In copertina alcuni ebrei provenienti dai Paesi arabi in un campo di raccolta allestito in Israele. La foto risale al 1950, due anni dopo la fondazione dello Stato ebraico, nel quale affluirono molti profughi dai Paesi arabi (Jewish Agency for Israel)
La storia della rivalità tra Ebrei ed Arabi è una storia plurimillenaria che precede ampiamente la nascita di Israele, ed è una storia di cui abbiamo traccia già in testi del III secolo A.C. poi confluiti nella Bibbia, tra gli altri, nei libri dell’esodo e della genesi.
Si tratta di una storia che inizia con la stessa storia ebraica nel mondo cananeo, ed è una storia tutta “semitica”.
Siamo abituati ad utilizzare il termine “semitico” riferendoci al mondo ebraico, ma, va precisato che, gli ebrei sono una popolazione semitica, non l’unica popolazione semitica, anche le popolazioni cananee erano semitiche, così come lo erano assiri, babilonesi, etiopi, arabi ecc.
Sul piano linguistico, il gruppo delle lingue semitiche comprende per l’appunto il babilonese e l’assiro, l’ebraico e l’aramaico, l’arabo e l’etiopico, caratterizzate da un ricco consonantismo, ed indica le lingue parlate nel mondo antico e le loro derivate, tra la penisola arabica e l’Anatolia, e in termini prettamente “culturali” indica quelle civiltà e popolazioni che hanno abitato la regione prima della “contaminazione” ellenica e la conquista latina.
Insomma, persiani, arabi ed ebrei sono tre facce della stessa medaglia, evoluzioni diverse dello stesso seme semitico.
Questa premessa serve per inquadrare il discorso dell'”antisemitismo nel mondo arabo” che in realtà non vuol dire assolutamente nulla, poiché gli stessi arabi sono semitici, ma questa è un altra storia.
Questo post nasce come risposta ad un articolo del 2018, che negli ultimi giorni ha ricevuto numerose condivisioni. L’articolo è a firma di Paolo Mieli, in cui, lo storico e divulgatore presenta e racconta la persecuzione degli Ebrei nei paesi Arabi, prendendo le battute da un saggio di Georges Bensussan, promosso nel proprio editoriale, ma, andiamo con ordine.
Paolo Mieli è uno dei più popolari storici divulgatori italiani, controparte “di destra” del collega Barbero.
In questo suo editoriale pubblicato sul Corriere, racconta dell’Antisemitismo di matrice Islamica, partendo dal saggio dello storico francese Georges Bensoussan «Gli ebrei del mondo arabo» pubblicato in Italia nel 2018 dall’editore Giuntina. Questo articolo, anch’esso del 2018, e di cui l’editoriale è una promo. (non c’è nulla di male in ciò, anche io collaboro spesso con diversi editori per promuovere saggi storici di recente pubblicazione.
In questo caso però, al di la del fine promozionale, l’articolo di Mieli, soffre di molti problemi, figli di una narrazione (avvenuta nel libro) molto faziosa e non comparativa.
In breve, l’autore del saggio si sofferma sui punti di conflitto tra il mondo arabo/islamico e il mondo ebraico, indicando come fonte principale del conflitto l'”emancipazione del mondo ebraico rispetto al mondo arabo”.
Nel dire ciò, prima Bensoussan e poi Mieli, “dimenticano” troppo facilmente, un distinguo importante all’interno dello stesso mondo islamico. Per essere più precisi, dimenticano di citare i circa 1000 anni che corrono tra il V e il XV secolo, in cui, il mondo “islamico” viveva un livello di civiltà immensamente superiore a quello europeo occidentale, che, solo con il rinascimento, ha iniziato ad avvicinarsi ai livelli culturali del mondo arabo, mentre dall’altra parte, con l’avvento degli Ottomani, il mondo arabo iniziava la propria discesa e decaduta.
Senza troppi giri di parole, nel IX secolo, quando la più grande biblioteca europea contava migliaia di copie di qualche centinaio di testi diversi, tutti di matrice religiosa, nella più piccola delle grandi biblioteche arabe, quella di Cordova, vi erano collezionati oltre mezzo milioni di testi differenti, e nella più grande delle biblioteche arabe dell’epoca, la “dimora del sapere” di Baghdad, si stima, fossero conservati oltre 2 milioni di testi. Numeri che le biblioteche occidentali, ci dice Matthew Battles, nel proprio saggio sulla storia delle biblioteche “Biblioteche una storia inquieta” edito da Carocci nel 2004, sarebbero stati raggiunti e poi superati soltanto tra XVIII e XIX secolo.
Sappiamo anche che, nel XIV secolo, quando in Europa iniziò a diffondersi la “ricerca” di testi antichi, i primi filologi si ritrovarono di fronte al grande problema dei “testi palinsesti” ovvero delle pergamene antiche che erano state abrase, quindi cancellate e riutilizzate, e sappiamo che, fu solo grazie all’incontro tra studiosi occidentali e arabi che che i filologi poterono riscoprire gran parte dei testi della tradizione greca e latina che i copisti medievali, in Europa, avevano cancellato per far spazio a testi di matrice teologica e spirituale.
Questa parentesi, in un discorso storico sulle rivalità all’interno del mondo semitico tra “ebrei” ed “islamici”, se si indica l’emancipazione come fattore di scontro, non può essere ignorata, perché ci dice, in modo molto chiaro che, quando la supremazia culturale apparteneva al mondo islamico, c’era una fortissima tolleranza e rispetto per culture diverse da quella islamica, diversamente, quando la superiorità culturale si è spostata ad “occidente” sono iniziati i problemi, gli scontri, l’intolleranza e le persecuzioni.
Andando più in dietro, ai tempi delle crociate, ed è esemplare a tale proposito la terza crociata, in particolare la presa di Gerusalemme da parte delle forze del Saladino le quali, non saccheggiarono i luoghi sacri cristiani ed ebrei, e non fu fatto del male ai civili, diversamente, quando la città fu presa dai crociati, le moschee vennero saccheggiate ed i civili islamici vennero massacrati a migliaia.
Tutto questo, in un saggio storico che parla delle persecuzioni di ebrei nel mondo arabo, non può essere ignorato facendo partire la narrazione dal XVI secolo e ignorando tutto ciò che è successo prima, perhé, nel fare ciò, si va a creare una narrazione distorta e faziosa, piegata da logiche politiche e non finalizzata alla realtà storica.
Il saggio di Bensoussan commette in questo senso un terribile errore di analisi storica, ed è ancora più grave l’errore commesso da Paolo Mieli che, nel raccontare questo libro, asseconda le teorie dell’autore, senza evidenziarne i difetti e le lacune, senza dire che la narrazione è incompleta e faziosa, assecondandola e giustificandola.
L’imposizione del cristianesimo come religione ufficiale
Il cristianesimo, caposaldo indiscusso tra le massime religioni di stampo monoteista, presenta origini antiche e una lunga storia connotata da lotte, rivalità, editti e lunghi concilii che lo portarono a rappresentare un simbolo e un’ideologia, oltre che a incarnare il ruolo di una delle religioni più diffuse e affermate al mondo. Ma il percorso è stato lungo. I suoi primi passi verso un’affermazione forte e completa risalgono infatti al IV secolo d.C., periodo storico connotato da significative tensioni religiose.
Con l'”Editto di Milano“del 313 d.C. e il “Concilio Ecumenico di Nicea I“del 325 d.C., l’imperatore Costantino aveva intrapreso una politica reliogiosa esplicitamente rivolta all’impostazione del cristianesimo come sola e unica religione praticabile. Il tutto venne decretato ufficialmente dall'”Editto di Tessalonica“del 380 d.C. il quale, per volere di Graziano, Valentiniano e Teodosio I, aveva definitivamente sancito il ruolo del cristianesimo come religione ufficiale dell’Impero romano, imponendovi così una fedeltà ferrea e assoluta.
Tali eventi rappresentano momenti cruciali per la storia del cristianesimo, il quale, a partire dal IV secolo d.C. circa, venne indiscutibilmente riconosciuto come religione di livello universale. Ciò lo portò non solo a essere ritenuto una religione ufficiale, ma anche superiore, andando così inevitabilmente a ledere nel corso dei secoli numerose altre religioni, come ad esempio accadde per l’ebraismo, a partire da tempi antichissimi. Tale concetto di superiorità era pertanto alimentato da una sorta di disprezzo rivolto verso qualsiasi religione fosse ritenuta “altra”, e quindi diversa. L’idea di cristianesimo si fece dunque sempre più forte, sostenuta da istituzioni clericali altrettanto potenti, fino a raggiungere un apice di ideologie che affonda le sue radici nel periodo alto e, soprattutto, basso medievale.
Il potere della chiesa medievale e il binomio di bene e male
Da secoli l’idea che si ha sul Medioevo viene fortemente associata a un immaginario collettivo connotato da una rigida ambivalenza religiosa fondata sul concetto di bene e male. Abbiamo precedentemente visto come il cristianesimo avesse iniziato a imporsi in un contesto di tensioni religiose a pochi anni dalla caduta dell’Impero romano d’occidente. Pertanto, con l’inizio del periodo che oggi definiamo “Alto Medioevo”, esso si trovò la “strada spianata” per potersi impostare in modo definitivo come religione cardine di tutto il mondo medievale, portando con sé una vasta serie di concetti che avrebbero avuto una secolare fortuna nel mondo delle religioni monoteiste. Alla base di queste dottrine vigeva il noto binomio contrapposto di bene e male, una rigida ambivalenza impostata e controllata dal cristianesimo nel modo più ferreo possibile.
La società medievale era inoltre fondata su due modelli cardine: la politica e la religione e, nella maggior parte delle occasioni, quest’ultima poteva influenzare, e anzi padroneggiare senza troppe difficoltà la prima. Basti pensare che l’intera gerarchia ecclesiastica era interamente fondata sull’enorme potere esercitato dal papato, il quale, nonostante non fosse in possesso di un esercito personale e non avesse un accesso diretto al potere esecutivo di cui disponevano i sovrani medievali, possedeva il pieno controllo sulla monarchia e la possibilità quasi immediata di destituire a suo piacimento il monarca; pertanto tali privilegi non gli sarebbero affatto stati necessari per esercitare il pieno potere religioso di cui era effettivamente detentore. Inoltre la Chiesa, pur rappresentando una minima percentuale in termini di uomini interessati, possedeva quasi un terzo di tutte le terre del regno, senza contare tasse, offerte, vendite delle indulgenze e delle massime cariche e, ovviamente, il completo esonero verso ogni tipologia di tassazione. Al termine di tali riflessioni risulta dunque quasi scontato affermare che fosse proprio la Chiesa, sulla base interpretativa delle dottrine cattoliche, a decretare cosa rappresentasse il “bene” e cosa invece il “male”.
E’ un tratto umano di stampo tipicamente medievale l’ispirarsi apertamente alla morale perseguita da Gesù, il quale non solo rappresenta un personaggio storico chiave per la lettura della religione cristiana, ma incarna allo stesso tempo un vero e proprio corpus di leggi spirituali da perseguire ed emulare con estrema cura e attenzione, e sulle quali fondare la propria esistenza che, come insegna proprio la dottrina cattolica, deve essere unicamente rivolta al bene. Gesù è insomma a tutti gli effetti un modello da seguire, un “serbatoio” di etica e morale, e infine una solida base sulla quale impostare i più retti comportamenti umani. Ed è proprio da tali concetti che nasce la vera e propria idea di “bene”, inteso come principio strettamente legato a tutto ciò che la Chiesa decretava, e anzi imponeva, quasi come “legge di rettitudine”. E’ inoltre ovvio affermare che, laddove la Chiesa e i principi cristiani s’imponevano strenuamente come difensori di onestà e virtù, si decretavano in maniera altrettanto accanita come persecutori di tutto ciò che andava contro tali dottrine, fomentando così il concetto di “male”.
Bisogna tuttavia sottolineare come fosse impostata la società medievale, ed evidenziare quanto tale epoca storica fosse permeata di paura e, soprattutto, di superstizione. I due elementi andavano infatti di pari passo in un contesto culturale in cui ogni errore e deviazione da ciò che si riteneva essere il cosiddetto “bene”, veniva severamente punito; e non si tratta affatto solamente di punizioni corporali. La paura era infatti anch’essa saldamente connessa alle dottrine imposte dalla Chiesa cattolica, e la sola idea di allontanarsi da tali principi, avvicinandosi così al tanto temuto concetto di “male”, rendeva la stragrande maggioranza della popolazione medievale tanto religiosa da riversare spesso nella superstizione; senza contare inoltre l’ignoranza e l’analfabetismo che affollava città e campagne, i quali diffondevano ancor più la paura verso il “male”, fomentando una tacita accettazione verso tutto ciò che la Chiesa imponeva in modo quasi dittatoriale.
Gesù, ovvero il bene; Lucifero, ovvero il male
E’ inoltre necessario mettere in rilievo come il concetto di bene e di male non fosse solamente associato a ideali astratti, ma andasse anche a concretizzarsi, o meglio a personificarsi in personaggi ben specifici. Possiamo infatti parlare di “personificazione” come di un fenomeno tipicamente medievale per il marcato attaccamento verso tutto ciò che poteva essere spiegato concretamente, motivo per cui al concetto di “bene” è stata associata dalla Chiesa la figura di Gesù, il quale doveva appunto essere riconosciuto come principale modello d’ispirazione, un vero e proprio esempio morale e spiritualità sul quale fondare il proprio comportamento e il proprio essere.
Seppur risulti scontato a dirsi, la concezione del bene è ovviamente anche delineata dalla figura di Dio, il quale ne è anzi il protagonista indiscusso portando con sé gli esempi biblici del perdono, della misericordia e della benevolenza. Tuttavia il personaggio di Gesù rappresenta una figura storicamente accertata e risulta pertanto molto più semplice associare ad egli una vera e propria personificazione e concretezza del concetto di “bene”. Ma cosa sarà invece a connotare il concetto del “male”?
Partendo sempre da un presupposto prettamente religioso la Chiesa fa riferimento a una vicenda molto nota, nonostante non venga mai citata né dall’“Antico Testamento“, né dal “Nuovo“; ovvero la caduta di Lucifero negli inferi. Lucifero, nome dall’etimo altamente significativo, derivante dal latino “lux” – “luce” e “ferre” – “portare”. Egli veniva infatti soprannominato “il portatore di luce” e rivestiva uno dei ruoli principali tra gli angeli di Dio; ogni angelo aveva infatti una particolare funzione ben specifica assegnatagli direttamente da Dio e non sarebbe dunque esagerato affermare che fosse quasi il suo favorito.
Tuttavia sappiamo dal profeta Isaia che Lucifero possedeva un animo estremamente superbo, tanto da osare perfino sfidare Dio con una schiera di angeli suoi sostenitori per arrivare a essergli pari nel Regno dei Cieli, se non addirittura per sostituirlo definitivamente. L’esito di tale ribellione risultò un fallimento e Lucifero, sconfitto dall’Arcangelo Michele, mandato da Dio, venne gettato giù dal cielo, andando a conficcarsi nel centro della Terra, ovvero nei cosiddetti “inferi”, che da quel momento sarebbero stati abitati da lui come sovrano e da tutti gli altri ribelli. Bisogna però specificare quanto le interpretazioni riguardanti questo mito siano molteplici, e a volte anche discordanti, non garantendo una versione univoca e ufficialmente riconosciuta.
Inferno e paradiso nell’immaginario medievale
Con il delinearsi della figura di Lucifero come principale oppositore di Dio, nascono parallelamente due concetti biblici fondamentali: quello di “inferno” e quello di “diavolo”, entrambi strettamente collegati al più generale e profondo ideale di “male”, inteso come concetto puramente astratto. Per spiegare concretamente l’esistenza di un luogo infernale contrapposto al paradiso, delineato da letizia e beatitudine, ci si appoggia dunque alla vicenda di Lucifero, il quale, cadendo dal cielo, sarebbe andato a conficcarsi nel centro della Terra, dando così origine a un luogo connotato dal peccato (a causa del gesto compiuto dall’angelo ribelle) e abitato da anime dannate. Questo ideale di inferno si sarebbe stanziato all’interno delle dottrine cristiane così a fondo da risultare attuale ancora oggi, se non addirittura molto spesso credibile. Non si tratta dunque di un fenomeno antico e circoscritto a un dato luogo, bensì di un concetto che ha avuto modo di radicarsi nei più svariati luoghi nel corso dei secoli, riscontrando un’enorme fortuna con Dante e con l’epoca medievale.
Nel Medioevo infatti la paura dell’inferno era così diffusa e radicata che il fenomeno delle indulgenze, un pagamento in denaro per ottenere una parziale o completa remissione dai peccati per se stessi o per i propri cari, raggiunse livelli talmente elevati da risultare una delle maggiori entrate per la Chiesa, al pari di tasse e donazioni; una vera e propria fonte di sostentamento. Come precedentemente accennato, il contributo dantesco fu fondamentale non solo per delineare l’immagine di paradiso e inferno che conosciamo tutt’oggi, ma anche quella dei massimi protagonisti che regnano su tali luoghi. E così come Dio occupa un posto primario e indiscusso nel “Cielo Empireo” del paradiso, Lucifero rivestirebbe un ruolo parallelo nell’inferno, come signore del male e delle anime dannate.
Satana o Lucifero?
Il termine “diavolo” comunemente usato oggigiorno deriverebbe dal verbo greco “diàballo”. Tale termine non è casuale ed è ottenuto dalla particella “dià” – “attraverso” e dal verbo “ballo” – “gettare”, e starebbe dunque a indicare colui che divide e separa, per l’appunto un calunniatore. Ma prima di intraprendere il discorso vero e proprio a proposito della figura del diavolo in ambito medievale, è necessario specificare che, nonostante oggi l’appellativo a esso riferito sia perfettamente intercambiabile, le sue origini lessicali sono assai ben distinte.
Lucifero rappresenterebbe infatti un personaggio strettamente legato alla figura Dio, degli angeli e dei demoni ribelli (potremmo quasi definirlo biblico, nonostante la Bibbia non faccia parola della sua vicenda); é pertanto direttamente connesso al concetto di peccato e tentazione umana, elementi tipicamente biblici e cristiani. Lucifero incarna dunque un modello di deviazione, un totale declino che porta a un crollo morale senza possibilità di riscatto (non bisogna dimenticare che in origine era un angelo).
La figura di Satana, o Beelzebub (in italiano Belzebù), starebbe invece a indicare un vero e proprio demone, un’entità spirituale o sovrannaturale, una figura appunto satanica esclusivamente dotata di istinti maligni e con l’unico scopo di traviare e corrompere l’animo umano. Satana è malvagio, distruttivo, calunniatore, e a differenza di Lucifero non presenta alcun rimando angelico. La sua connotazione demoniaca andrebbe addirittura fatta risalire alle molteplici religioni politeiste dell’antichità, nelle quali era consuetudine la presenza della figura di un antagonista per eccellenza. Basti pensare che nell’antico Egitto il dio Seth incarnava la vera e propria immagine del male, e questo circa 3.000 anni prima della nascita di Cristo.
Pertanto, sebbene la figura di Lucifero sia fortemente connotata nell’immaginario cristiano tanto da risultare addirittura biblica e al pari di Dio come suo principale nemico e oppositore, l’immagine di Satana andrebbe invece fatta risalire a una tradizione pagana politeista affermata e radicata da migliaia di anni e non ancora del tutto soppiantata dal cristianesimo, come potrebbe invece credersi.
Il diavolo nell’arte e nel mondo medievale
A partire dall’Alto Medioevo il diavolo assunse un ruolo dominante nel mondo religioso cristiano, tanto da influenzare l’arte, la letteratura e persino il pensiero e la mentalità della società medievale. A essere permeati di credenze e superstizioni erano inevitabilmente l’iconografia e l’immaginario collettivo, strettamente legati alla componente cattolica fondata sul binomio tanto discusso di bene e male.
Pertanto, se da un lato la figura del diavolo rappresentava una presenza demoniaca costante nella vita dell’uomo, un lampante esempio spirituale di “spinta al peccato”, dall’altra incarnava invece un forte bisogno umano, ovvero conferire un’immagine concreta a tutto ciò che costituisce un mistero per l’occhio, conferendo perciò concretezza e materialità a tale figura; e fu proprio l’arte a rappresentare lo strumento principale per l’incarnazione delle idee (nel corso dei secoli l’immaginazione non ha mai soddisfatto le aspettative umane). Fu così che, come avvenne per la figura di Dio e degli angeli, anche al diavolo si cercò di dare una degna e concreta rappresentazione artistica che desse agli uomini un’immagine reale verso cui rivolgersi.
Satana è una presenza angosciante nella quotidianità del Medioevo; è presente sulle facciate delle chiese, negli affreschi, sui capitelli e persino nei mosaici e nelle sculture di corte. Il periodo medievale inizia così a dar forma alla più grande paura che abbia mai ossessionato la comunità cristiana: l’idea diinferno e peccato. Le rappresentazioni artistiche infernali sono numericamente quasi al pari di quelle celesti e, come queste ultime, non tralasciano alcun particolare. Satana è sempre il protagonista indiscusso e, attingendo frequentemente anche a rappresentazioni pagane, i suoi particolari sono di un realismo crudo e impressionante. Si tratta spesso di opere religiose, raffiguranti ad esempio il giudizio universale o la discesa agli inferi, e nessun dettaglio (anche i più truci e cruenti) veniva risparmiato.
La sua figura è stata assai di frequente fonte d’ispirazione per scultori, pittori e artisti di ogni genere, i quali hanno cercato di raffigurare nei più svariati modi possibili questa “ossessione medievale”. Il diavolo è ferino, bestiale, non ha nulla a che vedere con l’angelica figura di Cristo, e rappresentando il suo principale antagonista sul piano biblico, così doveva essere anche dal punto di vista fisico. Spesso non ha nulla di umano, neppure una minima parvenza; può essere dotato di corna, artigli, denti acuminati e una coda serpentina. A lui sono inoltre spesso associati animali come il serpente, che incarna la tentazione (dalla nota vicenda biblica di Adamo ed Eva), il gatto nero (uno degli animali satanici maggiormente associati alla stregoneria) e la capra (legata all’episodio biblico del capro espiatorio, sul quale vengono riversati tutti i peccati del popolo di Israele).
Ma a essere raffigurato non era solo il suo aspetto bestiale, bensì anche il suo temperamento diabolico e la sua natura perfida e sadica. Il diavolo infatti tortura e strazia i peccatori che si trovano negli inferi con i peggiori tormenti che si possano immaginare, e l’arte in questo non tralascia alcun minimo particolare, così come magistralmente raffigura le angeliche figure dei beati che godono dei piaceri del paradiso.
In un’epoca in cui la stragrande maggioranza della popolazione non sapeva né leggere né scrivere, l’arte si ritrovava a svolgere una funzione chiave per la società medievale, e tutti gli avvertimenti che i peccatori avrebbero potuto leggere nella Bibbia o su un qualsiasi volume religioso, venivano esplicitamente espressi attraverso le opere artistiche; e se le raffigurazioni del paradiso avrebbero facilmente spinto alla retta via, con altrettanta efficacia le rappresentazioni infernali avrebbero dissuaso dal peccato e dalla tentazione. Inutile pertanto dire quanto la Chiesa sfruttò la rappresentazione artistica di tipo “satanico” a proprio vantaggio, come un vero e proprio mezzo di dissuasione e strumento di persuasione verso la fede cattolica.
La reazione della Chiesa
In parallelo a una diffusione tanto rapida e proficua relativamente alla figura del diavolo nell’immaginario collettivo medievale, non tardò ad arrivare la reazione della Chiesa in relazione a cosa effettivamente rappresentasse Lucifero per la comunità. Si delinea così un forte divario tra coloro che venivano considerati “bravi cittadini”, ligi al dovere e retti praticanti cattolici, e tutti coloro che, andando contro l’deale dell’“onesto popolano”, andavano inevitabilmente a scontrarsi con la dottrina cristiana cedendo alle cosiddette “tentazioni del diavolo”. Pertanto, se da un lato la Chiesa conferiva un’immagine sacra dell’unica possibile retta via da seguire, dall’altro ogni deviazione rappresentava invece un passo in avanti verso Satana e il peccato. E questa concezione raggiunse livelli sempre più estremi, soprattutto a partire dal Basso Medioevo.
Alla figura di Satana venivano infatti associati tutti coloro che potevano in qualche modo disturbare la perfetta aura che aleggiava sulla comunità cristiana medievale, turbando così la quieta pubblica e macchiando la forte religiosità che vi permeava. Erano pertanto considerati adoratori del diavolo tutti coloro che praticavano un culto diverso dal cristianesimo, e il Medioevo è denso di credenze popolari che crebbero nascoste agli occhi della Chiesa. Un esempio di ciò è dato dalla venerazione del “Santo Levriero”, un cane che salvò il bambino di un signore da una vipera, per poi venire ucciso dal padrone, il quale credeva che stesse sbranando il piccolo. Con il passare del tempo la storia si diffuse nei villaggi circostanti al castello in cui era avvenuto tale fatto, e la figura del cane venne sempre più assimilata a quella di un vero e proprio santo, visto come martire e salvatore. La Chiesa si oppose strenuamente e il culto (considerato al pari di un’idolatria) venne proibito, ma resistette ai continui tentativi di soppressione per secoli. E questo è solo uno dei molteplici casi; tali credenze venivano soprattutto associate al paganesimo, il quale era a sua volta il culto associato per eccellenza alla seduzione e al diavolo.
Un altro bersaglio facile per la Chiesa furono le donne. In una società altamente misogina come quella medievale era uso comune rivolgere astio e accanimento verso il sesso letteralmente più debole e, soprattutto verso la fine del Basso Medioevo, nacque così la figura della “strega”, intesa come donna estremamente devota al diavolo e praticante di magia nera. Con l’aumentare del sospetto verso tutto ciò che non si rifaceva fedelmente alla dottrina cattolica, aumentò inevitabilmente anche il timore verso tutte quelle pratiche che non erano sufficientemente conosciute, spesso praticate proprio da donne. A essere accusate erano infatti levatrici o guaritrici, le quali utilizzavano prodotti naturali che spesso potevano rimandare a pratiche magiche; tuttavia a finire nel mirino della Chiesa furono anche prostitute, mendicanti o lebbrose, ovvero tutte quelle donne che non rispondevano correttamente al rigido ideale medievale di “donna cristiana”, ritrovandosi così tra le categorie più deboli della popolazione. Ma la procedura era sempre la stessa e tra le maggiori colpe attribuite alle donne vi era l’accusa di praticare i “sabba”, tipici rituali blasfemi in cui le streghe si sarebbero radunate di notte per praticare orge sataniche con il diavolo.
A delineare la donna come portatrice di peccato contribuì inoltre in modo molto significativo la figura di Eva, protagonista del peccato originale, e ancora una volta è proprio il cristianesimo, accompagnato dai celebri racconti della Bibbia, a dettare legge su cosa fosse giusto e cosa no. Era dunque inevitabile che la Chiesa posasse la sua attenzione soprattutto sulle donne, dato che colei che aveva mangiato il frutto proibito, ancora una volta sotto tentazione del diavolo sotto forma di un serpente, fosse proprio di quel sesso. Era dunque prassi comune associare la femminilità al peccato, ma soprattutto alla seduzione e alla tentazione, caratteristiche proprie soprattutto di Satana; motivo per cui le streghe vennero considerate le principali servitrici e adoratrici di Lucifero.
La Chiesa fu talmente coinvolta nella famigerata “caccia alle streghe” da istituire un vero e proprio tribunale santo: la “Santa Inquisizione“, con il solo e unico compito di reprimere brutalmente ogni possibile ostacolo alla dottrina cattolica e, ovviamente, ogni elemento che potesse rappresentare un pericolo per il potere della Chiesa come istituzione religiosa.
Ma nel mirino della “Santa Inquisizione” non finirono solo le donne, nonostante dovettero sopportare la stragrande maggioranza delle accuse. Molti uomini furono messi al rogo per la stessa accusa di stregoneria rivolta alle donne, ma quando paura e sospetto divennero insostenibili, molteplici accuse rivolte furono del tutto infondate, frutto di odi e vendette personali. Bastava infatti un semplice astio verso qualcuno, perché chi si voleva accusare venisse direttamente condannato come adoratore di Satana, a volte anche senza processo. Ma il genere non era il connotato principale, poiché in fondo l’accusa era sempre la stessa. Tutto questo per sottolineare quanto ogni accusa, che si trattasse di un culto anomalo, di un sospetto per stregoneria o di una semplice vendetta, fosse costantemente legata alla paura della presenza del diavolo nella vita di tutti i giorni. Una paura fondata su sospetti e fomentata quasi esclusivamente dalla Chiesa cattolica.
La figura del diavolo oggi
Nonostante oggi magia e superstizione siano state superate e soppiantate dalla costante crescita del progresso scientifico, la contemporaneità continua a essere permeata da ciò che caratterizzava la concezione medievale religiosa associata al male quasi settecento anni fa. Le Chiese continuano infatti a essere rivestite da affreschi relativi a una simbologia strettamente associata alla figura di Lucifero o al peccato originale. Inoltre nelle scuole e, più generale, a livello d’istruzione di base, è inevitabile lo studio di Dante, che con la sua accurata descrizione di inferno, paradiso e purgatorio, ha enormemente condizionato la visione antica e moderna del concetto di male e bene. La filmografia poi, uno degli elementi più associati alla contemporaneità, è colma di riferimenti satanici diretti o indiretti, come sette, esorcismi e rappresentazioni del diavolo di ogni genere; tutti concetti che, nonostante sembrino inseriti in modo pieno nella contemporaneità, risalgono invece a origini antichissime. Ancora oggi infatti la figura del diavolo viene inevitabilmente associata a quella che era la concezione medievale del male, e in questo la religione ha avuto un ruolo primario e fondamentale.
In un contesto laico o religioso che dir si voglia, è pertanto inutile cercare di separare l’idea che oggi abbiamo su Satana, da ciò che la Chiesa e il cattolicesimo hanno involontariamente, ma molto più spesso volontariamente, trasmesso nel corso dei secoli. Ancora ai nostri giorni infatti risulta quasi impossibile citare la figura del diavolo con tutte le sue implicazioni senza accostarsi, con il pensiero o attraverso riferimenti diretti, alla religione. Tutto questo poiché, come abbiamo visto precedentemente, così come la figura di Satana è fortemente influenzata da caratteristiche e tratti relativi al mondo pagano, la nostra contemporaneità è impregnata di concetti cristiani che si rifanno a un’antichissima tradizione, trasmettendoci così una viva cultura popolare legata alla figura del cosiddetto “diavolo” che ha alle sue spalle molto di più di ciò che possiamo vedere a primo impatto attraverso affreschi, film, libri o semplici racconti.
Nato nel 1740, Donatien-Alphonse-François de Sade fu probabilmente uno dei personaggi più discussi e criticati del XVIII secolo. Appartenente a una famiglia dell’antica nobiltà francese, fu signore di Saumane, di La Coste e di Mazan, oltre che conte e marchese. Era infatti il discendente di una delle più antiche dinastie della Provenza, nonchè figlio del conte Jean Baptiste François Joseph de Sade e di Marie Eléonore de Maillé de Carman, nipote di Richelieu e dama di compagnia di Carolina d’Assia-Rotenburg, principessa di Condé.
Nonostante gli svariati titoli e l’agiata condizione da cui proveniva, si guadagnò ben presto una fama tutt’altro che rispettabile, a causa di numerosi crimini commessi tra cui svariati stupri, sodomia, tentativi di avvelenamento, anticlericalismo e depravazione. Infatti, in seguito a svariati momenti di incarcerazione, arrivò persino alla reclusione nella prigione della Bastiglia, perseguitato dal regime monarchico che aveva tanto disprezzato aderendo alla Rivoluzione Francese come nobile rivoluzionario, e lì vi rimase per diversi anni, scrivendo alcune delle sue opere più celebri. Finì la sua vita in carcere dopo un lungo periodo in manicomio, probabilmente a causa dell’eccessivo sadismo, estremamente mal visto dalla società del tempo. Morì nel 1800 per gravi problemi cardiaci e polmonari, da cui era affetto da tempo.
A caratterizzare il suo stile decisamente al di fuori dai canoni del suo tempo contribuiscono un forte spirito rivoluzionario, accompagnato da una ferrea condanna verso ogni forma di potere, come schiavismo, nobiltà, monarchia e persino clericalismo. De Sade condannava inoltre con grande fermezza tutti i tipi tabù e le ferree restrizioni sessuali del suo tempo, venendo etichettato come uno dei massimi esponenti di un estremo libertinismo di fine‘700. Proprio dal suo nome infatti deriverà la parola “sadismo”, poichè egli stesso era solito appagare i suoi sfrenati desideri sessuali attraverso pratiche estreme e spesso anche dolorose, seducendo donne o ingaggiando prostitute.
“Donatien-Alphonse-Françoia, marchese de Sade, famoso per le sue disgrazie e per il suo genio, che avrà l’onore di illustrare l’antica casata con il più nobile dei titoli, quello delle lettere e del pensiero, e che lascerà ai suoi discendenti un nome veramente insigne.”
Gilbert Lely, “Il profeta dell’erotismo. Vita del marchese de Sade“
Justine: vittima innocente o fautrice del proprio destino?
Una delle massime opere del marchese, nonché la prima di tutte le sue pubblicazioni, fu Justine o le disavventure della virtù, pubblicata nel 1791. Si tratta di un romanzo a sfondo erotico, per questo molto simile ai fabliaux medievali, ma differente nella particolare cura e attenzione rivolta alla psicologia della protagonista, e non solo al mero tema sessuale. Justine, protagonista appunto del racconto, è una nobile fanciulla divenuta orfana e cresciuta in un orfanotrofio con la sorella, la quale possiede una morale completamente opposta alla sua; è infatti scaltra, astuta e manipolatrice, disposta a tutto pur di ottenere fama e ricchezza. Il completo opposto della giovane protagonista, la quale è dotata di una profonda nobiltà d’animo e di alti valori rigidamente legati alla dottrina cattolica.
Tuttavia la sorte dividerà la strada delle due fanciulle e mentre la sorella riuscirà ad effettuare una notevole scalata sociale tra omicidi e adulteri, Justine si ritroverà sempre senza soldi e costantemente nelle mani dei peggiori depravati. L’opera è infatti incentrata, come suggerisce il titolo stesso, sulle disavventure di Justine, la quale, pur essendo sempre accompagnata da una ferrea morale, non riesce in nessun modo a sottrarsi dalle grinfie di uomini dediti alle peggiori perversioni. Le sue vicende sembrano quasi seguire un climax che va costantemente peggiorando negli incontri compiuti dalla ragazza; ogni “mostro” a cui deve sottomettersi sembra essere sempre peggio di quello precedente. Ma allora perché il personaggio di Justine può quasi non sembrare una vittima?
Spesso e volentieri la protagonista in momenti di estrema difficoltà non fa altro che appellarsi alla propria virtù, peggiorando così inevitabilmente le già drammatiche situazioni in cui si trova, senza provare effettivamente a trovare una via di fuga o un modo per ribellarsi. Altre volte invece appare sveglia e risoluta, e in alcuni casi riesce quasi a salvarsi, portando il lettore a tifare per la rivalsa di un personaggio che nella maggior parte dei casi sembra essere perduto per sempre. Ma ovviamente Justine é la protagonista destinata a soccombere e le sventure continuano a perseguitarla, non lasciandola mai del tutto in pace. Il suo è comunque unpersonaggio molto ben riuscito; quante ragazzine come lei riuscirebbero a perseguire rigidamente una morale così alta senza cercare di ricorrere a qualsiasi losco escamotage pur di risparmiarsi a situazioni tanto drammatiche? Ebbene Jusine ce la fa, e fino alla fine della storia, senza mai abbandonare i devoti insegnamenti cristiani e mantenendo costanti i tratti del suo personaggio. Tuttavia leggendo l’opera una domanda sorge spontanea: Justine, pur essendo una vittima innocente, non è lei la fonte principale di tutti i suoi mali, l’unica vera fautrice del proprio destino?
Lieto fine o dramma senza fine?
Al termine di una serie di sventure che sembrano non finire mai, sorge spontaneo al lettore chiedersi come andrà a finire la storia di questa povera ragazza, e sorge altrettanto spontaneo pensare, o meglio, sperare in un riscatto finale della fanciulla. Ma de Sade non riserva alcuna pietà per la povera Justine. L’opera incarna infatti un perfetto manifesto di pessimismo e corruzione senza fine, e lo stesso de Sade nell’introduzione mostra una ben manifesta irritazione verso i romanzi “classici”, dove il bene e la virtù alla fine trionfano sempre sui mali e sui vizi, regalando ai lettori un perenne, nonchè scontato, lieto fine. Tuttavia, al posto di questo schema classico, qui viene portato sulla scena un modello tutt’altro che “classico”.
“…Una sfortunata errante di disgrazia in disgrazia; giocattolo di ogni scelleratezza; bersaglio di tutti i vizi…”.
Da “Justine o le disavventure della virtù”
Tuttavia, nonostante sembri aprirsi una minuscola luce alla fine di un tunner che pareva infinito, la sorte mette nuovamente i bastoni tra le ruote alla povera Justine senza porre così una fine ai suoi drammi. Sebbene Justine rappresenti una protagonista più che virtuosa nella sua alta moralità, non fa che imbattersi nella peggior specie di individui, per la maggior parte perversi libertini, i quali utilizzano dei sofismi e complicati meccanismi per tentare di convincerla dell’inutilità della sua virtù. Il lieto fine pertanto è del tutto inesistente, così come per la ragazza è inesistente qualsiasi forma di riscatto. Tuttavia non si presenta come un’opera del tutto priva di momenti lieti o di piccole “risalite” in superficie; tali elementi ci sono, ma si tratta inevitabilmente di momentanee illusioni della ragazza, e dunque anche del lettore stesso.
L’erotismo come sfondo
Justine o le disavventure della virtù, nonostante venga etichettato come un romanzo erotico, svela più un dramma personale, che segue appunto meticolosamente tutte le continue sciagure di Justine. Sebbene ci sia una certa insistenza sul tema dell’erotismo, il quale funge da protagonista per ogni evento in cui si imbatte la ragazza, esso rappresenta in realtà solamente uno “sfondo”, una base sulla quale sviluppare le drammatiche vicende che si susseguono lungo la storia.
L’opera è in sé piuttosto cruda, e talvolta anche molto violenta. Tuttavia nonostante ciò in alcuni punti può addirittura risultare lenta e quasi “noiosa”; questo perchè lo scopo principale dell’autore non è quello di trasmettere un qualsiasi romanzo erotico “di piacere”, così come sarebbe stato per ogni fabliaux di epoca medievale, bensì quello di analizzare il più accuratamente possibile l’evoluzione e soprattutto la psicologia della protagonista attraverso una serie di peripezie dalle quali riesce sempre ad uscirne illesa, per poi ricadere nuovamente di volta in volta in una disgrazia ancora peggiore rispetto a quella precedente. Infatti la salda virtù di Justine non cede mai, fedele ai suoi principi, nonostante le disgrazie la perseguitino in un crescendo infinito, tanto che sarà proprio una fine agghiacciante ad attendere la protagonista, che non ha voluto piegarsi alla traviata morale del mondo.
Proprio per tutte queste motivazioni prevalgono lunghe riflessioni della ragazza, monologhi e lunghe narrazioni moltodettagliate rispetto alle sue condizioni psicologiche, piuttosto che fisiche; come ci si potrebbe invece aspettare. L’erotismo è dunque solamente un mezzo narrativo, tipico del “divin marchese”, per poter mostrare il più concretamente possibile qualcosa di molto più profondo, come ad esempio sottolineare quanto la bigotta devozione dell’epoca potesse anche risultare dannosa, se non letale; e Justine ne rappresenta la prova.
L’opera come condanna sociale
Non si tratta pertanto di un’opera leggera e scorrevole, e per molti punti di vista può anche risultare appunto spesso pesante o quasi “noiosa”, ma se si ha un po’ di pazienza e tanta voglia di leggere oltre le righe, si potranno scorgere, oltre ai numerosi riferimenti sessuali, delle profonde riflessioni psicologiche, se non addirittura filosofiche e sociali. De Sade infatti non scrive unicamente per puro diletto; le sue sono spesso e volentieri delle vere e proprie critiche dirette contro i numerosi tabù che rispecchiano la società della sua epoca, le quali vogliono appunto inneggiare a un aperto libertinismo che in realtà molti praticavano, seppur velatamente, ma nessuno aveva davvero il coraggio di declamare.
Egli rappresenta infatti l’altra faccia di una società bigotta e corrotta com’era quella del ‘700, e incarna la ribellione e la condanna nei confronti di questa società, la quale gli ha unicamente procurato il carcere e il manicomio. De Sade pertanto non utilizza la sessualità come mezzo letterario di piacere, bensì come vero e proprio strumento di condanna sociale verso tale comunità tanto rivolta al perbenismo, quanto alla comune pratica di “nascondere tutto il marcio sotto un semplice tappeto”. Questo emerge duramente nelle sue opere.
«Questi sono i sentimenti che dirigeranno il mio lavoro, ed è in considerazioni di questi motivi che chiedo indulgenza al lettore per i filosofemi erronei che sono messi in bocca a più di un personaggio, e per le situazioni talvolta un po’ forti che, per amore della verità, ho ritenuto di mettere sotto i suoi occhi ».
Durante il corso del I secolo a.C. l’Impero romano era sulla via di un successo senza precedenti, in quanto reduce dagli immensi trionfi ottenuti grazie alle vittorie conseguite durante le tre guerre puniche, le quali Roma poterono garantire a Roma un’ingente quantità di oro e ricchezze. Tuttavia l’Urbs, nonostante l’evidente condizione di splendore e ricchezza in cui si trovava, era all’epoca teatro di innumerevoli giochi di potere per il controllo del quadro politico della Repubblica e, sempre in questi anni, assisteva tacita alla lotta intestina tra due importanti ceti sociali: gli optimates, fazione più conservatrice e favorevole all’aristocrazia, e i populares, sostenitori delle istanze popolari nonchè “base” dell’autorità dei Tribuni della Plebe. Pertanto continue tensioni sociali e violenti scontri armati erano all’ordine del giorno, come il celebre conflitto tra Clodio (fazione dei populares) e Milone (fazione degli optimates).
In questo clima estremo di avversità, rivolte e scandali, a Roma spicca un uomo che avrà un ruolo tutt’altro che indifferente negli equilibri politici e sociali dell’Urbe. Tale personaggio era, come il padre, un accanito sostenitore del celebre condottiero Gaio Mario (157-86 a.C.), militare e politico romano, eletto per sette volte consecutive console della Repubblica, nonchè abile riformatore per quanto riguarda la leva militare e l’esercito, oltrechè Tribuno della Plebe. Apparteneva infatti anch’egli alla fazione dei populares e rappresenterà uno dei massimi esempi da seguire per il protagonista di questa vicenda, destinato a ribaltare per sempre la scena storica e politica di quello che sarà il più glorioso impero che il mondo antico abbia mai conosciuto. Quest’uomo compie una delle sue prime apparizioni in una piccola casa popolare nella Suburra romana, uno dei quartieri più malfamati di tutta Roma.
L’entrata cesariana in politica
Gaio Giulio Cesare nasce il 12 Luglio del 100 a.C., figlio del pretore e senatore Gaio Giulio Cesare e della nota matrona appartenente alla gens Aurelii, Aurelia Cotta. Egli pertanto apparteneva per discendenza all’illustrissima gens Julia, così chiamata perchè direttamente originata da Julo, il figlio di Enea e, stando a quanto viene riportato da miti e leggende, della dea Venere. Apparteneva dunque a una genealogia che potremmo definire “divina”. Cesare divenne fin da subito un personaggio molto popolare a Roma, schierandosi come lo zio Gaio Mario al fianco della factiones dei populares, nonostante provenisse da una nobile famiglia, e crebbe in una situazione di tensioni e fazioni contrapposte. Tutti questi elementi contribuirono con ottime probabilità a sviluppare il suo carisma e la sua marcata intraprendenza non solo in campo politico, ma anche militare.
Cesare infatti trascorse la sua gioventù sotto la spietata dittatura esercitata da Silla (colui che aveva precedentemente sconfitto Gaio Mario), il quale non perdeva occasioni per lanciare “frecciatine” al ragazzo sulla sua eccessiva effeminatezza. Per queste ragioni egli non si sentiva al sicuro nel rimanere a Roma, e decise pertanto di partire volontario verso l’Asia dove, sotto al comando del propretore Marco Minucio Termo, partecipò direttamente nella guerra contro Mitridate VI del Ponto, insorto ancora una volta contro Roma. Questa fu probabilmente una delle prime vicende che permisero a Cesare si distinguersi militarmente. Egli infatti nell’assedio di Mitilene ottenne anche la corona civica, una delle ricompense militari più importanti, concessa come premio solamente a chi salvava cittadini romani in battaglia.
Tuttavia, ciò che maggiormente gravava sullo status di Cesare, erano gli ingenti debiti nei quali si ritrovava da tempo. Infatti, sebbene la sua famiglia avesse origini aristocratiche di un certo livello, non era affatto ricca per gli standard della nobiltà romana, e questo certamente lo motivò ad avvicinarsi rapidamente a illustri e abbienti personaggi che potessero aiutarlo, come Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso (entrambi consoli nel 70 a.C.). Egli riuscì infatti ad avviare la sua celebre carriera politica grazie al sostegno di questi due rinomati cittadini e uomini politici. Schierato appunto con i populares e dotato di un eccelso carisma, riuscì rapidamente a convincere la Repubblica riguardo l’urgente bisogno di riforme radicali, che per essere realizzate necessitavano di un forte potere pubblico al comando, capace di superare le ricchezze e il grande potere degli ottimati.
Il suo percorso politico-militare inizia, come precedentemente citato, in Asia, dove prese parte alla guerra contro Mitridate VI del Ponto, combattendo nella provincia orientale e arruolando navi e milizie ausiliarie. Nel 73 a.C., mentre si trovava ancora a Oriente, venne eletto nel collegio dei pontefici. Una volta tornato a Roma, nel 72 a.C., Cesare fu anche eletto tribuno militare, risultando persino il primo degli eletti. I suoi rapporti erano particolarmente stretti con Crasso, il quale lo aiutò più volte a finanziare le sue campagne elettorali e a estinguere i suoi numerosi debiti, fino a quando venne non eletto questore nel 69 a.C., un anno dopo il consolato di Pompeo e Crasso. Un ulteriore evento particolarmente significativo fu la sua elezione, nel 65 a.C., a edile curule, carica che lo portò a diventare in modo più che definitivo come il nuovo e massimo leader del movimento popolare.
Tuttavia l’apice della sua carriera politica è da ricollegarsi a un celebre evento che toccò profondamente la storia di Roma del I secolo a.C., ovvero il primo triumvirato. Nel 60 a.C. Cesare infatti stipulò, di comune accordo insieme a Crasso e Pompeo (i maggiori capi politici del tempo), un accordo privato e segreto che, pur non trattandosi di una vera e propria magistratura ma per la notevole influenza dei firmatari, ebbe poi grandissime ripercussioni sulla vita politica e sociale dell’epoca, dettandone gli sviluppi per quasi dieci anni. Gli accordi nati da tale alleanza, fissati a Lucca, prevedevano il proconsolato di Cesare in Gallia e nell’Illirico con il relativo comando di quattro legioni, l’affidamento di Africa e Spagna a Pompeo e infine la provincia di Siria e l’ambita campagna contro i Parti per Crasso che, non avendo ancora conseguito glorie militari, mirava a eguagliare il successo dei compagni. Spartiti i territori e affidati i relativi comandi, Cesare era pronto a lasciare la Repubblica.
Cesare in Gallia: l’ascesa militare
Nel 59 a.C., a un anno dalla stipulazione del triumvirato, Cesare avrebbe dovuto ottenere il consolato, una delle più alte cariche del cursus honorum romano, carica che riuscì a raggiungere grazie all’appoggio di Pompeo e al cospicuo finanziamento di Crasso. Per consolidare ulteriormente questa triplice alleanza, nello stesso anno Pompeo sposò Giulia, la figlia di Cesare. Pertanto, grazie alla lex Vatinia, nel 58 a.C. Cesare era finalmente partito, dopo aver ottenuto il proconsolato dell’Illirico (si trattava di una regione dislocata, in cui Cesare si sarebbe voluto recare per accrescere il suo successo militare direttamente sul campo di battaglia) e della Gallia Narbonense (a seguito della morte del precedente proconsole morto all’improvviso, Quinto Cecilio Metello Celere) e Cisalpina per ben cinque anni. Sebbene si trattasse di province nettamente inferiori rispetto alle eccelse conquiste orientali dell’Impero, riuscì ugualmente a operare una serie interminabile di sconfitte tra le popolazioni celtiche, compresi Elvezi, Aquitani, Veneti, Belgi e Svevi.
Tuttavia, più aumentava il potere di Cesare e più cresceva l’inevitabile timore di Pompeo a Roma, per il fatidico momento in cui il suo ormai temuto avversario delle Gallie sarebbe dovuto rientrare in patria. Cesare sarebbe infatti stato certamente acclamato dai numerosi populares di cui era a capo per i suoi molteplici successi militari e per aver inoltre portato il numero delle sue legioni a dieci, un dato non indifferente, simbolo del nuovo potere e prestigio che stava acquisendo. Nel frattempo il triumvirato si stava lentamente sgretolando e, intorno al 53 a.C.Crasso, privo di adeguate esperienze militari, era stato sconfitto nella battaglia di Carre, aveva perso le insegne romane (immane disonore per un comandante romano) ed era stato ucciso dai Parti. Cesare e Pompeo erano ora dunque i padroni indiscussi della scena politica romana.
Intorno all’anno 50-49 a.C., il carismatico condottiero Gaio Giulio Cesare aveva infatti ormai conquistato quasi tutta la Gallia (territorio comprendente oggi Francia e particolari zone di confine tra Svizzera, Belgio, Paesi Bassi e nord Italia. Compì inoltre numerose incursioni in Britannia e in Germania) ed era di ritorno da una campagna militare durata quasi dieci anni che lo aveva visto coinvolto in numerose vittorie, come la battaglia di Alesia, e indiscutibili successi, tra cui la sconfitta del grande condottiero Vercingetorige. Tuttavia, le imprese svoltesi in Gallia non furono affatto una passeggiata per Cesare e le sue truppe, poiché i galli opposero una strenua resistenza, sconfiggendo anche i romani in molteplici occasioni; si trattava di popolazioni fiere e bellicose, che difficilmente accettarono una resa pacifica.La lotta contro i galli rappresentò infatti un’enorme sfida militare, che rese evidente il motivo per cui l’esercito romano fu il più potente ed efficace dell’antichità.
Le ricchezze, la gloria e la fiducia di un esercito che lo ammirava e rispettava per il suo grande carisma, erano solo alcuni dei principali obbiettivi che Cesare si era prefissato per poter contrastare a Roma il crescente potere politico di Pompeo. La sua inimitabile leadership fu certamente una delle chiavi del trionfo romano in Gallia, poichè lo stesso Cesare riuscì a spingere più volte il suo esercito a compiere imprese che per altri generali sarebbero state inaccettabili, come le due spedizioni dirette verso l’Isola della Britannia. Inoltre Cesare sapeva che il risultato finale delle sue campagnedipendeva in primo luogo dalle sue truppe, per questo motivo questo s’impose come un eccellente motivatore,capace di far sì che i suoi uomini si dedicassero interamente a qualsiasi impegno. A contribuire ad accrescere il suo enorme successo militare furono anche l’aggressività e la velocità con cui condusse le sue numerose campagne.
La “tensione” politica a Roma: Pompeo e il senato
Tuttavia Crasso era ormai uscito dalla scena politica, determinando così il definitivo scioglimento del triumvirato, e Pompeo, nettamente più avanti con gli anni rispetto al giovane conquistatore delle Gallie, aveva ottime ragioni per temere il crescente successo e carisma di Cesare a Roma. Pompeo infatti, sebbene avesse da poco ottenuto la carica di proconsole in Spagna, si trovava ancora a Roma e, nel 52 a.C., venne eletto dal senato consule sine collega (ovvero “console senza collega”). Tuttavia Cesare possedeva un grande numero di legioni a lui ciecamente fedeli, le quali a loro volta non facevano altro che accrescere la sua già elevatissima ambizione bellica e politica. La situazione a Roma era pertanto molto tesa e la guerra civile quasi inevitabile; il casus belli infatti non tardò molto ad arrivare.
Il senato infatti era estremamente preoccupato per gli innumerevoli successi conseguiti da Cesare, il cui mandato in Gallia stava ormai per giungere al termine. Pompeo e il senato infatti, da tempo alleati contro l’imminente pericolo, stavano dunque disperatamente tentando di tenere le redini di un contesto politico in pieno fermento, quando giunse la notizia che Cesare avrebbe voluto, una volta rientrato in patria, candidarsi per il consolato. Tale carica era infatti tra le più ambite del cursus honorum romano, poiché garantiva l’immunità e, dato il crescente numero di sostenitori cesariani, sarebbe quasi certamente riuscito a ottenerla. Tuttavia Pompeo, per colpirlo nel vivo, in piena alleanza con il senato che temeva anch’esso la sua ascesa, promulgò una legge che non gli avrebbe permesso di candidarsi, se non da privato cittadino. Questo avrebbe significato per lui entrare a Roma senza l’esercito al seguito, in balia di un uomo che aveva il pieno potere sulla Repubblica e il completo appoggio dei senatori romani.
La trappola escogitata con l’aiuto dei senatori si sarebbe dunque inevitabilmente conclusa con l’arresto di Cesare e la sua definitiva eliminazione dalla scena politica, garantendo così l’esclusivo consolato a Pompeo, che si sarebbe poi tradotto in una dittatura. Cesare accettò dunque di tornare nell’Urbe senza le sue truppe, a patto che Pompeo accettasse di sciogliere il suo di esercito e tutte le sue truppe. Data la precarietà e la pericolosità della situazione, poichè Cesare pur senza l’appoggio delle sue truppe avrebbe comunque avuto un enorme sostegno popolare (l’opinione pubblica era molto importante, poichè costituiva la stragrande maggioranza della popolazione, e le rivolte erano all’ordine del giorno), Pompeo e il senato non accettarono in nessuna maniera possibile l’ultimatum del generale.
Tuttavia il senato, con la scusa di dover proteggere la Siria dai continui attacchi dei Parti, richiese che fossero aggiunte due legioni alla provincia orientale; Pompeo a questo punto non esitò a richiedere a Cesare le due legioni che, nel 53 a.C., gli aveva concesso in prestito per la sua impresa in Gallia. Cesare pertanto fu costretto a piegarsi a tali richieste, rinunciando così a due delle sue legioni. Fu solo a questo punto che il generale delle Gallie si rese conto che il conflitto era inevitabile e si recò allora con la XIII legione a Ravenna dove fu da quest’ultima acclamato imperator. A questo punto Cesare era completamente esposto e sul punto di diventare ufficialmente un nemico della res publica.
L’attraversamento del Rubicone e la guerra civile romana
La situazione, già gravemente incerta prima, si trovava ora a un bivio: Cesare avrebbe infatti potuto congedare l’esercito, scelta di per sè estremamente pericolosa essendo lui pienamente consapevole delle forze politiche e militari che possedevano Pompeo e il senato, o ribellarsi completamente alle imposizioni di Pompeo e senatori, preparando così le legioni in modo da poter oltrepassare il più importante confine politico della penisola italica, il fiume Rubicone. Tale fiume, pur non vantando notevoli dimensioni, rappresentava un limite inviolabile e attraversarlo in armi significava per i generali romani una vera e propria violazione delle leggi, oltrechè una sfacciata sfida posta nei confronti l’Urbe. Il Rubicone infatti segnò per un breve periodo (tra il 59 a.C. e il 42 a.C.) il “sacro” confine tra l’Italia, considerata come una parte integrante del territorio di Roma, e la provincia non da molto annessa della Gallia Cisalpina. Risultava pertanto severamente vietato a tutti i generali romani attraversarlo con l’esercito in armi.
Ma l’ambizione e la salda tenacia di Cesare non si sarebbero arrestate, infatti l’ultimo disperato tentativo del senato (il 7 Gennaio) di arrestare la sua avanzata, si tradusse in un estremo ultimatum che gli intimava severamente di restituire l’intero comando militare, ultimatum a cui Cesare non cedette mai. Pochi giorni dopo infatti, il 10 Gennaio del 49 a.C., prese una decisione che avrebbe cambiato per sempre il corso degli eventi storici, politici e sociali di Roma e, armate le truppe, scelse di attraversare il fiume presentandosi nella città armato e prossimo a sfidare Pompeo in una guerra civile che si sarebbe inevitabilmente scatenata da tale gesto. Cesare riuscì a entrare a Roma senza incontrare alcun tipo di resistenza, e tale guerra (49-45 a.C.) non tardò ad arrivare. Pompeo venne colto totalmente alla sprovvista, e si ritrovò costretto a fuggire il più rapidamente possibile da Roma, rifugiandosi in Macedonia, dove sperava di radunare un vasto esercito da contrapporre a Cesare.
La guerra civile romana vede Cesare come protagonista indiscusso accrescere senza fine il suo potere politico e militare in pochissimo tempo. Lo stesso anno infatti, sempre nel 49 a.C., Cesare riuscì a conquistare interamente la penisola italiana e a sbaragliare in Spagna tutte le legioni ancora fedeli a Pompeo. Un anno dopo poi, nel 48 a.C., ottenne la nomina di console e partì verso la Grecia, dove, in Tessaglia, precisamente a Farsalo, sconfisse clamorosamente l’esercito di Pompeo, che si rifugiò in Egitto presso il faraone Tolomeo XIII, fratello di Cleopatra, il quale lo fece assassinare a tradimento. Figli e seguaci di Pompero proseguirono ancora per qualche anno il conflitto contro Cesare fino a quando, nel 45 a.C., i pompeiani supersiti guidati da Sesto Pompeo (comandante militare e figlio di Pompeo) vennero sbaragliati definitivamente a Munda, in territorio spagnolo.
Pertanto, il termine della guerra civile romana rappresenta un momento fondamentale sia per la storia romana che per la carriera politica e militare di Cesare. Egli a questo punto potè infatti ritornare a Roma indisturbato e praticamente privo di nemici che tentassero di ostacolare le sue ambizioni, ottenendo così la carica di dictator vitae (ovvero “dittatore a vita”). Tale carica rappresentava una figura caratteristica dell’assetto della costituzione della Repubblica romana, poichè garantiva un potere assoluto e non poteva essere controllato da nessuna istituzione o magistratura. Poteva inoltre sospendere tutti gli altri magistrati forniti di imperium o conservarli nel loro ufficio, ma essi sarebbero stati sempre e comunque subordinati a lui. In origine veniva scelto unicamente dai patrizi e, solo a partire dal 356 a.C., la dittatura fu accessibile anche ai plebei. In conclusione, quella di Cesare potrebbe essere riassunta come una vera e propria ascesa politica, poichè egli, partito come semplice miles (il miles nell’antica Roma era il soldato semplice, colui che non possedendo un cavallo doveva spostarsi unicamente a piedi), riuscì in poco tempo a raggiungere la più alta e riconosciuta carica di tutta la Repubblica, quella appunto di dictator.
Ormai da decenni la peste rappresenta nell’immaginario collettivo una terribile visione di morte tipica del periodo tardo-medievale; ma non è sempre stato così. Dipinti, racconti, poesie e persino leggende si sono succeduti per tentare di rappresentare un male considerato spesso divino e quindi inspiegabile agli occhi dell’uomo, un male che in varie epoche non ha mai lasciato scampo e sul quale si sono ripetutamente interrogati i più autorevoli medici, autori, maestri e filosofi del tempo.
Nel corso dei secoli infatti gravi pestilenze si sono abbattute su tutto il vecchio continente, in epoche e luoghi assai differenti. Una delle più disastrose epidemie di peste della storia si è manifestata nell’Atene classica, intorno al V secolo a.C., durante un periodo storico a dir poco travagliato per la storia della Grecia: la“Guerra del Peloponneso” (431-404 a.C.).
L’opera tucididea e il conflitto tra Atene e Sparta
Narratore di questi eventi è appunto uno dei più grandi storici dell’epoca, Tucidide, vissuto tra il V ed il IV secolo a.C., fautore di un’opera che porterà con sé fonti ed elementi storici di grandissimo rilievo: “La Guerra del Peloponneso“. La celebre opera, suddivisa in otto libri, offre anche uno spunto essenziale per ricavare accurate riflessioni su quello che oggi definiamo un “metodo storico” scrupoloso, quasi scientifico, basato cioè su fonti certe e attendibili, di cui Tucidide viene considerato padre e fondatore. Su tale base l’autore sceglie di introdurre la narrazione in questo modo:
“Giacché gli avvenimenti precedenti alla guerra e quelli ancora più antichi erano impossibili a investigarsi perfettamente per via del gran tempo trascorso e, a giudicar dalle prove che esaminando molto indietro nel passato mi capita di riconoscere come attendibili, non li considero importanti né dal punto di vista militare né per il resto.“
Tucidide, “La Guerra del Peloponneso“, (1,3, libro I)
Trattandosi di un testo prettamente storico prevalgono ovviamente numerosi riferimenti diretti alla “Guerra del Peloponneso”, tra cui strategie belliche e scelte politiche, per la partecipazione attiva di Tucidide come testimone oculare, il quale combatté in prima persona come stratega venendo poi esiliato a causa di un grave e imperdonabile fallimento. Si tratta di un conflitto senza precedenti, scoppiato tra il 431 e il 404 a.C., rivolto unicamente contro la fiorente città di Atene.
Tra le cause secondarie e il casus belli principale bisogna però considerare la situazione di tutta la Grecia, ormai esausta a per gli ingenti tributi a cui era sottoposta e per le vessazioni imposte dal duro imperialismo egemonico ateniese. Tuttavia, nonostante Atene dominasse il mare con una potentissima flotta, Sparta riuscì a invadere l’Attica con un grande esercito, costringendo gran parte della popolazione a cercare rifugio all’interno delle grandi mura del Pireo, il porto ateniese. Fu proprio in quella tragica situazione di sovraffollamento che scoppiò l’epidemia, aggravata ancor più da un clima torrido e da condizioni igieniche pessime e precarie. Tucidide si sofferma poi su tre celebri discorsi relativi al conflitto tenuti da Pericle, personaggio fondamentale per le vicende storiche e politiche dell’Atene classica, morto anch’egli a causa del morbo.
Per ultimo, ma non per importanza, l’autore all’interno del II libro oltre a narrare le vicende belliche dedica un ampio excursus storico riferito all’epidemia che devastò Atene tra il 430 e il 427 a.C. contemporaneamente alla guerra, già di per sé estremamente rovinosa per le sorti del conflitto e della città. Si tratta pertanto di un’opera completa, storicamente e politicamente, soprattutto per l’attenzione rivolta ai dettagli e l’accuratezza mostrata verso i principali fatti storici narrati. Tuttavia a rendere Tucidide un maestro del “metodo storico” non è solamente un testo basato su indizi sicuri e veridicità storiche (fondate cioè su fatti realmente accaduti), ma la sua acuta capacità di descrizione nei confronti di eventi estranei a vicende storiche degne di nota, come la pestilenza.
La peste dal punto di vista medico, scientifico e umano
Tucidide dedica un lungo paragrafo al tema dell’epidemia ateniese, nel quale sceglie di soffermarsi non sull’evento storico in sé, quanto più sul tema della pestilenza a livello scientifico e umanitario. Scopo principale dell’autore è infatti narrare e documentare, ovvero mettere in guardia il lettore nei confronti di una storia che non è mai totalmente magistra vitae ma piuttosto pessimistica, da cui l’uomo non impara mai veramente e di cui non è l’unico protagonista delle vicende, ma vi partecipa attivamente insieme a epidemie, carestie, eclissi e terremoti; elementi mai trascurati nonostante le narrazioni di Tucidide abbiano un carattere prettamente storico.
La storia di Tucidide andrebbe perciò “ammaestrata” in modo da permettere all’uomo di non ripetere gli stessi errori del passato. Tuttavia tale insegnamento è molto relativo, poiché questi errori vengono con estrema facilità ciclicamente ripetuti, nonostante Tucidide cerchi di trasmettere come combatterli. La peste rappresenta infatti la grande occasione tucididea per attuare il suo “metodo storico”. Essa viene descritta in modo scientifico e razionale per comprenderla e conoscerla al meglio anche dal punto di vista umano, oltre che ovviamente medico. Nel descrivere la tremenda malattia, fino ad allora sconosciuta agli ateniesi, Tucidide si sofferma sul momento iniziale del morbo: le cause, i sintomi, i morti e la reazione dei medici di fronte a un male totalmente ignoto; ed erano proprio i medici a morire per primi, a causa della necessaria vicinanza con i pazienti.
“Né i medici erano di aiuto, a causa della loro ignoranza, poiché curavano la malattia per la prima volta, ma anzi loro stessi morivano più di tutti, in quanto più di tutti si avvicinavano ai malati; né serviva nessun’altra arte umana.”
Tucidide, “La Guerra del Peloponneso“, (47,4, libro II)
Giunge poi a una descrizione fortemente umanitaria e ricca di pathos, nella quale evidenzia le principali reazioni umane, tra le quali spiccano paura, sgomento, solitudine e scoraggiamento. Uno degli scopi principali dell’autore è inoltre riportarci vari eventi quotidiani, per sottolineare come vennero completamente sconvolti dal morbo, tra i quali troviamo: numerosi furti per lo spopolamento delle case a causa della malattia, non più solenni funerali singoli ma roghi comuni per sbarazzarsi dei cadaveri, sempre più persone ammassate nei templi per riversare lo sgomento generale sulle preghiere e affidarsi agli dei, e infine varie congetture con lo scopo di dare un senso a questo male sconosciuto, come l’accusa verso i peloponnesiaci di aver avvelenato i pozzi.
“Nella città di Atene piombò improvvisamente, e i primi abitanti che attaccò furono quelli del Pireo; e così tra essi si disse anche che i Peloponnesiaci avevano gettato veleni nei pozzi: là infatti non c’erano ancora fontane. Poi arrivò anche nella città alta, e da allora i morti aumentarono di molto.”
Tucidide, “La Guerra del Peloponneso“, (48,2, libro II)
Nonostante il morbo sia stato catalogato per lunghissimo tempo come una vera e propria pestilenza, oggi esperti e studiosi pensano in realtà che si trattasse di un altro tipo di malattia, e che più probabilmente fosse una sorta di vaiolo o di febbre tifoide, per i sintomi violenti e immediati che procurava in un tempo brevissimo (rispetto a come sarebbe stato per una comune epidemia di peste).
“Gli altri invece, senza nessuna causa apparente, mentre erano sani improvvisamente venivano presi da violente vampate di calore alla testa e da arrossamenti e infiammazioni agli occhi, e tra le parti interne la faringe e la lingua erano subito sanguinolente ed emettevano un alito insolito e fetido. Poi, dopo questi sintomi, sopravveniva lo starnuto e la raucedine, e dopo non molto tempo il male scendeva nel petto, ed era accompagnato da una forte tosse. E quando si fissava nello stomaco, lo sconvolgeva, e ne risultavano vomiti di bile di tutti i generi nominati dai medici, e questi erano accompagnati da una grande sofferenza.“
Tucidide, “La Guerra del Peloponneso” (49, 2-3, libro II)
Tuttavia essa ebbe tutte le caratteristiche proprie di qualsiasi epidemia della storia, riuscendo ad abbattere psicologicamente l’umore e la quotidianità delle persone, e provocando migliaia di morti; forse addirittura arrivò a dimezzare la popolazione ateniese, cifre per l’epoca davvero esorbitanti, di cui Tucidide stesso si rese conto, riportando puntualmente lo sgomento che vigeva in quel tempo.
“Nessun corpo si dimostrò sufficientemente forte per resistere al male, fosse robusto o debole, ma esso li portava via tutti, anche quelli che erano curati con ogni genere di dieta. Ma la cosa più terribile di tutte nella malattia era lo scoraggiamento quando uno si accorgeva di essere ammalato (poiché i malati si davano subito alla disperazione, si abbattevano molto di più e non resistevano), e il fatto che per aver preso la malattia uno dall’altro mentre si curavano, morivano come pecore: questo provocava il maggior numero di morti.“
Tucidide, “La Guerra del Peloponneso” (51,4, libro II)
L’importanza dei comportamenti umani nel corso della storia
Attraverso una digressione tanto struggente Tucidide dimostra ancora una volta che la storia non è riassumibile in un muto susseguirsi di vicende più o meno rilevanti, ma va invece rappresentata e studiata anche attraverso le reazioni umane. Pertanto assumono un ruolo di assoluto rilievo la psicologia, i comportamenti degli uomini e le azioni quotidiane in relazione a tali fenomeni tanto significativi per lo studio della storia.
Tucidide sceglie di esporre molto dettagliatamente la pestilenza proprio per l’effetto che quest’ultima ebbe sull’animo degli uomini, e non per come influenzò l’andamento degli eventi storici futuri. In una critica situazione di guerra il sopraggiungere di un’epidemia portò gli ateniesi al limite della sopportazione, rendendoli capaci di azioni ignobili e disumane, e questo l’autore lo esprime con una grande cura verso i dettagli.
A regnare è infatti l’“anomia”, ovvero la più totale assenza di leggi, che porterà inevitabilmente a una situazione di disordine e anarchia in cui gli individui cercano disperatamente di sopravvivere aggrappandosi ai propri istinti senza più alcuna inibizione. Attenendosi perciò strettamente al suo ruolo di storico Tucidide si mostra come testimone diretto dell’evento e ce lo riporta privandosi di ogni possibile elemento etico o morale, con il solo e unico scopo di informare e documentare i posteri riguardo l’andamento della storia e di come essa possa interagire con la labile natura umana. E, proprio come scrive l’autore: “Atene fu distrutta dalla paura della peste, non dalla peste”. Si tratta certo di uno squarcio raccapricciante, incapace di infondere sicurezza e perciò ancor oggi perfettamente in grado di suggestionare qualsiasi lettore moderno.
La peste di ieri e la peste di oggi
Il tema della pestilenza rappresenta ormai da secoli una delle più grandi occasioni per parlare di storia, scienza e medicina allo stesso tempo. Autori, poeti, scrittori e persino pittori e scultori si sono destreggiati su questo tema cercando di mostrare nel miglior modo possibile gli effetti del male, come esso influisce sulla psicologia umana e come viene affrontato in base alle diverse epoche storiche. L’idea di un morbo che esplode all’improvviso scatenando il panico e l’incertezza verso cure e guarigioni introvabili garantisce ancor oggi una fonte tragica sulla quale poter costruire grandi narrazioni storiche ma anche possibili racconti di fantasia.
La tragicità causata da morte e distruzione rappresenta anche un’occasione per evidenziare gli effetti della malattia sul corpo umano, a livello quindi medico/scientifico, ma porta spesso e soprattutto a profonde riflessioni di tipo religioso/divino, poiché l’uomo da sempre necessita di un elemento superiore a cui appoggiarsi in caso di estremo pessimismo. Si tratta pertanto di un tema largamente discusso ancor oggi, in grado di scatenare ferventi discussioni e, ma anche capace di lasciare un enorme fascino nella letteratura e nella storia di tutti i tempi.
è passato circa un mese da quando ho pubblicato il post sui preferiti di Giugno e devo ammettere che è stato molto apprezzato, ho deciso quindi di ripetere l’esperienza anche questo mese con i preferiti di Luglio.
Quelli che andrò a consigliarvi in questo mese sono cose che ho letto o visto dall’ultimo post dei preferiti, e che mi sono piaciute particolarmente.
Quando ho pubblicato il post sui preferiti di Giugno avevo appena iniziato a guardare la serie Continuum, una serie Sci-Fi incentrata sui viaggi nel tempo, che avevo già iniziato a vedere qualche anno fa, ma che avevo interrotto perché, preso da tante altre cose non ero riuscito all’epoca a vedere l’ultima stagione.
La serie è un po’ vecchiotta, è stata prodotta e trasmessa tra il 2012 e il 2015, ma tutto sommato è invecchiata abbastanza bene, l’ho guardata con piacere e in molti passaggi è stata quasi profetica, nel senso che ha trattato con largo anticipo temi e argomenti che oggi, nel 2020 sono estremamente attuali.
Continuum è una serie fantascientifica e polizziesca, che ruota attorno ai viaggi nel tempo, la sinossi della serie è che un gruppo di terroristi, in un futuro distopico, nell’anno 2077, in seguito ad un attentato, vengono condannati a morte, ma, durante l’esecuzione succede qualcosa e vengono catapultati indietro nel tempo, ritrovandosi nella stessa città, Vancouver, ma nel 2012. Insieme a loro, sembra per un incidente, si ritrova a viaggiare nel tempo anche la protagonista della serie, un agente di polizia del futuro che, insieme alla polizia di Vancouver del 2012 darà la caccia ai terroristi.
Il gruppo di terroristi si scoprirà, fin dal primo episodio, essere tornato indietro nel tempo per modificare il corso della storia, al fine di impedire che il mondo vada nella direzione oscura, il loro intento insomma, è impedire che il mondo diventi come nel loro 2077.
Con il passare delle stagioni, le ragioni dei terroristi, ci porranno di fronte ad un divario, perché da un lato ci sono i terroristi di Liber8, intentati nella loro missione, e che sappiamo essere terroristi, se bene le loro ragioni col tempo si dimostreranno essere più che fondate, e dall’altra ci sarà la polizia che, se bene agisca nel giusto, si ritrova a difendere un futuro dalla dubbia moralità in cui le libertà civili ed i diritti sono stati cancellati, non esistono più governi democratici e l’intero mondo sembra essere controllato da un congresso societario, una corporazione di multinazionali che sono padrone del mondo ed hanno asservito l’intera popolazione mondiale ad una condizione di vera e propria schiavitù.
Nella serie assistiamo ad un incredibile evoluzione dei personaggi e delle loro storie, e almeno a me, durante la visione, in più occasioni, è capitato di sentirmi, almeno per quanto riguarda gli ideali, più vicino a Liber8 che non ai “veri” protagonisti.
La serie si compone solo di quattro stagioni, la prima di 10 episodi, la seconda e terza di 13 episodi e la quarta di soli 6 episodi, per un totale di 42 episodi complessivi.
Ho apprezzato molto la serie ed i temi trattati, anche se, devo riconoscere che ho perdonato diverse forature, e scelte totalmente irrazionali dei personaggi, soprattutto nella quarta stagione, ma molto probabilmente quelle forzature sono state dettate dalla necessità di concludere la serie, non a caso la terza stagione è anche la più breve, con soli sei episodi.
Se vi interessa dare una possibilità a Continnum, la serie è disponibile su Amazon Prime video, quindi se avere amazon prime potete vederla gratuitamente, se invece non siete abbonati e volete provarlo, vi lascio qui il mio link di affiliazione.
Piccola postilla finale, io adoro le serie che trattano il viaggio nel tempo, e trattandosi di un qualcosa di estremamente difficile da gestire in termini narrativi, tendo a perdonare molte incongruenze, in questo caso ho apprezzato molto il modo in cui è stato gestito il concetto di viaggio nel tempo basato sulla teoria del multiverso per cui tutti i futuri sono possibili simultaneamente, e le variazioni nel passato creano nuove diramazioni del continuum spazio temporale, senza però che queste diramazioni influiscano sul futuro originali. In soldoni, il paradosso del nonno, in Continuum non è presente.
Il saggio del mese è: Come acchiappare un asteroide di Adrian Fartade
Con Adrian si vince facile, il suo modo di scrivere e di raccontare è estremamente semplice, appassionante e coinvolgente, in ogni sua parola traspare tutta la sua passione e l’amore per la scienza e l’astronomia e l’esplorazione spaziale, ma non serve che ve lo dica io, basta andare sul suo canale youtube Link4Universe.
Adrian è un divulgatore scientifico, giovane, appassionato, simpatico, ma soprattutto un amico, ma non fraintendetemi, non ho letto il suo libro sugli asteroidi perché è un amico, l’ho letto perché dopo aver finito di leggere il suo primo libro “A piedi nudi su marte” e “Su nettuno piovono diamanti” rispettivamente primo e secondo “capitolo” sui pianeti del sistema solare, ne volevo ancora, ero letteralmente ingordo di informazioni su un argomento, come l’esplorazione spaziale e il nostro sistema solare, su cui so pochissimo, e questo libro mi ha dato esattamente ciò che volevo.
Informazioni precise e puntuali raccontate in modo estremamente divertente, con tanti aneddoti legati all’esplorazione spaziale e e una quantità enorme di parallelismi con cose apparentemente non c’entrano assolutamente nulla con gli asteroidi, tipo le fatality di Mortal Kombat, giusto per citare una sua recente stories su Instagram
Lo dico con tutta onestà, leggere questo libro è il più bel regalo che possiate farvi se siete appassionati di scienza e di spazio, se volete acquistarlo, vi lascio il link per acquistarlo su amazon.
Come acchiappare un asteroide è un saggio di carattere divulgativo, edito da Rizzoli
Il romanzo del mese è: Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne
Ho questo libro in casa da secoli, e qualche settimana fa, mentre gettavo le basi per un mio racconto breve ambientato sul finire del XIX secolo, mi sono reso conto di non aver mai letto questo classico intramontabile della letteratura, così ho deciso di recuperarlo e l’ho letteralmente divorato in un solo weekend.
Leggendolo mi sono reso conto che tutto quello che credevo di sapere su Nemo e il Nautilus era sbagliato, avevo una mia idea pregressa del contenuto di questo libro, un idea distorta, probabilmente da innumerevoli adattamenti e rielaborazioni della storia, ed è stato davvero molto bello e piacevole leggerlo.
Non c’è molto altro da dire, se non forse che, una delle opere ispirate alla figura di Nemo e del Nautilus, più vicine alla narrazione di Verne, di cui ho memoria, probabilmente è “The secrets of blue water” serie animata di Hideaki Anno che i miei coetanei probabilmente ricorderanno con il titolo italiano “il Mistero della pietra azzurra”, che con molta probabilità ha fatto innamorare tutti noi di Nadia. Ma questa è un altra storia.
In ogni caso, io ho una vecchia edizione Polaris, datata 1994, che non ho idea di dove l’abbia presa, da che ho memoria quel libro è stempre stato in casa mia, vi lascio comunque, qualora voleste recuperarlo, un link per un edizione economica feltrinelli, che ha una delle copertine più belle in assoluto.
Del film Jojo Rabbit di Taika Waititi ho già parlato in maniera più ampia in una recensione, qui mi limiterò a dire che il film è assolutamente meraviglioso.
La comicità demenziale di Waititi offre in modo estremamente leggero e semplice, un immagine assolutamente perfetta dell’uomo medio nella germania nazista. Nella mia recensione, che vi invito a recuperare, non ho potuto fare a meno di tracciare un parallelismo tra Jojo Rabbit e La banalità del male di Hannah Arendt, e voi direte, cosa c’entra un film comico demenziale con protagonista un bambino di 10 anni, con un saggio che racconta le vicende del processo di gerusalemme ad Adolf Eichmann? Apparentemente nulla, e pure, entrambe le opere sono come le due facce della stessa medaglia, e raccontano, con registri e strumenti narrativi diversi, la società tedesca durante il regime nazista. Ma vi invito a recuperare la recensione, e il film, per saperne di più.
Approfitto dello spazio dedicato a Jojo Rabbit per consigliarvi anche una canzone, che a mio avviso completa il trittico sull’uomo medio della germania nazista, la canzone è “L’uomo di Monaco” dei Nomadi, pubblicata per la prima volta nel 1988 con l’album Ancora Nomadi.
Se avete libri o serie da consigliarmi, scrivetelo nei commenti o mandatemi un messaggio privato su Instagram o nei vari social su cui sono presente come historicaleye. Per il momento ho già in mente un saggio per il prossimo mese, e probabilmente un film, anzi, una saga cinematografica, ma sono sempre aperto a consigli e suggerimenti.
Il natale è un culto pagano, nato nel sangue e dalla necessità di creare unità e avvicinare popoli e culture diverse, partendo da una mitologia arcaica comune o comunque molto simile.
Il natale è un culto pagano, introdotto nella tradizione cristiana intorno alla metà del IV secolo d.c, ed è un culto nato nel sangue e dalla necessità di creare unità e avvicinare popoli e culture diverse, che partendo da una mitologia arcaica comune o comunque molto simile, potevano più facilmente essere convertite al cristianesimo.
Sono passati quasi XVIII secoli da quando, nel 274, l’Imperatore romano Aureliano, estimatore dei culti orientali, introdusse ufficialmente nella religione romana, e nei suoi rituali, la celebrazione del “Dies Natalis Solis Invicti” da cui, intorno all’IV secolo, Epifanio di Salamina, un vescovo e scrittore greco, vissuto prima dello scisma tra Cattolicesimo Romano e chiesa Copta/Ortodossa, avrebbe osservato che, in alcune città d’oriente, era molto diffuso il culto “pagano” del Solis Invictus, e che questi, nella propria mitologia di fondo, presentava numerose analogie con il mito della nascita del cristo, in quanto la celebrazione del Solis Invictus, ruotava attorno al trionfo della luce sulle tenebre, e alla nascita del dio Aîon, generato dalla vergine Koree.
Epifanio è considerato uno dei padri putativi dell’odierno Natale, e per certi aspetti è effettivamente l’uomo che ha codificato la celebrazione del Natale.
Lo scopo di Epifanio era quello di convertire i pagani al cattolicesimo, e la celebrazione del Solis Invicti era il perfetto cavallo di troia per irrompere nei culti pagani e con questi far lentamente passare i fedeli al culto cristiano. Per almeno tre secoli, sappiamo che i due culti, quello del Natale cristiano e quello pagano, coesistettero.
Dalla testimonianza di Cosma di Gerusalemme, un religioso bizantino, fratello adottivo del più celebre e importante Giovanni Damasceno,(teologo cristiano di famiglia araba che fu un alto funzionario del governo omayyade del califfo Mu‘āwiya b), sappiamo che, nel VII secolo dopo cristo, il culto del Solis Invicti era ancora molto diffuso, e sappiamo che anche che il culto era celebrato sopratutto nella notte, in clandestinità, tra il 24 ed il 25 dicembre.
Ad accorciare le distanze tra il culto pagano e la nascente tradizione cristiana, fu l’imperatore Costantino, che, con un decreto imperiale datato 7 marzo 321, stabiliva che il primo giorno della settimana, dovesse essere di assoluto riposo e che quel giorno venisse dedicato al sole invitto. Secondo la tradizione Cristiana, lo steso Costantino, successivamente si sarebbe convertito al cattolicesimo.
Imperator Constantinus.Omnes iudices urbanaeque plebes et artium officia cunctarum venerabili die solis quiescant. ruri tamen positi agrorum culturae libere licenterque inserviant, quoniam frequenter evenit, ut non alio aptius die frumenta sulcis aut vineae scrobibus commendentur, ne occasione momenti pereat commoditas caelesti provisione concessa.
Codice Giustinianeo 3.12.2
Con questo decreto imperiale Costantino istituiva il giorno del sole, “dies solis”, ovvero quella che è la nostra domenica, questo retaggio è ancora molto evidente nel mondo anglofono in cui, la settimana inizia dalla Domenica e non dal Lunedì, e, il nome del primo giorno della settimana è ancora giorno del sole, “sun day”.
L’introduzione di un giorno di assoluto riposo settimanale, richiamava il giorno di riposo che il signore si prese dopo aver creato l’universo e tutte le creature, giorno di riposo che per i primi cristiani coincideva con il Sabato, il giorno del Signore, ereditato dalla tradizione ebraica ed era posto, secondo il mito, in chiusura della giornata.
Nei secoli successivi i due giorni di riposo si sarebbero sovrapposti, il giorno del signore e il giorno del sole divennero un unica cosa, e il signore divenne il sole, di conseguenza, il giorno della nascita del Sole Invitto, era per derivazione il giorno della nascita del signore Dio ed il Natale del Signore si sovrappose completamente al Natale del sole invitto, che venne quindi totalmente inglobato nella tradizione cristiana.
Quello che noi oggi celebriamo come Natale, è uno esempio eccellente di intreccio culturale, che vede coinvolta la mitologia ebraica, la mitologia cristiana, e la mitologia islamica, oltre alla ritualità pagana romana ed egiziana, insomma, culti, usanze, tradizioni di innumerevoli popoli e culture, che confluiscono insieme, in un solo momento, in cui si celebra un principio comune, il trionfo della luce sulle tenebre, del bene contro il male, ed è importante precisare che tutto ciò, è avvenuto principalmente per ragioni politiche.
Il culto del sole nascente, è un culto primordiale, un culto elementare, presente in qualsiasi mitologia, poiché il sole, nelle civiltà primitive, è visto come fonte di calore, di luce, dove c’è il sole la vita prospera e si tinge di mille colori, nell’oscurità delle caverne la vita è poco, spesso feroce, e priva di colore.
La natura universale di questo culto primordiale è ciò che ha permesso alle varie culture di assorbirle culti analoghi da altre culture e farli propri, permettendo, come aveva intuito Epifanio di Salamina, di trasportare fedeli da una culto all’altro.
Nel mondo romano il culto del Sole Nascente, venne ufficializzato dall’imperatore a Aureliano, ma già in precedenza aveva conosciuto una propria diffusione entro i confini dell’impero in quanto legato al Mitraismo, il culto orientale di Mitra, che sappiamo essersi diffuso a Roma tra il I ed il III secolo, sappiamo inoltre che, nel all’inizio del III secolo, l’imperatore romano Eliogabalo, aveva cercato, senza successo, di imporre il culto di Elagabalus Sol Invictus, identificando quindi, sul modello orientale, la propria figura imperiale, a quella del Dio-Bolide solare di Emesa, in Siria, città natale dell’imperatore. Questo ardito e, col senno di poi, potremmo dire prematuro, tentativo di proclamarsi divinità imperiale, e imporre il culto del sole nascente a roma, ebbe come effetto, una congiura che sarebbe costata la vita ad Eliogabalo, dopo soli 4 anni di impero, nel 222. La morte violenta dell’imperatore, provocò un improvvisa battuta d’arresto per il culto del Solis Invictus, almeno fino all’avvento di Aureliano.
La Bibbia può ancora insegnarci qualcosa? A mio avviso si, se letta in prospettiva storica essa rappresenta un compendio senza tempo, di errori da cui avremmo dovuto imparare qualcosa.
Storie e insegnamenti da un mondo arcarico, ormai anacronistico, dai cui errori possiamo imparare ancora molto.
La Bibbia può ancora insegnarci qualcosa? A mio avviso si, se letta in prospettiva storica essa rappresenta un compendio senza tempo, di errori irripetibili e principi morali, da cui avremmo dovuto imparare qualcosa molto tempo fa.
Nella Bibbia, il libro dei numeri, scritto intorno al V secolo a.c., riporta un racconto, ambientato durante l’esodo nel deserto e relativo al violare il sabato, che, per il popolo di dio, era un peccato gravissimo.
“Mentre i figli d’Israele erano nel deserto, trovarono un uomo che raccoglieva legna in giorno di sabato. 33 Quelli che lo avevano trovato a raccoglier legna lo portarono da Mosè, da Aaronne e davanti a tutta la comunità. 34 Lo misero in prigione, perché non era ancora stato stabilito che cosa gli si dovesse fare. 35 Il SIGNORE disse a Mosè: «Quell’uomo deve essere messo a morte; tutta la comunità lo lapiderà fuori del campo». 36 Tutta la comunità lo condusse fuori dal campo e lo lapidò; e quello morì, secondo l’ordine che il SIGNORE aveva dato a Mosè.”
Libro dei Numeri 15.32-36
Precisiamo che non siamo una pagina che si occupa di mitologia, teologia o religione, noi qui parliamo di storia, e allora, contestualizzare storicamente questo episodio, che molti utilizzano per attaccare e criticare la bibbia e che, da un punto di vista prettamente storico, ci dice tantissimo sulla storia di Israele e forse anche sull’attualità.
Come anticipavo, questo racconto presente nel libro dei numeri è stato scritto intorno al V secolo, non sappiamo esattamente quando, ma la stima più accreditata, lo collocherebbe tra VI e V secolo a.c.
Questa collocazione temporalmente è fondamentale per contestualizzare storicamente questi versi.
Nello specifico, è un periodo molto particolare, è il periodo delle conquiste persiane del medio oriente, ricordiamo che nel 539, Ciro II di Persia entra trionfante a Babilonia, è quindi un momento di grande fermento e turbamento per una regione in cui ci sono molti popoli diversi, per lo più popoli in guerra tra loro, inoltre ci troviamo in un epoca in cui, più che in altre, i vincitori erano legittimati ad imporre la propria cultura sui vinti, cancellando in modo più o meno ampio, l’identità dei vinti.
Questo, per popoli non particolarmente avvezzi alla guerra, come ad esempio per il popolo di Israele, è un vero e proprio dramma storico, e rappresenta una minaccia reale alla sopravvivenza stessa di quello o quell’altro popolo e per un popolo non guerriero con una forte impronta identitaria, caratterizzato da una tradizione molto chiusa, oserei dire blindata, in cui non è possibile per lo straniero integrarsi e che non è disposta a scendere a compromessi per adattarsi alla civiltà dello straniero conquistatore, il dramma storico è ancora più grande.
La civiltà israeliana rientra perfettamente in questo caso, nella loro civiltà non c’è spazio e non c’è posto per il diverso, per l’altro e, questa mancanza di spazio, viene legittimata in modo tradizionale, attraverso lo strumento del mito che produce l’inserimento di racconti (come quello del raccoglitore di legna nel deserto) che hanno il compito preciso di attribuire alla volontà divina, l’obbligo di allontanare chiunque non sia loro.
Da un punto di vista prettamente storico, questo episodio è solo uno dei tanti che evidenzia il grande problema del popolo di Israele, ovvero la sua incapacità, totale, di relazionarsi e integrarsi con gli altri e, per molti storici, questa chiusura al mondo è uno dei motivi principali per cui nei secoli, molti popoli, hanno iniziato a non tollerarli particolarmente e nei casi più estremi a perseguitarli, poiché, nel momento in cui “loro” hanno alzato delle barriere e posto un clima di conflitto e intolleranza con gli altri, anche gli altri, hanno risposo alla stessa maniera, alzando altrettanti muri e ponendo un clima di religiosa intolleranza e conflitto e, visto che gli altri erano molti di più e spesso meglio armati, il più delle volte hanno avuto la meglio su di loro, ritornando al passaggio biblico, questi si traduce in un messaggio ormai anacronistico “finché siete in tanti, lapidate chi non rispetta le vostre leggi, quando siete in pochi, fuggite a nascondervi nel deserto“.
Due millenni e mezzo dopo però, come dicevo, questo messaggio è anacronistico, è primitivo, lo stesso popolo di Israele ha avuto modo, nella propria storia, di sperimentare la magia dell’intreccio di civiltà, producendo in quei rari momenti di convivenza pacifica con gli altri, opere meravigliose che hanno gettato le basi per il futuro.
Ed oggi questo messaggio biblico dovrebbe essere letto in una prospettiva storica, arricchito dagli oltre duemila anni che sono trascorsi da quando è stato elaborato in forma scritta, per darci un insegnamento nuovo positivo “dallo scontro con il diverso può nascere solo morte, sofferenza e distrione, per l’uno, l’altro ed entrambi, quindi, finché hai una posizione di vantaggio insegna, quando non puoi insegnare, impara.”
Questa “nuova” elaborazione non è proprio recentissima in realtà, e anzi, ha i suoi anni alle spalle, è un interpretazione che nasce dalla carnificazione del divino, ovvero nel momento in cui il dio ebraico si fa uomo e porta un nuovo messaggio all’umanità intera, abbattendo quindi quel muro etnico ancestrale, scardinando le divergenze e le differenze storiche e culturali, in un epoca e in un mondo, quello romano, che si fondava sul principio di apprendere dagli altri ciò che gli altri avevano di migliore e di più efficiente, è un interpretazione che si evolve e si radica, per molti secoli anche e soprattutto nel mondo islamico, dove, l’amore per la conoscenza ed il sapere, unito alla capacità di imparare dal diverso, hanno portato alla nascita delle grandi biblioteche islamiche, alla cui sommità si erigeva la dimora del sapere, un luogo di conoscenza in cui saggi provenienti da tutto il mondo conosciuto, misero insieme le proprie conoscenze portando la civiltà umana ad un livello superiore, gettando le basi per quelle che sono le moderne conoscenze scientifiche e preservando gran parte del sapere del mondo antico che, in europa, veniva abraso per recuperare pergamena.
1 novembre 1911, l’italia era nel vivo della guerra italo turca, e Giulio Gavotti, un aviatore italiano, in questa data alle prime luci dell’alba partì a bordo del proprio monoplano Etrich Taube, un monoplano di fattura tedesca, ufficialmente per un operazione di ricognizione che, per iniziativa individuale dell’aviatore, si trasformò nel primo bombardamento aereo della storia.
Va detto che, prima del 1911 i dirigibili erano già stati utilizzati per operazioni offensive, e quindi c’erano già stati dei “bombardamenti aerei” tuttavia, nel 1911 , per la prima volta, l’offensiva fu portata a termine da un aereo-plano e non da un dirigibile, ed è proprio l’uso dell’aereo-plano l’elemento di novità che avrebbe cambiato per sempre il volto della guerra, segnando un punto di non ritorno nelle operazioni belliche.
Del bombardamento aereo del 1911 durante la guerra italo turca abbiamo molte informazioni e numerose fonti, una in particolare ci permette di ricostruire quei momenti, attraverso la testimonianza diretta di Giulio Gavotti, all’epoca un semplice aviere che da poco aveva terminato il corso di allievo ufficiale a Torino con il 5º reggimento “Genio Minatori” , dopo questa operazione, la carriera di Gavotti sarebbe decollata portandolo fino al grado di Tenente Colonnello, ma questa è un altra storia.
Il resoconto dettagliato degli avvenimenti del 1 novembre ci viene fornito da Gavotti, oltre che dal rapporto missione ufficiale, anche da una più interessante lettera, indirizzata al padre e che, vista la ricchezza di informazioni sul volo, si presume essere stata scritta nella stessa giornata del 1 novembre 1911. In questa lettera Gavotti scrive.
"Ho deciso di tentare oggi di lanciare delle bombe dall'aeroplano. È la prima volta che si tenta una cosa di questo genere e se riesco sarò contento di essere il primo."
Da queste prime parole possiamo osservare che Gavotti è perfettamente conscio di ciò che sta per fare, il suo obbiettivo è quello di mettersi in mostra con i propri superiori, lui è perfettamente consapevole di ciò che sta per compiere e, a discapito di quello che molti pensano, la sua azione non è stata improvvisata, ma anzi, è stata pianificata, se bene non sia chiarissimo quanti i superiori di Gavotti sapessero effettivamente delle sue intenzioni. Dal rapporto missione emerge una certa ambiguità lessicale, e probabilmente la sua era un operazione clandestina o comunque.
Il testo della lettera comunque continua dicendo che sarebbe quella mattina del 1 novembre era partito alle prime luci dell’alba “Appena è chiaro sono nel campo. Faccio uscire il mio apparecchio.” Aggiunge poi che, nell’abitacolo, se così lo si può chiamare, ha inchiodato un contenitore in cuoio “Vicino al seggiolino ho inchiodato una cassettina di cuoio; la fascio internamente di ovatta e vi adagio sopra le bombe con precauzione.”
Capiamo, da queste parole che è tutto molto amatoriale, forse troppo amatoriale, tuttavia, risulta strano e poco chiaro, come abbia fatto l’aviere Gavotti ad entrare in possesso di quattro bombe Cipelli. “Queste bombette sono sferiche e pesano circa un chilo e mezzo. Nella cassetta ne ho tre; l’altra la metto nella tasca della giubba di cuoio.” in questo passaggio ci viene data un informazione molto significativa sul tipo di ordigni di cui dispone, si tratta, come anticipato, di tre bombe “Cipelli”, uniche bombe in dotazione al regio esercito nel 1911, di forma sferica ad avere il peso di circa 1,5Kg e, il passaggio successivo ci conferma ulteriormente essere bombe Cipelli, poiché ci dice “In un’altra tasca ho una piccola scatoletta di cartone con entro quattro detonatori al fulminato di mercurio” e, le bombe Cipelli, erano attivate da detonatori esterni che andavano combinati alla bomba perché questa potesse essere innescata, diversamente da altre bombe che invece avevano un detonatore integrato.
Gavotti ci fornisce poi una serie di informazioni più o meno dettagliate sulla propria posizione e sul proprio itinerario “…Arrivo fin sopra la “Sicilia” ancorata a ovest di Tripoli dirimpetto all’oasi di Gurgi poi torno indietro passo sopra la “Brin”, la “Saint Bon” la “Filiberto” sui piroscafi ancorati in rada.”, ma l’informazione più interessante riguarda l’altitudine a cui avrebbe volato, “Quando ho raggiunto 700 metri mi dirigo verso l’interno”
Gavotti ci dice di volare ad un altitudine di circa 700 metri, e che prende quota sul mare per poi seguire il proprio itinerario nell’entroterra, oltre le linee nemiche, questi dati sono molto interessanti perché ci dicono molto sul volo e quello che è in qualche modo lo stato d’animo dell’aviatore, ci comunicano infatti eccitazione ma anche determinazione e tensione, oltre che voglia di riuscire nell’impresa e questo desiderio di successo si traduce nella decisione di volare a bassa quota ovvero a circa 700 metri, probabilmente per riuscire a colpire con maggiore precisione i bersagli.
Un monoplano Etrich Taube dell’epoca, stando alle informazioni tecniche della Igo Etrich, poteva volare fino a 2000 metri di altitudine, ma poteva spingersi anche più in alto e per le operazioni di ricognizione, generalmente era previsto un volo a circa 1500 metri, quasi al limite delle possibilità del Taube.
La lettera continua e da qui in avanti, sembra più un rapporto missione che una lettera informale al padre, Gavotti scrive “Oltrepasso la linea dei nostri avamposti situata sul limitare dell’oasi e mi inoltro sul deserto in direzione di Ain Zara altra piccola oasi dove avevo visto nei giorni precedenti gli accampamenti nemici (circa 2000 uomini).”
Arrivati all’altezza dell’oasi Gavotti si prepara all’azione offensiva “Con una mano tengo il volante, coll’altra sciolgo il corregile che tien chiuso il coperchio della scatola; estraggo una bomba la poso sulle ginocchia.” poi “Cambio mano al volante e con quella libera estraggo un detonatore dalla scatoletta e lo metto in bocca. Richiudo la scatoletta;”
L’azione che ci viene descritta è estremamente cinematografica, è una scena che abbiamo visto in centinaia di film, c’è questo giovane aviatore, solo nei cieli sopra i campi del nemico che con una mano pilota il proprio mezzo aereo e con l’altra, estrae il primo ordigno, lo innesca e guardando fuori dall’aereo-plano cerca di individuare un possibile bersaglio “metto il detonatore nella bomba e guardo abbasso. Sono pronto.”
Gavotti è vicinissimo al nemico, ci dice nella lettera, di trovarsi a circa un chilometro dall’oasi e già riesce ad identificare le sagome delle tende tende arabe, “Vedo due accampamenti vicino a una casa quadrata bianca uno di circa 200 uomini e, l’altro di circa 50.”
Queste informazioni sono per alcuni troppo accurate per la distanza che, secondo la lettera, in quel momento lo separava dal campo, non sappiamo se si tratti di una stima e dunque Gavotti abbia visto gli accampamenti e ipotizzato il numero di uomini che, sulla base della propria esperienza, potevano trovarsi nel campo, o se invece si tratti di un espediente narrativo, volta ad enfatizzare il momento, in fondo, si tratta pur sempre di una lettera al padre e non di un vero e proprio rapporto missione. Nel rapporto missione non vi è alcun riferimento a questo passaggio quasi acrobatico.
In ogni caso, la lettera continua “Poco prima di esservi sopra afferro la bomba colla mano destra; coi denti strappo la chiavetta di sicurezza e butto la bomba fuori dall’ala. Riesco a seguirla coll’occhio per pochi secondi poi scompare. Dopo un momento vedo proprio in mezzo al piccolo attendamento una nuvoletta scura.”
L’azione continua ad essere estremamente cinematografica, vediamo questo pilota che strappa la chiavetta di sicurezza dell’ordigno e lancia fuori dall’abitacolo per poi vederlo svanire, a causa delle piccole dimensioni dell’ordigno e della distanza crescente tra l’ordigno e l’aereoplano, ma poi, ecco che si giunge al momento decisivo, l’ordigno tocca il suolo ed esplode, il pilota vede una nuvola di fumo nero alzarsi dal campo, l’esplosione esalta l’aviatore e allo stesso tempo turba l’equilibrio del campo, che certo non immaginava cosa stava accadendo. Prima d’allora non era mai successo nulla di simile, prima d’allora nessun’aereo da ricognizione aveva mai sganciato bombe.
Il racconto di Gavotti continua e ci dà un altre informazioni, ci dice che nonostante il successo in realtà l’obiettivo a cui aveva mirato è stato mancato, ma ciò nonostante è soddisfatto del risultato e decide quindi di ripetere l’esperimento, lanciando altre bombe “Io veramente avevo mirato il grande ma sono stato fortunato lo stesso; ho colpito giusto. Ripasso parecchie volte e lancio altre due bombe di cui però non riesco a constatare l’effetto. Me ne rimane una ancora che lancio più tardi sull’oasi stessa di Tripoli.”
In questo passaggio Gavotti ci ha ha detto qualcosa che in realtà già conoscevamo, questo tipo di azioni si porta dietro molta imprecisione, Gavotti è stato fortunato, molto fortunato, probabilmente la sua conoscenza delle leggi della fisica gli hanno permesso di stimare e calcolare ad occhio il momento esatto in cui lanciare l’ordigno affinché questo potesse avvicinarsi il più possibile al bersaglio.
Conoscendo infatti l’altezza, la velocità e la direzione dell’aereo, per un ingegnere con una formazione da aviatore non doveva essere troppo difficile calcolare la traiettoria del lancio, e il caso volle che Gavotti fosse proprio un ingegnere con una formazione da aviatore e probabilmente questa stessa azione, portata avanti da un qualsiasi altro aviere, non avrebbe avuto lo stesso risultato.
Queste fortuite coincidenze non sappiamo quanto siano fortuite e quanto siano coincidenze, per quanto ne sappiamo, l’intera operazione fu un azione individuale, ma possiamo immaginare che forse, Gavotti fu scelto, proprio per l’insieme delle proprie esperienze, come campione ideale per questo test.
Dalla lettera al padre Gavotti appare molto soddisfatto del successo ottenuto e ansioso di riferire l’esito dell’operazione ai propri superiori “Scendo molto contento del risultato ottenuto. Vado subito alla divisione a riferire e poi dal Governatore gen. Caneva. Tutti si dimostrano assai soddisfatti”
Le ultime parole della lettera sono molto particolare ed interessante, se si trattasse di un iniziativa individuale Gavotti sarebbe colpevole di aver rubato degli ordigni, di aver portato avanti un azione offensiva senza autorizzazione e di aver messo a rischio un aereo del regio esercito, tutti fattori che lo avrebbero portato di fronte alla corte marziale, ma noi sappiamo che Gavotti venne celebrato come eroe di quella guerra e che ricevette, per le proprie azioni, una medaglia d’argento per il valore militare, e questo ci fa supporre che, nonostante non esistano ordini scritti, questa operazione fu autorizzata dall’alto.Album dei Pionieri della Aviazione italiana, Roma 1982 Stampato presso Tipolitografia della Scuola di Applicazione A.M. – FI 1982.
Gli sports meccanici, Roma, 15 maggio 1933; G. Dicorato, G. Bignozzi, B. Catalanotto, C. Falessi, Storia dell’Aviazione, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1973. R.G. Grant, (ed. italiana a cura di R. Niccoli), Il volo – 100 anni di aviazione, Novara, DeAgostini, 2003,
La cintura di castità medievale è un falso storico, di cui non si hanno fonti certe nel medioevo e il più antico riferimento a noi noto, risale al 1405, mentre la cintura più antica a noi nota è datata 1840
La cintura di castità medievale è uno dei falsi storici meglio documentati, noi oggi sappiamo perfettamente che i cavalieri e nobili del medioevo, non costringevano le proprie donne ad indossare questo strumento, ma c’è qualcosa di strano nella sua storia, una storia controversa e ricca di contraddizioni, una storia giunta fino a noi attraverso la tradizione orale, e che forse, nasconde ancora qualche segreto.
Cerchiamo allora di capire cosa si nasconde dietro la cintura di castità, o meglio, dietro il falso storico della cintura di castità medievale.
Da quel che sappiamo, fatta eccezione per opere letterarie da cui non siamo in grado di capire se si tratti di un oggetto reale o solo di un elemento folkloristico e di fantasia, il più antico documento che fa riferimento alla cintura di castità, è il compendio di tecnologia militare contemporanea dell’ingegnere militare tedesco Konrad Kyeser dal titolo Bellifortis, del 1405.
Kyeser nel suo compendio fa riferimento ad uno strumento in metallo, che chiama Congegno Fiorentino e che, stando alle informazioni in suo possesso, era fatto indossare dai Cavalieri e Mercanti fiorentini, alle proprie donne, quando partivano per lunghi viaggi di affari o per la guerra. Il congegno descritto da Kyeser è una cintura di castità a tutti gli effetti, tuttavia, lo stesso Kyeser ci dice che non ne ha mai visto uno e che le sue informazioni si basano esclusivamente su quanto riportato oralmente da alcuni militari con cui ha avuto contatto.
Congegno Fiorentino, raffigurato nel Bellifortis di Konrad Kyeser, anno 1405.
Prima di Kyeser non abbiamo praticamente nessun riferimento storico alla cintura di castità o di altri strumenti con funzioni analoghe ma nomi diversi, dopo la “pubblicazione” del Bellifortis tuttavia, il congegno fiorentino, appare più frequentemente, oltre che nelle opere di fantasia, anche nelle cronache, tuttavia, questi riferimenti non sono accompagnati da alcun manufatto.
Detto più semplicemente, tutti ne parlano, ma nessuno ne ha mai visto uno.
A partire dal XVI e in modo particolare nel XVII iniziamo ad incontrare riferimenti ad altre cinture, con forme diverse da quella descritta da Keyser e che non sono legate alla città di firenze, in particolare, nel XVII secolo, incontriamo i primi manoscritti in cui si fa riferimento alla Cintura Veneziana.
Riproduzione del XIX secolo di una Cintura Veneziana del XVII secolo
Diversamente dal congegno fiorentino, la cintura veneziana è molto più leggera, meno ingombrante, secondo le fonti del XVI secolo, erano in cuoio e metallo, riprendendo uno stile molto simile a quello delle ipotetiche cinture di castità del mondo antico, che, secondo la tradizione orale, erano interamente in tessuto o al massimo in cuoio. Secondo le fonti del XVII secolo invece, le cinture fiorentine erano interamente in metallo.
In entrambi i casi, i due fori presenti sulla cintura, che avevano il compito di permettere a chi la indossava di urinare e defecare, erano “decorati” con una dentellatura che, oltre a donare una texture particolare alle feci, rendeva sconveniente ed estremamente doloroso, introdurre qualsiasi cosa, in entrambe le aperture.
Confrontando la cintura fiorentina e quella veneziana possiamo inoltre osservare che, la cintura fiorentina descritta da Keyser, non precludeva in alcun modo, eventuali pratiche anali, diversamente dal congegno veneziano.
Come per la cintura fiorentina però, anche della cintura veneziana, oltre a qualche riferimento letterario, non se ne hanno tracce e la più antica cintura di castità “medievale” mai ritrovata, che secondo la tradizione era appartenuta a Caterina de Medici, e che per molto tempo si è creduto essere una cintura del XVI secolo, in realtà, si è scoperto essere stata forgiata non prima del 1840.
Concludendo, la tradizione orale ci racconta di cinture diffuse in tutto il medioevo e in tutta europa, le fonti documentano una possibile diffusione di cinture, limitate alla zona di firenze, a partire dal 1405, praticamente l’ultimissima fase del medioevo, e la più antica cintura mai trovata, che secondo la tradizione risalirebbe all’età moderna, è una cintura del XIX secolo.
L’ipotesi più probabile è che, nel medioevo e probabilmente anche nel mondo antico, fossero in uso si delle cinture di castità, ma che queste, avessero un ruolo prevalentemente simbolico, probabilmente delle fasce in cuoio o in tessuto, oggetti che non avevano alcun potere costrittivo su chi le indossava e anzi, che molto probabilmente potevano essere “sfilate” come delle comuni, moderne mutandine, tuttavia, nel XIX secolo, il desiderio di dipingere il mondo medievale come primitivo e la richiesta di oggetti di antiquariato da parte dell’alta borghesia, ha portato mercanti d’arte e artigiani, a produrre e forgiare falsi oggetti antichi, così da soddisfare la richiesta di antiquariato proveniente da un mondo ormai perduto.
L'era post americana sta sorgendo all'orizzonte, e come ogni grande impero in declino, anche quello americano si lascia alle spalle morte, pestilenza, guerre e miseria
Mediteraneo, Africa, Medio Oriente, ma anche Asia e America Latina. Ovunque nel mondo scorre il sangue per mano di bombe costruite in Europa, costruite da coloro che, in casa propria e nelle proprie piazze hanno gridato e gridano tutt’ora“mai più guerre”, costruite e vendute da coloro che si indignano se quelle armi vengono usate.
L’europa “vanta” più di settant’anni di pace illusoria, per noi europei, settant’anni in cui, il vecchio continente non ha vissuto e subito guerre, fatta eccezione per i Balcani negli anni novanta, si sa che i balcani sono solo sul continente europeo, non sono propriamente europa … La verità è che la “pax europea” è solo un immensa bugia che viene ripetuta, raccontata e lo ammetto, anche sognata, da oltre settant’anni, e lo dico con tutta la disillusione di una persona che ha creduto e che crede, profondamente, nell’Europa e nell’ONU, che crede nel sogno di un mondo migliore, un mondo senza guerre in cui il dialogo e la diplomazia possono risolvere i conflitti senza che si debba necessariamente fare ricorso all’uso della forza e anzi, scongiurando il più possibile il ricorso alla forza e alle armi.
Ma di fronte a questo spettacolo di morte, così esteso, così vasto, così totale da non risparmiare donne, anziani e bambini, in ogni angolo del mondo, così disumano da non riuscire ad essere accettato da chi vive in europa ed ha avuto la fortuna di nascere in un continente in cui le bombe non cadono sulle città (fatta eccezione per i Balcani negli anni novanta). Hannah Arendt, nella prefazione alla Banalità del Male, nel raccontare il perché di quel titolo al proprio libro, racconta l’aneddoto presente nel diario Irradiazioni di Ernst Junger che, in macchina dal barbiere, racconta dei prigionieri russi che dai campi vengono mandati a lavoro, il barbiere descrive questi uomini dicendo “tra di loro devono esserci di quei furfanti. rubano il cibo ai cani”. Al che, la Arendt osserva che al barbiere non era venuto in mente che quegli uomini fossero effettivamente alla fame, per poi aggiungere che, quel tipo di stupidità era all’epoca molto diffusa in europa, non solo nel Terzo Reich, e che quella stupidità, quella incapacità di mettersi realmente nei panni degli altri era la vera e unica ragione delle azioni disumane compiute da Eichmann e da molti altri uomini nel terzo Reich.
Personalmente adoro questo aneddoto, perché è estremamente attuale, ancora oggi quel tipo di stupidità è estremamente presente in europa e impedisce a molti, tra cui diversi leader politici, di comprendere realmente la gravità di determinate situazioni e di accettare che ci sono zone del mondo in cui alcune delle cose che noi, in europa, diamo per scontate, come l’acqua corrente, l’elettricità o il dormire in un letto, sotto un tetto, senza che una bomba esploda nel cuore della notte, distruggendo tutto ciò che hai e che ami.
Questo tipo di stupidità è ciò che oggi spinge moli a criminalizzare le vittime della guerra piuttosto che i loro carnefici, e non posso far altro che dirmi deluso e amareggiato.
Deluso da un Europa che sceglie di non guardare, che sceglie di voltarsi dall’altra parte mentre con una mano vende armi a chi le usa per calpestare i diritti civili della popolazione e bombardare città e civili, mentre dall’altra si “si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità” . Sono deluso da un europa che addestra e fornisce mezzi ed armi ai trafficanti di esseri umani (e a scanso di equivoci, parlo delle milizie che costituiscono la guardia costiera libica), per impedire a chi fugge da guerre, fame e malattie, e cerca solo un futuro migliore, di raggiungere un continente che si presenta al mondo come un paradiso perduto, garante di libertà e diritti civili… ma solo se sei nato lì, da cittadino figlio di altri cittadini, in caso contrario non sei un essere umano e non hai alcun diritto.
Il 20 marzo 2003, con l’invasione dell’Iraq, è iniziata quella che per tanto tempo abbiamo chiamato erroneamente “seconda guerra del golfo“, dico erroneamente perché se vogliamo essere pignoli, è stata la realtà è la terza guerra del golfo, o forse solo un nuovo capitolo di un unica interminabile guerra tra l’Iraq e il mondo intero, iniziata il 22 settembre del 1980 con un conflitto tra Iraq e Iran, che si è poi conclusasi il 20 agosto 1988.
Ad ogni modo, che sia il terzo atto della guerra del golfo, che sia la seconda o la terza guerra del golfo, è indifferente, poiché in tutti i casi, vi è una serie di di cause ed effetti che legano insieme i vari conflitti che hanno visto protagonista l’Iraq di Saddam Hussein e il medio oriente post iracheno.
Facendo un rapido riassunto, il 2 agosto 1990 l’Iraq ha iniziato una nuova guerra, questa volta contro il Kuwait, cil causus belli è una disputa territoriale relativa lo sfruttamento di una ricca area petrolifera al confine e il fatto che l’Iraq, durante i 10 anni di guerra all’Iran, si era indebitato con mezzo mondo. Al termine di questo conflitto c’è stato poco più di un decennio di “pace apparente”, una pace armata nel cuore del medio oriente, con Saddam ben saldo al proprio trono mentre l’europa, acquistava il suo petrolio e guardava dall’altra parte ogni volta che qualche oppositore politico di Saddam Spariva, o che qualche “terrorista” veniva catturato e torturato in una qualche prigione segreta nel deserto.
Poi nel 2003 una nuova scintilla, un nuovo conflitto nel golfo con protagonista ancora una volta l’Iraq e direttamente connesso al conflitto conclusosi dodici anni prima.
Nel 1991, quando la comunità internazionale intervenne in Iraq, contro Saddam, lo fece per una ragione ben precisa, l’Iraq aveva annesso il Kuwait, violando lo statuto delle Nazioni Unite (che condanna qualsiasi atto di aggressione ad uno stato sovrano ed il Kwait era uno stato sovrano membro dell’ONU), certo, nel 2014 anche la Russia ha fatto lo stesso, aggredendo l’Ucraina e sottraendo una porzione dell’Ucraina, ovvero la Crimea, annettendola poi alla Repubblica Federale Russa, ma in quell’occasione l’ONU non è potuto intervenire poiché la Russia ha esercitato il proprio diritto di veto, bloccando ogni iniziativa dell’ONU.
Ad ogni modo, quando nel 1990 l’ONU ha dato l’OK per l’operazioni Desert Shield di supporto alle forze regolari del Kwait, poi trasformata in Desert Storm nel 1991, lo ha fatto fissando dei limiti e dei vincoli ben precisi e inviolabili per l’operazione. Desert Shield e Desert Storm avevano il compito unico di garantire il rispetto della sovranità del Kwait e il ripristino dell’autonomia e indipendenza della regione. Non dovevano però deporre Saddam, anche se, l’auspicio era che, una volta terminato il conflitto, il dittatore iracheno sarebbe stato deposto dalla popolazione irachena, cosa che non avvenne, o meglio, ci fu effettivamente una serie di insurrezioni anti Saddam, ma le forze governative alla fine riuscirono a respingere i ribelli e garantire un lungo e duraturo regno al Macellaio di Baghdad, o almeno e così è stato almeno per un po’.
Nel ’91, come anticipavo, le forze della coalizione internazionale approvata dall’ONU giunsero alle porte di Baghdad e, alla resa di Saddam, cessarono il fuoco e si ritirarono, almeno fino al 2003, quando una nuova operazione, che non aveva i vincoli e i limiti dell’ONU (e neanche l’approvazione, ancora una volta, causa veto della Russia), portò alla deposizione di Saddam Hussein.
La storia di Saddam Hussein termina nel 2003, ma non quella dell’Iraq e come tutte le storie del Medio Oriente, anche questa, ha un inizio avvolto nella misteriosa sabbia del deserto e un finale aperto, così aperto che quindici anni più tardi, ancora si aggiungono nuovi capitoli e non si riesce a vederne bene dove, come o quando finirà, mentre un nuovo padrone imperialista affonda i propri artigli sulla culla della civiltà.
20 marzo 2003, quando all’epoca la Bush e Blair decisero di intervenire in Iraq, non immaginavano cosa stavano facendo, che danno enorme all’umanità avrebbero recato e forse, se avessimo saputo prima che quella data avrebbe indirettamente portato alla nascita dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, e avrebbe dato ad uomini come Bashar al Assad ed Recep Tayyip Erdoğan, la possibilità ed una giustificazione, con tanto di copertura istituzionale internazionale fornita da Vladimir Putin, per compiere nefandezze e crimini di ogni genere, forse, Bush e Blair, ci avrebbero pensato su due volte, prima di invadere l’Iraq.
O forse no, perché in fondo, Erdogan nel 2003 era già stato eletto presidente della Turchia e Assad deteneva il potere in Siria già dal 2000, inoltre, le tensioni nella regione, le instabilità e gli equilibri precari che tenevano insieme il medio oriente erano ben noti già dal 91, per intenderci, dai tempi della “prima” guerra del golfo, guerra che rispettò i limiti dell’ONU non tanto per senso del dovere e di legittimità, ma perché all’epoca Bush e Gorbaciov erano consapevoli del’enorme rischio per l’intera umanità che avrebbero corso lasciando allo sbando l’Iraq, un tassello così grande e importante in quell’enorme e controverso puzzle, più simile ad una polveriera pronta ad esplodere che ad una regione geografica, che è il medio oriente.
Numa Pompilio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo, sono stati Re di Roma, e nessuno di loro è nato a Roma. Su sette Re, Roma ha avuto 4 re stranieri, 5 se si include anche il fondatore della città, e soltanto due re “indigeni romani”.
Secondo la tradizione, Roma, nella sua prima fase storica, è stata una monarchia e, in questa fase, ha avuto sette re, di cui almeno tre, erano etruschi e almeno 7 erano “stranieri”.
La storia di Roma si apre con Romolo, leggendario fondatore della città, le cui origini si perdono nel mito.
Il suo successore Numa, invece, ha un identità ben precisa, di Numa Pompilio conosciamo il gruppo etnico di appartenenza e la famiglia di discendenza, Tito Livio e Plutarco ci raccontano che Numa, erede della Gens Pompilia, fosse un mercante, originario della città sabina di Cures Sabini, successivamente trasferitosi a Roma in cerca di fortuna, e stando alla tradizione di fortuna Numa ne ebbe molta, al punto da diventare un ricco uomo d’affari, così influente, così potente, da succedere a Romolo sul “trono” di Roma.
Qualcuno potrebbe dissentire ed osservare che, la Gens Sabina è stata progressivamente inglobata nel mondo romano, andando a definire i caratteri di quella che, nella tradizione romana, era la classe Patrizia, e nell’osservare ciò, avrebbe perfettamente ragione. Ma dopo Roma ha avuto altri Re stranieri, appartenenti a gruppi etnici e popolazioni diverse da quella sabina, sto parlando dei re Etruschi, ovvero di Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo, gli ultimi tre re di Roma, tutti di origine Etrusca, tutti giunti a Roma da adulti e tutti, ascesi al potere, pur non avendo sangue “romano” nelle vene.
Ad ogni modo, il primo re di Roma, venuto dopo Romolo, è di fatto un re straniero, il primo re straniero della tradizione romana, e nel computo generale dei “re di Roma” emerge un dato interessante, in realtà, soltanto due dei sette re di Roma, sono effettivamente nati a Roma.
La figura dello straniero, a Roma e più in generale, nella civiltà romana, ha sempre ricoperto un ruolo particolare, che nel tempo è cambiato profondamente.
Si passa da un’età arcaica, in cui gli stranieri erano ben visti nella civiltà romana, al punto che uno straniero poteva addirittura diventare Re, a fasi successive in cui, gli stranieri e la cultura straniera, era vista come un oltraggio alla civiltà romana, per cui uomini come Marco Antonio, molto legato alla figura di Cleopatra e alla tradizione orientale, venne percepito come un traditore, ed il suo rivale, Ottaviano, venne percepito, e promosso, come campione della tradizione Italica, in quanto erede di due importanti famiglie dell’aristocrazia romana, di rango senatorio da parte di madre (Azia maggiore) e imparentato sia con Cesare, di cui era pronipote, sia con Gneo Pompeo Magno. Per poi tornare a fasi del tardo impero, in cui i culti orientali vennero nuovamente accolti e abbracciati dagli imperatori, come ad esempio, nel caso di Marco Aurelio.
Il rapporto di Roma con gli stranieri, già da queste prime informazioni, appare molto complicato e controverso, e soggetto a numerose variazioni nel tempo, ma nel complesso, possiamo dire che la società romana si presentava all’epoca come una terra di possibilità in cui l’abilità e le capacità dei singoli individui, avrebbero spalancato loro porte o botole, rendendoli ricchi e potenti, o riducendoli in miseria e schiavitù. Roma, da questo punto di vista è molto criptica, e se da un lato incontriamo uomini di culto e di potere, tra cui si annoverano importanti oratori, filosofi, re e persino imperatori, dall’altra non abbiamo difficoltà ad individuare le innumerevoli popolazioni ridotte in schiavitù e costrette a lavorare nei campi, combattere nelle arene e servire nell’esercito. Così come non è difficile incontrare stranieri che una volta a Roma, sono diventati schiavi, e da schiavi sono stati liberati ed i loro discendenti sono diventati ricchi mercanti ed hanno avuto accesso al rango senatorio, o ancora, stranieri che hanno scalato i ranghi dell’esercito, diventando importanti generali e scontrarsi con altri generali, di stirpe romana, nella lotta per il trono imperiale di roma.
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