La dinastia dei Tarquini: un secolo di monarchia etrusca a Roma | CM

Cenni cronologici

Una delle fasi più antiche e caratteristiche della Roma dei primordi è certamente caratterizzata dalle storie semi-leggendarie riguardo i sette re delle origini (Romolo, Numa Pompilio, Anco Marzio, Tullio Ostilio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo), dalla fondazione di Roma da parte di Romolo (753 a.C.) fino alla cacciata dall’Urbe di Tarquinio il Superbo (509 a.C.). Il numero sette, che definisce appunto i sovrani della monarchia romana, ricorre quasi simbolicamente anche per quanto riguarda i noti sette colli romani (Aventino, Celio, Quirinale, Campidoglio, Esquilino, Palatino e Viminale), sedi fondamentali del potere politico romano e fulcri di splendore artistico.

Tra questi celebri sette sovrani che regnarono a Roma a cavallo tra il 753 a.C. (anno della fondazione di Roma da parte di Romolo, “ab Urbe condita“, ovvero “dalla fondazione dell’Urbe”) e il 509 a.C., spiccano tre diversi re che si susseguirono reciprocamente e cronologicamente nell’arco dell’ultimo secolo della monarchia romana: Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. Essi regnarono infatti per circa un secolo, dal 616 a.C. al 509 a.C., distinguendosi rispetto agli altri monarchi soprattutto per quanto riguarda la loro discendenza, unico tratto insolito e singolare che potesse in qualche modo accomunarli: i tre sovrani erano infatti etruschi.

Considerando l’“etruscità” come un tratto distintivo e originario del popolo romano, è possibile intravedere in questi ultimi tre re etruschi tuttò ciò che sarà il “lascito” della civiltà etrusca per la civiltà romana. Gli etruschi, così come tutti gli altri popoli italici gradualmente conquistati e inglobati dai romani, vedranno la loro autonomia e indipendenza definitivamente cancellata nel 90 a.C., quando otterranno la cittadinanza romana. Il popolo etrusco viene infatti considerato come il principale antenato di quello romano, non solo per la vicinanza geografica con il luogo d’origine, ma anche per molteplici aspetti sociali e culturali che verranno tramandati nei secoli, tra cui:
1. SELLA CURULIS = Uno sgabello simbolo del potere giudiziario, riservato inizialmente soltanto ai sovrani e successivamente anche ai magistrati.
2. TOGA PURPUREA = Simbolo di potere che nella Roma antica veniva indossata dall’imperatore.
3. FASCI LITTORI = Rappresentano un simbolo di giustizia e autorità per i magistrati.

Tarquinio Prisco (616-579 a.C.)

Discendente diretto della famiglia dei Pachidi, che aveva dominato a Corinto tramite vasti commerci e attività artigianali (tra le quali la produzione di molte ceramiche), è noto per essere il figlio maggiore di Demarato, il quale fu costretto a fuggire da Corinto a causa delle incombenti rivalità in atto tra la sua famiglia e quella dei Cipselidi, che ora regnavano sulla città (Cipselo era infatti il nuovo tiranno). Demarato allora, per cercare soprattutto nuovi commerci e mercati, si trasferì a Tarquinia nel 657 a.C., dove sposò una nobile del luogo, da cui avrà due figli: Lucumone (Tarquinio Prisco), il maggiore dei due, e Arunte (morto poco prima del padre).

Tarquinio Prisco è infatti conosciuto con il nome originario etrusco di Lucumone, termine che successivamente verrà utilizzato per indicare un’importante carica politica di principe o capo dell’aristocrazia (ancora più avanti diventerà anche una carica magistratuale). Egli infatti, dopo essersi trasferito a Roma con la moglie, cambierà nome in Lucio Tarquinio Prisco (Lucius Tarquinius Priscus), per segnare l’evidente vicinanza geografica e familiare con la fiorente città etrusca di Tarquinia. Come il padre infatti sposerà anch’egli una ricca aristocratica tarquinese di nome Tanaquilla, esperta indovina che lo convinse a lasciare Tarquinia per sistemarsi definitivamente a Roma.

Noto soprattutto per essere stato il primo re di origine etrusca e il quinto re (stando alle fonti di Tito Livio) nella successione dei sette sovrani che regnarono su Roma a partire da Romolo, possiamo descrivere la sua ascesa al trono come lineare e non troppo travagliata. Egli infatti riuscì a distinguersi sul territorio romano per la sua grande generosità e per le sue svariate doti, tanto che l’attuale monarca in carica, Anco Marzio (678-616 a.C.), volle insistentemente conoscerlo. I due così diventarono presto molto amici, tanto che il sovrano lo nominò come suo principale consigliere, decidendo infine di adottarlo, affidandogli anche il prezioso compito di proteggere e sorvegliare i suoi figli. E’ probabile che ricoprì anche la prestigiosa carica di magister populi. Alla morte di Anco Marzio infatti, Tarquinio Prisco riuscì facilmente a farsi eleggere come sovrano successore per diretta eredità famigliare, sfruttando proprio l’adozione da parte del precedente sovrano e la benevolenza dimostrata dal popolo romano nei suoi confronti. Avrà così inizio proprio con lui la “grande Roma dei Tarquini”.

La sua storia e la sua presa di potere vengono narrate dettagliatamente dallo storico Tito Livio; si tratta di racconti ampiamente tratteggiati da vari caratteri mitistorici e leggendari, che s’intrecciano con la realtà storica, archeologica ed epigrafica degli eventi. Con lui Roma diventerà una delle città più grandi di tutto il Mediterraneo, attraverso una vastissima serie di riforme sociali, politiche ed economiche, oltrechè a un intenso programma di restaurazioni e costruzioni architettoniche sparse per tutta l’Urbe. Operò infatti una radicale ristrutturazione urbanistica di Roma, conferendole così un aspetto più maestoso e monumentale attraverso la costruzione di importanti infrastrutture, tra le quali possiamo citare:
1. CLOACA MASSIMA = Uno dei più antichi e imponenti condotti fognari della storia. Venne costruita inizialmente per assorbire le acque del Tevere all’interno dei suoi collettori quando straripava, poichè si trattava di un fenomeno piuttosto frequente e pericoloso per l’intera città.
2. CIRCO MASSIMO = Destinato come sede permanente per le corse dei cavalli; vennero così istituiti i ludi romani.
3. TEMPIO DI GIOVE OTTIMO MASSIMO = Sempre a Tarquinio Prisco si deve anche l’inizio dei lavori per la costruzione del tempio di Giove Capitolino, collocato sul colle del Campidoglio.
4. MURA SERVIANE = Decise inoltre di dotare Roma di nuove fortificazioni murarie, iniziando anche a far erigere una nuova e imponente cinta muraria difensiva come non si era mai vista prima d’ora.

Per quanto riguarda invece le riforme che operò in campo politico e giudiziario, troviamo svariate testimonianze, soprattutto per quanto riguarda la politica militare e l’ordinamento interno della città. Egli infatti, a livello militare, riuscì abilmente a destreggiarsi in molteplici conflitti, dove i romani ebbero sempre la meglio, e tra i vari popoli che affrontò troviamo:
1. SABINI = In occasione di questo scontro fu aumentato il numero di cavalieri che ognuna delle tre tribù romane doveva obbligatoriamente fornire all’esercito romano.
2. LATINI = Una fitta coalizione di città etrusche (Arezzo, Chiusi, Volterra, Roselle e Vetulonia) corse in soccorso dei latini in due durissimi scontri campali contro la città di Roma.
3. ETRUSCHI = In seguito a una coalizione di etruschi e sabini, dove questi ultimi vennero sconfitti e furono costretti a concordare una pace, gli etruschi invece non si arresero mai, e i conflitti combattuti sulle città di Caere e Veio durarono per ben sette anni di scontri campali.

Operò inoltre una significativa riforma sulla classe degli equites (i “cavalieri”), aumentandone il numero, e decise poi di raddoppiare anche il numero delle centurie e di aumentare i membri dell’assemblea centuriata e dei senatori. Morì assassinato in seguito a una congiura organizzata dal maggiore dei figli di Anco Marzio, desideroso di ottenere il trono che riteneva usurpato da uno straniero. Tuttavia la moglie Tanaquilla, astuta e abile manipolatrice, riuscì a far eleggere dal popolo come sovrano Servio Tullio (suo genero), grazie a uno stratagemma. A Tarquinio Prisco si deve, oltre a essere stato il primo monarca etrusco, l’introduzione di gran parte delle usanze etrusche da parte dei romani.

Servio Tullio (579-535 a.C.)

Si tratta di una figura complessa e centrale per la storia arcaica, sia per quanto riguarda il mondo etrusco/italico, sia per quanto riguarda il mondo romano del VI secolo a.C.. Egli rappresenta infatti un personaggio polimorfo e non facile da inquadrare, noto per essere stato il successore di Tarquinio Prisco, deve la sua fortuna e salita al potere alla moglie di quest’ultimo la quale, colta, ambiziosa ed estremamente abile in “fatti” religiosi come indovina, riuscì a predirne la grandezza e, alla morte del marito, gli diede in sposa la figlia e fece in modo che salisse al trono come sesto re di Roma. Tanaquilla riuscì infatti a nascondere al popolo romano la morte del marito, ordita dai figli di Anco Marzio, affermando che Tarquinio Prisco fosse in realtà solamente rimasto ferito e che avesse designato Servio Tullio come reggente temporaneo. In questo modo, quando si ristabilì la calma a Roma e venne annunciata la morte del precedente sovrano, egli venne accettato come legittimo re senza alcuna opposizione dal popolo romano.

Le fonti su questo personaggio risultano spesso ambigue e discordanti, ed è possibile parlare di una duplice tradizione nei suoi confronti. Da una parte possediamo infatti le testimonianze di Tito Livio e di vari altri storici romani, che si rifanno appunto alla tradizione romana, mentre dall’altra possiamo trovare la tradizione etrusca, legata a storie e leggende di storici etruschi e tramandata soprattutto attraverso l’imperatore Claudio, con la Tabula di Lione, un discorso effettuato dall’imperatore a Lione (in Gallia) nei confronti del senato locale o di uomini politici del posto. Egli era infatti molto appassionato di storia etrusca, di cui scrisse varie altre opere, oggi andate perdute.

Per quanto riguarda la tradizione romana ci viene riportato dagli storici, e soprattutto da Tito Livio, che egli fosse un uomo di umili origini nato da una prigioniera di guerra, probabilmente nobile nella sua città natale (nota come Ocrisia), ridotta in servitù presso il focolare domestico di Tarquinio Prisco. Da questo fatto deriverebbe infatti l’etimologia del suo nome e della sua condizione sociale, ovvero “Servio”, inteso appunto come figlio di una serva. A differenza del suo predecessore e del suo successore sarebbe infatti un homo novus. Le fonti ci riportano inoltre un’intensa attività politica, economica e militare. Egli infatti fu un grandissimo riformatore sia in campo politico che in quello militare, operando alcuni degli interventi più importanti e significativi per la storia di Roma, tra cui:
1. RIFORMA SERVIANA = Si tratta della più importante modifica dell’esercito operata in epoca pre-repubblicana. Divise la popolazione in classi, e da lui in avanti la cittadinanza sarebbe stata basata sul censo. Si trattava infatti di una riforma censitaria secondo cui i cittadini romani sarebbero dovuti essere dei possidenti terrieri per poter intervenire nelle assemblee e per essere reclutati nell’esercito; proprio in questo periodo nacque anche un esercito basato su centurie e gerarchie. Egli comprese per primo che Roma necessitava di un esercito molto più numeroso per mantenere le sue conquiste ed espandersi (prima c’era una sola legione di circa tremila uomini, detto “esercito romuleo”). Iniziarono dunque a essere reclutati anche strati inferiori della società (plebei), fino ad allora severamente esclusi, evento che destò scandalo e disapprovazione tra i patrizi romani, i quali vedevano minacciati i loro privilegi. Modificò inoltre la tradizionale divisione in tribù del popolo romano, non tenendo più conto delle origini, ma considerando come criterio principale il luogo di residenza. Infine fu il primo sovrano a condurre un censimento generale (il primo nella storia).
2. RIORGANIZZAZIONE URBANISTICA = Per quanto riguarda le modifiche cittadine, aggiunse a Roma i tre colli più orientali (Viminale, Quirinale ed Esquilino), ampliò il pomerium (confine sacro della città), fece costruire sull’Aventino il tempio di Diana e ampliò ulteriormente le Mura Serviane già iniziate dal suo predecessore.
3. POLITICA MILITARE = In campo militare proseguì l’ormai inarrestabile politica di espansione territoriale romana a danno dei sabini e delle città etrusche di Veio, Caere e Tarquinia, le quali, considerandolo un usurpatore, si ribellarono non volendo più accettare gli accordi stipulati con Tarquinio Prisco.

Per quanto riguarda invece la tradizione tramandata dalle fonti etrusche, la situazione diventa più complessa, dal momento che si tratta principalmente di miti e leggende. Come precedentemente citato, la Tabula di Lione riporterebbe le vicende di un certo Mastarna (nome etrusco che identifica Servio Tullio), il quale sarebbe stato aiutato a prendere il potere con la forza da due fratelli e condottieri etruschi, Celio e Aulo Vibenna (scena rappresentata sulle pareti della tomba etrusca Francois). Tale tradizione potrebbe anche risultare parzialmente veritiera, dal momento che il nome Mastarna non presenta prenome e gentilizio (tipica formula binominale), e dunque non apparterrebbe a una figura nobile. Inoltre tale nominativo sarebbe posto in relazione al termine magister, carica che più avanti identificherà un capo militare romano del periodo più recente.

Servio Tullio sarebbe stato poi ucciso da Lucio Tarquinio, detto poi “il Superbo” una volta salito al trono. Egli infatti, complice con la figlia di Servio Tullio, Tullia Minore, sposa di Arunte (nobile, fratello di Tarquinio il Superbo), avrebbe spinto il sovrano dalle scale della curia in seguito a una sua provocazione. Quest’ultimo, ferito ma non ancora deceduto, mentre tentava di scappare dal foro, sarebbe stato ucciso da un cocchio trainato da cavalli, guidato dalla figlia Tullia. La plebe, da lui per molto tempo estremamente protetta e aiutata nella conquista di una maggiore autonomia e indipendenza, lo pianse molto e a lungo.

Tarquinio il Superbo (535-509 a.C.)

Conosciuto con il nome di Lucio Tarquinio (come il padre) e successivamente appellato come “il Superbo” per i suoi comportamenti efferati, fu il settimo e ultimo sovrano di Roma, oltrechè l’ultimo monarca della dinastia etrusca di sovrani che regnarono su Roma prima dell’imposizione politica della repubblica nel 509 a.C.. Fu il figlio maggiore di Lucio Tarquinio Prisco e fratello di Arunte Tarquinio, nobile a cui sarebbe successivamente spettata l’ascesa al trono. Inizialmente sposato con Tullia Maggiore, figlia di Servio Tullio, la fece poi uccidere per sposare Tullia Minore, l’altra figlia di Servio Tullio e sposa del fratello Arunte, da cui ebbe tre figli: Arrunte, Tito e Sesto.

Anche per questo sovrano, le maggiori fonti a disposizione dipendono dallo storico Tito Livio, il quale ci riporta soprattutto i dettagli della congiura ordita nei confronti del suocero, Servio Tullio. Tarquinio infatti, come precedentemente citato, si sarebbe fatto aiutare nell’organizzazione dell’omicidio dai tre figli e dalla seconda moglie Tullia Minore, autoproclamandosi sovrano rivendicando il trono tutto per sè, dopo esservisi seduto di fronte al senato. Questo fatto scandaloso avrebbe infatti attirato Servio Tullio in fretta e furia nella curia dove, in seguito a un’accesa disputa verbale, i due sarebbero poi passati a uno scontro fisico che vide Servio Tullio spinto dalla scalinata della curia e travolto dal carro trainato da cavalli e guidato dalla figlia Tullia, come precedentemente citato.

Intorno all’anno 535-534 a.C. circa, assunse dunque il legittimo titolo di monarca, in quanto maggiore tra i figli di Tarquinio Prisco e marito della figlia del precedente sovrano. Inoltre il luogo in cui era stato brutalmente assassinato Servio Tullio ricevette il titolo di vicus sceleratus, in ricordo dell’efferato gesto. Tuttavia Lucio Tarquinio riuscì a inimicarsi ben presto l’intero popolo romano, a partire dalla netta negazione nei confronti della sepoltura di Servio Tullio. In breve tempo gli venne infatti attribuito l’epiteto di “il Superbo”, non solo per la violenza con cui eliminò il precedente sovrano, ma anche per l’arroganza e la tirannia con cui prese il potere a Roma come monarca, senza rispettare una legittima elezione da parte del popolo né l’approvazione del senato romano. L’uso sistematico della violenza rimase infatti una costante per tutta la durata del suo regno. Egli per di più istituì anche un personale gruppo di guardie armate, mantenendo il controllo su tutto il territorio in maniera tirannica ed estremamente autoritaria. La società romana era infatti riuscita a costruire e rinsaldare in un brevissimo tempo una struttura fortemente fondata su una solida base democratica, la quale venne altrettanto rapidamente annientata dall’aggressività e dagli efferati costumi di Tarquinio il Superbo. Un’ulteriore novità nel regno di questo sovrano sta nel fatto che egli per la prima volta unì contro di sè l’odio comune non solo dei plebei che si vedevano oppressi e schiacciati dalla sua figura, ma anche dei patrizi, che temevano per una drastica riduzione dei loro privilegi.

Per quanto riguarda il regno di Tarquinio il Superbo, egli viene principalmente ricordato per quanto tirannico ed efferato fu il controllo che operò sul territorio romano, e soprattutto per come la violenza, a cui spesso e volentieri ricorreva, fosse una delle principali cause che lo portarono a inimicarsi l’intero popolo romano. Tuttavia, se si mettono da parte questi eventi che contribuirono maggiormente a rendere famoso il suo personaggio, egli operò anche numerose attività in ambito politico, economico e urbanistico, tra le quali:
1. POLITICA = Nonostante l’estrema arroganza politica riportata dalle fonti per quanto riguarda la presa di potere e il controllo del regno, egli poteva tuttavia vantare di grandi abilità strategiche e militari. A lui si deve infatti l’inizio della centenaria lotta tra romani e volsci. Inoltre, venne conquistata la città di Gabii tramite un astuto stratagemma elaborato insieme al figlio Sesto Tarquinio, il quale finse di volersi far accogliere e proteggere da tale cittadina per scampare alla tirannia del padre; tuttavia, una volta accolto all’interno delle mura, il suo unico compito fu quello di recare discordia e inimicizia all’interno della città, e vi riuscì così bene che a Roma non si combattè neanche una singola battaglia. Infine, sempre in questo periodo, Tarquinio il Superbo proseguì una spietata campagna espansionistica del territorio romano ai danni di numerosi territori circostanti, anche tramite la fondazione di varie colonie romane.
2. ECONOMIA = Sebbene Tarquinio il Superbo non sia quasi mai ricordato per le sue doti da economo, la Roma (“etrusca”) dei Tarquini deve proprio a lui la trasformazione in una delle massime sedi commerciali di tutto il Mediterraneo. Ella infatti aveva contatti e scambi commerciali con numerose altre potenze provenienti da tutto il mondo allora conosciuto.
3. URBANISTICA = Tarquinio il Superbo, pur non partecipando attivamente alla costruzione urbanistica di Roma come fecero i suoi predecessori, Tarquinio Prisco soprattutto e Servio Tullio, contribuì nell’ultimare ufficialmente la costruzione di importanti edifici pubblici come il tempio di Giove Ottimo Massimo e la Cloaca Massima.

Tuttavia, a decretare la fine di questo regno dispotico, contribuì un atto scandaloso direttamente commesso dal figlio Sesto Tarquinio, il quale, invaghitosi della giovane Lucrezia, sposa di Tarquinio Collatino (pronipote di Tarquinio il Superbo), abbandonò l’assedio di Ardea, nel quale era stato mandato dal padre, per far ritorno a Roma e violentare Lucrezia. La ragazza, sconvolta per l’accaduto, raggiunse rapidamente il marito ad Ardea e, in preda al dolore, si suicidò. Mosso da una rabbia furente il marito Tarquinio Collatino e Lucio Giunio Bruto (politico romano inviato da Tarquinio il Superbo in una spedizione al seguito di un oracolo del re, dove apprese che sarebbe stato lui a governare dopo il monarca) giurarono solennemente di non arrendersi fino a quanto i Tarquini non sarebbero stati tutti cacciati dalla città, per vendicare la morte di Lucrezia. I due riuscirono nell’intento, portando il cadavere della giovane nel foro di Roma e pronunciando un solenne elogio funebre che spinse il popolo romano a deporre e cacciare il sovrano dall’Urbe. Una volta esiliato però Tarquinio il Superbo si appoggiò a Porsenna, il tiranno della città di Chiusi, detentore di un forte potere militare; tuttavia l’assedio ordito dai due su Roma fallì, e Tarquinio morì in esilio nel 495 a.C. circa a Cuma, in Campania.

La fine della monarchia su Roma rappresenta un evento fondamentale per la politica dell’Urbe poichè nel 509 a.C., anno della cacciata di Tarquinio il Superbo, venne istituita la repubblica, un sistema di governo compreso nel periodo tra il 509 a.C. e il 27 a.C.. Il cambiamento fu radicale poichè a governare non era più un sovrano assoluto, bensì un’oligarchia aristocratica repubblicana, fondata sul governo di due consoli assistiti nelle decisioni politiche dai senatori. I primi consoli furono proprio Tarquinio Collatino e Lucio Giunio Bruto; essi avevano grandi poteri politici, economici, amministrativi e militari, ma la vera rivoluzione fu la totale estirpazione di un potere regio e tirannico.

Dottrina Monroe di Giacomo Gabellini. Guida alla lettura

Come anticipato sui social qualche settimana fa, l’editore Diarkos mi ha inviato, finalizzata alla produzione di una guida alla lettura, una copia del libro Dottrina Monroe, L’egemonia statunitense sull’emisfero occidentale, di Giacomo Gabellini, con postfazione di Giovanni Armillotta.

Quando ho ricevuto il libro, la prima cosa che ho notato è stata la giovanissima età di Giacomo, classe 85, e la sua attività di “ricercatore indipendente” che è una definizione sempre problematica, perché in quell’indipendenza è i rischi di una deriva poco storico analitica e più propagandistica, sono molto elevati. Il rischio principale, quando ci si imbatte in autori indipendenti (e parlo da autore indipendente) è che questi possano lasciarsi trasportare troppo da una visione soggettiva del mondo e della realtà, andando a costruire una narrazione storica molto di parte.

Mentre mi informavo sul libro e l’autore, ho notato però la postfazione di Giovanni Armillotta che collabora con l’Università di Pisa, e, da ex studente dell’ateneo toscano, che ha ancora contatti con qualche docente, ricercatore e assistenti di ricerca vari, non ci ho pensato due volte, ho fatto una serie di telefonate, ho inviato qualche messaggio, per capire di che persona parlavamo.

Mi sono arrivate risposte positive in merito al lavoro di Armillotta, e questo, per me, è stata una prima garanzia, sapere che la postfazione di questo libro è stata scritta da una persona che, senza giri di parole, sa fare il proprio lavoro di storico, mi ha permesso di affrontare più serenamente la lettura del libro di Gabellini.

Oltre la dottrina Monroe

La prima osservazione che voglio fare è che, visto il titolo, mi aspettavo che il libro avesse come topic principale la Dottrina Monroe, ma non è proprio così, la Dottrina Monroe, è un tema sicuramente centrale, e in un certo senso è il punto di partenza del libro, ma non è l’elemento centrale del libro, poiché Dottrina Monroe è in definitiva una “storia dell’imperialismo americano”.

Avete presente le preoccupazioni accennate poco sopra, a proposito di una narrazione potenzialmente distorta da posizioni e preconcetti soggettivi, che caratterizzano gli autori indipendenti? Ecco, rendendomi conto, con l’introduzione, che che il libro non parlava della Dottrina Monroe, ma di tutt’altra cosa, che si legava alla dottrina Monroe in modo indiretto, la preoccupazione aveva ricominciato a crescere.

In ogni caso, la chiave di lettura del libro, la troviamo nella primissima pagina, prima ancora dell’introduzione, c’è una pagina in cui sono riportate tre citazioni. Una di Simon Bolivar, una di Walter Lippmann ed una di Carl Schmitt. Presentate esattamente in quest’ordine, e su queste citazioni voglio ritornare più tardi, perché, in quanto chiave di lettura del libro, sono fondamentali.

Nella citazione alle pagine di Carl Smith troviamo il cardine del libro. La trasformazione della Dottrina Monroe da strategia difensiva a principio espansionistico, aggressivo e imperialista, degli Stati Uniti, prima sul continente americano e poi nel mondo globale (in parte dopo il 45 e in modo assoluto dopo il 1991).

Questo passaggio, nella prima pagina del libro, ci permette di capire, in modo abbastanza immediato, perché un libro sulla Dottrina Monroe, proclamata nel 1823, quasi due secoli fa, fa da filo conduttore per un saggio che si spinge, praticamente, fino all’altro ieri, arrivando ad affrontare anche i più recenti conflitti che hanno visto l’intervento statunitense (Iraq e Afghanistan).

Struttura del libro

Parliamo del saggio in senso stretto, della sua struttura, della sua organizzazione, del modo in cui è costruito e del linguaggio utilizzato.

Partiamo dall’indice, l’elemento a mio avviso più importante del libro, l’indice è uno strumento fondamentale per la lettura analitica e critica di un libro, e in questo saggio, purtroppo, è data pochissima importanza all’indice che si vede relegato in appendice, nell’ultima pagina, dopo le noti bibliografiche e appena prima di alcuni fogli bianchi.

Indice e capitoli

L’indice passa inosservato, e assume la forma di una mera e banale lista di punti che verranno trattati nel libro, con annesse pagine di riferimento.

In ogni caso, il libro si compone di sette capitoli, più un introduzione, una conclusione e una postfazione.

Sfogliando superficialmente il libro, è difficile, se non impossibile, individuare i vari capitoli, il cui inizio è scarsamente indicato ed è difficile capire se si tratti effettivamente di capitoli o di paragrafi.

Il mio consiglio quindi, prima di iniziare la lettura del libro, munitevi di segnalibri, recatevi nell’indice, individuate l’inizio di ogni capitolo, e marcatelo con un marker adesivo, in questo modo, sarà più facile navigare nel libro.

Restando sui capitoli, il primo capitolo intitolato “Controinsorgenza” è quello più corposo, da solo ricopre quasi un quarto del libro, tuttavia, un capitolo così massiccio, che non è al suo interno articolato in paragrafi e sezioni, è complesso da leggere.

Questo è un elemento che caratterizza tutto il libro, i sette capitoli di cui si compone sono l’unica divisione interna che incontriamo, non ci sono paragrafi ne sottosezioni, solo sette grandi capitoli, che affrontano varie sfaccettature dello stesso tema, che non è la dottrina Monroe ma è l’imperialismo americano.

Il linguaggio del libro

Il linguaggio adottato nel libro non è dei più semplici, ma neanche dei più complessi. L’autore è sovente utilizzare lunghi paragrafi ricchi di subordinate, che possono creare confusione se non si presta particolare attenzione. Nel complesso però, il testo risulta scorrevole e non particolarmente ostico.

Dentro la Dottrina Monroe

Come anticipato, il libro Dottrina Monroe, L’egemonia statunitense sull’emisfero occidentale di Giacomo Gabellini, non è un saggio sulla dottrina Monroe, si tratta in vero di una Storia dell’imperialismo americano che comincia proprio con la dottrina Monroe e si articola per oltre due secoli di storia americana, dove per americana si intende del continente americano.

La prima cosa che leggiamo, aprendo il libro, sono tre citazioni, e di queste, la prima citazione che incontriamo è di Simon Bolivar, per essere più precisi, nella prima pagina del libro leggiamo:

Gli Stati Uniti sembrano destinati dalla Provvidenza a piegare con la fame e la miseria l’America intera in nome della libertà

Simon Bolivar

Queste parole di Bolivar appaiono per la prima volta nel 1815, durante l’esilio del Liberator, in Giamaica, in quella che è nota come “lettera guatemalteca” pubblicata sulla Royal Gazzette di Kingston, ed hanno, per gli studiosi dell’America latina, un valore profetico, non solo perché precedono la stessa dottrina Monroe (risalente al 1823) ma anche perché anticipano, di diversi decenni, quello che sarebbe stato l’imperialismo americano. L’impressione errata che possiamo avere da questa citazione è che, sembra quasi come se Bolivar, più di Monroe, avesse dettato la futura linea d’azione degli Stati Uniti.

Siamo però nel 1815 quando appaiono queste parole, e gli Stati Uniti sono tutt’altro che interessati ad una politica espansionista, stanno ancora facendo i conti con i propri squilibri interni e soprattutto, non è ancora iniziata neanche l’espansione verso ovest. Non c’è nulla, nel 1815, che possa far pensare a degli Stati Uniti imperialisti se non la loro natura totalmente borghese.

Aprire dunque il libro con una citazione a Simon Bolivar che precede la dottrina Monroe, per parlare del futuro imperialismo americano, è a mio avviso, anacronistico. Tuttavia, la presenza di questa citazione, ci aiuta ad individuale gli elementi del libro da cui stare in guardia e prendere con le pinze.

Il libro ha una posizione critica nei confronti dell’imperialismo americano, un criticismo dal quale è bene stare in guardia.

Le tre citazioni presenti nella pagina di apertura, ci forniscono uno sguardo d’insieme, da tre punti di vista diversi, sull’imperialismo americano. Il primo è lo sguardo profetico di un uomo che non ha ancora avuto modo di conoscere effettivamente questo imperialismo, il secondo, è uno sguardo introspettivo, di un giornalista statunitense, con posizioni controverse e critiche nei confronti della politica estera ed interna degli USA, e il terzo, è lo sguardo distaccato ed esterno, di Carl Schmitt, che assiste con i propri occhi alla massima espressione dell’imperialismo americano durante gli anni della guerra fredda.

La questione latino americana e la Dottrina Monroe

Il libro di Gabellini, occupandosi principalmente dell’imperialismo americano, non può fare a meno di guardare, con estrema attenzione, dedicandogli moltissimo spazio, alla questione latino americana. Terreno privilegiato dell’imperialismo formale e informale degli USA.

Il libro guarda con attenzione all’America meridionale e alle compagnie petrolifere, e multinazionali agricole. Guarda allo sfruttamento delle risorse dei paesi latinoamericani a vantaggio degli USA. In particolare guarda al Venezuela e a Cuba.

Fornisce un quadro d’insieme molto ampio, ricco di riferimenti concreti e fonti citate direttamente nel testo, particolare che ammetto di aver apprezzato molto.

Proprio in merito alla questione latinoamericana possiamo osservare da vicino la metamorfosi interna della dottrina Monroe, che, come anticipato da Carl Schmitt nella citazione in apertura al libro, si trasforma, e passa dall’essere una strategia “difensiva” a strumento e principio espansionista soprattutto nel continente americano.

Il mondo latino americano fa da sfondo al libro e all’imperialismo americano ben più delle decisioni prese a Washington e sul campo nelle varie operazioni militari ed economiche. L’America latina è il grande laboratorio dell’imperialismo che avrebbe fornito agli USA gli strumenti e le strategie da adottare anche in Europa, Asia e Africa, per il consolidamento della propria egemonia e, per citare Robert Kagan in Paradiso e Potere, ha permesso agli Stati Uniti di appuntarsi da soli la stella di sceriffo sul petto prima di promuoversi come garanti della sicurezza globale.

Fonti bibliografiche di Dottrina Monroe

Apro un ultima parentesi in merito alle fonti e al loro utilizzo in questo saggio.

Ho apprezzato molto il fatto che la maggior parte di esse venissero citate direttamente nel testo, ma allo stesso tempo, ho faticato molto ad orientarmi nello stesso vista la totale assenza di note bibliografiche.

Purtroppo, quando cita qualcosa o qualcuno, l’autore è molto vago. Le stesse citazioni dirette presenti nella prima pagina del libro, non presentano riferimenti bibliografici diretti.

Come già detto, la prima cosa che leggiamo aprendo il libro è una frase di Simon Bolivar, ma il libro non ci dice dove o quando questa frase è stata pronunciata o scritta. Lo stesso per quanto riguarda la citazione a Lippmann e Schmitt, che incontriamo in apertura, ma di cui non abbiamo riferimenti.

Sappiamo, dalle note bibliografiche, che l’autore ha consultato diversi libri di Schmitt, più precisamente Le categorie del “politico”, Il concetto di impero nel diritto internazionale, terra e mare, teoria del partigiano, dialogo sul potere e stato, grande spazio, nomos. Nei riferimenti bibliografici, in appendice al libro, troviamo citate sei opere di Carl Smith, ma non ci viene detto in che modo, o dove queste opere sono state utilizzate nel libro. Non ci viene detto, a meno che non andiamo a leggere queste opere, la citazione a Schmitt, nella prima pagina, da quale di queste opere è stata presa.

E questo rende estremamente difficile capire se e quanto le varie fonti sono state effettivamente utilizzate, e quanto invece possono essere state decontestualizzate.

Ritorno all’esempio di Simon Bolivar, le cui parole sono effettivamente estrapolate dal contesto e poste in essere in apertura di un libro che affronta un tema estraneo allo stesso bolivar. In altri termini, Bolivar è citato in modo anacronistico per favorire la fruizione di un concetto.

Conclusione

Dottrina Monroe di Giacomo Gabellini è un libro particolare, complesso, interessante, confuso e problematico.

L’autore utilizza un linguaggio semplice e una scrittura fluida, si legge bene e velocemente, e cosa più importante, non richiede particolari conoscenze preliminari.

Si tratta tuttavia di un libro non adatto ad un pubblico generalista, poiché i temi trattati possono condurre a facili fraintendimenti.

L’autore si guarda bene dal dare giudizi affrettati e, a scanso di equivoci, non sembra esserci volontà politica nella narrazione. Il tema trattato è un tema politico, e ciò implica, inevitabilmente, che determinate letture possano in un modo o nell’altro influenzare il giudizio dell’autore, tuttavia, Gabellini si sforza di essere il più possibile oggettivo e superpartes nella ricostruzione degli avvenimenti. Anteponendo una narrazione fattuale a eventuali giudizi di merito e demerito che, fortunatamente, e contro ogni previsione vista la prima impressione data dal libro, sono completamente assenti.

In definitiva, consiglio la lettura, ma raccomandando al lettore di stare sempre in guardia, ma questa è una costante che ogni lettore storico dovrebbe attuare in ogni lettura, fosse anche la società feudale di Marc Bloch

Le sinistre occidentali devono smettere di parlare al posto degli ucraini

Le sinistre occidentali devono smettere di parlare al posto degli ucraini.

Verissimo.

Io avrei aggiunto anche, le destre occidentali devono smettere di fare i “pacifisti” col culo degli altri.

Per parafrasare Norberto Bobbio sul tema della guerra giusta, bisogna definire il concetto di giustizia. Sul piano morale la guerra non è mai giusta, nessuna guerra lo è, perché nel momento in cui si uccide qualcuno, fosse anche Hitler, si è fuori dalla giustizia, tuttavia, si può parlare di guerra giusta sul piano legale, legittimo.

Bisogna chiedersi quali guerre sono giuste nel senso di legittime/legali?

Nel mondo in cui viviamo esiste solo un tipo di guerra “legale” ed è la guerra autorizzata dal diritto internazionale per il quale solo la guerra “difensiva” è legittima.

Va da se che, se una nazione invade un’altra nazione, la nazione invasa ha il diritto (legale) di difendersi.

Questo diritto deve essere poi formalizzato dall’ONU che però si ritrova a dover fare i conti con il Consiglio di Sicurezza, in specie quando l’invasione è iniziata da uno dei suoi membri permanenti, Vedi Afghanistan, Tibet o Ucraina, in questi tre casi, rispettivamente gli USA, la Cina e la Russia, hanno sfruttato il proprio potere “giuridico”, mi viene da dire abusato del proprio potere giuridico, per frenare il corso della legalità ed impedire a chi aveva il diritto di difendersi, di essere difeso.

In questo USA, Russia e Cina sono uguali, non vi è differenza alcuna, ed è ipocrita difendere a spada tratta l’uno o l’altro a seconda dei casi.

Al di la della legalità formalizzata tuttavia, il diritto alla legittima difesa non può mai essere negato, anche se non sono rari i casi in cui questo diritto è stato aggirato, sfruttando il concetto di terrorismo, così gli invasori si raccontano al mondo come liberatori, gli USA “liberano” l’Afghanistan dai terroristi talebani, la Russia “libera” l’Ucriana dai terroristi neonazisti, la Turchia “libera” l'”inesistente” Curdistan dai terroristi del PKK, Israele “libera” la Palestina dai terroristi di Hamas, e così via.

In questo caos generale l’ente della legittimità internazionale, l’ONU è messo all’angolo, ed i singoli attori, si appuntano da soli, di volta in volta, la stella dello sceriffo sul petto, promuovendo se stessi come i “tutori” di una pace mondiale, ma uno sceriffo non eletto e non nominato da nessuno, che si appunta da solo la stella sul petto e decide di essere lui il garante della giustizia, non è altro che un bandito che si atteggia a giustiziere.

Ecco allora che abbiamo un immagine chiara di queste realtà, direttamente dal mondo dei fumetti, un immagine in cui dei Vigilantes, agiscono illegalmente, per il proprio distorto senso di giustizia, spingendosi la dove la “giustizia” o meglio, la “legalità” non può arrivare, perché il sistema è corrotto e imbriglia le autorità tra mille vincoli burocratici.

Questi Vigilantes potrebbero essere degli eroi, dei servi della giustizia reale, tuttavia c’è un enorme problema a monte, poiché sono quegli stessi Vigilantes a gettare le basi e costruire quel sistema corrotto che rende necessaria la loro presenza nel mondo.

C’è un inequivocabile e innegabile conflitto di interessi nell’ONU, in specie quando paesi come Russia e USA sono sotto accusa. In un analogia con un tribunale essi sono simultaneamente giudice, giuria e imputato e questo dona loro un’inevitabile immunità che legittima o meglio, oscura l’illegalità delle loro azioni sconsiderate e pericolose.

Hitler non voleva la guerra?

In risposta al video in cui anche Barbero dice che Hitler non voleva la seconda guerra mondiale, dirò due cose.

La prima, se non vuoi una guerra non cominci una guerra e il post potrebbe chiudersi qui.

La seconda più articolata parte da una riflessione sul “cosa si intende per non voleva una guerra”.

è chiaro che Hitler, come nessun altra persona al mondo, non volesse una nuova guerra mondiale e sperasse di non dover combattere, ma, era perfettamente consapevole che, le pretese della Germania su gran parte dell’Europa orientale prima o poi avrebbero messo in moto un meccanismo bellico.

Hitler alla guida della Germania aveva due strade, la prima, evitare la guerra che non voleva, contenendo i progetti espansionisti della Germania, e la seconda, portare avanti quell’espansione che sapeva perfettamente, prima o poi, avrebbe innescato una guerra.

Hitler sceglie la seconda strada, e nel farlo prova a cercare delle “garanzie” per evitare un conflitto. Una di queste garanzie è il patto di non belligeranza con l’URSS, con cui, trova un intesa sui “limiti” dell’espansione tedesca. Limiti che però, la stessa Germania, non troppo tempo dopo, deciderà di non rispettare, e romperà quel patto di non belligeranza.

Rompe un intesa, un trattato internazionale in cui ci si era impegnati a non farsi la guerra e inizia una guerra contro l’URSS con l’operazione Barbarossa.

Certo, nel 1941 la seconda guerra mondiale in un certo senso era già cominciata, ma è proprio la rottura del patto di non belligeranza tra Germania e URSS da parte della Germania a dare al conflitto quella reale dimensione internazionale.

Quella rottura sarà la leva che permetterà ad UK, USA e URSS di ricominciare a dialogare sulla guerra, dialogo che porterà nel 43 alla conferenza di Teheran, e poi alle conferenze di Yalta e Potsdam nel 45.Trascinando forzatamente l’URSS nella seconda guerra mondiale, intesa come la grande guerra tra le forze dell’asse e il resto del mondo, la Germania ha reso quello che era un insieme di conflitti in giro per il mondo, il secondo atto della grande guerra o se preferite, la seconda guerra mondiale.

Tra il 38 ed il 41, se da un lato Hitler “non voleva una guerra mondiale” dall’altro, non ha fatto nulla per evitare che ci fosse un conflitto mondiale, ma anzi, al contrario, come disse Goebbels già nel 1940, la Germania si è organizzata e preparata ad una guerra e solo quando era pronta a sfidare il mondo intero allora la guerra è cominciata.

Più precisamente Goebbels disse, parlando di francesi e britannici “Solo quando ormai eravamo in porto, e armati bene, meglio di loro, allora hanno cominciato la guerra!”.

Queste non sono le parole di un ministro della propaganda che “non vuole la guerra” queste sono le parole di un ministro che sa perfettamente che la Germania ha messo in gioco tutte le risorse necessarie per una guerra mondiale.

Dire che Hitler non voleva una guerra mondiale è errato, bisogna dire che Hitler sperava di poter agire impunemente ed evitare una guerra mondiale, ma non ha fatto nulla per evitarlo e anzi, ha fatto il possibile perché quella guerra iniziasse, e se fai di tutto per dar inizio ad un conflitto e rifiuti ogni possibile alternativa a quel conflitto, forse, quel conflitto che ti attendi, lo vuoi, lo desideri.

Orsini: “Ucraini come i partigiani? Allora anche i talebani.” e in effetti…

Durante un intervento nella trasmissione Cartabianca di Rai Tre, il professor Alessandro Orsini ha dichiarato che

“Se paragoniamo la resistenza ucraina a quella dei partigiani in Italia, servono motivazioni molto forti affinché io non debba paragonare ai partigiani”

Ha poi aggiunto

“Se il principio è che tutti coloro che resistono rispetto ad un invasore straniero sono come i partigiani italiani, allora anche i talebani che resistevano all’invasione americana sono come i partigiani”.

Incredibile ma vero, anche se non era sua intenzione il professor Orsini ha finalmente detto qualcosa di sensato e perfettamente in linea con la “teoria del partigiano” espressa da Carl Schmitt nel saggio “Theorie des Partisanen. Zwischenbemerkung zum Begriff des Politischen” del 1963.

Ora, Orsini dice ciò in modo provocatorio, il suo intento è quello di fare un esempio per assurdo, tracciare un analogia sul negativo e associare i combattenti ucraini ai talebani afgani che, nella retorica occidentale sono dei terroristi e non dei partigiani.

Tuttavia, sul piano teorico e concettuale fallisce, sul paino comunicativo e narrativo purtroppo il discorso è più complesso, ecco perché ho deciso di scrivere questo intervento e sintetizzare alcuni concetti e analisi già espresse qualche anno fa in un articolo pubblicato su notiziegeopolitiche, intitolato Combattenti irregolari: Terorristi, partigiani e rivoluzionari a confronto.

Talebani, terroristi o partigiani?

In breve, anche se siamo abituati all’analogia “Talebani = Terroristi” questa analogia è fondamentalmente errata ed è frutto esclusivo della propaganda occidentale, o per meglio dire, statunitense.

De facto, i Talebani, finché sono Afgani che combattono in Afghanistan contro un invasore straniero (di qualunque nazionalità), in questo caso Stati Uniti e prima di loro URSS, che hanno deciso, in maniera arbitraria e unilaterale di imporre in Afganistan il proprio modello culturale, sono, per quello che è il concetto di Partigiano, dei Partigiani, senza se e senza ma.

Per essere più precisi, durante il conflitto, sono de facto combattenti irregolari, senza un particolare inquadramento, nel senso che sono contemporaneamente, terroristi e partigiani.

Lo sono perché durante il conflitto la differenza sostanziale tra civili in armi che combattono con mezzi e strumenti irregolari e in modo asimmetrico contro un nemico meglio armato, è solo ed esclusivamente lo schieramento. Se dei civili in Afghanistan o in Ucraina, combattono più o meno direttamente con l’Afghanistan o l’Ucraina contro l’aggressore straniero, sono per l’Afghanistan o l’Ucraina dei partigiani, ma per l’aggressore sono terroristi.

Carl Schmitt, nella teoria del partigiano ci dice che il concetto di partigiano è un concetto estremamente aleatorio, proprio come il concetto di “rivoluzionario” (non apro questa parentesi o l’articolo non finirà più) esso si definisce pienamente solo alla fine del conflitto e in base all’esito del conflitto, ma, durante il conflitto, tutti i combattenti irregolari, sono, da una parte e dall’altra, rispettivamente partigiani/rivoluzionari o criminali/terroristi.

Per fare un esempio pratico, i nostri partigiani, coloro che dal 43 al 45 combatterono contro le forze di occupazione nazifasciste, oggi sono considerati partigiani e non terroristi, ma questo perché banalmente sono loro che hanno “vinto” la guerra civile italiana, se le cose fossero andate diversamente e in Italia avesse trionfato la Repubblica Sociale Italiana, i nostri partigiani sarebbero considerati dei terroristi, perché all’epoca erano considerati dei terroristi dal Terzo Reich e dalla RSI, mentre i membri della RSI sarebbero i nostri partigiani.

In altri termini, durante un conflitto, i combattenti irregolari sono considerati terroristi da una parte o dall’altra e allo stesso modo sono considerati partigiani, da una parte o dall’altra.

Nel caso specifico dell’Ucraina e del Donbass, i combattenti filorussi del Donbass sono considerati terroristi dal governo Ucraino e Partigiani dal governo Russo, mentre i combattenti ucraini (come ad esempio i membri del battaglione Azov) sono considerati partigiani dall’Ucraina e terroristi dalla Russia e in questo preciso momento storico sono entrambi entrambe le cose. Ma cosa effettivamente solo o meglio, come effettivamente verranno ricordati dalla storia, potrà definirlo soltanto la fine della guerra e la collocazione geopolitica della regione. In altri termini, se il conflitto si chiuderà con una vittoria russa e il passaggio del Donbass sotto la protezione di mosca, i membri del battaglione Azov, per rimanere sull’esempio, saranno considerati, in quella regione, terroristi, e probabilmente nel resto del mondo degli eroi dell’Ucraina, diversamente, se la guerra si concluderà con un trionfo ucraino che manterrà il controllo dell’area del Donbass, verranno considerati partigiani nella regione e terroristi in Russia.

Che cos’è un partigiano ?

Il concetto di partigiano combe abbiamo visto è estremamente aleatorio e soprattutto, soggetto a cambiamenti politici, quelli che oggi sono partigiani, con un cambio di regime possono diventare terroristi e quelli che oggi sono terroristi, con un cambio di regime possono diventare patrioti o partigiani. Basti guardare all’Afganistan dove i Talebani sono passati da liberatori dell’Afghanistan a terroristi ed ora che sono nuovamente al governo sono di nuovo dei “patrioti”.

In ogni caso, per definizione, un partigiano è un combattente (irregolare) che combatte in casa propria contro un invasore straniero, a tal proposito, nella sopracitata Teoria del Partigiano, Schmitt li definisce “sentinelle della terra” proprio per indicare il loro legame naturale con la terra, con quella terra in cui combattono e per cui combattono.

Il partigiano definito da Smith, conosce come il palmo della propria mano la terra in cui combatte ed è in grado di sfruttarla alla perfezione, questo si applica ai partigiani Italiani durante guerra civile italiana, ai vietcong durante la guerra del Vietnam, ai Mujahideen prima e Talebani poi in Afghanistan e ora ai combattenti ucraini.

Il partigiano conosce il territorio e i suoi abitanti ed ha un profondo legame con i suoi abitanti, perché in linea di massima è anch’egli un abitante di quella regione, che combatte non troppo lontano da casa e va a stringere un rapporto quasi simbiotico con chi rimane nei villaggi perché non può combattere, un rapporto che porta ad una protezione reciproca. Chi è in grado di combattere lo fa clandestinamente, sfruttando il territorio a proprio vantaggio, chi non è in grado di combattere protegge i segreti e l’ubicazione dei propri cari che invece stanno combattono, e questo legame da loro la forza di resistere all’oppressione, alle minacce, alle torture e gli eccidi, allo stesso tempo da loro la forza di rispondere a queste aggressioni.

Resistenza Ucraina è come la resistenza Afgana?

Andiamo quindi in conclusione.

Alessandro orsini traccia un parallelo tra la resistenza ucraina ed i Talebani ed è proprio qui che si configura l’errore atroce, indegno per una persona che ricopre la posizione di Orsini.

Un’analogia concreta e corretta è da fare tra la resistenza Ucraina e la resistenza Afgana e in questa non c’è alcuna differenza, entrambe sono legittime perché si tratta di una resistenza formata da civili in armi di una determinata nazione che combatte contro un invasore straniero, sia esso l’URSS negli anni 80, gli USA negli anni 2000 o la Russia negli anni 20 del ventunesimo secolo, il popolo aggredito da una nazione straniera è legittimato a difendersi, senza se e senza ma.

Indicare i Talebani come espressione totale della resistenza afgana è errato, perché salvo alcune eccezioni in alcune regioni, i talebani non sono sentinelle della terra, non sempre hanno un profondo legame personale con il territorio in cui combattono, in alcuni casi combattono in regioni lontane dalla propria terra d’origine, allo stesso tempo però anche il parallelo tra talebani e terroristi è errato.

I talebani sono considerati terroristi, dal mondo occidentale, per ragioni prevalentemente politiche, e non pratiche, all’atto pratico però, sono dei combattenti irregolari schierati su un fronte opposto a quello “occidentale”.

Il fatto che i Talebani, abbiano compiuto attacchi in Afghanistan contro soldati stranieri, più precisamente statunitensi, (la cui presenza in Afghanistan non era prettamente legale) li rende terroristi solo per gli USA e i suoi alleati, ma non per la popolazione civile afgana. Ciò che li rende tecnicamente, non solo politicamente, terroristi, non sono gli attacchi contro i soldati occidentali in Afghanistan, ma gli attacchi contro i civili afgani o attacchi irregolari compiuti oltreconfine.

In altri termini, un autobomba al mercato afgano messa lì dai talebani è un attentato terroristico, un autobomba che si si fa esplodere nei parcheggi sotterranei di un edificio a New York è un attentato terroristico, un autobomba che colpisce un mezzo blindato statunitense, diretto in un villaggio afgano, mi dispiace dirlo, ma non è un attentato terroristico, ma è un atto di guerriglia, di guerra asimmetrica, di guerra irregolare.

Articolo 11 costituzione Italiana

costituzione italiana

Apro una piccola parentesi sul tema dei limiti della difesa e gli attacchi oltreconfine, almeno per quanto riguarda l’Italia. Su questo punto entra infatti in gioco l’articolo 11 della costituzione italiana la cui articolazione definisce dei limiti ben precisi all’utilizzo della forza.

L’articolo recita

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

In questo articolo, primo articolo della costituzione dopo i principi fondamentali, e per questo dotato di grande rilevanza e solennità, non si dice solo che l’Italia ripudia la guerra, ma si definiscono in modo estremamente chiaro e preciso i motivi di questo ripudio, in altri termini, si dice che tipo di attività belliche sono ripudiate dall’Italia e quali invece sono tollerate.

L’articolo si apre dicendo che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.

L’Italia in altri termini, ripudia le guerre offensive e ripudia l’uso della forza per risolvere dispute internazionali, non ripudia la guerra come strumento di difesa, non ripudia la legittima difesa di un popolo di fronte ad un aggressione straniero e anzi, in determinate circostanze, quando un popolo viene aggredito, l’Italia promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte alla difesa e tutela dell’aggredito, mai dell’aggressore.

Questo articolo, scritto all’indomani della seconda guerra mondiale, vede una fortissima influenza dei reduci del Comitato di liberazione nazionale e dei movimenti antifascisti dell’epoca, perfettamente consapevoli che, una resistenza non armata ad un aggressore armato, era ed è, purtroppo, inefficace.

Nel caso specifico della guerra in Ucraina quindi, l’Italia ripudiando la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come strumento di risoluzione alle controversie internazionali, è tenuta ad esprimere, senza se e senza ma, una forte condanna all’aggressione perpetuata dalla Russia, un offensiva che limita la libertà del popolo ucraino, determinata dalla volontà russa di porre fine ad una controversia internazionale, più precisamente una disputa territoriale relativa alle regioni del Donbass e della Crimea.

Allo stesso tempo però, l’Italia, promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a produrre un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni.

L’Italia dunque, per la propria costituzione, ha il dovere di aiutare l’Ucraina a difendersi, ma questa difesa ha un limite che coincide con i confini stessi dell’Ucraina. L’Italia può aiutare l’Ucraina a respingere gli invasori russi fuori dai propri confini, ma non può sostenere, in alcun modo, l’avanzata ucraina oltre i propri confini e non può sostenere attacchi ucraini in territorio Russo.

L’evoluzione del concetto di guerra giusta

Nessuna guerra è giusta, scriveva Norberto Bobbio nel saggio “una guerra giusta”, ma, esistono guerre legittime, legittime nel senso di legali.

Bobbio sosteneva a ragione, che, per il diritto internazionale, le sole guerre “giuste” nel senso di legittime/legali fossero le guerre di “legittima difesa”, ovvero quei conflitti nati dalla necessità di difendersi da un aggressione o aggressore.

Questo concetto è stato poi distorto nei primi anni duemila con la creazione del concetto di “guerra preventiva” in cui si utilizzava la retorica della guerra difensiva come giustificazione per un aggressione contro una minaccia che ancora non aveva fatto la propria mossa.

La guerra condotta da Putin in Ucraina, rientra in quest’ottica, è una guerra offensiva, di invasione, giustificata come una guerra difensiva.

Nel dibattito politico che sta avvenendo in queste settimane, molti si sono schierati “contro la guerra” in una forma a mio avviso discutibile.

Nel senso, un politico che da sempre sostiene il diritto alla legittima difesa e promuove la liberalizzazione della vendita delle armi nel nostro paese, che d’improvviso si risveglia “pacifista” e contro ogni forma di violenza, è alquanto surreale, soprattutto se, nel proprio schierarsi a favore della pace, e ripudiando l’idea di fornire armi alla popolazione ucraina, poi parla di fuga dall’Afghanistan.

Come puoi essere a “favore della pace” se difendi l’occupazione illegale da parte di uno stato sovrano ai danni di un altro stato sovrano?

Per poi appellarsi ad uno spirito cristiano, che lo spinge ad opporsi alle forniture militari alla popolazione Ucraina.

Fatemi capire, in Afghanistan si possono inviare soldati armati e mezzi, in Iraq si possono inviare soldati e armi, si deve applaudire all’assassinio di un alto funzionario Iraniano ad opera delle forze armate USA, ma, non si devono inviare armi agli Ucraini che vedono il proprio paese invaso e occupato da migliaia di soldati stranieri?

C’è una profonda incoerenza e disonestà intellettuale in queste posizioni, oltre ad una profonda ignoranza del concetto stesso di “bellum iustum” (guerra giusta).Questo concetto ha una lunga storia evolutiva che ha attraversato la storia occidentale dal mondo greco romano ad oggi e non sono pochi i filosofi e teorici cristiani che si sono interrogati su questo concetto.

A tal proposito, Agostino d’Ippona, noto anche come Sant’Agostino, osserva che, contrariamente al vangelo di Matteo in cui c’è una presa di posizione di totale distacco dall’uso della forza, nel vangelo di Luca, è presente un racconto in cui dei soldati romani chiesero al Battista se dovessero deporre le armi una volta battezzati e, il battista, nella sua risposta invitò loro alla moderazione, senza però imporre loro di abbandonare le armi.

Segue un estratto della mia tesi di laurea magistrale sul dibattito occidentale relativo ai conflitti del golfo e dei Balcani negli anni novanta.

Parte Seconda, Capitolo Primo sull’evoluzione del concetto di guerra giusta.

Gli anni novanta furono inaugurati dalla fine della guerra fredda e della pace armata tra il mondo occidentale e l’unione sovietica.

Dalle ceneri di questo conflitto, in un certo senso anomalo rispetto al tradizionale concetto di guerra, i leader mondiali cercarono di costruire, grazie alle Nazioni Unite, un nuovo ordine mondiale che puntasse al superamento della guerra in un mondo sempre più interconnesso ed interdipendente in cui, come già avvenuto durante gli anni della guerra fredda, si sarebbe assistito ad un sempre minore numero di scontri tra le nazioni, tuttavia questo non significato la fine della guerra né la fine della storia, al contrario, la fine della guerra fredda avrebbe segnato la nascita di un nuovo tipo di guerra che si sarebbe strutturata e definita lungo tutti gli anni novanta.

I dibattiti che accompagnarono i due grandi conflitti dell’ultima decade del ventesimo secolo, riportarono alla luce le “antiche” teorie sulla guerra giusta, le cui radici possono essere ritrovate già nella Politica di Aristotele.

Il concetto di guerra nel mondo romano cristiano

In epoca romana che aveva fatto la sua apparizione il termine “bellum iustum”, inizialmente utilizzato per indicare una guerra dichiarata attraverso una complessa serie di procedure giuridico-religioso e solo in un secondo tempo, con l’avvento del cristianesimo e di Agostino di Ippona, il concetto di bellum iustum sarebbe stato rielaborato in senso etico e adattato ai precetti nonviolenti dei testi evangelici, dimostrando in questo modo che, anche se nel vangelo di Matteo era presente una netta presa di posizione contro la violenza e l’uso delle armi, nel vangelo di Luca, Giovanni Battista avrebbe invitato i soldati che gli chiesero consiglio alla moderazione, senza però imporre loro di abbandonare le armi.

L’obiettivo di Agostino era quello di dimostrare che anche i cristiani potevano combattere, scongiurando così la tesi secondo cui il cristianesimo avesse indebolito lo spirito guerriero dei romani provocando la crisi dell’impero stesso.

La questione riguardante la possibilità, per i cristiani, di combattere, sarebbe tornata in auge con la filosofia scolastica medievale.

Secondo il pensiero di Tommaso d’Aquino infatti, la guerra era inserita tra i peccati contro la carità e la pace, tuttavia in determinate condizioni la guerra poteva essere lecita.

Diversamente da Tommaso d’Aquino, che colloca la teoria della guerra giusta sul terreno della teologia, nel sedicesimo secolo, Francisco de Vitoria avrebbe ricollocato la teoria della guerra giusta nel terreno del diritto, legandola alla questione della legittimità della conquista spagnola del nuovo mondo.

La posizione di Francisco de Vitoria

Per Vitoria il fatto che gli indios non fossero cristiani non era un’argomentazione sufficientemente valida per legittimare la conquista Spagnola, tuttavia, introducendo il concetto di ius gentium, avrebbe affermato l’esistenza di una comunità globale e questo implicava una serie di diritti, come ad esempio il diritto al predicare il vangelo e il diritto a diventare cittadini.

Per Vitoria la negazione di questi diritti, poteva essere considerata una ragione valida e legittima per intraprendere una guerra che avesse come fine ultimo la difesa di questi diritti universali.

Sempre Vitoria avrebbe individuato un parallelismo tra la guerra difensiva e la legittima difesa individuale, riconoscendo a principi e repubbliche, oltre al diritto alla difesa anche il diritto a rispondere ad una grave offesa.

Tuttavia, in questa ottica, si veniva a creare un pericoloso inconveniente poiché una guerra poteva essere rivendicata come guerra giusta da entrambe le parti.

Per Vitoria ciò era possibile perché, una delle due parti era vittima di un “insopprimibile difetto di coscienza” e questo appariva particolarmente evidente in quelle situazioni di conflitto che contrapponevano la società cristiana al mondo islamico o a quello delle civiltà precolombiane, dove islamici e indios si ritrovavano a combattere una guerra ingiusta credendo tuttavia di essere nel giusto.

Vitoria era però convinto che il principe giusto, ovvero colui che realmente combatteva una guerra giusta, era posto in una condizione nettamente superiore a quella del principe ingiusto, che era impegnato in una guerra non giusta, creando uno squilibrio di potenza tale che, alla fine, avrebbe condotto il principe giusto alla vittoria.

La guerra dopo la pace di Westfalia

Con la fine della guerra dei trent’anni e l’affermazione della pace di Westfalia si sarebbe aperta per l’Europa una nuova fase politica, caratterizzata dalla sovranità degli stati e della loro eguaglianza sul piano giuridico.

Ogni stato europeo dopo Westfalia era delimitato dai confini degli altri stati e all’interno di questi confini, ogni stato era libero di contrapporsi agli altri.

Il riconoscimento di questa auto-limitazione avrebbe trasformato il concetto stesso di guerra, rendendola la massima espressione della vita internazionale.

Da questo momento in avanti, il dibattito filosofico sulla legittimità e la liceità della guerra si sarebbe trasferito definitivamente dal campo teologico al campo giuridico, in questi termini il concetto di guerra giusta fu svuotato da ogni possibile significato etico-morale, e sarebbe stato dal reciproco riconoscimento tra le nazioni europee e questo riconoscimento avrebbe reso, ogni guerra combattuta sul suolo europeo, una guerra giusta, a condizione del fatto che, come avrebbe scritto Ugo Grozio in De iure belli ac pacis, “entrambe le parti che la fanno siano investite nella loro nazione dall’autorità sovrana”.

Con l’avvento dell’età moderna si avverte in Europa un progressivo ritorno al modello romano della guerra, sia nelle modalità con cui si giunge al conflitto, sia nelle modalità con cui lo si affronta.

Diritto alla guerra per Carl Schmitt

Per Carl Schmitt la netta distinzione tra tra guerra e pace, è la distinzione che vi è tra ciò che è interno allo Stato e ciò che ne è all’esterno, tra un nemico ed un amico, e questa distinzione rappresenta il primo fondamento per il diritto pubblico europeo, la cui natura universale avrebbe permesso un progressivo ritorno a forme più ordinate di guerra.

Con l’avvento della modernità, le guerre sarebbero passate dall’essere scontri tra coalizioni feudali, dove un monarca aveva il potere di dar vita ad un esercito convocando i propri vassalli, per diventare scontri tra eserciti mercenari, e successivamente tra eserciti permanenti.

Questo nuovo ordinamento militare avrebbe posto gli eserciti permanenti sotto il diretto controllo dello Stato, che di fatto avrebbe iniziato a detenere il monopolio della forza.

La trasformazione degli eserciti ebbe avuto come effetto diretto la trasformazione stessa della guerra, e con essa, del concetto di guerra giusta, portando all’affermazione, sul finire del XVIII secolo, dell’idea che la guerra fosse un attività di stato, per Carl Von Clausewitz di fatto la guerra era solo la guerra tra stati, si trattava di “un atto di forza che ha per scopo il costringere l’avversario a seguire la nostra volontà” precedente storico di questa concezione della guerra era offerto dall’esperienza romana, poiché ne le guerre tra le città stato greche, ne le guerre combattute in Europa dopo la caduta dell’impero romano, erano vere e proprie guerre tra stati.

Fonti

L. Baccelli, Ritorno a Vitoria? La parabola della “guerra giusta”, in La guerra giusta, concetti e
forme storiche di legittimazione dei conflitti, a cura di L. Baldissara, pp 39-56.
A. Colombo, La guerra ineguale, pace e violenza nel tramonto della società internazionale, Il Mulino, pp 178-181.
M. Kaldor, Le nuove guerre, la violenza organizzata nell’età globale. Carocci editore, 8° ristampa, aprile 2008, Roma, pp 25-41.

400 mercenari della Wagner per assassinare Zelensky

Zelensky è diventato, negli ultimi giorni, il fulcro della resistenza antirussa in Ucraina, non solo un presidente, ma un vero leader, che, nonostante il pericolo, continua a mantenere vivo il contatto con il popolo Ucraino. Un patriota che sceglie di restare in prima linea e non fuggire all’estero o di rifugiarsi in un bunker segreto.

Per fiaccare lo spirito Ucraino, l’ho già detto altre volte, la Russia sta cercando in ogni modo di allontanare Zelensky da Kyiv, i negoziati a Gomel avevano principalmente questo intento, che il presidente ucraino è riuscito ad aggirare, inviando al tavolo, i suoi più stretti collaboratori, mentre lui rimaneva a Kyiv, con il suo popolo.

Non sorprende dunque che, quasi contemporaneamente all’inizio delle negoziazioni, secondo quanto riportato dal Times, siano stati avvistati proprio a Kyiv, diversi mercenari della compagnia militare Wagner.

La ChVK Vagner, è una compagnia militare fondata da Dmitrij Utkin, che si ritiene essere di proprietà di Evgenij Prigozin, un oligarca russo fortemente legato a Putin.

Nonostante la Vagner sia una società privata, il NY Times, soprattutto per il ruolo che ha svolto in Siria, ritiene che la compagnia di mercenari operi per conto del ministero della difesa russa. Una sorta di esercito privato, al soldo esclusivo di Putin.

Non è la prima volta che la Vagner interviene in Ucraina, già nel 2014 i suoi mercenari sono stati schierati dal Cremlino al fianco dei separatisti del Donbass, e, secondo voci non verificate, si ipotizza che la Vagner sia l’eminenza grigia alle spalle dei separatisti.

Tornando a Kyiv, verso le 14 (ora italiana) il Times ha riportato l’ingresso, di circa 400 mercenari della Wagner a Kyiv, in abiti civili.

Si ipotizza che il loro intento sia quello di assassinare il presidente Zelensky approfittando delle sue “uscite” pubbliche, facendo passare l’omicidio come una risposta reazionaria di ucraini “stanchi” della pessima gestione della crisi da parte di Zelensky, sfruttando la retorica della mancata volontà del presidente di trovare un accordo con la Russia e dell’incompetenza occidentale (per usare le parole di Donald Trump).

Una strategia semplice e potenzialmente efficace, ma con un risvolto della medaglia.

La morte di Zelensky per mano di un civile “filorusso” potrebbe avere un doppio esito. Da un lato, nelle mire della Russia, far cadere l’uomo simbolo della resistenza e minare le fondamenta stesse del movimento di liberazione dell’Ucraina.

Dall’altro, qualcosa che Putin forse non ha preso in considerazione. L’assassinio di Zelensky potrebbe accrescere enormemente la sua popolarità, creerebbe letteralmente un martire, un eroe che si è sacrificato per il proprio popolo.

Zelensky diventerebbe un nuovo “che guevara”, e nel suo nome, la resistenza Ucraina, potrebbe trovare maggiore forza e vigore.

Inoltre, l’omicidio di un capo di stato “occidentale”, potrebbe inasprire ulteriormente le posizioni degli alleati dell’Ucraina e rappresentare un causus belli estremamente forte, che potrebbe spingere l’Occidente ad intervenire direttamente nel conflitto.

In ogni caso, nel 2004 Francesco Guccini, in Stagioni, cantava “da qualche parte un giorno, dove non si saprà, dove non lo aspettate, il che ritornerà” … che le sue parole siano profetiche e il nuovo “che” sia nato nell’Ucraina occupata dalla Russia?

Continua a seguire i nostri aggiornamenti, commenti, analisi e verifica delle informazioni sulla crisi in Ucraina, con il nostro Live blog, aggiornato in tempo reale, qui su Historicaleye.

Le Metamorfosi: Apuleio e la favola di Amore e Psiche | CM

L’autore: Apuleio

Lucio Apuleio Madaurense, nato nel 125 d.C. a Madaura e morto tra il 170 e il 180 d.C. a Cartagine, è stato un noto scrittore, filosofo e retore latino di origini nordafricane. Deve la sua notorietà soprattutto alla sua opera di maggiore successo, Le Metamorfosi (Metamorphoseon libri XI), anche conosciuta come L’asino d’oro (Asinus aureus).

Come spesso accade per gli autori classici greci e latini, la maggior parte delle informazioni su questo autore sono ricavabili proprio da egli stesso e soprattutto dalle sue opere, caratterizzate da una spiccata vena esibizionistica ed egocentrica; tratti propri del suo narcisismo. Provenendo da una famiglia piuttosto agiata potè permettersi un buon livello d’istruzione e viaggi in vari Paesi, tra cui Cartagine dove studiò retorica e grammatica, Atene dove si dedicò alla filosofia platonica, e infine Roma, ove fu conferenziere in età più avanzata.

Il personaggio di Apuleio è inoltre connotato da una fervente nota di fascino e mistero, dovuta al suo spiccato interesse per i culti misterici tipici dell’Oriente che lo portarono a occuparsi anche di magia, pratica che gli costò l’accusa di plagio e cattiva influenza per aver sposato una donna molto più ricca e vecchia di lui, madre del suo compagno di studi Ponziano. L’accusa avrebbe anche riguardato l’omicidio del suo amico, esponendo così Apuleio al rischio della pena capitale. Tuttavia egli ricorse alle sue abili doti di retore, e grazie a una celebre orazione fu assolto.

Non abbiamo molte notizie riguardo gli ultimi anni di vita dello scrittore; si sa per certo che si stabilì definitivamente a Cartagine ottenendo un incarico sacerdotale nei confronti del dio curatore Asclepio. Non avendo ulteriori informazioni sulla sua vita dopo il 170 d.C., la morte è collocabile intorno al 180 d.C. circa.

L’opera: Le Metamorfosi

L’opera che maggiormente giovò alla fama di Apuleio fu proprio Le Metamorfosi (titolo latino Metamorphoseon libri XI), anche nota come L’asino d’oro (Asinus aureus), collocabile intorno al II secolo d.C.. Si tratta dell’unico romanzo latino a noi pervenuto, allo stesso modo del Satyricon, a differenza del quale ci è però giunto interamente.

Le Metamorfosi rappresentano un vero e proprio “giallo letterario” per la narrativa latina, tanto che sono ancora attivi numerosi studi e ricerche per operare una corretta catalogazione del’opera, motivo per cui il genere bibliografico risulta ancora incerto e non del tutto classificabile. Molti sostengono che si tratti di una rielaborazione del testo greco pseudolucianeo (opera spuria di Luciano di Samosata) Lucio o l’asino, dal quale avrebbe differenti alcuni elementi minimi come l’estensione della narrazione e l’introduzione alle novelle.

Si tratta di un’opera piuttosto corposa, suddivisa in undici libri, narrante le diverse peripezie di un certo Lucio che verrà anche trasformato in un asino durante le sue numerose prove e avventure. Tuttavia quella dell’asino è solo una delle molteplici peripezie che il giovane sarà costretto ad affrontare prima di raggiungere il tanto sperato lieto fine, per riacquisire infine le fattezze umane grazie a un culto misterico in onore della dea Iside; la presenza della magia e dei riti misterici rappresentano infatti una costante all’interno degli scritti di Apuleio.

Quella di Lucio rappresenta però solamente la novella principale, da cui prenderanno origine numerose altre avventure, fabule e personaggi secondari che andranno a costituire digressioni e deviazioni dalla trama originale, tra le quali possiamo citare la celebre favola di Amore e Psiche. Si tratta infatti di una fiaba a tutti gli effetti, nonchè diretta debitrice della rinomata fabula milesia, una raccolta di novelle perdute a sfondo erotico scritte da Aristide di Mileto, autore greco. Sono infatti evidenti anche i numerosi riferimenti letterari relativi alla cultura greco-latina, come i vasti paesaggi bucolici, e le tipiche caratteristiche orali che rimandano al genere fiabesco.

L’opera estenderà il suo successo non solo alla contemporaneità dell’autore, ma andrà a influenzare numerosi scritti medievali, come il Decameron (specialmente per l’utilizzo dello schema narrativo “a cornice”), e i romanzi barocchi, tipici del ‘700. Tale favola inoltre, per il suo successo e la sua vena amorosa, influenzerà moltissimo anche il mondo dell’arte e della scultura moderna.

La fiaba: Amore e Psiche

Protagonista dell’intera favola, Psiche rappresenta la più giovane, nonchè più bella, delle tre figlie di un re e una regina che vivevano in una città non ben definita. La vicenda della fanciulla ruota intorno al tema della sua straordinaria bellezza, ammirata da tutti e invidiata persino da Venere in persona, la quale incarica il figlio Cupido di far infatuare la ragazza del più abietto degli uomini. L’incarico non riesce però al dio dell’amore il quale, perdutamente innamorato della bellezza della giovane, la rapisce rinchiudendola in un palazzo incantato e passando con lei solamente le notti, impedendole così di vederlo in volto.

Tuttavia la lontananza della fanciulla dalla sua casa si trasforma rapidamente in nostalgia e Cupido, mosso dall’amore per lei, acconsente a farla incontrare con le sue due sorelle che, invidiose del suo sposo misterioso e del magnifico luogo in cui vive, iniziano a tramare contro di lei convincendola persino a uccidere con un coltello il suo sposo mentre dorme. Psiche, ormai persuasa del fatto che si tratti di un orribile mostro, mette in atto il suo piano; ma quando si rende conto che si tratta proprio del dio dell’amore, sconvolta da tale vista, si punge erroneamente con una delle sue frecce, cadendo in un amore folle e disperato per lui.

A quel punto il dio, deluso dalle intenzioni della ragazza, vola via, trascinando Psiche in una incolmabile tristezza per la perdita del suo amato, che ritorna dalla madre Venere la quale, venuta a conoscenza dell’intera vicenda, s’infuria a tal punto da iniziare a cercare Psiche in ogni luogo possibile. Quando la fanciulla raggiunge infine la dimora di Venere, quest’ultima la tortura senza sosta, sottoponendola a terribili prove dalle quali non si sarebbe mai potuta salvare. Tuttavia Psiche riesce a superare ogni ostacolo grazie a un costante aiuto divino che l’accompagna in ogni prova, e a ricongiungersi infine con il suo amato Cupido, da cui nascerà una bambina chiamata Voluttà.

I personaggi: caratteristiche

PSICHE: Se da un lato la giovane fanciulla incarna l’ingenuità, il candore e l’innocenza, dall’altro Psiche dimostra anche una grande personalità e un enorme coraggio, mosso principalmente dal sentimento amoroso per Cupido; infatti attraverso il loro matrimonio, che inizialmente viene vissuto come una tremenda prigionia, Psiche impara ad amare il suo sposo misterioso, grazie a un sentimento vero e sincero, basato sulla fiducia creatasi tra i due amanti. Psiche è inoltre una duplice vittima, poichè se da una parte sarà corrotta dalle cattiverie delle sue sorelle, dall’altra dovrà sopportare le terribili crudeltà che le saranno inflitte da Venere, sua principale nemica. Tuttavia il riscatto della protagonista è assicurato, e la fanciulla riuscirà a dimostrare il suo valore e a ricongiungersi con il suo amato.

“E fu così che l’ignara Psiche, ferendosi di proposito con la freccia divina, s’innamorò di Amore.”

Le Metamorfosi (libro V, 23)

CUPIDO: Sebbene a primo impatto il giovane dio possa sembrare quasi un ragazzino dai tumultuosi desideri lussuriosi, quello che prova per Psiche è un sentimento sincero, tanto che nell’ultima delle prove affrontate dalla giovane, arriverà addirittura a salvarla, mettendo da parte la delusione che provava nei suoi confronti e riscattandosi da tutte quelle accuse mosse verso di lui da parte dell’adirata madre e delle altre divinità. Tuttavia egli (come in ogni fiaba) dovrebbe incarnare il ruolo del giovane eroe mosso dal sentimento amoroso per la fanciulla; tale ruolo viene completamente ribaltato nel momento in cui sarà la stessa Psiche a superare delle prove difficoltose per il suo amato, indossando così delle “vesti” tipicamente maschili.

“Così Psiche divenne sposa legittima di Cupido; e quando giunge il momento del parto nasce una bambina che noi chiamiamo Voluttà.”

Le Metamorfosi (libro VI, 24)

VENERE: Antagonista principale della vicenda, la dea incarna pienamente il sentimento dell’invidia, trasformatasi poi in una rabbia furente. Venere non riesce infatti ad accettare la bellezza della giovane e, non approvando in nessun modo di dover competere con una mortale, cerca con ogni mezzo possibile di eliminarla. Nonostante le divinità vengano spesso rappresentate come benigne e favorevoli verso gli uomini, altrettante volte esse vengono mosse da sentimenti bassi e riprovevoli, al pari degli esseri umani, come avviene in questo caso. Venere infatti non appare mai caratterizzata da sentimenti amabili e gentili; al contrario la sua cattiveria si evolve in un climax, un crescendo di rabbia e odio verso la protagonista.

“Ma davvero si è innamorato della mia rivale in bellezza, di quella che vorrebbe usurpare il mio nome?”

Le Metamorfosi (libro V, 28)

LE DUE SORELLE: Invidiose e meschine, nonostante occupino un ruolo decisamente marginale all’interno della vicenda, le due sorelle di Psiche (i cui nomi sono sconosciuti) intervengono nella fiaba con una notevole influenza, specialmente nei confronti della protagonista. Esse infatti sono quasi da intendersi come le “sorellastre cattive” invidiose della sorella più piccola, più bella e soprattutto più privilegiata. Saranno infatti proprio le loro malelingue a smuovere l’iniziale stato idilliaco della vicenda, influenzando le idee di Psiche, trascinandola verso il baratro e portando Cupido lontano da lei. Tuttavia il lieto fine, come in ogni favola, trionfa, e le due sorelle avranno la fine che meritano.

“L’ordine fu eseguito all’istante: ma nel viaggio di ritorno le care sorelline, rose dal fiele dell’invidia, cominciarono a parlottare fra loro e a sputare veleno sulla sorella minore.”

Le Metamorfosi (libro V, 9)

Papa Formoso: il pontefice “cadaverico” | CM

Inizi della carriera ecclesiastica

Nato a Roma in pieno Alto Medioevo, all’incirca nell’anno 816, da padre Leone e madre sconosciuta, Formoso intraprese fin da subito una formazione strettamente legata al mondo ecclesiastico nel luogo dove nacque e visse per tutta la sua vita. Sappiamo con certezza, grazie all’attestazione di vari documenti, che intorno all’846 fu canonico regolare, e più precisamente venne consacrato vescovo di Porto dal pontefice del tempo, Niccolò I Magno, per poi ricevere la nomina cardinalizia. Il suo stile di vita intransigente e rigoroso gli garantì fin dai primi anni della sua carriera ecclesiastica l’approvazione sia di Niccolò I che di Adriano II, suo successore nella carica pontificia. Era inoltre una figura ammirata e di spicco nel mondo ecclesiastico per le sue numerose doti intellettuali; essendo infatti un grande studioso conosceva sia il greco che il latino.

Noto anche per le sue numerose missioni diplomatiche, Formoso viene ricordato soprattutto per aver persuaso Carlo il Calvo a farsi incoronare sovrano di Francia dal papa tra l’869 e l’872; inoltre il re Boris I fu talmente soddisfatto dell’intervento ecclesiastico di Formoso in Bulgaria tra l’866 e l’867 da richiedere a ben due papi, Niccolò I e Adriano II poi, di nominarlo arcivescovo metropolita della Bulgaria, cosa che entrambi i papi non poterono fare essendo proibito il trasferimento di un vescovo in una sede diversa dalla propria. Tale negazione da parte dei pontefici inasprì notevolmente i rapporti apostolici con la Chiesa bulgara, spingendo Boris I a riportarla sotto l’autorità del Patriarca di Costantinopoli, com’era in passato, distruggendo così tutto l’impegno e il duro lavoro di Formoso per riavvicinare la Chiesa bulgara a quella romana.

Il pontificato

Già parecchi anni prima la sua elezione pontificia ufficiale, Formoso era stato candidato per il soglio pontificio al seguito della morte di Adriano II nell’872; sebbene i suoi sostenitori fossero molteplici, si preferì però optare per l’arcidiacono Giovanni VIII, uno dei massimi esponenti della corrente “filo-francese” e dunque favorevole ai Carolingi occidentali (tra cui Carlo il Calvo e Carlo il Grosso). Formoso rappresentava invece l’opposizione, ovvero il partito “filo-germanico” (a favore dei Carolingi orientali), che gli costò l’accusa di congiura contro lo Stato costringendolo alla fuga da Roma con alcuni sostenitori nell’876. Tuttavia poco dopo Giovanni convocò un concilio nel Pantheon, obbligando Formoso al ritorno nella capitale con la minaccia di scomunica, che fu attuata solo più avanti in un secondo concilio contro di lui e contro tutti coloro che erano con lui. Fu solamente grazie al successore di Giovanni, Marino I, pontefice dall’animo pacificatore e anch’egli “filo-germanico”, che la scomunica venne sciolta a Formoso e a tutti i membri accusati con lui della congiura. Gli venne inoltre riconfermata anche la carica di vescovo di Porto nell’883.

Alla morte del suo predecessore papa Stefano V, protagonista del forte disagio politico che si generò a causa della deposizione di Carlo il Grosso aprendo così la strada al dominio delle grandi famiglie patrizie su Roma, avvenuta nell’891 per cause naturali, poco tempo dopo (precisamente il 6 Ottobre) Formoso venne eletto come 111° papa della Chiesa di Roma all’unanimità del clero. A favorire tale elezione non partecipò solo la clemenza di Marino I, ma anche la fede “filo-germanica” dei suoi subitanei successori, Adriano III e Stefano V. Ciononostante il sostegno non venne solo dalla fazione ecclesiastica; anche Arnolfo di Carinzia, sovrano della parte orientale dei franchi (germanica), e il suo protetto Berengario, marchese del Friuli, appoggiavano Formoso ed erano anche in ottimi rapporti epistolari con lui.

Tuttavia stiamo parlando di un’epoca molto travagliata, in cui l’elezione papale non rappresentava esclusivamente un “rituale” tra cardinali, bensì andava a incarnare una vera e propria battaglia per la spartizione del territorio della Chiesa nello Stato Vaticano. Pertanto tutti coloro che avevano l’appoggio del papa, che stava ormai acquisendo e consolidando con costanza l’universalità dei suoi poteri su tutti i sovrani d’Europa grazie a un lungo e graduale processo (che durerà ancora secoli), potevano contare sull’enorme sostegno morale e spirituale dalla parte ecclesiastica, oltre che su un grande appoggio bellico e politico insieme a una consistente forza di persuasione che egli poteva esercitare su tutti i propri nemici. Tutto questo era possibile solo grazie all’immenso potere che il pontefice stava consolidando mediante un capillare sistema di tassazione, concessioni imperiali, privilegi e diritti territoriali su cui rivendicava un’autorità indiscussa.

La precaria situazione italiana

Fu proprio all’interno degli eventi burrascosi di questo tumultuoso periodo storico che rimase coinvolto anche lo stesso papa Formoso. L’Impero era infatti “spaccato” tra i “filo-germanici” e i “filo-francesi”, e questi ultimi, nonostante fossero stati messi in disparte grazie alla maggioranza “filo-germanica” che sosteneva il pontefice, non avevano intenzione di arrendersi tollerando la fazione vincitrice al potere. Tuttavia le condizioni della Chiesa di Roma erano assai precarie e instabili, poiché per la lontananza dal territorio romano del sovrano Arnolfo e del suo protetto Berengario (che si trovavano in Germania), massimi sostenitori del papa, Formoso fu costretto ad affidare tutta la sua sicurezza esclusivamente nelle mani del duca di Spoleto. La situazione degenerò quando, all’incirca nell’893, il pontefice si ritrovò costretto a rinnovare l’incoronazione imperiale di Guido II di Spoleto. Tale evento fu drammatico per i territori della Chiesa poiché Guido, ormai possessore assoluto del potere imperiale, sfruttava la sua autorità in modo eccessivo, razziando e saccheggiando impunito i territori ecclesiastici.

Roma era così caduta in un quadro d’incertezza, e la guerra civile era inevitabilmente alle porte poiché tali disordini non sarebbero stati tollerati ancora a lungo. Formoso, costretto a ricorrere a misure estreme pur d’intervenire, verso la fine dell’893 mandò dei messaggeri alla corte di Arnolfo supplicandolo, in quanto solo e unico imperatore legittimo, di liberare l’Italia dai cosiddetti “cattivi cristiani” che la stavano distruggendo. Neanche un anno dopo, all’inizio dell’894, Arnolfo varcò le Alpi e, sebbene sembrasse pronto per un attacco diretto contro gli spoletini, la sua fu solo una grande “entrata in scena” (una sorte di “azione dimostrativa”) per guadagnarsi il rispettoso e sottomesso omaggio dei principi dell’Italia centro-settentrionale. Convinto che tutto ciò potesse essere sufficiente a sedare le rivolte, Arnolfo fece allora ritorno in patria, lasciando così che Guido tornasse a compiere tutte le ingiustizie che aveva cominciato.

Tuttavia, verso la fine dell’anno 894, Guido morì colpito da un malessere improvviso, lasciando il figlio Lamberto II solo con la madre Ageltrude, acerrima nemica della fazione “filo-germanica”. Ovviamente Lamberto reclamò subito la corona imperiale del padre, e volle essere incoronato imperatore a Roma con i massimi onori. Nonostante i numerosi tentativi di papa Formoso per prendere più tempo possibile ed evitare così l’inevitabile evento, alla fine si ritrovò costretto dalle circostanze e procedette all’incoronazione. Pochi mesi dopo però, nell’895, Arnolfo varcò nuovamente le Alpi, questa volta deciso a riprendersi il suo legittimo titolo di re d’Italia, spingendo così gli spoletini a giurare odio eterno al papa per il suo tradimento, e incarcerandolo a Castel Sant’Angelo dopo aver strategicamente aizzato la plebe romana contro il pontefice.

In un insostenibile clima di rivolta Lamberto si barricò a Spoleto pronto a combattere, nell’attesa dell’imminente arrivo di Arnolfo, mentre la madre Ageltrude continuava a fomentare il popolo e soprattutto gli spoletini verso la rivolta ormai prossima. Ella si ritrovò però costretta alla resa, poiché le truppe di Arnolfo ebbero la meglio, e dovette tornare a Spoleto per nascondersi. Papa Formoso venne così liberato grazie ad Arnolfo, che iniziò subito una decisa marcia verso Spoleto, pronto ad affrontare Lamberto e la madre nello scontro decisivo. Tuttavia il suo viaggio fu breve; Arnolfo, poco dopo essere stato incoronato nuovamente imperatore da Formoso, venne colpito da una grave paralisi che lo costrinse a un rapido ritorno in Germania, dove morì poco dopo (nell’899) lasciando “campo libero” al suo avversario Lamberto per solo un anno, quando anch’egli morì improvvisamente rompendosi il collo per una brutta caduta da cavallo durante una battuta di caccia.

La morte e il “sinodo del cadavere”

Formoso, ormai ultraottantenne, morì pochi anni prima della fine di tali eventi bellici che colpirono l’Italia in quel periodo, il 4 Aprile dell’896. Appare dunque quasi scontato affermare che la morte lo salvò dalle altrimenti inevitabili rappresaglie dei suoi avversari. Non sappiamo però se si tratti di una morte naturale, probabilmente dovuta all’età avanzata, o di un avvelenamento premeditato da parte dei suoi numerosi nemici. Venne infine sepolto nel recinto del Vaticano, dove vi rimase per neanche un anno (solamente 9 mesi) prima che venisse riesumato e sottoposto a un duro processo post-mortem.

Quello che accadde dopo al cadavere di papa Formoso ha dell’incredibile; circa un anno dopo la sua morte, nell’897, la casata spoletina, che continuava a fomentare un fortissimo odio verso il pontefice per essere stata rinnegata dal papa e per aver chiamato in Italia un sovrano straniero con tutto il suo esercito al seguito, impose al nuovo pontefice da loro eletto, Stefano VI (ovviamente non “filo-germanico”), di istituire un elaborato processo post-mortem verso Formoso, affinché tutti i membri ecclesiastici romani lo condannassero come unico traditore della patria. Tale processo prenderà il nome di “sinodo del cadavere” o “concilio cadaverico”.

Pertanto il cadavere di Formoso venne riesumato dalla sua tomba in Vaticano, vestito e adornato con tutti i tipici ornamenti pontifici e posto sul regale trono papale nella Basilica Lateranense. Il processo poi si svolse come si sarebbe svolto un qualsiasi processo dell’epoca, e vennero mosse varie accuse contro l’ormai defunto pontefice, il quale avrebbe dovuto rispondere all’attuale papa Stefano che svolgeva il ruolo di accusatore. In difesa di Formoso venne anche posto un diacono, assai spaventato dall’occasione e con una funzione inutile all’interno del processo ormai già prestabilito. Non potendo ovviamente Formoso rispondere alle accuse, alcune delle quali risalivano addirittura a quelle mosse anni e anni prima da Giovanni VIII, tale processo si rivelò essere più un “macabro teatrino” che un concreto atto giudiziario. Il verdetto finale stabilì infine che il defunto papa fosse stato indegno di rivestire la carica pontificia, e pertanto venne deposto secondo l’usanza ufficiale che si sarebbe usata per qualcuno in vita; inoltre, tutto ciò che aveva legiferato in vita e tutti i suoi atti ed emendamenti furono dichiarati nulli e invalidi.

“Perché, uomo ambizioso, hai tu usurpato la cattedra apostolica di Roma, tu che eri già vescovo di Porto?”

Stefano V al cadavere di papa Formoso durante il “concilio cadaverico”

L’unicità di Formoso

Il cadavere non venne mai riseppellito, gli vennero strappati di dosso tutti i paramenti tipici, gli furono recise le tre dita che usava per compiere le benedizioni e tra le grida generali di una folla in preda al puro delirio, il cadavere venne gettato nel Tevere, dove vi rimase per circa tre giorni prima di arenarsi nei pressi di Ostia, dove fu trovato da un monaco e nascosto fino a quando Stefano VI fu vivo e in carica. Venne poi riconsegnato al nuovo pontefice, Romano, verso la fine dell’897, e posto tra le tombe degli apostoli con l’accompagnamento di una grande e solenne cerimonia in suo onore. Il processo contro di lui venne infine annullato e tutte le decisioni prese da Formoso in vita vennero nuovamente poste in vigore.

Quello di Formoso è un caso unico in tutta la storia medievale e, sebbene si volle applicare lo stesso trattamento anche al cadavere di papa Bonifacio VIII, a causa della sua pessima condotta, il suo resta il solo e unico evento documentato di un vero e proprio “concilio cadaverico”. Nonostante la validità del processo sia ovviamente da classificarsi come nulla, esso ebbe comunque un grande impatto sugli eventi dell’epoca, soprattutto per coloro che scelsero di compierlo e organizzarlo. Le reazioni verso tale episodio furono comunque assai contrastanti, poiché se da una parte molti erano a favore proclamando un forte odio verso Formoso, un’altra buona parte provò un grande orrore nei confronti di questa lugubre esecuzione. In conclusione, possiamo dunque dire che questo fu un “processo horror” in pieno Alto Medioevo, e una vera e propria vendetta compiuta in Vaticano.

L’Accademia: simbolo dell’educazione e della cultura ateniese | CM

Situata a Nord-Ovest di Atene, l’Accademia è un’area ricca di significato storico e culturale. Fondamentale per la formazione fisica e intellettuale dei giovani ateniesi, ospitò importanti figure come Platone. La sua importanza perdurò fino alla chiusura nel 529 d.C. da parte di Giustiniano I, lasciando un’eredità culturale duratura.

Situata in una densa zona boschiva a Nord-Ovest di Atene, nei pressi del suburbio extraurbano (zona suburbana della capitale greca) della città, l’area dedicata all’Accademia risulta accessibile attraverso il dromos, la principale strada di Atene in termini di grandezza e lunghezza, capace di attraversare l’intera capitale toccando i luoghi più caratteristici di Acropoli e Agorà, per poi terminare nei dintorni della Necropoli del Ceramico. A caratterizzare tale strada non sono solo le sue notevoli dimensioni, bensì anche l’importanza che le venne attribuita dai Pisistratidi nel contesto delle Panatenee, una festa poliadica dedicata alla dea Atena come protettrice della città, le quali ponevano la propria pompé (processione) proprio lungo questa strada, e giungevano al termine all’incirca nella zona dell’Accademia, vicino al villaggio di Colono. A contraddistinguere la bellezza di questo luogo così verdeggiante si aggiunge anche il fiume Cefiso, il quale bagna insieme all’Illisso la pianura ateniese e nasce tra il monte Parnete e il Pentelico, ad Ovest della città.

Si tratta di un luogo fortemente ideologico, carico di significati simbolici, educativi e culturali, oltre a essere il possessore del ruolo primario come massima sede del ginnasio ateniese. La sua principale funzione consisterebbe infatti proprio nel garantire la perfetta formazione atletica, per preparare alla guerra fin dagli 11-12 anni i maschi ateniesi, ed educativa, basata sull’insegnamento delle lettere, della musica e della poesia, i fondamenti della cultura di Atene. Scopo principale dell’Accademia era, in termini riduttivi, preparare alla quotidiana vita ideale della capitale greca coloro che sarebbero stati un giorno i cittadini del futuro, ovvero i giovani greci, sia sul piano fisico che su quello morale/intellettuale. Sappiamo con certezza che questo suo ruolo fu svolto egregiamente e molti tra i maggiori intellettuali, filosofi, atleti, politici e persino artisti della città vennero “forgiati” proprio nell’Accademia stessa, la quale entrò anche in contatto nel corso dei secoli con personaggi tutt’altro che marginali, da Platone a Giustiniano I.

Storia e fondazione

Nonostante le discrete conoscenze che attualmente possediamo riguardo quest’area, risultano invece molto più effimeri tutti quei saperi che si rifanno alla sua fondazione, e la sua storia risulta perciò tutt’ora piuttosto incerta. Pertanto, come ogni luogo ricco di tradizione, antichità e simbologia, da tutto ciò che concerne l’Accademia derivano inevitabilmente numerosi miti e leggende a proposito della sua storia e della sua fondazione delle origini.

Il termine stesso “Accademia” deriverebbe infatti da una radicata tradizione lessicografica, capace di proiettare simbolicamente l’origine del ginnasio nel mito, identificandone il suo massimo fondatore e protettore nella figura dell’eroe ateniese Akademos (o Ekademos), oggi appunto identificato come massimo eroe eponimo del luogo stesso. Fu proprio egli a donare il nome originale con cui s’indicava tale area, ovvero l'”Akademia“.

Le teorie sul ruolo rivestito da tale personaggio appaiono però incerte e molteplici, a partire dall’ipotesi che fosse strettamente correlato alla saga del rapimento di Elena da parte di Teseo, e alla venuta in Attica dei Tindaridi alla ricerca della sorella scomparsa. In un’ulteriore versione della leggenda, questo personaggio sarebbe addirittura stato l’arcade re di Tegea, e avrebbe guidato i Dioscuri nella conquista della regione dell’Attica. Infine, come ultima alternativa presa in considerazione, Akademos sarebbe potuto semplicemente essere un normale abitante dell’Accademia, che avrebbe però indicato ai Tindaridi il luogo dove era stata accuratamente nascosta la sorella Elena, guadagnandosi così l’eterna riconoscenza da parte degli Spartani e la garanzia di ricevere sempre un rilevante trattamento di favore da parte loro.

Le prime supposizioni sulle origini di questo luogo così misterioso risalgono circa all’VIII secolo a.C., quando venne casualmente rinvenuto in tale area un edificio preistorico identificato, con molte probabilità erroneamente, come la “Casa di Akademos“, e quindi poi trasformato in un luogo di culto. Nonostante tale ipotesi venne accantonata quasi subito, sappiamo per certo che il legame dell’Accademia con l’eroe e la storia della sua fondazione rappresentino elementi antichissimi. Tre sono invece le teorie più recenti, e situano l’origine dell’Accademia attorno al VI secolo a.C..

La prima è relativa a un horos, pietre di medie dimensioni poste come delimitazioni di luoghi sacri o di grande importanza per la città, rinvenuto in situ, capace di attestare un’origine quantomeno tardoantica relativa al toponimo connesso al nome dell’eroe.

Un’ipotesi meno accreditata si baserebbe invece sul riconoscimento della figura di Akademos rinvenuta su un vaso a figure nere (pratica pittorica per la ceramica greca e romana di fine VI secolo a.C.). Infine, la prima vera menzione dell’esistenza di un ginnasio nell’Accademia, è da far risalire a una severissima legge esemplare che Demostene attribuiva a Solone, il quale fu arconte all’incirca nel 594 a.C.. Tale legge condannava alla pena capitale chiunque avesse commesso un furto di oggetti personali nei pressi del Liceo, dell’Accademia e/o del Cirosangue. Grazie a tale passo possiamo dunque attribuire cronologicamente l’esistenza di tre ginnasi ateniesi. Tuttavia anche quest’ultima ipotesi presenterebbe un margine d’incertezza, poiché era pratica comune, a partire dal IV secolo a.C., attribuire ogni genere di normativa statuita a Solone, il quale venne “etichettato” in età Classica come modello archetipico di legislatore ideale e padre della patria.

La sua storia e la sua lunghissima tradizione culturale tuttavia lo hanno contraddistinto come uno dei luoghi più ricchi di mnemotopoi di tutta Atene; se non addirittura di tutta l’Attica. Tale espressione greca, fondamentale per lo studio di siti antichi, è formata dai termini “mnemo” e “topos“, i quali indicano rispettivamente la memoria e l’accezione di un luogo/area. Si tratta infatti di un luogo denso di simbologia e tradizioni, elementi che rimandano inevitabilmente al passato e di conseguenza a una lunga storia carica di memoria.

Gli mnemotopoi incarnano a livello storico il mitico, il magico e anche il religioso, andando a caratterizzare opere, battaglie ed eventi particolarmente significativi per il ricordo e la celebrazione postuma; ma anche leggende, superstizioni e residui della memoria degni di essere ricordati per la storia di una data area e per le sue tradizioni radicate nei secoli. Proprio come accade per l’Accademia risulta dunque essere un ambiente gravido di culti e commemorazioni.

Attualmente, nonostante la ricchezza di fonti, tradizioni e leggende riguardanti questa zona siano numerosissime, a livello archeologico non ci è pervenuto quasi nulla e rimane pertanto anche molto complesso operare così una ricostruzione effettiva di come sarebbe potuta essere realmente l’Accademia a livello architettonico. Tuttavia ad Atene, sulle rive del fiume Cefiso, è possibile ammirare in un piccolo sito, nei pressi di un’area ricca di vegetazione, i resti di un edificio attribuibili o alla parte relativa al ginnasio o all’Accademia vera e propria.

L’importanza simbolica dell’Accademia

Nonostante l’Accademia di Atene si presti alla perfezione come luogo simbolico ricco di pathos, miti e leggende, sappiamo però con certezza che rivestì davvero un ruolo tutt’altro che marginale nella storia della capitale greca; e non solo per pochi anni, bensì per interi secoli, fino a quando l’imperatore Giustiniano I, nel 529 d.C., ordinò la chiusura di tutte le scuole filosofiche presenti nell’Impero Bizantino, essendo esse pagane ed essendo il cristianesimo divenuto da poco religione ufficiale dello Stato.

Tuttavia a testimoniarci la grandissima rilevanza dell’Accademia non troviamo solo gli illustri personaggi che nel corso di anni e secoli ebbero a che fare con la suddetta area, ma quest’ultima ci viene documentata anche attraverso semplici elementi che potremmo definire “materiali”, capaci di rivestire nondimeno un ruolo di fondamentale importanza. Stiamo parlando del già sopracitato horos dell’Accademia. Pur trattandosi solamente di pietroni dalle dimensioni variabili con forme rettangolari, gli horoi si mostravano come dei veri e propri simboli di delimitazione.

Il loro compito consisteva proprio nel demarcare i confini di un luogo, e non si trattava mai di ambienti qualunque, bensì di aree degne di una delimitazione ben circoscritta quali templi, zone sacre, aree rituali ed edifici carichi di significato politico, simbolico o intellettuale. E il fatto che l’Accademia avesse un suo horos personale non fa che accrescere il suo prestigio. Questa “pietra”, rinvenuta in uno scavo piuttosto recente, risulta perfino posta su un basamento, date le sue notevoli dimensioni, e non direttamente nella terra com’era usanza collocarli.

La pietra è grezza, ad eccezione di una striscia liscia su cui era incisa la frase: “Sono l’horos dell’Accademia“. Era infatti usanza comune “dare la parola” a tali steli per comunicare in modo più diretto possibile ai passanti le delimitazioni dei luoghi. Questo uso non deve sorprendere, essendo “dotate di parola” anche tombe, statue ed epigrafi nei pressi di sentieri e cimiteri.

Ma non era casuale che proprio tale area fosse così accuratamente circoscritta. Le sue dimensioni erano infatti notevoli e altrettanto significative erano le funzioni che andava a ricoprire all’interno della politica e della società ateniese. Pertanto, se volessimo descrivere questo luogo con un’espressione maggiormente attuale, una di queste sarebbe sicuramente “scuola”.

L’Accademia era infatti un edificio scolastico a tutti gli effetti e, usando termini piuttosto generici, il suo ruolo era proprio quello di formare l’aspetto fisico, educativo e soprattutto intellettuale dei giovani cittadini ateniesi perlopiù maschi. Tuttavia la questione di genere non va data per scontata, poiché non è sufficientemente documentato che non potessero frequentare anche le donne.

Per quanto riguarda la preparazione fisica, i greci (soprattutto gli ateniesi) avevano un vero e proprio culto del corpo, sia sul lato estetico che su quello della prestanza; a testimoniarcelo sono soprattutto le numerose statue raffiguranti una perfetta nudità scultorea a cui si ambiva non sono nell’ambito artistico, ma anche in quello della quotidianità.

Nell’Accademia era infatti presente un Ginnasio, ovvero uno specifico luogo accuratamente preposto all’addestramento fisico e atletico dei giovani che iniziavano la preparazione intorno agli 11-12 anni. L’allenamento era prevalentemente rivolto alla preparazione bellica dei ragazzi ma, come riportato precedentemente, non è da escludere l’importanza che si conferiva all’estetica del fisico. Gli atleti gareggiavano nudi, e la maggior parte delle volte si allenavano anche così. Il termine “ginnasio” deriva infatti dal greco “gumnos“, che significa proprio “nudo”.

Si tratta di un luogo molto caratteristico per la cultura ateniese, importante per il ritrovo e l’apprendimento, oltre al fatto che in esso si potevano tenere anche banchetti e rappresentazioni teatrali. Compiuti i 18 anni i giovani raggiungevano la maturità fisica ideale e acquisivano così i pieni diritti di cittadinanza, intraprendendo l’istruzione militare vera e propria come efebi.

Nonostante la fisicità fosse essenziale per la “costruzione” della cultura ateniese, un ruolo altrettanto significativo veniva rivestito dall’educazione. Scopo principale dell’Accademia era appunto quello di istruire e “plasmare” i giovani alla cultura, affinché raggiungessero parallelamente alla massima capacità fisica, quella intellettuale.

L’educazione ateniese si basava principalmente sull’apprendimento delle lettere (scrittura), dei conti (matematica) e della poesia, la quale veniva molto spesso accompagnata dalla musica della cetra o della lira, strumenti sempre appresi all’interno dell’Accademia. I giovani si esercitavano su tavolette di legno o cera ed erano sempre supervisionati da maestri molto attenti e anche molto severi. Nonostante la cultura fosse ancora un privilegio piuttosto elitario, frequentare la “scuola” era più consueto di quanto si potesse pensare.

L’Accademia rappresenta pertanto un punto di riferimento culturale per l’aggregazione dei cittadini (giovani e non) e per la completa formazione dei ragazzi ateniesi. Essere un cittadino della capitale greca rappresentava infatti un vero e proprio vanto, un modo per esprimere il proprio orgoglio e per distinguersi da tutti coloro che, provenendo dalle più disparate aree di tutta la Grecia e molto oltre, erano considerati barbari e quindi nemici.

Il ruolo di Platone

Il più delle volte quando si parla dell’Accademia essa viene, in modo quasi sempre errato, esclusivamente associata alla figura del filosofo Platone, il quale ebbe un ruolo estremamente importante nella sua evoluzione pratica e storica, ma non esclusivo. E’ perciò usanza comune accomunare a tale area la presenza del filosofo come suo solo e unico fondatore per il fondamentale ruolo che egli rivestì nei secoli successivi, tendendo così a far oscurare inconsciamente secoli di storia precedenti e successivi.

Platone compie la sua prima apparizione in questo luogo solamente nel 387 a.C.. Questa data particolarmente simbolica, oltre che essere anche quella maggiormente conosciuta rispetto all’Accademia, rappresenta il momento della prima fondazione della scuola accademica soprattutto come la conosciamo noi oggi.

Platone incarna infatti la figura dello “scolarca” per eccellenza, ovvero colui che era a capo di una scuola filosofica o il fondatore stesso. Venivano indicati con questo termine anche tutti i suoi discepoli. 20 anni dopo tale data così rappresentativa, Platone comprerà anche, di ritorno da un lungo viaggio in Sicilia, un giardino (képos in greco) chiamato il “giardino di Akademos”, che diverrà poi la vera e propria sede principale della scuola. Si tratta di un luogo quasi bucolico ed idilliaco che durerà nei secoli, fino alla conquista romana del mondo greco. Sarà proprio in quest’area, enormemente apprezzata dai romani per la sua storia e le sue caratteristiche mitiche e naturalistiche, che i latini andranno ad ascoltare i grandi filosofi greci.

Atene diventerà proprio in questo senso la capitale della cultura e dell’arte, trasmettendo per generazioni un fascino immenso non solo per i greci, ma anche per molti altri popoli a venire.

Con l’arrivo di Platone in quest’area non solo si amplia l’accezione simbolica dell’Accademia, ma vengono condizionate anche tutte le materie d’insegnamento, che aumentano notevolmente divenendo sempre più specifiche e particolareggiate. Sappiamo quasi con certezza che in età platonica venivano insegnate materie come matematica, astronomia, ottica, meccanica, scienze naturali, scienze politiche e, ovviamente, filosofia. Era infatti pratica comune discutere insieme al maestro riguardo tutte quelle questioni strettamente correlate all’uomo e a tutto ciò che riguarda la questione umana, indagine approfondita anche attraverso l’arte; sono difatti comuni i dipinti raffiguranti la tipica scena solita ritrarre Platone passeggiare in quest’area verdeggiante circondato dai suoi discepoli attenti.

A risentire dell’influenza platonica nell’Accademia non furono solamente i cittadini ateniesi, assidui frequentatori di tale luogo, bensì anche e con buone probabilità soprattutto i romani, che in seguito alla conquista della regione dell’Attica vennero “contagiati” da innumerevoli elementi della cultura greca, adottandoli o addirittura esportandoli. E non si trattava solamente di cittadini romani qualunque. Cicerone nel 79 a.C. frequenterà con grande coinvolgimento l’Accademia, seguito dal fratello Quinto e dal grande amico Attico, chiamato così in onore del suo immenso amore per la regione dell’Attica e in particolare per il suo grande bagaglio culturale, sviluppatosi proprio in questa zona.

Tuttavia il successo di tale luogo proseguirà per secoli e secoli dopo la morte di Platone, per la fortuna che guadagnò lasciando un’immensa eredità grazie alla filosofia platonica, studiata e apprezzata da popoli e culture anche molto distanti da quella greca.

Solo all’inizio del V secolo venne fondata una nuova scuola come punto cardine della filosofia neoplatonica, e l’Accademia cesserà poi defininitivamente la sua attività solo nel 529 d.C., per volere dell’imperatore Giustiniano I il quale, a causa dell’importanza che stava acquisendo il cristianesimo come religione dell’Impero, aveva ordinato la chiusura di tutte le scuole filosofiche pagane presenti nell’Impero Bizantino.

Nonostante ciò l’Accademia rimane un luogo carico di significati simbolici e culturali, un nucleo colmo di mnemotopoi, rappresentando per tutta l’età antica il simbolo della filosofia platonica e della capitale ateniese, un nerbo culturale ed educativo per l’antica Grecia come la conosciamo noi oggi. Pertanto sono innumerevoli gli autori che ancora discutono sulla sua importanza e hanno avuto a che fare con i suoi molteplici significati simbolici; dalla famiglia dei Pisistratidi (tiranni di Atene) che, specialmente il figlio Ipparco amante dell’arte e della cultura, riservarono sempre particolari attenzioni a tale luogo prediligendolo come punto d’incontro e di scambio culturale, a Plutarco, che ancora in età imperiale definiva se stesso e altri pensatori come lui con l’orgoglioso appellativo di “accademici” (“akademikoi“).

Molti altri personaggi famosi nel corso dei secoli s’interessarono a questo luogo non solo a livello storico ma anche artistico, come Raffaello, il quale dipinse “La Scuola di Atene” situata nella Stanza della Segnatura (una delle quattro Stanze Vaticane poste all’interno dei Palazzi Apostolici), un’opera dalle maestose dimensioni raffigurante al centro il protagonista Platone, circondato dai suoi discepoli evidentemente rapiti dai suoi discorsi filosofici. L’opera incarna pienamente la visione che si conferiva alla zona dell’Accademia come principale simbolo della filosofia platonica, mentre risulta meno evidente come fosse identificata prima dell’arrivo di Platone, nonostante le sue origini fossero decisamente molto più antiche.

Ovviamente, nonostante siano cambiate le epoche, i protagonisti e il ruolo rivestito da quest’area, a non cambiare mai è l’orgoglio e la fortissima ammirazione con cui ne parlano e la descrivono coloro che ne sono entrati in contatto; utilizzando invece un misto di magia e venerazione tutti quelli che ne discutono per motivi di studio, per interesse o per sentito dire.

Ebrei perseguitati nei Paesi arabi. L’odio precede la nascita d’Israele? Una storia tutta Semitica

In copertina alcuni ebrei provenienti dai Paesi arabi in un campo di raccolta allestito in Israele. La foto risale al 1950, due anni dopo la fondazione dello Stato ebraico, nel quale affluirono molti profughi dai Paesi arabi (Jewish Agency for Israel) 

La storia della rivalità tra Ebrei ed Arabi è una storia plurimillenaria che precede ampiamente la nascita di Israele, ed è una storia di cui abbiamo traccia già in testi del III secolo A.C. poi confluiti nella Bibbia, tra gli altri, nei libri dell’esodo e della genesi.

Si tratta di una storia che inizia con la stessa storia ebraica nel mondo cananeo, ed è una storia tutta “semitica”.

Siamo abituati ad utilizzare il termine “semitico” riferendoci al mondo ebraico, ma, va precisato che, gli ebrei sono una popolazione semitica, non l’unica popolazione semitica, anche le popolazioni cananee erano semitiche, così come lo erano assiri, babilonesi, etiopi, arabi ecc.

Sul piano linguistico, il gruppo delle lingue semitiche comprende per l’appunto il babilonese e l’assiro, l’ebraico e l’aramaico, l’arabo e l’etiopico, caratterizzate da un ricco consonantismo, ed indica le lingue parlate nel mondo antico e le loro derivate, tra la penisola arabica e l’Anatolia, e in termini prettamente “culturali” indica quelle civiltà e popolazioni che hanno abitato la regione prima della “contaminazione” ellenica e la conquista latina.

Insomma, persiani, arabi ed ebrei sono tre facce della stessa medaglia, evoluzioni diverse dello stesso seme semitico.

Questa premessa serve per inquadrare il discorso dell'”antisemitismo nel mondo arabo” che in realtà non vuol dire assolutamente nulla, poiché gli stessi arabi sono semitici, ma questa è un altra storia.

Questo post nasce come risposta ad un articolo del 2018, che negli ultimi giorni ha ricevuto numerose condivisioni. L’articolo è a firma di Paolo Mieli, in cui, lo storico e divulgatore presenta e racconta la persecuzione degli Ebrei nei paesi Arabi, prendendo le battute da un saggio di Georges Bensussan, promosso nel proprio editoriale, ma, andiamo con ordine.

Paolo Mieli è uno dei più popolari storici divulgatori italiani, controparte “di destra” del collega Barbero.

In questo suo editoriale pubblicato sul Corriere, racconta dell’Antisemitismo di matrice Islamica, partendo dal saggio dello storico francese Georges Bensoussan «Gli ebrei del mondo arabo» pubblicato in Italia nel 2018 dall’editore Giuntina. Questo articolo, anch’esso del 2018, e di cui l’editoriale è una promo. (non c’è nulla di male in ciò, anche io collaboro spesso con diversi editori per promuovere saggi storici di recente pubblicazione.

In questo caso però, al di la del fine promozionale, l’articolo di Mieli, soffre di molti problemi, figli di una narrazione (avvenuta nel libro) molto faziosa e non comparativa.

In breve, l’autore del saggio si sofferma sui punti di conflitto tra il mondo arabo/islamico e il mondo ebraico, indicando come fonte principale del conflitto l'”emancipazione del mondo ebraico rispetto al mondo arabo”.

Nel dire ciò, prima Bensoussan e poi Mieli, “dimenticano” troppo facilmente, un distinguo importante all’interno dello stesso mondo islamico. Per essere più precisi, dimenticano di citare i circa 1000 anni che corrono tra il V e il XV secolo, in cui, il mondo “islamico” viveva un livello di civiltà immensamente superiore a quello europeo occidentale, che, solo con il rinascimento, ha iniziato ad avvicinarsi ai livelli culturali del mondo arabo, mentre dall’altra parte, con l’avvento degli Ottomani, il mondo arabo iniziava la propria discesa e decaduta.

Senza troppi giri di parole, nel IX secolo, quando la più grande biblioteca europea contava migliaia di copie di qualche centinaio di testi diversi, tutti di matrice religiosa, nella più piccola delle grandi biblioteche arabe, quella di Cordova, vi erano collezionati oltre mezzo milioni di testi differenti, e nella più grande delle biblioteche arabe dell’epoca, la “dimora del sapere” di Baghdad, si stima, fossero conservati oltre 2 milioni di testi. Numeri che le biblioteche occidentali, ci dice Matthew Battles, nel proprio saggio sulla storia delle biblioteche “Biblioteche una storia inquieta” edito da Carocci nel 2004, sarebbero stati raggiunti e poi superati soltanto tra XVIII e XIX secolo.

Sappiamo anche che, nel XIV secolo, quando in Europa iniziò a diffondersi la “ricerca” di testi antichi, i primi filologi si ritrovarono di fronte al grande problema dei “testi palinsesti” ovvero delle pergamene antiche che erano state abrase, quindi cancellate e riutilizzate, e sappiamo che, fu solo grazie all’incontro tra studiosi occidentali e arabi che che i filologi poterono riscoprire gran parte dei testi della tradizione greca e latina che i copisti medievali, in Europa, avevano cancellato per far spazio a testi di matrice teologica e spirituale.

Questa parentesi, in un discorso storico sulle rivalità all’interno del mondo semitico tra “ebrei” ed “islamici”, se si indica l’emancipazione come fattore di scontro, non può essere ignorata, perché ci dice, in modo molto chiaro che, quando la supremazia culturale apparteneva al mondo islamico, c’era una fortissima tolleranza e rispetto per culture diverse da quella islamica, diversamente, quando la superiorità culturale si è spostata ad “occidente” sono iniziati i problemi, gli scontri, l’intolleranza e le persecuzioni.

Andando più in dietro, ai tempi delle crociate, ed è esemplare a tale proposito la terza crociata, in particolare la presa di Gerusalemme da parte delle forze del Saladino le quali, non saccheggiarono i luoghi sacri cristiani ed ebrei, e non fu fatto del male ai civili, diversamente, quando la città fu presa dai crociati, le moschee vennero saccheggiate ed i civili islamici vennero massacrati a migliaia.

Tutto questo, in un saggio storico che parla delle persecuzioni di ebrei nel mondo arabo, non può essere ignorato facendo partire la narrazione dal XVI secolo e ignorando tutto ciò che è successo prima, perhé, nel fare ciò, si va a creare una narrazione distorta e faziosa, piegata da logiche politiche e non finalizzata alla realtà storica.

Il saggio di Bensoussan commette in questo senso un terribile errore di analisi storica, ed è ancora più grave l’errore commesso da Paolo Mieli che, nel raccontare questo libro, asseconda le teorie dell’autore, senza evidenziarne i difetti e le lacune, senza dire che la narrazione è incompleta e faziosa, assecondandola e giustificandola.

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