in quanto tali, sistematicamente perseguitati e privati dei propri averi e dei propri diritti.

Fonte
L’enciclopedia dell’Olocausto


Diario di guerra di Benito Mussolini

Tra il settembre del 1915 ed il febbraio del 1917, Benito Mussolini, classe 1883, all’epoca un “giovane” soldato al servizio del regio esercito italiano, in qualità di bersagliere, come molti suoi commilitoni e in generale come la maggior parte dei soldati, un diario in cui annotare versi, parole, pensieri e riflessioni.

download

Il suo diario sarebbe stato pubblicato, a puntate sul quotidiano da lui fondato nel 1914 allo scopo di dar voce all’area interventista del partito socialista  chiamato “Il Popolo d’Italia”. Questo “Diario di guerra” al pari di opere analoghe, ma con la maggiore enfasi data dal particolare autore, soprattutto in virtù di ciò che avrebbe fatto negli anni e nei decenni successivi, è ancora oggi un’efficace e vivida testimonianza di ciò che rappresentò il primo conflitto mondiale per una parte dell’interventismo italiano.

diario

Quest’opera, data la sua duplice natura di fonte diretta relativa la Grande Guerra e diario personale del futuro Duce, è stato oggetto di numerose ristampe durante il Ventennio. Nel secondo dopoguerra il “Diario” fu messo al bando dai luoghi accademici e per molto tempo trascurato dagli studiosi, che lo condannarono a una sorta di “damnatio memoriae” negandogli dignità documentale. Paradossalmente uno noto e celebre avversario e rivale, sul piano ideologico, di Mussolini e del fascismo in generale, già Antonio Gramsci aveva definito “interessanti” queste pagine mussoliniane, soprattutto per il loro taglio nazional-popolare. Per Gramsci non si trattava di un semplice pamphlet, ma era, a tutti gli effetti, una testimonianza importante e tra le più intense della memorialistica di guerra italiana, sia per capacità descrittiva della vita quotidiana dei soldati sia per l’efficacia nel rendere la visione delle vicende belliche con gli occhi dell’interventismo rivoluzionario.

diari-di-mussolini

Se vi interessa il diario completo, iscrivetevi alla newsletter e alla rivista.

In allegato con il numero di Historicaleye sarà inviata l’edizione del 1923 edito dalla Libreria del Littorio

Riportiamo di seguito alcuni estratti dal diario 

Lunedì, 27 settembre 1915
Da ieri mattina non abbiamo in corpo che un sorso freddo di caffè. Piove sempre. Da due giorni, ininterrottamente. Stanotte non ho chiuso occhio. Mi trovavo sotto la tenda con un tal Jannazzone, un contadino del Beneventano, il quale, inzuppato fradicio, come me, e un po’ febbricitante, gemeva:
«Madonna mia bella l Madonna mia bella!».
«Basta, basta, Jannazzone!», gli ho detto.
«Non credete in Dio, voi?».
Non ho risposto.
Io, invece, ingannavo il tempo, le dodici ore interminabili della notte, rimemorando le poesie imparate nel bel tempo felice e lontano della mia giovinezza. Effetto delle circostanze climateriche, la poesia che mi è tornata alla memoria è La caduta del Parini. Strofa a strofa sono giunto sino ai versi:
Ed il cappello e il vano / Baston dispersi nella via, raccoglie.
Poi non mi sono ricordato più.
Cambiamo posizione. Andiamo in fondo valle alle sorgenti dello Slatenik, un torrente che sbocca nell’Isonzo, nella conca di Plezzo. Nei ripari che gli austriaci hanno abbandonato, troviamo un po’ più di comfort. In questa zona sono ancora visibili i segni della travolgente avanzata degli italiani.
Sul terreno tormentato e sconvolto sono disseminati, in disordine, bossoli di proiettili d’ogni calibro, giberne, scarpe, zaini, pacchi di cartucce, fucili, cassette di legno sventrate, tronchi d’alberi abbattuti, reticolati di ferro travolti, scatolette di carne vuote con diciture tedesche e ungheresi, fazzoletti, teli da tenda. Qua e là sono degli austriaci morti e malamente sepolti. Tra gli altri un ufficiale.
La posta: pacchi e lettere, ma per me e per tutti i richiamati dell”84, niente ancora. Soffia un vento impetuoso e freddo. Distendiamo sui cespugli, al sole, le nostre mantelline e coperte, inzuppate di acqua.

Mercoledì, 29 settembre 1915
Due giorni e due notti di pioggia. Tempesta.
Veniva dal Monte Nero. Sono, siamo fradici sino alle ossa. I bersaglieri preferiscono il fuoco all’acqua. Fuoco di piombo, si capisce. Ma stamani, sole. Il Rombon ci appare bianco di neve. Il sole tepido fa dimenticare le giornate piovose. Lo Slatenik, ingrossato, urla in fondo al vallone. Si distribuisce la posta. Finalmente, dopo quindici giorni, c’è qualche cosa anche per me. Nel trincerone che occupiamo si può accendere il fuoco. Ogni tenda ha il suo. Qui, l’unico pericolo – oltre a quello delle cannonate e delle pallottole vagabonde – è dato dai macigni che rotolano dal Vrsig. Di quando in quando si sente gridare: «Sasso! Sasso!». Guai a chi non lo evita a tempo!
L’[undicesimo] bersaglieri è stato rudemente provato, ma il «morale» dei soldati è eccellente. Anche i poilus dell”84 stanno cambiando psicologia. Diventano soldati. Sembrano già lontanissimi i primi giorni, quando bastava il rombo del cannone, il fischio di una pallottola o la vista di qualche cadavere per emozionarli. Distribuzione di alcuni indumenti invernali. Sono ottimi.

Giovedì, 30 settembre 1915
Ho portato, poiché li desiderava, alcuni numeri arretrati del Popolo al mio capitano [Mozzoni]. Niente in lui del militare di professione. Era aiutante in prima; ha preferito riassumere il comando della compagnia. Uomo che conosce gli uomini, soldato che conosce i soldati. I bersaglieri gli vogliono molto bene. Non ha bisogno di ricorrere a misure disciplinari per ottenere che ognuno adempia il proprio dovere. Mi offre biscotti e tre pacchetti di sigarette. È con lui il tenente Morrigoni, romano, simpaticissimo e fortunato. È giunto, dal dodicesimo, un cadetto destinato al comando del primo plotone della nostra compagnia: Fanelli, di Bari. Giornata tranquilla.

Venerdì, 1° ottobre 1915
Piove. Il mio capitano, in un rapporto indirizzato al colonnello, fa vivi elogi del mio spirito militare e della mia resistenza alle prime e più gravi fatiche della guerra.
Verso sera, intenso fuoco di fucileria e di mitragliatrici alle falde dello Jaworcek. Che gli altri battaglioni abbiano impegnato un combattimento?

Sabato, 2 ottobre 1915
Sono giunti altri ufficiali. I cadetti Barbieri e Raggi. Ora i quadri della nostra compagnia sono al completo.
Gli austriaci bombardano con granate incendiarie il villaggio di Cezzoga.

Domenica, 3 ottobre 1915
Il piantone della fureria, Lamberti, mi reca un biglietto del capitano, che dice:
«Sarebbe mio desiderio che ai bersaglieri della compagnia fosse espresso nel modo più sentito alla loro anima semplice e buona, il mio vivo compiacimento per la fusione già stabilitasi fra i vecchi e i giovani bersaglieri; ciò che dimostra quale spirito di cameratismo animi il loro cuore. La serena giocondità, il sentimento di disciplina, la disinvolta resistenza ai disagi cui sono sottoposti, vengono da me così apprezzati, tanto da sentirmene fieramente orgoglioso. Tutto ciò è indice di alto sentimento del dovere e dà affidamento della più salda compagine qualora a nuovi cimenti si possa essere chiamati. Al bersagliere Mussolini affido l’incarico di scrivere un ordine del giorno di compagnia che in una sintesi concettosa e bersaglieresca esprima tali miei apprezzamenti, con l’esortazione a perseverare, e con la visione di quegli ideali fulgidissimi di Patria e di famiglia, che costituiranno a suo tempo il premio più sensibile per il sacrosanto dovere compiuto».
Io mi domando: ma non è già questo un ordine del giorno bellissimo? Che cosa posso dire, io, di meglio e di più? Tuttavia, obbedisco. Fra anziani e richiamati, si cominciano a stabilire rapporti di amicizia. Nel primo plotone, di richiamati non ci sono che io. Tutti gli altri sono anziani che si trovano al reggimento dal principio della guerra. Spesso mi raccontano episodi interessantissimi. L’avanzata su Plezzo, le azioni sul Vrsig. I caporali hanno riunito le squadre e leggono l’ordine del giorno.

Lunedì, 4 ottobre 1915
Cielo stellato sino a mezzanotte. Stamane nevica. Ci esercitiamo al lancio di bombe.

Martedì, 5 ottobre 1915
Stanotte sono stato quattro ore di vedetta. Pioveva.

Mercoledì, 6 ottobre 1915
«Zaino in spalla!».
È giunto l’ordine di raggiungere sullo Jaworcek gli altri battaglioni. Ci mettiamo in marcia. Il capitano ci precede. Porta lo zaino e la caramella. Sosta al Comando del reggimento. Discorso del colonnello, seguito dalla lettura di un lungo elenco di bersaglieri della settima proposti per una ricompensa al valor militare. «Bersaglieri della settima, al colonnello dell’[undicesimo], hurrà!».
«Hurrà!».
Pulizia al fucile. Distribuzione di scarpe. Durante queste operazioni, faccio la conoscenza di un sergente degli alpini, di Monza, ferventissimo interventista, entusiasta della nostra guerra.
Giunge l’ottava compagnia. Qualcuno mi annuncia che il caporale Buscema è rimasto ferito da una cannonata, il 26 settembre. Il colonnello ripete il discorso ai bersaglieri dell’ottava. Crepuscolo. Si parte.

Giovedì, 7 ottobre 1915
La marcia di stanotte fra tenebre fittissime, per una mulattiera scoscesa e fangosa, entro un bosco, è stata dura.
Parecchie volte i plotoni hanno perduto il collegamento. Alcuni bersaglieri sono caduti e non hanno potuto proseguire. Anch’io, come tutti, sono caduto varie volte, ma l’unico danneggiato è l’orologio che porto al polso. Non va più. Dieci ore di marcia. Siamo giunti alle due del mattino. Per fortuna c’erano, in alto, le stelle. Non pioveva. Ci siamo rintanati fra i macigni nell’attesa dell’alba.

Venerdì, 8 ottobre 1915
Sveglia alle cinque. Ci spostiamo verso l’alto di un altro centinaio di metri. Ci troviamo sotto una delle pareti ripidissime dello Jaworcek. Dalla cima le vedette austriache sparano continuamente. Mi metto a lavorare accanitamente di vanghetta e piccone, per farmi un buon riparo. Petrella mi aiuta. Ritrovo il tenente Fava, che mi presenta al capitano della sua compagnia, Jannone. Gli amici degli altri battaglioni, appena saputo del nostro arrivo, mi vengono a cercare. Rivedo il caporal maggiore Bocconi, barbuto e un po’ dimagrito, il caporal maggiore Strada, ex-vigile milanese, sempre pieno d’entusiasmo; il caporale Corradini che mi racconta la straordinaria avventura toccatagli. Doveva andare di guardia, con una squadra, al quarto boschetto. Giunto a un passaggio obbligato e scoperto, sul quale gli austriaci rotolavano continuamente sassi e macigni, il Corradini, volendo appunto evitare un macigno, mise un piede in fallo e rotolò giù, in fondo al burrone. Una notte intera rimase laggiù, nel fango, sotto la pioggia, ritenendosi ormai perduto.
«Fu il pensiero della mia piccina, che mi diede il coraggio», egli mi dice. «A giorno fatto, risalii il pendio del monte. Nella caduta avevo perduto tutto: zaino, fucile, mantellina. Giunsi a un piccolo posto di fanteria. La vedetta mi intimò l’“alt”». Quando il caporale del piccolo posto mi ebbe riconosciuto come appartenente all’esercito italiano, mi lasciò passare. Potei riguadagnare, sano e salvo, la mia compagnia».
Ecco Rampoldi, ex-cuoco del Casanova. Lo chiamavano Rampoldo, Rampoldino.
Ritrovo ancora vivi e in gamba i milanesi Spada, Frigerio, Sandri. Viene anche a trovarmi, per conoscermi, il caporale Giustino Sciarra, di Isernia. Ha una curiosa barbetta a punta, rossigna. Cordialità, simpatia, auguri. Si parla di un’avanzata imminente.

Sabato, 9 ottobre 1915
Dormito profondamente tredici ore. La stanchezza è passata. C’è un ferito dell’ottava compagnia che viene portato in barella. Una pallottola lo ha colpito mentre sì scaldava al fuoco. Canticchia e fuma. Gli scelti tiratori austriaci sparano sempre. Un forte gruppo di ferraresi viene alla mia tenda e mi prega di porgere un saluto collettivo da mandarsi a un giornale di Bologna. Fatto.
Corvée di riattamento alla mulattiera. Il caporale milanese Bascialla, ch’è stato stanotte di guardia ai posti più avanzati, mi narra un episodio singolare. Si è trovato, in un riparo, accanto a un bersagliere che pareva dormisse. Egli ha provato a chiamarlo. A richiamarlo. A scuoterlo. Non rispondeva. Non si moveva. Era morto. Il Bascialla ha passato tutta la notte accanto al cadavere.
Ore quindici. Raffica di artiglieria austriaca. Crepitio di proiettili. Schianto di rami. Turbine di schegge. Un grosso ramo, stroncato da una granata, si è abbattuto sul mio riparo. Ci sono due feriti nella mia compagnia. Passa un morto del trentanovesimo battaglione. Un altro morto degli alpini. Il bombardamento è finito. È durato un’ora. I bersaglieri escono dai ripari. Si canta. Lunga conversazione col capitano Bono della quarta compagnia. Argomento: i colpi di scena balcanici.
Il capitano Bono è un ingegno versatile e di vasta cultura.
Non dimenticherò il tremito della sua voce, quando, me presente, essendogli giunto uno di quei moduli speciali coi quali si chiedono ai reparti notizie di militari, dovette scrivere la parola morto!
Sera di calma. Qualche fucilata solitaria delle vedette fischia di quando in quando nella boscaglia.

Domenica, 10 ottobre 1915
Mattinata meravigliosa di sole. Orizzonte limpidissimo. Si ordina la statistica dei caricatori. Ogni soldato deve averne ventotto. Ore dieci. Uno shrapnel è passato fischiando sulle nostre teste. In alto. Non trascorrono cinque minuti, che un secondo shrapnel scoppia con immenso fragore a tre metri di distanza del mio «ricovero», a un metro appena dalla tenda del mio capitano. Ero in piedi. Ho sentito una ventata violenta, seguita da un grandinare di schegge. Esco. Qualcuno rantola. Si grida: «Portaferiti! Portaferiti!».
Sotto al mio ricovero ci sono due feriti che sembrano gravissimi. Un grosso macigno è letteralmente innaffiato di sangue. Gli ufficiali sono in piedi che impartiscono ordini.
«Le barelle! Le barelle!».
I feriti sono molti e bisogna chiedere le barelle alle altre compagnie del battaglione. Ci sono anche dei morti: due. Uno è Janarelli, l’attendente del tenente Morrigoni. Una palletta dì shrapnel gli è entrata dal petto e gli è uscita dalla schiena. Gliel’hanno trovata fra la pelle e il farsetto a maglia.
«Tenente, mi abbracci!», ha detto Janarelli. «Per me è finita!».
Vedo il tenente Morrigoni, cogli occhi luccicanti di lacrime. «Era tanto bravo e tanto buono!».
Lo Janarelli sembra dormire. Solo attorno alla bocca c’è una grossa tosa di sangue. L’altro è un richiamato dell’84. Una scheggia gli ha spezzato il cranio.
Una riga rossa gli divide a metà la faccia. I feriti sono nove, dei quali tre gravissimi e due disperati.
«Zappatori, in rango colle vanghette».
Gli zappatori si riuniscono coi loro strumenti. Adagiano i morti su barelle fatte con rami d’albero e sacchi e se ne vanno. Qui non si può fare un cimitero. Bisogna seppellire i caduti qua e là, nelle posizioni più riparate. L’emozione della compagnia è stata fugacissima. Ora si riprende il chiacchierio. Si fischierella. Si canta.
Quando lo spettacolo della morte diventa abitudinario, non fa più impressione. Oggi, per la prima volta, ho corso pericolo di vita. Non ci penso.
Dopo un mese mi lavo e mi pettino. Schampoing al marsala.
Passa il tenente Francisco della quindicesima compagnia, il quale mi racconta: «Ieri sera gli austriaci hanno inscenato una dimostrazione antitaliana. Hanno cantato in coro il loro inno nazionale. Poi hanno gridato: “Kicchirichi, kicchirichi!”. Hanno aggiunto: “Bersaglieri dell’undicesimo, vi aspettiamo!”. Alla fine, una voce di ufficiale ha urlato al megafono: ” Italiani farabutti, lasciateci le nostre terre!”».

Lunedì, 11 ottobre 1915
Meravigliosa mattinata di sole. Il secondo, il terzo, il quarto plotone della mia compagnia, levano le tende e si spostano per essere defilati dai tiri degli shrapnels. Noi restiamo al nostro posto. Passa un morto della tredicesima. Bombardamento di un’ora a shrapnel. Conversazione col capitano Bono.
La vita in trincea è la vita naturale, primitiva. Un po’ monotona. Ecco l’orario delle mie giornate. Alla mattina non c’è sveglia. Ognuno dorme quanto vuole. Di giorno non si fa nulla. Si può andare, con rischio e pericolo di essere colpiti dall’implacabile «Cecchino», a trovare gli amici delle altre compagnie; si gioca a sette e mezzo o, in mancanza di carte, a testa e croce; quando tuona il cannone, si contano i colpi. La distribuzione dei viveri è l’unica variazione della giornata: di liquido, ci danno una tazza di caffè, una di vino e un poco di grappa: di solido, un pezzo di formaggio che può valere venti centesimi e mezza scatoletta di carne. Pane buono e quasi a volontà. Di rancio caldo, non è questione. Gli austriaci, tempo fa, hanno bombardato coi 305 le cucine e hanno fatto saltar per aria muli, marmitte e cucinieri.
C’è un’ora, nella giornata, che i bersaglieri attendono sempre con impazienza e con ansia: l’ora della posta, che comincia a giungere regolarmente. Ci pensa Jacobone, per il reggimento. Nostro «postino» è il calabrese Suraci. Quando si grida «posta !», tutti escono dai ripari e si affollano attorno al distributore. Nessuno pensa più alle fucilate e agli shrapnels.
Ho scritto una lettera per Jannazzone e una per Marcanico. Non si negano questi favori a uomini che possono morire da un momento all’altro. La fidanzata di Marcanico si chiama Genoveffa Paris. Questo nome mi porta, chissà perché, al tempo dei «reali di Francia».

Martedì, 12 ottobre 1915
Pulizia al fucile. Sole pallido. Poi, non c’è nulla da fare. Passano i soliti feriti. C’è il bersagliere Donadonibus che si spidocchia al sole. «Cavalleria, a destra! Cavalleria, a sinistra!», grida e ride, di un riso che sembra quello di un uomo completamente felice. Pioggia e pidocchi; ecco i veri nemici del soldato italiano: il cannone vien dopo. Uno dei feriti dello shrapnel è morto prima di arrivare all’infermeria reggimentale.
Altra notizia triste: la fucilata di una vedetta ha colpito a morte tal Mambrini, mantovano, mentre stava lavorando a fortificare il suo riparo.
La guerra di posizione esige una forza e una resistenza morale e fisica grandissime: si muore senza combattere!

Mercoledì, 13 ottobre 1915
Stanotte, sulle ventitre, improvviso e intensissimo fuoco di fucileria e di mitragliatrici ai nostri avamposti. Siamo balzati dai nostri ripari. Un quarto d’ora di fuoco e poi quiete sino all’alba. Mattinata grigia. Vado di corvée colla mia squadra e mi carico di un sacco di pane. Passa un morto del trentanovesimo battaglione, colpito da fucilata e da sassata. Si diffonde, tra le squadre, la notizia che presto ci sarà l’«azione». La notizia non deprime, ma solleva gli animi. È la prolungata inazione che snerva il soldato italiano. Meglio, infi-nitamente meglio, «al» fuoco, che «sotto» al fuoco. I bersaglieri sono desiderosi di vendicare i compagni caduti a tradimento.
Vicino a me si canta. È un inno bersaglieresco:
Piume, baciatemi
Le guance ardenti
………………
Piume, riditemi
Di gioia i canti;
E ripetetemi:
Avanti! Avanti!

Fonte :

Diario di guerra di Benito Mussolini
Archivio storico del Popolo d’Italia 

Crociata e jihad a confronto

Crociata e jihād due termini spesso confusi tra loro ed usati come sinonimi. Entrambi i termini possono essere collegati sotto la categoria della “guerra santa”, ma da essa, come tra di loro, esistono delle differenze sostanziali.  Prima di mostrare le differenze che intercorrono tra la crociata e il jihād, farò una piccola digressione descrivendo brevemente la loro origine e i precetti cardine su cui si sostengono.

0729La crociata venne invocata per la prima volta dal papa Urbano II – vicario di Cristo dal 1088 al 1099 − nel suo discorso di Clermont nel 1095, che aveva come obiettivo la riconquista del luogo più sacro della cristianità: Gerusalemme. Delle guerre sante di rioccupazione dei territori cristiani perduti erano già state intraprese nel passato come sarebbero state combattute nel futuro, ma nessuna di esse raggiunge la sacralità della ripresa di Gerusalemme e del santo sepolcro di Cristo. Il papa, per tale scopo, si rivolse a tutta la cristianità scavalcando l’autorità di re e principi e pregando ogni credente di imbracciare le armi, promettendo anche ricompense ultraterrene, per recuperare l’eredità del figlio di Dio. I toni poi presero anche una piega apocalittica e profetica poiché le sacre scritture descrivevano la presa di Gerusalemme come il prologo per l’Armageddon. Tuttavia, prima di andare a Gerusalemme, l’ultimo imperatore dei tempi doveva convertire gli ebrei, per cui le successive stragi perpetrate contro il popolo ebraico sono il risultato del loro rifiuto a convertirsi al cristianesimo. Con la conquista di Gerusalemme, infine, si sarebbe aperta una nuova via sicura per la città santa. Via che secondo alcuni cronisti dell’epoca era minacciata dalla presenza degli infedeli. La crociata era la guerra santa per eccellenza, volta alla liberazione di Gerusalemme.

 

guerra-santaIl jihād ha come scopo la conquista dei territori non ancora sottomessi all’Islam. Alcuni studiosi del Corano ritengono che questa lotta sia interiore, piuttosto che fisica; una lotta spirituale tra bene e male. È indubbio che al principio il jihād venne inteso nel senso guerriero, infatti lo stesso Maometto combatté le tribù arabe e promise il paradiso per coloro che sarebbero morti in nome di Allah. Tuttavia non necessariamente predicò la conquista oltre l’Arabia, come fecero i suoi successori nei secoli successivi alla sua morte. Il Profeta prevedeva inoltre una certa tolleranza nei confronti degli ebrei e dei cristiani perché riconosceva un origine, un’illuminazione comune. Illuminazione che, per i musulmani, era completata dal Corano. Perciò gli ebrei e i cristiani che vivevano nel mondo musulmano erano ‘protetti’ – dhimmi – e relativamente poco disturbati. Si parla di differenza davanti alla giustizia e al fisco, distinzioni nell’abbigliamento e un generale disprezzo da parte dei musulmani. Gli ebrei e i cristiani erano però liberi di praticare i loro riti liberamente, pur tuttavia senza cercare e formare nuovi seguaci, nel pieno rispetto delle leggi e dell’autorità musulmana.

aa1096

 

È da questo ultimo aspetto del mondo musulmano che si nota la prima differenza con quello cristiano. Gli ebrei e i cristiani venivano ‘protetti’ dai musulmani, che riconoscevano loro un’origine comune. Così però non era, se non in parte, per i fedeli di Cristo. Infatti gli ebrei ricoprivano quella carica di ‘protetti’. Erano visti come dei fedeli incompleti e godevano, anche se in minor misura, della stessa ‘tolleranza’. I musulmani invece erano visti come un’aberrazione, un’eresia, un castigo divino. Altra differenza è la predicazione del jihād, il quale è volto a riconquistare i territori profondamente cristianizzati come il vicino Oriente, l’Africa, la Spagna e altre regioni. Questo aspetto ha conferito un’ulteriore aura di sacralità per i cristiani che avevano visti invasi, conquistati e saccheggiati i propri luoghi sacri: Roma era stata saccheggiata nell’846 d.C.; Santiago de Compostela veniva distrutta nel 997, e Gerusalemme era una meta di pellegrinaggio da tempo in mano agli infedeli. L’impegno per la riconquista dei territori perduti e dei luoghi sacri avrebbe indotto Dio a placare la sua furia e a ristabilire lo status quo ante. Infine il jihād è originario nella fede musulmana, sia che lo si intenda come una lotta armata sia come una spirituale. Esso è voluto dai fedeli per estendere il ‘territorio della fede’. Invece la crociata, e in generale la guerra santa, è un frutto dell’evoluzione socio-politica di circa mille anni. Essa è una guerra che volta le spalle alla dottrina della prima Chiesa e dei precetti evangelici.

 

In conclusione il jihād è una forma di guerra santa prevista dalla religione musulmana e reclamata dai fedeli per la conquista, o riconquista, di territori della fede. La crociata è la più santa tra le guerre sante, ha come obiettivo la riconquista di Gerusalemme e della tomba di Cristo, volta le spalle ai precetti evangelici ed è invocata e voluta dal papa.

 

Bibliografia

La guerra santa di Flori Jean

Chi sono Joseph e Aseneth ?

I personaggi di Joseph e Aseneth appaiono per la prima volta nella letteratura apocrifa tra al I secolo avanti cristo ed il I secolo dopo cristo, in un testo apocrifo, scritto in greco, dell’antico testamento. Si tratta di una sorta di espansione o ampliamento del testo della genesi, nel quale il faraone dà sua figlia Aseneth in sposa al sacerdote Joseph (personaggio presente anche nella letteratura canonica) e dal cui matrimonio sarebbero nati due figli chiamati Manasse ed Efraim che secondo la letteratura biblica sarebbe divenuto il primo re di Israele. Leggi tutto “Chi sono Joseph e Aseneth ?”

Michele Serveto

Nell’avvio della sua celebre biografia su Michele Serveto, Roland Bainton ci racconta come lo spagnolo ebbe il pregio assai singolare di essere stato bruciato in effige dai cattolici e nella realtà dai protestanti. Ma la figura di Michele Serveto non è solo quella di un eretico. Serveto è un personaggio eclettico capace di confrontarsi su materie diversissime quali teologia, filologia, geografia, medicina, astrologia. Si tratta insomma di un uomo universale del Rinascimento, ma la sua esistenza e i suoi studi sono caratterizzati soprattutto da una costante ricerca spirituale che condizionò tutta la sua vita. Lo dimostra il fatto che il suo successo più importante in campo medico, la scoperta della circolazione polmonare, fosse motivata anche da stimoli religiosi e descritta per la prima volta in un opera teologica come Christianismi Restitutio.
Per Bainton, Serveto riunì “lo spirito del Rinascimento e l’ala sinistra della Riforma”. Le sue posizione eterodosse avrebbero, però, finito per porlo in conflitto sia con il mondo cattolico che con quello protestante.
Messo al rogo nella Ginevra di Calvino, la sua morte avrebbe avviato il dibattito sulla tolleranza religiosa in Europa, nel quale sarebbero intervenuti il savoiardo Castellione e molti “eretici” italiani.
Ben presto anche la Svizzera avrebbe chiuso ogni spazio di dialogo, costringendo gli ultimi dissenzienti a trovare rifugio nell’est Europa. Ma il seme per la pacifica convivenza delle diverse religioni era stato gettato.

La formazione

Michele Serveto, figlio del notaio Antonio, nacque a Villanueva de Sigena, piccolo villaggio non molto lontano da Saragozza, nel 1511. Poco sappiamo sui primi anni della sua vita. L’ambiente spagnolo, nel quale a lungo avevano convissuto cristianesimo, ebraismo e islam, influì certamente nella sua formazione e nella scelta antitrinitaria, la sola che potesse adattarsi al suo progetto irenista di riunificare le grandi religioni monoteiste. In Spagna, Serveto venne in contatto anche con il pensiero erasmiano, portato dall’entourage di Carlo, re di Spagna e Imperatore, quando il sovrano si trasferì in Castiglia nel 1522. Il seguito dell’Imperatore era infatti composto da molti dignitari olandesi ammiratori di Erasmo; grazie a loro, le opere del grande umanista e teologo nato a Rotterdam, giunsero in terra iberica e per circa un decennio, dal 1522 al 1532, Erasmo godette di notevole popolarità in Spagna.
La prima svolta nella vita di Serveto avvenne quando, ancora quattordicenne, entrò a servizio di Juan de Quintana, francescano minorita ed eminente membro delle Cortes d’Aragona. Quintana era un uomo dall’indole pacifica vicino allo spirito erasmiano e la sua influenza fu certamente da stimolo alla precoce curiosità del giovane Serveto.
Tra il 1528 e il 1530, Serveto fu mandato a studiare legge presso l’università di Toledo. Qui, tuttavia, più che al diritto il giovane si appassionò agli studi biblici, in particolare alla lettura del Nuovo Testamento.
Il Quintana nel frattempo era stato nominato confessore di Carlo V e dovette recarsi in Italia per l’incoronazione dell’imperatore da parte del papa. Si trattava di un evento importante perché segnava il ritorno alla concordia dei due grandi poteri universali. Per l’occasione, Quintana aveva richiamato a sé Serveto e insieme assistettero alla solenne cerimonia svoltasi a Bologna il 24 febbraio 1530. Ma il giovane spagnolo restò profondamente disgustato dalla corte papale e scelse di abbandonare il servizio presso Quintana per sviluppare una visione del cristianesimo eterodossa che gli avrebbe assicurato, ben presto, un’accusa di eresia unanimemente sostenuta sia dai cattolici sia dalle chiese riformate.
Basilea e il De Trinitatis erroribus

Lasciato il Quintana, Serveto andò a Basilea, probabilmente nella speranza di incontrare Erasmo. In realtà, l’umanista olandese aveva già abbandonato la città in seguito alla rivolta del 1529, guidata dal riformatore Ecolampadio e sfociata nell’abolizione della messa e nella distruzione delle immagini sacre.
A Basilea, Serveto fu ospite di Ecolampadio, tuttavia i rapporti con il riformatore svizzero evolsero verso una crescente diffidenza e ostilità man mano che il giovane spagnolo illustrava le sue tesi che ad Ecolampadio apparvero ben presto come una riproposizione dell’antica eresia ariana. Il giovane spagnolo stava infatti già iniziando a pensare alla sua prima e sconvolgente opera De Trinitaris erroribus, ovvero sugli errori della Trinità.
Serveto aveva già acquisito una vasta cultura tale da padroneggiare i testi biblici in greco e in ebraico e citare con autorità molti filosofi e teologi medievali. A Basilea, il giovane spagnolo poté approfondire lo studio dei due Padri della chiesa preniceana che più influenzarono il suo pensiero: Ireneo e Tertulliano.
Serveto rielaborò queste letture per trovare una soluzione al problema della Trinità. Come abbiamo accennato, in Spagna aveva notato come, per ebrei e musulmani, la Trinità costituisse un aspetto della religione cristiana di difficile comprensione e una concessione al politeismo . Di conseguenza, per Serveto, rimuovere questo dogma, che a suo avviso non aveva base scritturale, significava riaprire la possibilità di una diffusione universale del cristianesimo. La spinta del giovane spagnolo verso l’antitrinitarismo aveva origine anche da una profonda riflessione spirituale, poiché, come scrisse Bainton egli lottava con le immensità e cercava di capire la relazione dell’uomo con l’eterno.
Per Serveto la soluzione al problema della Trinità era valorizzare l’umanità di Cristo, il quale se fosse Dio, potrebbe esserlo solo nel senso in cui un uomo è capace di essere Dio. Cristo aveva infatti dimostrato come l’uomo potesse essere elevato a Dio e in tal modo condividere con Dio la vita eterna. L’idea di Serveto era generata da una enorme fiducia nell’uomo che il giovane spagnolo mutuava dal pensiero umanista e rinascimentale. Per Serveto, inoltre, lo Spirito Santo non era una Persona della Trinità, ma l’emanazione dello spirito di Dio; scriverà infatti:
Il Santo Spirito non è un essere distinto. […] Come Dio è chiamato la sorgente dell’essere universale, così Egli è chiamato la sorgente di luce. Viene chiamato il Padre delle luci. Io non vedo questa luce come affermazione di una qualità. Egli manda la Sua luce a noi e questa è Dio stesso. Egli manda il suo spirito a noi e questo è Dio stesso […] A parte quindi lo spirito di Dio in noi non c’è nessun Santo Spirito.
Il pensiero di Serveto non poteva che suscitare la preoccupazione di Ecolampadio, che scrisse al suo ospite spagnolo per manifestargli le sue critiche:
Vi lamentate che sono troppo rigido. Ho buone ragioni. Voi sostenete che Chiesa di Cristo da lungo tempo si è staccata dalle fondamenta della fede. Voi accordate più merito a Tertulliano che all’intera Chiesa. Negate una persona in due nature e negando che il Figlio sia eterno negate anche la necessità che il Padre sia eterno. Avete sottoposto una confessione di fede che solo i semplici e gli ignari potrebbero approvare, mai ho in abominio i vostri sotterfugi […]. Sarò paziente in altre cose ma quando Cristo è bestemmiato, no!
I rapporti con il riformatore di Basilea erano ormai compromessi e Serveto capì che era il momento di abbandonare la città. Si mise in cerca di un luogo tollerante dove potesse sviluppare le proprie idee: scelse Strasburgo.

 

Alla ricerca di un luogo dove poter professare le proprie idee

Giunto a Strasburgo, Serveto riuscì a stampare il suo De Trinitaris erroribus presso lo stampatore Johannes Setzer. Ovviamente nella stampa non apparivano né il luogo né il nome dello stampatore.
Quando pubblico il testo Serveto aveva solo vent’anni, ma come abbiamo visto il De Trinitatis erroribus era frutto di lunghi studi e riflessioni da parte del giovane spagnolo, una ricerca che Serveto continuerà per tutta la vita.
A Strasburgo il testo ebbe inizialmente una discreta accoglienza e non mancarono dei sostenitori. Il riformatore della città, Bucero, ebbe inizialmente un atteggiamento tollerante verso Serveto, ma successivamente, stimolato dalle lettere di Ecolampadio, si decise a fare una confutazione pubblica dell’opera. Da quel momento, la disapprovazione fu generale e i magistrati civili decisero di bloccare la vendita del testo a Strasburgo.
Su consiglio di Bucero, Serveto dovette abbandonare anche la città imperiale e tornare a Basilea. Anche nella città svizzera, tuttavia, il giovane spagnolo non poteva aspettarsi un’accoglienza favorevole dal momento che Ecolampadio aveva già provveduto a convincere il Consiglio Cittadino a vietare l’opera. Serveto chiese il permesso di restare in città e inviò ad Ecolampadio un appello per la libertà religiosa:
Se mi trovate in errore in un punto, non dovreste a causa di ciò condannarmi su tutto, perché in base a questo non c’è mortale che non debba esser bruciato mille volte, poiché noi conosciamo in parte. Anche i più grandi tra gli apostoli qualche volta sbagliavano. Anche se vedete Lutero fare errori madornali in qualche punto non lo condannate per il resto […]. Tale è l’umana fragilità che noi condanniamo gli spiriti degli altri come impostori e irriverenti e facciamo eccezione per il nostro, poiché nessuno riconosce i propri errori […]. Vi supplico, per amor di Dio, risparmiate il mio nome e il mio onore […]. Voi dite che considero tutti ladroni e che non tollero che nessuno sia punito o ucciso. Dio Onnipotente mi è testimone che questa non è la mia opinione e la detesto ma, se ho mai detto qualcosa, è che ritengo cosa grave uccidere gli uomini perché sono in errore su qualche punto d’interpretazione scritturale, quando sappiamo che anche gli eletti possono essere sviati.
Serveto cercò quindi di alleggerire le posizioni espresse nel De Trinitatis erroribus considerandole non erronee, ma immature; a tal fine pubblicò, sempre presso Setzer, i Dialogorum de Trinitate libri duo. In pratica però, Serveto ritratta ben poco del precedente lavoro, limitandosi per lo più ad aggiustamenti terminologici. La novità del nuovo testo sta soprattutto nel tentativo di mediare le posizioni tra diverse chiese riformate, in particolare sul tema più dibattuto, quello della Santa Cena. Serveto scelse una posizione intermedia tra svizzeri e luterani, sostenendo che il corpo di Cristo viene mangiato in modo mistico e che si parla del pane come del corpo di Cristo solo in modo figurato.
Il tentativo di mediazione si concluse in maniera opposta a quanto auspicato: l’unica cosa su cui tutti concordarono fu nel condannare le opere dello spagnolo.
Lutero attaccò la posizione antitrinitaria “convinto che non ci debba opporre alla parola di Dio e alle sacre scritture” ed era preoccupato che simili opinioni pericolose si diffondessero in Italia provocando “terribili abomini”.
Da parte cattolica fu l’avversario di Lutero alla dieta di Worms, Girolamo Aleandro, a sostenere di non aver “mai visto o letto nulla di più nauseante” del De Trinitatis erroribus. Aleandro auspicava, inoltre, che Luterani o zwingliani provvedessero a punire lo spagnolo poiché “egli si oppone tanto alla loro professione quanto a quella cattolica”.
Insieme agli attacchi verbali contro Serveto si mosse anche l’inquisizione spagnola che mandò in Germania il fratello Juan con il compito di intrappolarlo.
Condannato da riformatori e cattolici, l’eretico spagnolo non aveva più posto dove fuggire tanto che pensò di scappare in America. La decisione fu infine quella di cambiare nome: Michele Serveto divenne Michel De Villeneuve, chiara allusione al suo villaggio natale Villanueva.

 

Michel de Villeneuve

Serveto, divenuto Michel de Villeneuve, si recò a Parigi. Qui, come in quasi tutta Europa, la libertà religiosa andava diminuendo e la lotta all’eresia impegnava oltre al clero locale anche i tribunali secolari, in particolare proprio il parlamento parigino.
Negli stessi anni era presente nella capitale francese anche Giovanni Calvino e fra i due pare ci fu un appuntamento a cui Serveto scelse, forse per prudenza, di non presentarsi.
Verso la fine del 1534, il clima di crescente intolleranza convinse lo spagnolo a lasciare Parigi per recarsi a Lione, centro commerciale ed editoriale più aperto alle idee riformate. Qui Serveto trovò impiego come correttore di bozze e redattore presso la casa editrice Trechsel, tra le opere curate dallo spagnolo spicca la Bibbia di Sante Pagnini nel 1542 e due edizioni della Geografia di Tolomeo, la prima nel 1535 la seconda sei anni più tardi. Serveto affrontò il compito di curare l’edizione del testo tolemaico con grande diligenza, inserendo nel testo corposi commenti che descrivevano i vari popoli nei loro usi e costumi.
Tra le due edizioni della Geografia, Michel De Villeneuve era nel frattempo divenuto medico. La decisione di studiare medicina era dovuta all’incontro con Symphorien Champier. Illustre medico, umanista e divulgatore del neoplatonismo, Champier fu tra le più esuberanti figure del Rinascimento. Serveto, che lo conobbe mentre lavorava presso la casa editrice dei Trechsel, prese le parti di Champier nella disputa che aveva con il collega tedesco Leonhart Fuchs scrivendo l’opuscolo Brevissima apologia pro Campeggio in Leonardum Fuchsum. Nell’opera l’eretico di Villanueva non esitava ad attaccare Fuchs per la sua fede luterana, sottolineando che la salvezza non avviene esclusivamente per fede senza le opere.
Su consiglio di Champier Serveto andò a Parigi a studiare medicina. Nella capitale francese Michel De Villeneuve si rilevò un ottimo studente tanto da far dire al suo maestro Johann Guenther “ Egli è portato per ogni branca della letteratura e riguardo a Galeno non è secondo a nessuno”.
Mentre studiava medicina, Serveto si manteneva con lezioni e pubblicazioni. Tra le materie che padroneggiava vi era l’astrologia e questo gli costò le critiche del decano della facoltà di Medicina. Lo spagnolo non esitò a pubblicare a sua difesa l’Apologetica disceptatio pro astrologia e a farla stampare. L’opera gli valse una denuncia al parlamento parigino e De Villeneuve decise di presentarsi spontaneamente in quell’assise per difendere le sue tesi e dichiararsi buon cristiano, nonostante sapesse che, se fosse stata scoperta la sua vera identità, sarebbe finito certamente al rogo. Alla fine il Parlamento parigino ritirò e confiscò la Apologetica disceptatio, ma non vi furono ulteriori conseguenze per De Villeneuve.
Il frutto più importante degli studi parigini fu la scoperta della circolazione polmonare del sangue, che Serveto intuì per primo in occidente. Lo spagnolo si rese conto che l’arteria polmonare era troppo grande per alimentare i polmoni come sostenevano i greci e capì che servisse in realtà ad ossigenare il sangue. Vediamo come lo spagnolo descrive la sua scoperta:
Lo spirito vitale è generato da una miscela che si forma nei polmoni, fatta di aria inspirata e sangue purificato che viene trasmesso dal ventricolo destro a quello sinistro. La trasmissione, comunque, non avviene come si pensa attraverso la parete mediana del cuore ma, tramite un elaborato sistema, il sangue purificato viene spinto dal ventricolo destro del cuore all’interno dei polmoni attraverso un lungo percorso. Viene trattato dai polmoni e reso brillante. Dall’arteria polmonare viene trasferito alla vena polmonare. Poi nella vena polmonare si mescola con l’aria inspirata ed è purgato dai suoi vapori con l’espirazione […] oltretutto non è semplicemente aria ma aria mescolata al sangue che viene spinta dai polmoni al cuore attraverso la vena polmonare, cosicché la miscela avviene nei polmoni e il colore brillante viene conferito al sangue spiritoso (arterioso) dai polmoni, non dal cuore.
E’ da sottolineare che Serveto fece la descrizione della scoperta in un opera teologica, la Christianismi Restitutio. Per lo spagnolo, infatti, la fisiologia umana non era che un aspetto del disegno divino e coglierlo non era altro che una tappa della sua tormentata ricerca spirituale.
Se l’anima era stata soffiata da Dio all’uomo come narra il testo biblico, la respirazione trasferiva il soffio divino nel sangue. La respirazione era un tutt’uno con la rigenerazione spirituale e Serveto sosteneva che “proprio come Dio fa arrossire il sangue per mezzo dell’aria, così Cristo fa brillare il Santo Spirito”. Nella visione dello spagnolo tutto era interconnesso e scoprire i segreti della respirazione significava percepire il respiro di Dio.

 

La restaurazione del cristianesimo

Completati gli studi a Parigi, Serveto iniziò ad esercitare la professione medica e nel 1540 si trasferì a Vienne, un sobborgo di Lione. La decisione di stabilirsi a Vienne fu propiziata dell’arcivescovo Pierre Palmier, che a Parigi aveva frequentato lezioni di geografia di Serveto e che decise di sostenere lo spagnolo ed ospitarlo nel palazzo vescovile. Inoltre, qui Serveto poté continuare a collaborare con gli editori Trechsel, che proprio a Vienne avevano aperto una seconda stamperia. Nel sobborgo lionese, Serveto rimase dodici anni e visse il periodo più tranquillo della sua vita. Grazie alla sua professione di medico e alla sua vasta cultura, si guadagnò il rispetto dei notabili della cittadina, che mai avrebbero immaginato che Michel De Villeneuve fosse in realtà il pericoloso eretico Michele Serveto e che, mentre viveva nel palazzo del vescovo, stesse componendo un’opera radicalmente eterodossa come Christianismi Restitutio. Infatti, pur mascherandole con un atteggiamento prudente e nicodemitico, lo spagnolo non aveva certo abbandonato le proprie idee e le riproponeva con forza proprio in questa nuova opera. Oltre che ribadire la scelta antitrinitaria, Christianismi Restitutio abbracciava nuove influenze, in particolare, il neoplatonismo che aveva appreso da Symphorien Champier e l’anabattismo, con il quale era venuto in contatto durante il soggiorno a Strasburgo.
Christianismi Restitutio, ovvero il ritorno o la restaurazione del cristianesimo, richiamava già dal titolo un tema caro ad Erasmo e agli umanisti, ma anche al mondo anabattista, ossia quello del ritorno all’originario messaggio evangelico.
L’apporto delle idee neoplatoniche, suggerì a Serveto l’idea di un Dio, immagine dell’Uno assoluto, che si esprimeva mediante una perenne emanazione di intermediari, quali la ragione, la sapienza e la parola, comparabili a raggi di luce. Dio inoltre è presente in tutte le forme ed entità:
Poiché Egli contiene in Se stesso l’essenza di tutte le cose, Egli Si mostra a noi come fuoco, pietra, elettro, verga, fiore e così via. Non è Lui che è mutato, è la pietra che è vista in Dio. E’ una vera pietra? Sì, Dio nel legno è legno, in una pietra Egli è pietra, avendo in Se stesso l’essenza della pietra, la forma della pietra, la sostanza della pietra. Io, dunque, considero questa una vera pietra avendo essa l’essenza della forma, benché manchi della materia della pietra.
Per questi passaggi Serveto fu considerato panteista. Bainton, invece, preferì definirlo un emanazionista, sostenendo che per Serveto Dio conferisce esistenza, essenza, peculiarità a tutto ciò che è ed è così che Dio sostiene tutte le cose.
Oltre al neoplatonismo, l’altra novità presente in Christianismi Restitutio è l’anabattismo che, come abbiamo visto, si palesa fin dal titolo dell’opera. La chiesa anabattista infatti può essere definita quella della Restaurazione e questo termine servì da titolo a numerosi opuscoli.
Il battesimo ha per Serveto un ruolo fondamentale nel redimere l’uomo ed aprirgli la strada della resurrezione. Per l’importanza cruciale che riveste il battesimo, lo spagnolo pensa che debba essere impartito agli adulti, anche perché, per Serveto, i bambini nascono innocenti e solo intorno ai vent’anni mangiano il frutto dell’albero del bene e del male e diventano suscettibili alle tentazioni diaboliche. Per lo spagnolo il battesimo doveva essere quindi impartito solo verso i trent’anni, secondo l’esempio di Cristo.
L’avversione al pedo-battesimo non poteva che accrescere l’ostilità non solo del mondo cattolico, ma di tutte le chiese riformate. Serveto non poté però rassegnarsi a quest’evidenza e volle provare a partecipare con le proprie idee al dibattito intorno alla religione cristiana. Incredibilmente scelse di stabilire una corrispondenza con un riformatore che aveva delle idee radicalmente opposte alle sue.
Fu per la stima personale che aveva verso Giovanni Calvino che gli fece credere di poter convincere con le proprie teorie il padre della Riforma ginevrina.
Ma colui che nel 1536 aveva pubblicano Istituzione della religione cristiana era freddo e logico, mentre l’autore del Christianismi Restitutio era ardente e appassionato; il riformatore di Ginevra credeva alla predestinazione, lo spagnolo era un convinto assertore del libero arbitrio; Calvino aveva una concezione di Dio e dell’uomo teocentrica ove vi era un Dio immenso ed inarrivabile contrapposto ad uomo totalmente indegno, Serveto aveva concezione antropocentrica e cristocentrica, poiché credeva che l’uomo potesse innalzarsi a Dio tramite l’esempio di Cristo.
Tutto insomma divideva questi uomini e ben presto si sarebbe giunti a quello che Bainton definì il confronto tra la Riforma e il Rinascimento e fra l’ala destra della Riforma e quella sinistra.
Uno scontro che si sarebbe rilevato fatale per l’eretico di Villanueva.
La corrispondenza tra Serveto e Calvino ebbe inizio nel 1546. Lo spagnolo rilevò fin da subito
la sua vera identità, ma continuò ad usare lo pseudonimo Michel De Villeneuve.
Serveto tentò di convincere Calvino su cristologia e battesimo infantile, ma le posizioni dei due parvero fin da subito inconciliabili. La corrispondenza continuò con lo scambio delle opere più significative: Calvino mandò l’Istituzione della religione cristiana e Serveto la Christianismi Restitutio. Fu allora che avvenne la rottura finale tra i due, poiché lo spagnolo restituì l’Istituzione al mittente con note e commenti offensivi, mentre Calvino si rifiutò di rispedire a Serveto la Christianismi Restitutio. Serveto allora inviò circa trenta lettere per chiedere la restituzione del manoscritto, finché Calvino non si convisse che lo spagnolo fosse un satana mandato a fargli perdere tempo. Il riformatore di Ginevra parlò dello spagnolo anche in una missiva indirizzata a Farel:
Serveto, assieme alle sue lettere, mi ha appena inviato un lungo volume con i suoi vaneggiamenti. Se acconsento verrà qui ma non farò alcuna promessa poiché, se mai dovesse venire e se la mia autorità vale qualcosa, non gli consentirò di ripartire vivo.
Calvino dimostrava di aver emesso il suo giudizio definitivo su Serveto. Per lo spagnolo l’ultima possibilità di aprire un dialogo con il mondo protestante era definitivamente tramontata.

Una duplice condanna

Perso il manoscritto inviato a Calvino, Serveto aveva conservato un’altra bozza o almeno delle annotazioni del Christianismi Restitutio e decise di provare a pubblicare l’opera.
In primis provò a contattare Martin Borrhaus di Basile, ma al rifiuto dello svizzero riuscì a trovare proprio a Vienne una stamperia disposta a correre il rischio di stampare l’opera. Si trattava di quella dei cognati Balthazar Arnoullet e Guillaume Guéroult di Lione, che avevano a Vienne una succursale.
L’opera venne stampata a spese dell’autore nella massima segretezza e man mano che si procedeva con la stampa veniva bruciato il manoscritto. La stampa fu completata il 3 gennaio del 1553 con una tiratura di mille copie, di cui, alcune furono inviate a Francoforte, altre a Ginevra. Tra queste, una finì nelle mani di un amico di Calvino, un certo Guillaume Trie, che era in corrispondenza con suo cugino cattolico di Lione, Antoine Arneys. Trie scrisse allora al cugino per denunciare la presenza di Serveto a Vienne:
Voi tollerate un eretico che ben meriterebbe di essere bruciato ovunque egli si trovi. Ho in mente un uomo che verrà condannato tanto dai papisti quanto da noi, o almeno così dovrebbe essere. Perché sebbene siamo diversi in molte cose, abbiamo questo in comune, che nell’unica essenza di Dio ci sono tre persone e che il Padre ha generato suo figlio che è eterna Sapienza da ogni eternità e che ha ricevuto la sua eterna potenza che è lo Spirito Santo. […] L’uomo di cui parlo è stato condannato da tutte le chiese che tu ammonisci, tuttavia voi lo tollerate e anzi gli consentite di stampare i suoi libri che sono così pieni di bestemmie che non devo dire altro. E’ uno spagnolo portoghese, di nome Michele Serveto. Questo è il suo vero nome, ma oggi si fa passare per Villenuefve e fa il medico. Ha risieduto a Lione per qualche tempo. Ora è a Vienne, dove è stato stampato il suo libro presso un certo Balthazar Arnoullet, e perché tu non pensi che parlo senza prove, ti mando il primo foglio.
Alla missiva erano allegati i primi quattro fogli della Christianismi Restitutio. Il cugino calvinista dimostrava di conoscere bene la doppia identità di Serveto, forse svelata dallo stesso Giovanni Calvino.
Arneys, il cugino cattolico, denunciò subito Serveto e lo stampatore all’inquisitore del tribunale vescovile Mathieu Ory, che valutò le carte giunte da Ginevra e iniziò a cercare ulteriori prove.
De Villeneuve fu interrogato e la sua casa perquisita, ma l’inquisitore non riuscì a dimostrare la colpevolezza dello spagnolo.
Venne consultato l’arcivescovo di Vienne, Pierre Palmier, un tempo benefattore di Serveto, che sottolineò l’insufficienza delle prove contro De Villeneuve. Alla fine il cugino cattolico Arneys decise di chiedere al cugino calvinista Trie ulteriori prove. Il ginevrino spedì allora il manoscritto originale della Christianismi Restitutio consegnatogli da Calvino in persona. Ma Mathieu Ory non era ancora del tutto convinto e fu così, che da Ginevra arrivò l’intera corrispondenza tra Serveto e Calvino, nella quale lo spagnolo rilevava apertamente la sua doppia identità. I protestanti ginevrini avevano fornito al tribunale cattolico prove schiaccianti e il 4 aprile 1553 venne ordinato l’arresto di Serveto e dello stampatore Arnoullet.
Il giorno seguente iniziarono gli interrogatori. All’inizio Serveto riuscì a difendersi molto bene, ma man mano che l’inquisitore gli mostrava i documenti arrivati da Ginevra, per Serveto appariva sempre più complicato discolparsi. Quando ormai la condanna appariva sicura, Serveto riuscì incredibilmente a salvarsi ancora una volta. Il 7 aprile saltò dal terrazzo della prigione e riuscì a fuggire illeso. I tentativi di riacciuffarlo furono vani, ma il processo andò avanti. Il 17 giugno, Villeneuve alias Serveto, venne dichiarato colpevole per eresia, sedizione, ribellione ed evasione e condannato al rogo . In mancanza del condannato, la sentenza venne eseguita in effige.
Sfuggito da una morte certa a Vienne, Serveto venne riconosciuto e arrestato a Ginevra il 13 agosto 1553. Gli storici si sono chiesti a lungo perché Serveto andò proprio nella città di Giovanni Calvino, suo principale accusatore. E’ probabile che lo spagnolo fosse solo di passaggio e meditasse di recarsi in Italia. Alcuni storici calvinisti, per giustificare la successiva condanna, hanno ipotizzato che Serveto fosse in combutta con gli oppositori libertini di Calvino e preparasse addirittura un colpo di stato. La tesi appare però totalmente priva di reali prove e poco realistica, come spiega bene Bainton nella biografia di Serveto.
In ogni caso, la decisione di recarsi a Ginevra si rilevò fatale per lo spagnolo, perché le idee di Calvino sulla lotta all’eresia non erano troppo diverse da quelle dei cattolici. Infatti il riformatore scriveva:
Poiché i papisti perseguitano la verità, dovremmo noi a causa di ciò trattenerci dal reprimere l’errore? Come disse sant’Agostino, non è la pena che fa il martire, ma la causa. Senza dubbio nei primi tempi non si usava la spada in nome della Chiesa perché a quel tempo si operavano miracoli. Certamente Cristo non usò la spada ma Pietro agì nello spirito di Cristo quando fece morire Anania, e il suggerimento di Gamaliele che invitò ad attendere i fatti prima di esercitare la repressione era il parere di un cieco. Il consiglio di lasciare la zizzania fino al tempo del raccolto era motivato solo dall’attenzione verso il grano.
Da queste parole si evince che per Serveto, dopo la prima condanna a morte ad opera dei cattolici, ne sarebbe presto seguita una seconda, stavolta ad opera dei protestanti.
6. L’ultimo scontro con Calvino
Per permettere l’arresto di Serveto secondo la legge ginevrina, l’accusatore doveva andare in prigione insieme allo spagnolo, finché la colpa dell’indagato non fosse dimostrata. A questo scopo, Calvino mandò in carcere il suo segretario Nicolas de la Fontaine che portò con sé, in qualità di accusatore, le opere di Serveto, in particolare il Christianismi Restitutio sia nella versione manoscritta che in quella stampata. In base a questi primi elementi il 15 agosto iniziarono gli interrogatori e Nicolas de la Fontaine poté uscire dal carcere perché al suo posto si consegnò Antoine, fratello di Calvino.
Su Serveto pendevano ben trentanove capi d’accusa, successivamente ridotti nel corso del processo. Gli venivano rimproverate le sue dottrine, in particolare il panteismo, la posizione antitrinitaria, le idee su battesimo e immortalità e il suo atteggiamento insolente verso Melantone e la chiesa di Ginevra. Lo stesso Giovanni Calvino si presentò in tribunale il 21 agosto per sostenere queste accuse. Il giorno seguente venne deciso di scrivere a Vienne per avere il resoconto del precedente processo e di informare le altre città svizzere.
Qui termina una prima della fase del processo e inizia la seconda fase che vede in scena il pubblico accusatore Rigot.
Serveto fece appello al Consiglio cittadino, sostenendo che ai tempi di Costantino la massima pena per l’eresia era l’esilio. Rigot rispose che, in realtà, anche Costantino e gli imperatori cristiani giustiziavano gli eretici e l’appello alla tolleranza di Serveto era in realtà un’ammissione di colpa.
Mentre continuavano gli interrogatori, arrivò dal tribunale vescovile cattolico la sentenza del primo processo. A Serveto venne quindi chiesto se preferisse essere rimandano a Vienne, ma lo spagnolo chiese di essere giudicato a Ginevra.
A questo punto il pubblico accusatore uscì di scena e si concluse anche la seconda fase del processo, la fase successiva vedrà un confronto diretto tra Serveto e Calvino.
Vi fu tra i due uno scambio di pamphlet in latino. Nel suo scritto Calvino rimproverò allo spagnolo tutte le sue eresie. Serveto replicò con fierezza, attaccando la dottrina della predestinazione e paragonando il riformatore di Ginevra a Simon Mago, che si riteneva fosse il padre della dottrina della predestinazione.
Il 5 settembre, il Consiglio sospese il processo e inviò la documentazione alle città svizzere per avere la loro opinione. A questo punto, Serveto scrisse una serie di suppliche al Consiglio di Ginevra, sottolineando, a suo avviso, l’inconsistenza delle accuse, la mancanza di un difensore, le pesanti condizioni della sua prigionia. Successivamente, lo spagnolo nelle sue missive accusò Calvino di aver prodotto false accuse e di aver collaborato con i giudici cattolici per farlo processare a Vienne. L’eretico di Villanueva, continuò scrivendo contro il suo avversario un vero e proprio atto di accusa:
Messieurs, ci sono quattro infallibili ragioni per le quali Calvino dovrebbe essere condannato:

1. La prima è che una questione dottrinale non dovrebbe essere soggetta a un’azione penale, come posso dimostrare con gli antichi dottori della chiesa.
2. La seconda è che egli è un accusatore falso.
3. La terza è che con le sue vane e calunniose motivazioni egli si oppone alla verità di Gesù Cristo.
4. La quarta è che egli segue in larga misura la dottrina di Simon Mago, quindi, in quanto stregone, dovrebbe non solo essere condannato ma sterminato e cacciato dalla città e i suoi beni dovrebbero essere accordati a me per ricompensare quelli sottrattimi.

Michele Serveto giudice della propria causa.
Il processo a Serveto, intanto, diveniva un caso nazionale e Ginevra chiese un parere ai Consigli di Ginevra, Berna, Basilea e Sciaffusa. Le città della Confederazione furono unanimi nel condannare l’eretico spagnolo pur non indicando la pena da adottare. L’unica voce dissenziente fu quella dell’esule italiano Vergerio, il quale, scrisse il 3 ottobre a Bullinger, dichiarando di non ritenere che contro Serveto dovessero essere usate fuoco e spada e che una condanna dello spagnolo avrebbe finito col favorire i papisti.
Con il consenso delle altre città svizzere, ormai nulla si opponeva alla condanna a morte di Serveto.
La sentenza venne emessa il 27 ottobre 1553. E’ interessante notare che dei molti capi d’accusa solo due vennero considerati ammissibili: l’antitrinitarismo e l’antipedobattismo. Si trattava di due antiche eresie condannate dal Codice Giustinianeo, mentre non vi era traccia nella sentenza di reati politici.
Serveto e Calvino ebbero un ultimo colloquio, senza tuttavia riuscire a riconciliarsi. Lo spagnolo, nel timore di ritrattare il suo credo, chiese di poter essere ucciso con la spada e non bruciato, ma la richiesta venne rifiutata.
La sentenza fu eseguita a Champel. Serveto venne posto su una catasta di legna verde e incoronato con paglia e foglie cosparse di zolfo. Venne legato al palo con una catena di ferro, mentre alla coscia destra gli venne annodato il suo libro.
Quando venne acceso il fuoco, Serveto avrebbe gridato: “Oh Gesù, Figlio dell’Eterno Dio, abbi pietà di me!”. La morte sopraggiunse dopo mezz’ora di supplizio.
Ma la sua tragica fine non sarebbe stata dimenticata e la sua morte avrebbe dato lo spunto per l’avvio del dibattito sulla tolleranza.

Bibliografia

R. Bainton, Vita e morte di Michele Serveto, Roma, Fazi , 2012
C.Manzoni, Umanesimo ed eresia: Michele Serveto, Napoli, Giuda, 1974

I costi dell’armatura

Cavalieri e guerrieri in armatura dominano l’immaginario collettivo e gli scenari medievali. L’armatura sembra donare a chi la indossa un aura mistica, rendendolo invincibile o comunque invulnerabile, e pure, quell’enorme e pesantissimo ammasso di metallo battuto ha un doppio effetto, da una parte protegge dall’altra imprigiona chi la indossa in una gabbia di metallo.
In un recente studio Daniel Jaquet, Alice Bonnefoy Mazure, Stéphane Armand, Caecilia Charbonnier, Jean-Luc Ziltener e Bengt Kayser hanno condotto un’interessantissima analisi sulle armature del tardo medioevo, le armature a piastre per intenderci.

Leggi tutto “I costi dell’armatura”

La crisi valutaria del 1992 || Fine dello SME

Perché l’esperienza del Sistema monetario europeo si conclude con la drammatica crisi valutaria del 1992 ?

Per rispondere a questa domanda è opportuno fare un passo in dietro e fissare alcuni paletti concettuali, spieghiamo quindi brevemente che cosa fu il Sistema Monetario Europeo.

Gli accordi dello SME (Sistema Monetario Europeo), vengono stipulati nel 1979 tra i paesi della Comunità Economica Europea, con l’obbiettivo di creare in Europa una zona di stabilità monetaria che rappresenti una risposta all’elevata inflazione e instabilità dei cambi succeduti alla fine del sistema di Bretton Woods.

Per raggiungere questo obbiettivo viene fissata una parità di cambio per i cambi bilaterali dei paesi membri, definiti attraverso una griglia di parità, con un margine di oscillazione del ±2,25%, e, nel caso questo margine fosse stato raggiunto, le banche centrali dei paesi interessati erano obbligate ad intervenire, acquistando o vendendo valuta1.

La recessione che si sviluppa a partire dal 1991 unita ad un elevato tasso di disoccupazione, destinato ad aumentare, rese particolarmente difficile la progettazione di un aumento della tassazione e tagli alle spese necessari a ridurre i deficit di bilancio verso il 3% e mantenere i tassi di inflazione entro l’1,5% da quello dei paesi con il minor tasso di inflazione, come richiesto dai trattati di Maastricht.

Con l’assorbimento da parte della Rft della debole economia della Rdt, con la sostituzione del deutsche mark all‘Ostmark, allo stesso valore, si ebbe un aumento della offerta di moneta superiore alla domanda che produsse un inflazione del 4%, che costrinse la banca centrale tedesca, la Boundsbank, ad innalzare i tassi di interesse.2

Quasi contemporaneamente una sempre più frequente serie di attacchi speculativi mette in evidenza i punti deboli del sistema monetario europeo, costringendo sempre più spesso le banche centrali ad intervenire, paesi come Italia, Francia e Gran Bretagna sono costrette a svalutare le propria monete nazionali, provocando una forte diminuzione delle riserve creando così le condizioni per per la recessione.3

Recessione e Nazionalismo rappresentano un terreno fertile per la nascita di correnti e movimenti antieuropei, i quali, per consolidare il proprio potere scelgono, di volta in volta, la via più semplice, delegando ad un ipotetico “altro” le proprie responsabilità, si viene così a creare un circolo vizioso che porta i vari paesi ad abbandonare il progetto del Sistema Monetario Europeo, ma, l’impossibilità al sopravvivere in un mondo ormai interconnesso in una maniera mai vista prima, rappresenta un freno velato che, impedisce il totale abbandono dei progetti comunitari. Italia, Francia e Gran Bretagna, se bene fuoriusciti dallo SME, sono ancora fortemente inserite nelle dinamiche comunitari, e ciò spinge “l’Europa” alla creazione di una nuova soluzione che possa garantire stabilità finanziaria, portando così nel giro di un decennio alla nascita della Comunità Monetaria Europea, con l’istituzione della moneta unica europea.

Bibliografia :

1 – La Nascita dell’economia Europea – Barry Eichengreen, Cap. 09 pp 216-223

2 – La Nascita dell’economia Europea – Barry Eichengreen, Cap. 11 pp 270-272

3 – La Nascita dell’economia Europea – Barry Eichengreen, Cap. 10 pp 242-249

L’età dell’oro della pirateria – parte 2

Il XVIII secolo iniziò con una moderata attività piratesca. Le nazioni imperialiste, soprattutto Gran Bretagna e Spagna, avevano aumentato il pattugliamento dei mari così da diminuire drasticamente le azioni di pirateria. Ma il demone rappresentato dai pirati era tutt’altro che sconfitto, e si sarebbe di nuovo impadronito dei mari e avrebbe suscitato terrore nei cuori dei marinai onesti.

Leggi tutto “L’età dell’oro della pirateria – parte 2”