Gli eroi di Mussolini – Guida alla Lettura

Guida alla lettura del saggio Gli eroi di mussolini, Niccolò Giani e la scuola di mistica fascista, di Aldo Grandi edito da Diarkos

Niccolò Giani, padre e ispiratore della scuola di mistica fascista, fondata nel 1930 insieme ad Arnaldo Mussolini, è protagonista di un interessante saggio semi biografico di Aldo Grandi. Il saggio sviscera il tema della scuola di mistica, in modo puntuale e critico, utilizzando come fonte primaria numerose lettere e scritti dello stesso Niccolò Giani. Nel complesso, il saggio risulta appassionato e interessante, anche se, non adatto a chiunque, è infatti necessaria una discreta conoscenza storiografica del ventennio. Conoscenza storiografica che non vuol dire conoscenza di miti propagandistici sul ventennio.

Circa un mese fa, era il 26 febbraio, mi è arrivato da Diarkos Editore una copia del libro “Gli eroi di Mussolini, Niccolò Giani e la Scuola di Mistica fascista” di Aldo Grandi, e, come da tradizione, dopo averlo letto, procedo con una breve, ma spero utile, guida alla lettura.

Faccio una premessa, riprendendo ciò che avevo originariamente scritto sul profilo instagram di Historicaleye quando ho ricevuto il libro, si tratta di una nuova edizione del libro Gli Eroi di Mussolini di Aldo Grandi, pubblicato inizialmente Rizzoli BUR Editore nel 2004.

Sono passati più di quindici anni dalla prima edizione e ancora, purtroppo, il saggio di Grandi continua ad essere uno dei pochissimi studi sulla scuola di mistica fascista. Come già osservava Giulia Beltrametti nella propria recensione alla prima edizione, pubblicata sul portale del SISSCO, la società Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea, l’ultima opera monografica sul tema, prima di questo saggio di Grandi, è a firma Daniele Marchesini e risale al 1976.

Premesso quindi che Aldo Grandi è un giornalista che si è affacciato, da diverso tempo e in numerose occasioni al panorama storico e, citando ancora una volta Giulia Beltrametti nella sua recensione, in cui osserva che Grandi ci ha fornito un racconto biografico appassionato su Niccolò Giani e i membri della Scuola di mistica fascista, va fatto presente che, il tema affrontato è molto delicato e poco studiato, ciò implica un immenso, per non dire colossale, lavoro preliminare di ricerca e studio del fenomeno da parte dell’Autore.

Detto ciò, possiamo cominciare con la guida e direi di iniziare proprio inquadrando meglio l’Autore (di cui a breve dovrei pubblicare un intervista).

Chi è Aldo Grandi?

Aldo Grandi nasce a Livorno nel 1961 e si laurea in Scienze Politiche a Roma nel 1987. L’anno seguente, stando alla sua breve biografia pubblicata sul proprio portale, vince una borda di studio della “Poligrafici Editoriale Spa” che gli permette di avviarsi alla professione giornalistica. Grandi aveva già collaborato, durante gli anni dell’università, con le pagine culturali di Paese Sera e l’Avanti oltre che al periodico Lavoro e Società della UIL, all’epoca diretto da Aldo Forbice. Nell’aprile del 1990 diventa giornalista professionista nella redazione lucchese del quotidiano La Nazione e, dall’anno seguente collaboratore del Corriere della Sera.

Chi era Niccolò Giani?

Il saggio di Grandi ha come sottotitolo “Niccolò Giani e la scuola di mistica fascista”, credo sia quindi doveroso aprire un ulteriore parentesi preliminare per inquadrare al meglio Niccolò Giani, così da poter comprendere meglio l’intero saggio dal carattere semi biografico che ruota attorno a questo personaggio.

Niccolò Giani è stato il padre della corrente denominata “Mistica fascista” nonché fondatore della Scuola di Mistica fascista al centro del saggio di Grandi. Giani ha avuto un ruolo estremamente importante nella definizione del pensiero fascista, pur non essendo un fascista della prima ora, esso infatti aveva poco più di 10 anni quando Mussolini salì al potere, Giani nasce a Muggia, in Friuli, nel 1909, e la sua storia nel contesto fascista inizia nel 1930, anno in cui fondò, insieme ad Arnaldo Mussolini, fratello minore di Benito Mussolini, la sopracitata scuola di mistica fascista.

Padre e iniziatore della scuola, ma direttore solo per un breve periodo, Giani infatti lasciò la direzione della scuola, assunta nel 1931, sul finire del 1932, al seguito della XXI riunione della Società Italiana per il Progresso delle Scienze (SIPS) che quell’anno coincise con il decennale della marcia su Roma. Durante il proprio intervento alla riunione Giani espose i principi della scuola di mistica e diede l’impulso alla produzione e pubblicazione dei Quaderni della scuola di mistica.

La storia personale di Giani si intreccia profondamente con la scuola di mistica ed è ampiamente esposta nel libro di Grandi, in questa sede ci interessava comprendere meglio chi fosse e quale fosse il suo legame con la scuola e il fascismo.

Concludiamo quindi la parentesi biografica su Giani segnalando che, nel 1940 partì volontario per il fronte Greco-Albanese, e che, proprio in quel contesto bellico, perse la vita, cadendo in combattimento nel marzo del 1941.

Le fonti dei Aldo Grandi

Come anticipato nell’introduzione, il tema della scuola di mistica fascista, tema estremamente importante per definire la cultura fascista durante il ventennio, è uno dei temi meno studiati e noti, sul quale sono stati condotti relativamente pochi studi e prodotte pochissime opere. Quando Aldo Grandi si è approcciato allo studio della scuola di mistica, ha dovuto inevitabilmente scontrarsi con il problema della scarsità di fonti e studi, dovendo quindi compiere un importante lavoro di ricerca in archivio, nell’intento di recuperare fonti di prima mano da poter scandagliare.

Se ci rechiamo tra le fonti bibliografiche consultate da Giani, indicate nel saggio, ciò che incontriamo è un enorme quantità di lettere e cartoline personali di Niccolò Giani, oltre ai suoi scritti pubblici e qualche raro saggio monografico. La scarsità di saggi ed altri studi nella bibliografia, va precisato ulteriormente, è stata una scelta obbligata dettata dalla scarsità di opere in merito e, a distanza di oltre 15 anni, la situazione non è molto cambiata, chiunque oggi voglia approcciarsi allo studio della scuola di mistica fascista, deve inevitabilmente passare per i registri della scuola e le lettere di Giani, affiancandole eventualmente alla lettura dei saggi di Grandi e Marchesini.

Il saggio Gli eroi di Mussolini di Aldo Grandi

Il saggio risulta appassionato e interessante, ma non adatto a tutti. Il tema affrontato è estremamente di nicchia, e non si rivolge ad un pubblico generalista. Per poter affrontare al meglio la lettura di questo saggio è opportuna una buona, se non ottima, conoscenza del ventennio. Il saggio ci pone di fronte alla storia di una vera e propria scuola di pensiero fascista, una scuola tra le tante, che si fa espressione di una delle numerose correnti interne al partito, partito che ricordiamo, era unico sulla carta ma non nella conformazione. Il PnF, se bene all’apice vedesse la figura di Mussolini, all’interno era molto frammentario, e, utilizzando classificazioni moderne, si configurava come una sorta di mega coalizione che, a seconda del dove e quando, andava dall’una o dall’altra parte.

Il libro solleva il velo del partito unico e mette a nudo i dibattiti interni del PnF, e, particolarmente interessante risulta il dibattito/polemica sulla chiesa cattolica che impegno per diverso tempo la scuola di mistica. Il saggio di Grandi ci racconta questa vicenda, a mio avviso molto interessante, in cui si discuteva della posizione della mistica fascista in relazione alla mistica religiosa, ci si chiedeva se poteva esserci una “mistica fascista indipendente da quella religiosa” e se quest’ultima poteva essere ignorata dalla mistica fascista. E questo avveniva agli inizi degli anni 30, all’indomani dei patti lateranensi che, a quanto si evince dai dibattiti interni, molto probabilmente erano contestati già all’epoca da una parte del PnF.

Ciò che emerge da questo libro sulla scuola di mistica è un PnF diverso da quello che siamo soliti immaginare, un PnF al cui interno, per quanto limitata, esisteva una pluralità di pensiero, pluralità che trova compimento nel 1943 quando il gran consiglio decise di rimuovere Benito Mussolini dalla guida del partito e dello stato italiano.

Conclusioni

Concludendo, il saggio è molto interessante, molto avvincente anche se non adatto a tutti. Pur non essendo l’opera di uno storico, il saggio si configura come un opera storiografica dal carattere biografico, ben definita. Come abbiamo visto vi è una buona pluralità di fonti, anche se principalmente fonti prodotte dalla stessa mano, quella di Niccolò Giani, ma, trattandosi di un opera “parzialmente biografica”, avere come fonti molte lettere di Giani, non risulta un grande problema. Alla fine, possiamo dire che il saggio racconta la scuola di mistica fascista di Giani, usando come lente lo stesso Giani. L’esperienza che ne consegue è una lettura sicuramente soggettiva (da parte di Giani) della scuola di Mistica e degli eroi del fascismo, condita con un analisi critica e raffinata, prodotta dall’autore che quindi, con abilità e intelletto, riesce a bilanciare la narrazione.

Discorso integrale di Mario Draghi al senato

versione integrale del primo discorso del presidente del Consiglio Mario Draghi, tenuto nell’aula del Senato oggi, 17 febbraio 2020, seguito da un mio commento/analisi del discorso.

Durante il primo discorso di Mario Draghi al senato, nel giorno in cui chiedeva la fiducia per il proprio governo, il presidente del consiglio ha ricordato all’Italia, cosa significa la parola democrazia in una repubblica parlamentare.

Vi lascio di seguito la versione integrale del primo discorso del presidente del Consiglio Mario Draghi, tenuto nell’aula del Senato oggi, 17 febbraio 2020, seguito da un mio commento/analisi del discorso.

Mario Draghi al senato della repubblica italiana, 17 Febbraio 2020

Il primo pensiero che vorrei condividere, nel chiedere la vostra fiducia, riguarda la nostra responsabilità nazionale. Il principale dovere cui siamo chiamati, tutti, io per primo come presidente del Consiglio, è di combattere con ogni mezzo la pandemia e di salvaguardare le vite dei nostri concittadini. Una trincea dove combattiamo tutti insieme. Il virus è nemico di tutti. Ed è nel commosso ricordo di chi non c’è più che cresce il nostro impegno. Prima di illustrarvi il mio programma, vorrei rivolgere un altro pensiero, partecipato e solidale, a tutti coloro che soffrono per la crisi economica che la pandemia ha scatenato, a coloro che lavorano nelle attività più colpite o fermate per motivi sanitari. Conosciamo le loro ragioni, siamo consci del loro enorme sacrificio. Ci impegniamo a fare di tutto perché possano tornare, nel più breve tempo possibile, nel riconoscimento dei loro diritti, alla normalità delle loro occupazioni. Ci impegniamo a informare i cittadini di con sufficiente anticipo, per quanto compatibile con la rapida evoluzione della pandemia, di ogni cambiamento nelle regole.

Il Governo farà le riforme ma affronterà anche l’emergenza. Non esiste un prima e un dopo. Siamo consci dell’insegnamento di Cavour: «…le riforme compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità, la rafforzano». Ma nel frattempo dobbiamo occuparci di chi soffre adesso, di chi oggi perde il lavoro o è costretto a chiudere la propria attività.

Nel ringraziare, ancora una volta il presidente della Repubblica per l’onore dell’incarico che mi è stato assegnato, vorrei dirvi che non vi è mai stato, nella mia lunga vita professionale, un momento di emozione così intensa e di responsabilità così ampia. Ringrazio altresì il mio predecessore Giuseppe Conte che ha affrontato una situazione di emergenza sanitaria ed economica come mai era accaduto dall’Unità d’Italia.

Si è discusso molto sulla natura di questo governo. La storia repubblicana ha dispensato una varietà infinita di formule. Nel rispetto che tutti abbiamo per le istituzioni e per il corretto funzionamento di una democrazia rappresentativa, un esecutivo come quello che ho l’onore di presiedere, specialmente in una situazione drammatica come quella che stiamo vivendo, è semplicemente il governo del Paese. Non ha bisogno di alcun aggettivo che lo definisca. Riassume la volontà, la consapevolezza, il senso di responsabilità delle forze politiche che lo sostengono alle quali è stata chiesta una rinuncia per il bene di tutti, dei propri elettori come degli elettori di altri schieramenti, anche dell’opposizione, dei cittadini italiani tutti. Questo è lo spirito repubblicano di un governo che nasce in una situazione di emergenza raccogliendo l’alta indicazione del capo dello Stato.

La crescita di un’economia di un Paese non scaturisce solo da fattori economici. Dipende dalle istituzioni, dalla fiducia dei cittadini verso di esse, dalla condivisione di valori e di speranze. Gli stessi fattori determinano il progresso di un Paese.

Si è detto e scritto che questo governo è stato reso necessario dal fallimento della politica. Mi sia consentito di non essere d’accordo. Nessuno fa un passo indietro rispetto alla propria identità ma semmai, in un nuovo e del tutto inconsueto perimetro di collaborazione, ne fa uno avanti nel rispondere alle necessità del Paese, nell’avvicinarsi ai problemi quotidiani delle famiglie e delle imprese che ben sanno quando è il momento di lavorare insieme, senza pregiudizi e rivalità.

Nei momenti più difficili della nostra storia, l’espressione più alta e nobile della politica si è tradotta in scelte coraggiose, in visioni che fino a un attimo prima sembravano impossibili. Perché prima di ogni nostra appartenenza, viene il dovere della cittadinanza. Siamo cittadini di un Paese che ci chiede di fare tutto il possibile, senza perdere tempo, senza lesinare anche il più piccolo sforzo, per combattere la pandemia e contrastare la crisi economica. E noi oggi, politici e tecnici che formano questo nuovo esecutivo siamo tutti semplicemente cittadini italiani, onorati di servire il proprio Paese, tutti ugualmente consapevoli del compito che ci è stato affidato. Questo è lo spirito repubblicano del mio governo.

La durata dei governi in Italia è stata mediamente breve ma ciò non ha impedito, in momenti anche drammatici della vita della nazione, di compiere scelte decisive per il futuro dei nostri figli e nipoti. Conta la qualità delle decisioni, conta il coraggio delle visioni, non contano i giorni. Il tempo del potere può essere sprecato anche nella sola preoccupazione di conservarlo.

Oggi noi abbiamo, come accadde ai governi dell’immediato Dopoguerra, la possibilità, o meglio la responsabilità, di avviare una Nuova Ricostruzione.

L’Italia si risollevò dal disastro della Seconda Guerra Mondiale con orgoglio e determinazione e mise le basi del miracolo economico grazie a investimenti e lavoro. Ma soprattutto grazie alla convinzione che il futuro delle generazioni successive sarebbe stato migliore per tutti. Nella fiducia reciproca, nella fratellanza nazionale, nel perseguimento di un riscatto civico e morale. A quella Ricostruzione collaborarono forze politiche ideologicamente lontane se non contrapposte. Sono certo che anche a questa Nuova Ricostruzione nessuno farà mancare, nella distinzione di ruoli e identità, il proprio apporto.

Questa è la nostra missione di italiani: consegnare un Paese migliore e più giusto ai figli e ai nipoti.

Spesso mi sono chiesto se noi, e mi riferisco prima di tutto alla mia generazione, abbiamo fatto e stiamo facendo per loro tutto quello che i nostri nonni e padri fecero per noi, sacrificandosi oltre misura. È una domanda che ci dobbiamo porre quando non facciamo tutto il necessario per promuovere al meglio il capitale umano, la formazione, la scuola, l’università e la cultura. Una domanda alla quale dobbiamo dare risposte concrete e urgenti quando deludiamo i nostri giovani costringendoli ad emigrare da un paese che troppo spesso non sa valutare il merito e non ha ancora realizzato una effettiva parità di genere. Una domanda che non possiamo eludere quando aumentiamo il nostro debito pubblico senza aver speso e investito al meglio risorse che sono sempre scarse. 

Ogni spreco oggi è un torto che facciamo alle prossime generazioni, una sottrazione dei loro diritti. Esprimo davanti a voi, che siete i rappresentanti eletti degli italiani, l’auspicio che il desiderio e la necessità di costruire un futuro migliore orientino saggiamente le nostre decisioni. Nella speranza che i giovani italiani che prenderanno il nostro posto, anche qui in questa aula, ci ringrazino per il nostro lavoro e non abbiano di che rimproverarci per il nostro egoismo.

Questo governo nasce nel solco dell’appartenenza del nostro Paese, come socio fondatore, all’Unione europea, e come protagonista dell’Alleanza Atlantica, nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori.

Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro, significa condividere la prospettiva di un’Unione Europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi di recessione. Gli Stati nazionali rimangono il riferimento dei nostri cittadini, ma nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa. Anzi, nell’appartenenza convinta al destino dell’Europa siamo ancora più italiani, ancora più vicini ai nostri territori di origine o residenza. Dobbiamo essere orgogliosi del contributo italiano alla crescita e allo sviluppo dell’Unione europea. Senza l’Italia non c’è l’Europa. Ma, fuori dall’Europa c’è meno Italia.

Non c’è sovranità nella solitudine. C’è solo l’inganno di ciò che siamo, nell’oblio di ciò che siamo stati e nella negazione di quello che potremmo essere.

Siamo una grande potenza economica e culturale. Mi sono sempre stupito e un po’ addolorato in questi anni, nel notare come spesso il giudizio degli altri sul nostro Paese sia migliore del nostro. Dobbiamo essere più orgogliosi, più giusti e più generosi nei confronti del nostro Paese. E riconoscere i tanti primati, la profonda ricchezza del nostro capitale sociale, del nostro volontariato, che altri ci invidiano.

Commento di Antonio Coppola

Sarò breve nel commentare e cercare di spiegare, dove necessario, i concetti che traspaiono dal discorso di Mario Draghi al Senato, fatto nella giornata in cui il terzo governo della XVII legislatura chiedeva il voto di fiducia al senato, e l’ho trovato davvero molto interessante.

Il discorso ha una chiara ispirazione politica, di quella politica non piegata dalle ideologie e forte delle proprie idee. è un discorso che esatta il concetto democratico e prova a rimettere ordine nel confuso panorama politico italiano, ribadendo, a più riprese, che l’esercizio democratico nel nostro paese ha come prodotto il parlamento, di cui il governo è espressione.

Nel suo discorso Mario Draghi rimette la palla al centro e ricorda, a tutti i partiti che in una democrazia parlamentare non esistono “vincitori” ne “vinti” e, chiunque segga in parlamento, ha il dovere di contribuire al progresso del paese. Sottolinea in tal senso, che il compito principale dei partiti è quello di dare pluralità di voci ai gruppi parlamentari, così che gli elettori di tutti gli schieramenti, siano equamente rappresentati.

Il discorso di Draghi condanna e critica aspramente la mancata volontà di collaborare con “gli oppositori” ed eleva invece quelle forze politiche inclini al dialogo e ben disposte a trovare un compromesso, compromesso che viene presentato non come un passo in dietro, ma bensì come un passo in avanti.

Con le proprie parole il presidente del consiglio tiene, letteralmente, una lezione di buona politica al senato, e nel farlo, non manca di fare riferimenti e citazioni a grandi protagonisti della storia politica italiana, da Cavour che cita direttamente a Moro, padre del compromesso storico, passando inevitabilmente per i padri costituenti che nel dopoguerra ricostruirono dalle ceneri questa nazione.

Draghi si pone quindi in continuità con gli uomini e le donne che hanno costruito e ricostruito l’Italia, un Italia che nasce nel solco della sinistra storica, di matrice liberale, di Mazzini e si concretizza grazie al lavoro della destra storica, di matrice liberale, di Cavour, un Italia che si rinnova e ricostruisce nel fiore dell’assemblea costituente, punto di incontro di esponenti di ogni partito politico presente in Italia nel dopoguerra.

Il compromesso per Draghi è segno di maturità e di progresso, l’unico modo per poter vivere in armonia con gli altri e nel rispetto dei diritti di tutti. Una visione romantica, erede del pensiero illuminismo e giusnaturalista di cui l’occidente è figlio.

Nel proprio discorso però, Draghi non guarda solo al passato, ma anzi, guarda soprattutto al futuro, un futuro pieno di insidie e di ostacoli che l’Italia dovrà affrontare, e, come nella favola della formica e della cicala di Esopo, un futuro al quale è bene giungere preparati come la formica, o i nostri figli e nipoti si rischieranno di ritrovarsi nella condizione della cicala.

Non c’è da sorprendersi se nel proprio discorso Draghi, ex presidente della BCE rivendica con forza l’importanza della moneta unica e dell’unità europea, arrivando a proporre, sognante, un Europa molto più unita e coesa di quanto non sia, un Europa che non condivide quindi solo una bandiera, una moneta e dei valori, ma un Europa che unisce i popoli, pur mantenendo vive le loro differenti identità e storie.

Nell’Europa che è possibile scorgere dal discorso di Draghi tutti i popoli europei condividono non solo le proprie risorse, materiali e umane, ma anche il proprio bilancio pubblico e le proprie spese, ed è un Europa che, un paese come l’Italia, dovrebbe desiderare con tutta se stessa.

Nella visione di draghi non c’è posto per sovranisti che vogliono disgregare l’Europa e tornare alle monete precedenti, c’è però ampio argine di manovra per i critici di un Europa che è ancora in costruzione e che non è perfetta, ma anzi, è ricca di criticità e contraddizioni, un po’ come un “America un po’ speciale” per citare il brano “L’Europa” de I Nomadi.

Conclusione

Il discorso di draghi in conclusione, è il discorso di un pragmatico sognatore che sembra volersi impegnare per la creazione di un mondo futuro che possa essere più equo e giusto per tutti ed è un discorso che ho apprezzato molto.

Alcuni passaggi in particolare li ho sentiti miei, perché esprimevano idee che condivido in modo totale, come ad esempio quando dice “Nessuno fa un passo indietro rispetto alla propria identità ma semmai, […], ne fa uno avanti…” in riferimento alla conformazione di questo governo “originale” e in un certo senso anomalo, perché policromatico, rispetto agli standard italiani degli ultimi 30 anni almeno. O ancora, quando “attacca duramente” il sovranismo italiano dicendo che “Non c’è sovranità nella solitudine. C’è solo l’inganno di ciò che siamo, nell’oblio di ciò che siamo stati e nella negazione di quello che potremmo essere“, definendolo sostanzialmente qualcosa di “inutile” in un paese come l’Italia, inutile perché per quella che è la dimensione del nostro paese, molte delle teorie e ambizioni sovraniste, non si muovono realmente nell’interesse Italiano.

Certe argomentazioni, come ad esempio una ferrea opposizione alla condivisione della spesa pubblica europea, per intenderci, possono avere un senso in paesi con una spesa pubblica molto snella, ma non in un paese in cui gli sprechi del servizio pubblico pesano sulle spalle dei contribuenti come un macigno, soprattutto se, gli stessi fautori di questo rifiuto, sono i primi promotori di uno “snellimento” del sistema fiscale e riduzione delle tasse.

Questo discorso ci dice molto sulle intenzioni di Draghi, ci dice che il suo, come si ipotizzava, sarà un governo molto diverso dal governo Monti, sarà un governo in cui ci saranno tanti investimenti mirati ed oculati, probabilmente ci sarà un incremento del debito pubblico italiano, debito che verrà riassorbito nel medio lungo periodo attraverso la crescita economica del paese.

Draghi da questo punto di vista è stato estremamente chiaro, il suo intento è quello di creare, come fu per i primi governi dell’Italia repubblicana, le premesse affinché in Italia avvenga un nuovo Boom Economico, questa volta di matrice non industriale, ma tecnologico, un “eco boom” che renda vada ad esaltare il verde della nostra bandiera.

La repubblica Weimar, lotta di uomini e ideali, Guida alla lettura

Guida alla lettura del saggio storico “La repubblica di Weimar, lotta di uomini e ideali” di Davide Bernardini, edito da Diarkos.

La Repubblica di Weimar è uno di quei capitoli particolari della storia del mondo, radicato all’interno di un ben preciso e delineato contesto storico e politico, quello della Germania post grande guerra, i cui effetti però, si riversarono sull’intera umanità e, a distanza di oltre un secolo dalla sua “fondazione” la repubblica di Weimar continua a far parlare di se, ed è sempre più presente nel mondo moderno.

Nell’immaginario comune Weimar rappresenta l’anticamera del totalitarismo tedesco ed è utilizzata da anni ormai, come esempio di una civiltà in decadenza che, con le ultime forze, prova a resistere alla barbarie che si sviluppa al proprio interno.

Nel 1993, in un Italia al che si ritrovava ad affrontare parallelamente la fine della prima repubblica e della guerra fredda, immersa in un clima globale di grande incertezza, un clima fatto di tensioni, scontri e incontri. In quel panorama politico e geopolitico dal sapore internazionale, furono in molti a parlare di “fine della storia” e in Italia qualcuno osservò con audacia, di intravedere in quel clima, orizzonti già visti altrove e in altre epoche, raccontando l’Italia all’alba della seconda repubblica come una novella Weimar.

In quel contesto Francesco Guccini, nell’album Parnassius Guccini, pubblica la canzone “Nostra signora dell’ipocrisia“, in cui racconta il dramma politico dell’epoca, citando proprio Weimar nelle primissime strofe della canzone.

Un artigiano di scoop forzati scrisse che Weimar già si scorgeva e fra biscotti sponsorizzati videro un anchorman che piangeva e poi la nebbia discese a banchi ed il barometro segnò tempesta, ci risvegliammo più vecchi e stanchi, amaro in bocca, cerchio alla testa…

F.Guccini, Nostra signora dell’Ipocrisia, Parnassius Guccini, 1993

L’anticamera del totalitarismo

La Repubblica di Weimar fu, per la storia tedesca, e non solo, una complicata e controversa esperienza politica, oltre che storica, fu una parentesi dal profumo democratico che si colloca tra la fine del secondo impero e l’istituzione del terzo reich hitleriano. Weimar fu il luogo storico e politico, in cui vennero gettate le basi del futuro regime nazista, e per certi versi fu l’anticamera di quell’oscuro e devastante regime totalitario fondato su rancore, odio, rabbia, intolleranza e finto patriottismo elitario.

La repubblica di Weimar segna il punto d’arrivo della democrazia tedesca, segna il fallimento della democrazia difronte a certe istanze e definisce il trionfo delle correnti più estreme e radicali sulle correnti più moderate, configurandosi per molti come la concretizzazione di quelle profetiche parole messe per iscritto da Platone nel libro quarto della repubblica, e noto come il brano sulla “sete di Libertà“.

Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati tiranni. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia.

Platone, La Republica, Libro IV

Il grande laboratorio di Weimar

Weimar non fu solo il luogo in cui germogliarono i semi del nazional socialismo, ma fu anche un grande laboratorio politico, collocato nel cuore dell’Europa, in cui si sperimentò un alternativa alla rivoluzione sovietica.

In questo immenso laboratorio, rimasto in funzione, con non poche difficoltà, per circa 15 anni, dal 1918 al 1933, tanti furono gli esperimenti frutto dell’incontro, scontro, intreccio e rielaborazione delle principali idee e correnti politiche del primo novecento, e tanti furono i fallimenti.

E fu proprio per effetto di quegli esperimenti non riusciti che si consolidò l’idea di una politica più radicale fondata su idee combattenti, su idee che dovevano essere difese non solo con il dialogo, ma anche e soprattutto con la forza e le armi.

Weimar, lotta di uomini e ideali

Il saggio storico di David Bernardini intitolato La Repubblica di Weimar, Lotta di uomini e ideali, edito da Diarkos si pone l’obbiettivo di ripensare, a distanza di un secolo dalla propria nascita, la Repubblica di Weimar. Ripensare non significa revisionare, il saggio va precisato, non ha un carattere revisionista e il suo obbiettivo è quello di scavare a fondo nella storia di Weimar, nel tentativo di comprendere quali sono stati gli errori che hanno portato al tracollo quell’esperienza democratica, permettendo la nascita e l’affermazione del regime nazista.

Il saggio si struttura in due grandi parti, e racconta la storia e le idee che fecero la Repubblica di Weimar, in maniera non lineare, ma seguendo temi e tematiche.

Weimar, lotta di uomini e ideali si sviluppa in un articolata e non troppo semplice rete di punti e concetti, che, nel complesso, forniscono un panorama ampio e completo su tutta l’esperienza di Weimar.

Parte prima

La prima parte del libro ha un carattere fortemente divulgativo, e permette di inquadrare a pieno tutti gli aspetti e gli elementi che andarono a comporre la struttura di Weimar, chi furono i suoi protagonisti, quali furono le idee che definirono l’esperienza politica di Weimar e quali furono i momenti salienti dell’intera esperienza politica iniziata nel 1918 e terminata nel 1933.

I vari capitoli del libro, sia della prima che della seconda parte, come anticipato, sono sviluppati su temi e concetti consequenziali, e, se bene scollegati tra loro, sono strutturati su un percorso cronologico che rende non troppo semplice ed efficace una lettura asincrona, almeno non alla prima lettura.

Nella prima parte infatti ogni capitolo e propedeutico, per ragioni cronologiche, ai capitoli successivi. Inoltre, l’intera prima parte costituisce la base concettuale ed evenemenziale, su cui è costruita la seconda parte.

Questo discorso ovviamente decade per eventuali letture successive alla prima.

Parte seconda

Se i temi ed argomenti trattati che compongono la prima parte del saggio sono trattati in modo netto e puntuale, volti a ricostruire la storia della Repubblica di Weimar, i temi trattati nella seconda parte, hanno un carattere più trasversale ed hanno il fine di favorire l’immersione del lettore in quell’esperienza storica.

Diversamente dai capitoli della prima parte, quelli della seconda parte possono essere letti in maniera asincrona, poiché non consequenziali, di conseguenza le informazioni contenute in un capitolo, non sono propedeutiche per la lettura e comprensione dei capitoli successivi.

Conclusioni

Anche se di carattere generalmente divulgativo, i vari temi trattati, per essere compresi a pieno, soprattutto nella seconda parte, richiedono alcune conoscenze preliminari, senza le quali, purtroppo, non è possibile cogliere completamente tutte le sfumature del saggio.

La divisione del saggio in due parti permette in parte di ovviare ad una preliminare carenza di informazioni di base, la prima parte infatti, ha una struttura più manualistica con cui, l’autore, oltre a fornire una narrazione ampia e completa dell’esperienza storica della repubblica di Weimar, getta le basi per la seconda parte, di carattere più avanzato.

In definitiva, La repubblica di Weimar, Lotta di uomini e ideali, non è un libro adatto a chiunque. Il saggio si rivolge prevalentemente a chi vuole conoscere e approfondire meglio la storia della Germania degli anni venti. Il lettore ideale ha già una conoscenza basilare degli avvenimenti di quel periodo oltre che del contesto e delle idee politiche dell’epoca.

Chi è Davide Bernardini?

Davide Bernardini è un giovane storico italiano, classe 1988, laureato presso l’università di Teramo e attualmente docente a contratto presso l’Università degli studi di Milano, è inoltre socio del SISSCO può vantare numerose recensioni in collaborazione con la Rivista storica del socialismo ed Giornale di storia contemporanea, oltre a diversi articoli di ricerca e alcuni saggi, tra cui Nazionalbolscevismo. Piccola storia del rossobrunismo in Europa edito da ShaKe.

I migranti di Lipa, tra responsabilità e diritto internazionale

Salve a tutti, salve a tutte e benvenuti, benvenute a questo primo episodio del Podcast Radio Spenta. Un podcast che tratterà di Scienza, tecnologia e società e che da oggi subentra al mio precedente podcast L’osservatorio.

Io sono Antonio, fondatore di Historicaleye, un progetto di Public History attivo fin dal 2012 e questo è il primo episodio ufficiale di questo nuovo progetto che spero durerà nel tempo.

Parto affrontando un tema che a me è molto caro, vale a dire la questione balcanica tra responsabilità e diritto internazionale, in particolare voglio parlare di ciò che sta accadendo in questi primi giorni del 2021 in Bosnia.

Prima di arrivare a ciò però, voglio fare un piccolo passo indietro, finalizzato a creare un minimo di contesto su quella che è la realtà storica dell’area balcanica, l’avanguardia dell’Europa, quell’Europa un po’ speciale colonia culturale dell’Europa occidentale, percepita da noi Italiani, Francesi, Tedeschi, Spagnoli e Britannici, come un Europa minore, un Europa quasi di serie B, un Europa in definitiva non è considerata realmente Europa.

All’origine delle guerre Jugoslave svoltesi fra il 1991 e il 1999, scrive Joze Pirjevec nella propria introduzione al saggio monumentale “le guerre jugoslave 1991-199“, ci fu la volontà di dominio dell’etnia maggioritaria, quella serba, mal disposta a tollerare che il processo di emancipazione delle diverse realtà nazionali, già avviato negli anni settanta da Tito, portasse, dopo il crollo del Muro di Berlino, a una soluzione di tipo confederale.
Continua lo storico dei balcani, scrivendo che, a differenza del vecchio “maresciallo”, convinto che la Jugoslavia avrebbe potuto sopravvivergli solo garantendo l’uguaglianza alle sue numerose etnie, i serbi non accettavano l’idea di perdere una supremazia, conquistata con la forza delle armi fin dai tempi della prima guerra mondiale.

L’estremismo del nazionalismo Serbo è per Joze Pirjevec, uno dei più autorevoli e importanti studiosi e storici delle guerre Jugoslave, il motivo principale, se non addirittura l’unico motivo, alla base delle guerre Jugoslave che interessarono l’area dell’ex Jugoslavia negli anni 90.

Guerre che sono state riconosciute a posteriori come uno dei momenti più imbarazzanti e drammatici, teatro di scenari atroci consumati alle porte dell’europa, fin dai tempi della seconda guerra mondiale.
Ciò che diede scandalo negli anni 90 fu la parziale indifferenza, almeno iniziale, dell’Europa, che iniziò a mobilitarsi soltanto in seguito alle prime istanze Italiane, che, cercando di mediare tra le parti, riuscì alla fine a forzare la mano dell’intervento delle Nazioni Unite, un intervento che, anche se per molti considerato limitato, fu percepito dalle popolazioni locali, come unica salvezza possibile, e ancora oggi, a distanza di quasi 30 anni, molti oggetti lasciati lì dai caschi blu delle nazioni unite, sono custoditi e venerati come reliquie, in particolare in città come Mostar, una delle città più duramente colpita dalla guerra in Bosnia, e dove, oggi, nella piazza centrale, sorge una statua simbolo di conciliazione e riunificazione che attinge al patrimonio comune di quella generazione ferita e lacerata dalla guerra, una generazione cresciuta negli anni 70 e ottanta per la quale il suoperamento delle rivalità etniche ha le fattezze di Bruce Lee.

Parlerei per ore della guerra in Bosnia, ma l’oggetto di questo podcast è qualcosa di, purtroppo, molto più recente.
Mi riferisco alla catastrofe umanitaria in corso, agli inizi del 2021, tra Croazia e Bosnia e che vede protagonisti migranti diretti in Europa.

La politica migratori dei paesi balcanici è molto dura. Le frontiere sono chiuse per i migranti diretti in Europa e quelli che provano a passare di là, vengono arrestati, e sottoposti a trattamenti a dir poco discutibili.

Un qualcosa di molto simile a ciò che accade in Libia, Marocco e Turchia, con un unica differenza, il luogo d’origine dei migranti.
Se infatti in Libia e Marocco, la maggior parte dei migranti Proviene dall’africa subsahariana e in Turchia i migranti provengono dal vicino oriente, i migranti bloccati tra Bosnia e Croazia provengono principalmente dall’area Balcanica, sudest asiatico e dal Medio Oriente.
Le gestione, estremamente dura dei migranti, da parte di questi paesi tende alla criminalizzazione dei migranti irregolari, considerati clandestini e dunque criminali.

C’è però un problema di carattere internazionale legato al concetto di immigrazione clandestina, un problema che trova origine nella dichiarazione dei diritti fondamentali dell’uomo, proclamata dall’assemblea generale delle nazioni unite il 10 dicembre 1948 e sottoscritta da tutti i paesi e organizzazioni membre dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.

Detto più semplicemente, Bosnia, Croazia, Libia, Turchia, Marocco, Unione Europea e tutti i paesi dell’Unione riconoscono, nel proprio corpo legislativo, i principi della dichiarazione universale dei diritti umani dell’Onu, il cui testo è disponibile in tutte le lingue riconosciute dall’ONU, oltre alle cinque lingue ufficiali dell’ONU, ovvero Cinese, Francese, Inglese, Russo e Spagnolo.

Sulla base di questi principi, sono stati creati diversi uffici delle nazioni unite, tra cui, la più importante, l‘alto commissariato delle nazioni Unite per i Diritti Umani, sul cui portale è disponibile il testo della dichiarazione.

Secondo questa dichiarazione, considerata dalla stessa ONU un tassello fondamentale della propria istituzione, per certi versi la pietra angolare da cui è stata edificata l’intera Civiltà Moderna, di cui l’ONU è espressione, nonché promotore e garante, l’immigrazione Non è mai Clandestina, e questo principio è richiamato in tre diversi articoli, a partire dal primo articolo della dichiarazione.

Questi Articoli puntualizzano alcuni principi, già di persè contenuti nell’articolo 1 e 3 della dichiarazione, vale a dire “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza” e “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona“.

E già qui, sulla base di questi principi, tutta l’impalcatura del concetto di immigrazione clandestina, crolla su se stessa, ma, volendo essere più puntigliosi ed escludendo ogni possibile dubbio sulla natura illegittima e incompatibile con la dichiarazione del principio di “clandestinità” delle migrazioni umane, l’articolo 13 recita “Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese.”

L’articolo 14 recita invece “Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni” precisando che, l’uncia eccezione a questo diritto si configua qualora l’individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.”
Continua la dichiarazione con l’articolo 15, secondo il quale “Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza.” e “Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della propria cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza.”

Questi articoli non lasciano troppo spazio ad interpretazioni, ogni individuo, è libero e, a meno che non abbia commesso gravi crimini in contrasto con i principi delle Nazioni Unite, ha il pieno diritto di lasciare, in qualunque momento, e per qualunque ragione, il proprio paese di origine ed ha il diritto di raggiungere e stabilirsi in qualsiasi altro paese del mondo, e nessun uomo o istituzione, subordinata all’autorità internazionale delle Nazioni Unite può negargli questi diritti fondamentali.

In Bosnia, Croazia, ma anche in Libia, Marocco e Turchia, e in molte altre zone del mondo, in particolare in stati che si collocano ai confini di ricchi e prosperi paesi, questi principi, hanno un valore aleatorio e sistematicamente vengono ignorati.
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Ciò che da scandalo in questo momento in Bosnia, alle porte dell’Europa, oltre alle condizioni cui sono sotoposti i migranti, è il tacito consenso, il drammatico silenzio, dell’Europa, un Europa che pur di mantenere intatto il proprio benessere interno, pur di proteggere il proprio precario paradiso perduto, per citare Robert Kagan in Paradiso e Potere, America ed Europa nel nuovo ordine mondiale, sistematicamente si affida a questi stati esterni all’unione, ai quali viene concessa la libertà di violare impunemente alcuni dei più sacri principi sanciti dalle nazioni unite.
Questi Paesi, in questo caso specifico Bosnia e Croazia, possono agire in aperta violazione della dichiarazione dei diritti umani universalmente riconosciuti, per un motivo.

Quei Migranti, che in alcuni casi fuggono dalla guerra, in altri fuggono dalla povertà, in altri ancora cercano semplicemente migliori condizioni di vita, e che da una fetta importante dell’opinione pubblica sono considerati Clandestini, concetto che tuttavia è alieno al diritto internazionale, quei migranti che non hanno alcun motivo o interesse nel rimanere in Bosnia e che sono lì solo di passaggio, diretti in Europa, in Europa non sono voluti, ne da chi li chiama clandestini, ne da chi, pubblicamente dichiara che sono i benvenuti, per poi non intervenire in loro difesa quando paesi come la Libia, Turchia e in questo caso Bosnia, si macchiano di comportamenti atroci imputabili come crimini contro l’umanità.

E la Bosnia, per quello che ha vissuto negli anni 90, di crimini contro l’umanità, dovrebbe averne una buona memoria. anche perché, il tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, costituito nel 1993 al fine di perseguire i criminali di guerra responsabili di eventi disumani negli anni 90, è stato sciolto soltanto nel 2017.

Ma di questo magari parleremo in un prossimo episodio, qui su Radio Spenta, il mio podcast.

I Medici di Claudia Tripodi, Guida alla lettura

Dopo tanto tempo, finalmente, ritorno a pubblicare, e lo faccio con una guida alla lettura, in particolare la guida alla lettura del saggio I Medici di Claudia tripodi.

Questa guida sarebbe dovuta uscire ad ottobre, ma, una serie di sfortunati eventi, mi hanno impedito di lavorarci per molto tempo, ho quindi rimandato la scrittura e pubblicazione a dopo le feste, forte di una seconda rilettura del saggio di Claudia Tripodi.

Prima di cominciare con la guida, voglio ringraziare l’editore Diarkos per avermi fornito una copia del libro finalizzata alla produzione di questa guida.

I medici, ascesa e potere di una grande dinastia

Il saggio I medici, ascesa e potere di una grande dinastia, di Claudia Tripodi si presenta come una raccolta di saggi di carattere biografico, riguardanti le principali personalità che hanno fatto la storia della famiglia de Medici, partendo dal capostipite Giovanni di Bicci de Medici, vissuto tra XIV e XV secolo, fino ad arrivare alla principessa palatina Anna Maria Luisa de Medici, vissuta tra XVII e XVIII secolo.

L’arco temporale coperto dal saggio è dunque molto ampio, e coincide con l’ultimo medioevo e gran parte dell’età moderna, epoche di cui è consigliato avere un infarinatura generale al fine di affrontare la lettura del saggio in modo armonioso. Il saggio è comunque di carattere divulgativo, e fornisce, tra le proprie pagine, tutti gli strumenti necessari per poter ricostruire e comprendere a pieno, la dimensione politica e sociale in cui si collocano le vite presentate nell’opera.

In poco più di 300 pagine, il saggio condensa una narrazione enciclopedica delle vite e delle vicende che hanno reso grande la dinastia de Medici, protagonista, non di secondo piano, di gran parte della storia italica ed europea.

La raccolta di saggi può essere letta sia come una “storia familiare” che come una storia europea che parte dalla toscana, giunge Roma, presso la corte papale di Leone X, al secolo Giovanni Lorenzo de Medici, si trasferisce poi a Parigi, presso la corte del re di Francia Enrico II, di cui Caterina de Medici era consorte, per poi tornare in Italia, presso la corte medicea del Granducato di Toscana.

I Medici

La storia della famiglia de Medici è una storia immensa ed estremamente complicata, e non basterebbe una vita intera per studiarla completamente, poiché tante, forse troppe, sono le personalità di alto rilievo appartenute a quella che è stata una delle più importanti dinastia dell’intera storia d’Italia.

Nonostante il saggio si muova in un campo a dir poco sterminato, l’autrice riesce a mantenere ben saldo il timone ed impostare una rotta precisa e puntuale, organizzata in modo schematico attraverso la ricostruzione dei momenti più importanti delle vite degli uomini e delle donne della famiglia de Medici.

Uno degli aspetti che ho apprezzato particolarmente di questo libro è la sua struttura verticale, ogni saggio biografico infatti, può essere letto indipendentemente dagli altri, e può essere visto come punto di partenza per uno studio più approfondito, sulla vita dei singoli protagonisti dell’opera. Fermo restando che, per alcuni membri della famiglia de Medici è più facile reperire informazioni rispetto ad altri.

Uomini e donne come Cosimo il Vecchio, Lorenzo il Magnifico e Caterina de Medici, hanno nomi estremamente celebri e la letteratura storiografica attorno a queste personalità, è a dir poco infinita, altri membri della famiglia invece, come ad esempio Giovanni di Bicci, Cosimo III e Anna Maria Luisa, sono decisamente meno noti, e la letteratura che li riguarda è circoscritta ad un numero estremamente esiguo di opere molto puntuali e, sotto un certo punto di vista, complicate da leggere.

Il saggio I Medici, di Claudia Tripodi, permette, in modo semplice e immediato, di accedere ad informazioni significative, sulla vita di queste personalità, e se per personaggi più noti, può sembrare un qualcosa di non particolarmente significativo, se si sposta la lente sui personaggi minori della dinastia, il saggio diventa estremamente interessante ed utile.

I saggi verticali sui medici

Nell’immaginario collettivo, la dinastia de Medici inizia la propria ascesa al potere, tra Arezzo e Firenze, grazie al genio e l’acume politico di Cosimo de Medici, noto alla storia come Cosimo il Vecchio, tuttavia, Cosimo non è un uomo comune che costruisce un impero dal nulla, Cosimo è in vero figlio di Giovanni di Bicci de Medici, piccolo e ambizioso banchiere fiorentino, la cui eredità avrebbe permesso a Cosimo di gettare le basi dell’Impero della famiglia medicea.

La storia di Giovanni di Bicci è una storia molto sottotono rispetto a quella dell’erede Cosimo, ma non meno significativa o importante, e, nell’ottica di un lavoro ampio e completo sulla famiglia de Medici, è necessario partire da Giovanni per poter comprendere meglio la figura di Cosimo.

Come anticipato nel paragrafo precedente, ho trovato particolarmente utili i saggi sui “medici minori”, di cui, il più delle volte, al di fuori di campi di studio estremamente specifici sulla toscana in età moderna, si conosce forse il nome ed il titolo, ma nulla di più. Questo saggio, grazie allo spazio dedicato a queste personalità, mi ha permesso di conoscere meglio un mondo che mi era lontano, donandomi la chiave di accesso a storie e vite, fino a quel momento collocate in strade quasi completamente sconoscute.

Uno dei miei saggi preferiti del libro è il sesto, intitolato I medici fuori da Firenze, saggio in cui, in modo molto rapido, si raccontano le storie dei pontefici Leone X e Clemente VII oltre che del duca d’Urbino, Lorenzo de Medici, da non confondere con Lorenzo il Magnifico.

Altro saggio che ho apprezzato in modo particolare è il nono, intitolato Caterina dei Medici, la regina Nera, saggio in cui, senza troppi giri di parole, si parla della regina di Francia Caterina de Medici, consorte del re di Francia Enrico II di Valois.

Questi due saggi sono quelli che meglio racchiudono e definiscono il potere temporale della famiglia de Medici, una famiglia così potente da riuscire a partecipare al gioco del trono papale, insediando per ben due volte un membro della propria famiglia al soglio pontificio, e ancora, una famiglia così ricca e potente, da riuscire ad insediarsi, al fianco, e secondo alcuni, riuscendo a controllare, il re di Francia. Caterina non è però stata solo la regina di Francia, ma anche la regina reggente di Francia, per ben due volte, la prima, alla morte di Enrico II, tra il 1560 ed il 1563, per conto del figlio primogenito Carlo IX di Francia e la seconda, nel 1574, alla morte del figlio Carlo, per conto del secondogenito Francesco II di Francia.

Durante la propria presenza alla corte di Francia, Caterina de Medici, fu una donna estremamente presente nella vita politica, sia in veste di regina, che di regina madre, oltre che ovviamente di regina reggente. Ben note sono infatti le rivalità tra Caterina de Medici e Maria Stuart, regina di Scozia e regina consorte di Francia in quanto moglie di Francesco II di Francia.

Il saggio su Caterina de Medici, ci mostra quel mondo controverso e complicato delle relazioni politiche e internazionali del XVI secolo, attraverso la vita di una donna decisamente fuori dal comune che, per un lungo periodo della propria vita, si ritrovo al centro dell’universo politico europeo.

Il saggio sui Medici

Il saggio I medici, di Claudia Tripodi, è nell’insieme, un libro di ampio respiro, in grado di fornire al lettore un infarinatura generale sulla storia politica ed economica dell’Europa moderna, attraverso il racconto delle vite di uomini e donne che, chi più, chi meno, sono stati determinanti nella costruzione di un concetto europeo.

Come già detto altre volte, il saggio ha una struttura verticale, che lo rende particolarmente adatto ad una lettura occasionale o non necessariamente consequenziale. I saggi che compongono l’opera possono essere letti in modo isolato o in ordine sparso, ed è proprio in quest’ultimo medo che ho affrontato la seconda lettura del testo, preferendo soffermarmi su quei saggi che reputavo più interessanti, per quello che era il mio gusto personale e i miei interessi. In soldoni, durante la seconda lettura, ho preferito dare maggiore spazio a saggi che mi incuriosivano e interessavano maggiormente, ovvero saggi su quei personaggi di cui avevo letto e sapevo poco o nulla, e sui quali avevo difficoltà a reperire informazioni.

I Medici, una lettura utile e consapevole

Sfogliando le pagine del libro si noterà immediatamente un enorme varietà di fonti consultate dall’autrice per la realizzazione di quest’opera, i cui contenuti sono tanti quanti i protagonisti della dinastia de medici, e per chi vuole addentrarsi nello studio della famiglia de Medici, o più semplicemente vuole conoscere meglio uno dei suoi protagonisti, questo libro si presenta come uno strumento estremamente utile per due motivi.

Il primo motivo è che questo libro fornisce una porta d’accesso a quelle biografie, attraverso dei saggi monografici, brevi, semplici e di ampio respiro, il saggio su Caterina de Medici, per citarne uno, è un ottimo strumento per acquisire informazioni di base sulla regina di Francia, da cui partire per un lavoro di analisi e ricerca, magari più ampio, inoltre, qualora si fosse intenzionati ad approfondire la figura di Caterina, il saggio, come ogni buon saggio, permette di accedere ad un ampia bibliografia, che, nel caso del saggio su Caterina, si configura come un indice di testi, articoli e documenti, riguardanti questa donna, letture che chiunque può prendere in mano al fine di conoscere meglio e più da vicino la figura di Caterina de Medici.

Qualche parola sull’autrice de I Medici, Claudia Tripodi

Archivista e storica di professione, Claudia Tripodi ha studiato presso l’accademia Paleografica e Università di Firenze, dove ha conseguito un dottorato di ricerca in Storia Medievale nel 2009, per poi spostare la propria attività di ricerca sulla storia delle famiglie e la mobilità sociale tra Medioevo e Rinascimento, ed è proprio in questo campo che si colloca, perfettamente, il saggio I Medici, un saggio che, come detto più volte in questa guida, è una storia di famiglia, la famiglia de Medici, ma anche una storia politica ed economica europea a cavallo tra medioevo ed età moderna.

Claudia tripodi è attualmente collaboratrice archivista presso l’Archivio di Stato di Firenze, per conto dell’Università Neubauer di Chicago, oltre che redattrice per la rivista “Archivio storico Italiano”.

La maggior parte delle pubblicazioni della dottoressa Tripodi sono di carattere tecnico, in particolare review realizzate per conto di alcune riviste di settore.

Nonostante ciò, è anche autrice di diversi saggi, ultimo dei quali, I Medici, ascesa e potere di una grande dinastia, un saggio che segue lo stile narrativo e strutturale dei precedenti saggi, su Vespucci, edito da Viella Editore e pubblicato nel 2018 con il titolo Prima di Amerigo. I Vespucci da Peretola a Firenze e, prima ancora, del saggio sulla famiglia Spini del 2013, intitolato Gli Spini tra XIV e XV secolo. Il declino di un antico casato fiorentino ed edito da Olschki nella collana Biblioteca storica toscana.

I saggi di Claudia Tripodi sono accomunati, oltre che da un forte carattere divulgativo, che vuole raccontare, in modo chiaro, semplice e diretto, un ampio e complesso percorso di ricerca molto puntuale e specifico. Il saggio sui Medici sintetizza, tra le proprie pagine, anni di studio e ricerca compiuti dall’autrice, sulla nobiltà fiorentina e la società europea tra medioevo e rinascimento.

Conclusioni

Il libro I Medici, ascesa e potere di una grande famiglia di Claudia Tripodi è una raccolta di brevi saggi biografici, realizzati dall’autrice ed aventi come protagonisti, la famiglia de Medici, di cui ci vengono raccontate storie, vite, intrighi, ma anche ambizioni, ostacoli, difficoltà e successi. Il tutto è scritto in modo semplice e chiaro, con uno stile molto lineare e conciso, senza troppi fronzoli e senza dare troppo spazio a concetti e informazioni irrilevanti.

questo libro di Claudia Tripodi si concentra su quelli che sono i momenti più importanti delle vite raccontate, e, se c’è un difetto che è possibile incontrare in questo saggio, forse è proprio la puntualità con cui sono narrate le vicende.

Il saggio ha un carattere divulgativo molto spinto ed acceso, tuttavia, senza una preliminare conoscenza (molto superficiale) delle dinamiche sociali degli ultimi anni del basso medioevo e del rinascimento, alcuni passaggi potrebbero risultare complicati da comprendere e potrebbero richiedere una seconda lettura. Nonostante ciò, il libro non presenta ostacoli insuperabili, le conoscenze e competenze preliminari richieste per poter leggere il libro in modo completo, sono davvero pochissime, e, chiunque sia interessato a leggere un saggio biografico sulla famiglia de Medici, quasi per definizione, dispone già delle conoscenze preliminari richieste.

La struttura verticale del libro, diviso in capitoli monografici riservati ai singoli protagonisti della dinastia medicea, rende il saggio estremamente dinamico, e può essere letto, in vari modi e dimensioni, io stesso, la prima volta che ho letto il libro l’ho letto in un modo “classico” ovvero seguendo l’ordine naturale dei capitoli, mentre, la seconda volta che l’ho letto, mi sono mosso tra i capitoli in ordine sparso, leggendo ad esempio il saggio su Caterina de Medici parallelamente al saggio su Cosimo il Vecchio, ho voluto leggere parallelamente quei due saggi perché da un certo punto di vista, parallele sono le figure di Caterina e Cosimo, entrambi infatti portano la famiglia de Medici su un più alto piano sociale, il primo, Cosimo, introducendo la famiglia all’aristocrazia Italica, la seconda, portando l’aristocratica famiglia italica sul piano delle teste coronate che in quel momento governavano l’Europa, insediandosi sul trono di Francia e dando i natali all’erede di casa Valois.

In definitiva, il libro I Medici di Claudia Tripodi un libro che consiglio a chiunque, sia a chi è incuriosito dalla storia della famiglia de Medici e vuole iniziare un percorso di studio e letture, sia a chi è già addentrato nel mondo della letteratura storiografica e vuole andare ad approfondire determinati aspetti della società europea, in particolare la mobilità sociale tra medioevo e rinascimento, che, in questo libro, la fa da padrona.

Altre guide alla Lettura

Se questa guida alla lettura ti è stata utile e vuoi leggerne altre, ti consiglio la lettura di:

I Lobgobardi, di Elena Percivaldi.
Il Formaggio e i Vermi, di Carlo Ginzburg.
La Fine della cultura di Erich Hobsbaem
Wonderland, di Alberto Mario Banti.

La storia di Chico Mendes

Chico Mendes è stato un attivista brasiliano, assassinato nel 1988 da a causa delle sue battaglie per la foresta amazzonica

Francisco Alves Mendes Filho, meglio noto come Chico Mendes, era un raccoglitore di caucciù brasiliano e dal 1975 Segretario generale del Sindacato dei lavoratori rurali di Brasileia.

Nella sua vita Chico è stato un importante attivista e ambientalista, che si è battuto per tutta la vita contro il disboscamento della foresta amazionica.

Per questo suo attivismo sul finire degli anni settanta ha ricevuto numerose minacce da parte di alcune milizie operanti sul territorio, che svolgevano attività di sicurezza privata alcuni possidenti locali legati a diverse multinazionali le quali avevano ricevuto dal governo brasiliano concessioni per lo sfruttamento del terreno della foresta amazzonica (a danno dei contadini locali e della stessa foresta amazzonica).

Queste minacce si concretizzarono in diverse accuse, che portarono in tribunale Chico Mendes, prima con l’accusa di Omicidio di Wilson Pinheiro, leader di un organizzazione sindacale avversaria, e in altri due processi, con l’accusa di istigazione alla violenza.In tutti e tre i casi Chico Mendes venne assolto per insufficienza di prove, ma nel corso del processo per l’omicidio di Pinheiro, oltre 40 possidenti di Xapuri (principalmente condadini indigeni) vennero condannati.

Nel 1987, l’attivismo di Chico Mendes portò nella regione di Xapuri una delegazione delle Nazioni Unite che verificò direttamente le accuse rivolte dagli attivisti alle multinazionali statunitensi che si celavano dietro i progetti di disboscamento.Alle verifiche da parte delle Nazioni Unite fecero seguito circa 40 giorni di campagna politica anche negli Stati Uniti, e in quel contesto Chico Mendes venne chiamato a parlare di fronte al Senato degli Stati Uniti d’America e per effetto di questa interrogazione al senato la Bank of Interamerican Development decidse di ritirare i propri investimenti in Amazzonia.

Si tratta di una vittoria importante per Chico Mendes e per i lavoratori rurali che, a causa dei progetti di disboscamento erano costretti a lasciare la foresta.

L’omicidio di Chico Mendes

Purtroppo però, questa vittoria ebbe vita breve e il 22 dicembre 1988, Chico Mendes venne assassinato.Le indagini portarono a Darly Alves da Silva, un proprietario terriero possessore di un grande Ranche e allevatore di castori arrosto, con il quale Chico si era scontrato in diverse occasioni.

Darly da Silva venne alla fine condannato, nel dicembre del 1990 come mandante dell’omicidio di Chico Mendes e suo figlio, Darci da Silva, venne indicato dagli inquirenti come esecutore materiale. I due Rancheros vennero condannati a 19 anni.

La notizia dei da silva si tradusse in un ondata di forte entusiasmo nella regione di Xapuri, poiché si trattava della prima condanna emessa per l’omicidio di un leader sindacale e attivista per la tutela del territorio e dei piccoli contadini.

Nel corso degli anni settanta e ottanta erano stati centinaia le persone, come Chico Mendes, assassinate perché si opponevano al disboscamento e Chico sembrava essere il primo per il quale si era giunti ad una condanna.

L’entusiasmo per la condanna dei da Silva si estinse dopo pochi mesi, quando, nel 1991 ci si rese conto che gli omicidi non sarebbero terminati. Inoltre, nel febbraio del 1992, la corte d’appello statale di Rio Branco annullò la condanna di Darly Alves da Silva.

L’annullamento della sentenza fu letta come la sconfitta definitiva degli indigeni e dei lavoratori rurali e della tutela della Foresta Amazzonica.

La storia di Chico Mendes è una delle innumerevoli storie di uomini morti per gli indios e la foresta amazionica, ma, a differenza di moltissimi altri, l’eco della sua morte si diffuse in tutto il mondo, grazie a numerosi tributi soprattutto musicali, da artisti in tutto il mondo, da Paul McCartney che dedicò alla memoria di Chico Mendes How Many Peopole, ai Nomadi che, nel loro ultimo album con Augusto Daolio, nel 1991 pubblicarono “ricordati di Chico“, una canzone che racconta la storia e la memoria di Chico Mendes.

Lupin, la serie Netflix con protagonista Omar Sy

Netflix ha presentato una nuova serie, ispirata al personaggio di Arsène Lupin, con protagonista Omar Sy, un attore di colore che è diventato immediatamente oggetto di polemica, in particolare perché Omar Sy non assomiglia minimamente al Lupin che tutti conosciamo, c’è però da chiarire una cosa, la serie Netflix non ha come protagonista Arsène Lupin III come nella serie animata, ha invece come protagonista un Lupin ispirato all’Arsène Lupin creato da Maurice Leblanc, anche se, non si tratta proprio di Arsène Lupin, personaggio con il quale però, ha tantissimo in comune, forse anche più del suo trisavolo nipponico.

Il personaggio di Arsène Lupin, il ladro gentiluomo, da non confondere con Arsène Lupin III protagonista del popolare Manga e ancora più popolare Anime, è stato creato da Maurice Leblanc, uno scrittore francese, nel 1905, ed è un personaggio che, nonostante tutto, è figlio del proprio tempo. Il Lupin di Leblanc è un uomo bianco, di media statura, dall’aspetto comune, che veste alla moda, perché vive tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, un mondo in cui, alcuni ambienti sociali erano ad uso esclusivo dell’uomo bianco.

La serie Netflix tuttavia, è ambientata in un mondo profondamente diverso, un mondo in cui alcuni ambienti non sono più un esclusiva dell’uomo bianco, e dunque, Lupin può evolvere ed avere qualsiasi aspetto.

Personalmente avrei apprezzato un Lupin dall’aspetto nord africano, magari interpretato da un attore di origini algerine o tunisine, ma di questo parleremo poi.

Chi era Maurice Leblanc

Leblanc era un uomo francese, di astrazione borghese, figlio di un armatore e mercante, le cui idee politiche erano identificabili con il socialismo radicale della Francia dell’epoca, e simpatie anarchiche.

Lupin eredita molte delle proprie idee dal proprio autore, e nei primi racconti pubblicati sulla rivista Je sais tout Lupin fino almeno al 1914, il personaggio di Lupin è molto “anarchico”, poi, durante la grande guerra diventa un fervente patriota. trasformandosi lentamente da Ladro a Detective.

La maggior parte delle avventure di Lupin scritte da Leblanc tra il 1905 ed il 1941 sono ambientate nella francia della Belle époque e fino agli anni venti.

Durante la seconda guerra mondiale Leblanc, in seguito all’occupazione nazista della Francia si trasferisce a Perpignan, dove morì di polmonite nel 1941 e dal 1947 (dopo la fine della guerra) la sua tomba è stata trasferita al cimitero di Montparnasse a Parigi.

Il personaggio di Lupin era considerato all’epoca la controparte francese di Sherlock Holmes con il quale, il ladro francese si “scontra” in una cortometraggio del 1910 intitolato “Arsène Lupin affronte Sherlock Holmes” diretto dal regista Michel Carrè, si tratta della seconda pellicola con protagonista Lupin, mentre il primo adattamento fu “The gentleman Burglar” diretto da Edwin Stratton Porter nel 1909.

L’aspetto di Arsène Lupin riflette l’immagine della Belle époque francese, indossa abiti eleganti, una giacca scura e immancabili sono il cilindro e il monocolo.

Negli anni sono state realizzate innumerevoli opere ispirate al Lupin di Leblanc, tra cui innumerevoli film, serie tv, romanzi, tra cui la serie Lupin in uscita su Netflix a gennaio 2021.

Il Lupin della serie Netflix, con Omar Sy nei panni del ladro gentiluomo è un adattamento in chiave moderna del Lupin originale, che, per onor di cronaca, non ha nulla a che vedere con Lupin III, il Lupin dell’anime che tutti conosciamo e amiamo.

Omar Sy è Lupin ?

Premesso che la serie Lupin di Netflix si ispira al Lupin originale di Leblanc e non al Lupin dell’anime.

Il personaggio di Lupin, così come del suo pronipote Lupin III e a differenza di personaggi simili, come il sopracitato Sherlock Holmes di Doyle, è un personaggio molto comico ed ironico. Le storie di Lupin sono tutte caratterizzate da una forte ironia e sarcasmo. Sul piano fisico ed estetico Leblanc non ha mai fornito una descrizione precisa e dettagliata di Lupin, limitandosi a definirne l’abbigliamento che, nelle opere originali ricalcava la moda e lo stile dell’epoca (fine ottocento inizio novecento), Leblanc ci racconta Lupin come un uomo distinto, di gran classe ed eleganza, con modi estremamente gentili. Dalla mente geniale e il tocco delicato. Di Lupin, Umberto Eco, in Da Superman a Superman ha scritto.

Immagine tradizionale del gran signore in redingote e cappello a cilindro, monocolo e guanti bianchi, che, con gesti quasi impercettibili, nasconde un diamante qui, una collana di perle inestimabile là, ancora una volta uno smeraldo maledetto, il resto sono n ‘ essendo solo feste, balli, baci di mani, porte girevoli dei Grand Hotels. […] Lupin è […] un capobanda che corrompe la selvaggina dal patibolo e, se lo desidera, rapina un castello da cima a fondo nello spazio di una notte.

Umberto Eco, Da Superman a Superman ha detto.

Uno dei motivi ufficiali della scelta di Omar Sy per il personaggio di Lupin, è che si tratta di un popolare attore comico francese la cui comicità è in linea con quella del personaggio.

Questa scelta, già dai primi istanti successivi alla pubblicazione del trailer, ha suscitato non poco scalpore, soprattutto per il colore della pelle si Sy, e confesso, anche io ho pensato “bello il trailer, figo, ma perché ca**o Lupin è di colore?”.

Il Lupin classico di Leblanc riflette l’immagine dell’uomo comune francese, come lo stesso Leblanc ha dichiarato Lupin è l’immagine della Belle èpoque francese, ma, in un riadattamento ambientato 100 anni dopo le storie originali, un Lupin con baffi, monocolo e cilindro, forse sarebbe risultato fuori luogo.

Lupin è costruito in quel modo per un motivo ben preciso, ovvero potere essere invisibile tra la folla, è un uomo che può nascondersi in bella vista, muoversi in una sala durante un gala e trafugare gioielli di ogni tipo senza essere notato, è un uomo che può andare al museo del Louvre da turista ed uscire con la Monna Lisa sotto braccio.

In un adattamento in chiave moderna quindi, Lupin deve rispecchiare l’uomo comune, che si può incontrare per le strade di Parigi, una delle più grandi e caotiche metropoli al mondo, in cui vivono milioni di persone di ogni origine ed etnia, ed, in una città del genere, un uomo dalle fattezze di Omar Sy, può passare facilmente inosservato, travestendosi, come vediamo nel Trailer, da inserviente, o passando per ricco uomo d’affari.

Si tratta quindi di una scelta contestualizzata, inoltre, guardando il trailer, possiamo osservare che Lupin non è Lupin, no è Arsène Lupin, ma qualcuno di esterno che diventa Lupin.

Lupin è quindi una maschera, una delle innumerevoli identità dell’uomo che è legato al Lupin originale in maniera trasversale, non è il trisavolo, come Lupin III della serie animata, non è Arsène Lupin catapultato nel XXI secolo, ma è un qualcuno di esterno che diventa Lupin.

Sul piano estetico e dell’abbigliamento il Lupin della nuova serie Netflix eredita tantissimo dal Lupin originale, anche se a prima vista non sembra.

Il Lupin originale è un uomo alla moda ed indossa sempre il suo immancabile monocolo e cilindro, due accessori d’altri tempi che all’epoca del Lupin originale erano indicativi della moda ed espressione di uno status, oggi questi accessori sono stati sostituiti da altri come un più moderno driving cap, ed uno smartwatch.

My Opinion

Negli ultimi anni, nel mondo del cinema, sono sempre più diffuse scelte come quella fatta da Netflix per Lupin, inserendo personaggi di colore per interpretare personaggi originariamente bianchi. Queste scelte il più delle volte sono oggetto di polemica, e Lupin non fa eccezione. In questo caso, anche non ho ben capito il motivo reale, e la motivazione data da Netflix mi sembra abbastanza superficiale, per quanto la mia prima impressione sia stata dubbiosa, devo ammettere che non mi dispiace poi troppo, anzi.

Come dicevo nel paragrafo precedente, Lupin riflette l’immagine di un epoca, più precisamente l’epoca in cui vive, e deve potersi travestire e adattare alle circostanze. Negli anni 20, Lupin doveva e poteva essere esclusivamente bianco, perché in quel mondo, in quel tempo, una persona di colore, fatte rarissime eccezioni, non avrebbe mai potuto partecipare ad eventi di gala, il Lupin di Leblanc doveva, per forza di cose essere bianco, perché il mondo e la società in erano ambientate le avventure di Lupin imponeva un Lupin bianco. Oggi non è più così.

Oggi Lupin potrebbe appartenere ad una qualsiasi delle etnie che popolano Parigi, ed essere giusto in ogni circostanza.

Volendo quindi rinnovare, in questo senso il personaggio di Lupin, un cambio da uomo bianco ad altro, credo sia una scelta più che sensata. Va inoltre ricordato che, Omar Sy ha origini Senegalesi e il Senegal è un ex colonia francese che, come tutte le ex colonie francesi durante il processo di decolonizzazione, è stata interessata da enormi fenomeni migratori verso la Francia.

Alla luce di ciò, Omar Sy, per quanto mi riguarda, risulta quindi essere una perfetta immagine della Francia odierna e il suo Lupin in questo, è perfettamente in linea con il Lupin originale creato da Maurice Leblanc.

Chi era Irma Grese, la bestia bionda di Belsen?

Irma Grese fu una giovane volontaria tedesca, militante nel Partito Nazista, che, dal 1942 al 1945 lavorò presso diversi campi di concentramento, come guardia carceraria, supervisore e direttrice dei lavori dei prigionieri.

Irma Grese è stata rinominata nei vari campi come La iena di Aushwitz e la Bestia Bionda di Belsen.A norimberga è stata descritta come una donna crudele e sadica, ma personalmente credo che Irma non fosse realmente crudele.

Credo invece che fosse una vittima, in modo diverso, del regime nazista. Cresciuta avvolta dall’odio, si ritrovò a fare da guardia a quelli che gli erano sempre stati raccontati come dei demoni, all’età di appena 19 anni, inoltre era circondata da uomini e donne violente e crudeli, che l’avrebbero mandata via se non fosse stata all’altezza. Irma quindi fu costretta dalla società a diventare una bestia che in realtà non era.

La sua storia ci racconta infatti di una donna che voleva diventare infermiera, che voleva aiutare le persone, ma si ritrovò a distruggerle.

La storia di Irma Grese

L’immagine alla sinistra raffigura un gruppo di donne, processate durante i processi di Norimberga, in uno dei dodici processi minori.

Irma Grese durante i processi di Norimberga

La donna al centro della foto, la numero 9, è Irma Grese, di cui possiamo vedere una foto scattata tra il 1943 ed il 45 mentre era impegnata come guardia volontaria presso un campo di concentramento.

Mi sto documentando sulla storia di questa donna, vi lascio a fine articolo alcuni dei libri che sto leggendo, e degli orrori che produsse, furono terrificanti, Irma era nota nei vari campi con diversi soprannomi tra cui La bestia Bionda di Belsen e La iena di Auschwitz.

Durante i processi è stata descritta come una donna crudele, violenta, che provava piacere e trovava appagamento nelle sofferenze dei prigionieri.

Irma Grese è diventata, per molti, uno dei simboli della crudeltà nazista, ma la sua storia ci rivela altro.I capitoli riguardanti gli anni da volontaria come guardia nei campi di concentramento e sterminio, denotano crudeltà e sadismo, ma siamo sicuri che Irma fosse davvero una donna così sadica?

La gioventù di Irma Grese

Leggendo la sua biografia scopriamo che Irma era figlia di Adolf Grese, militante moderato del partito nazista, e che fin da giovanissima prese parte alla Lega delle ragazze tedesche (associazione di ispirazione Nazional Socialista) secondo quanto riportato dagli storici il padre disapprovava la scelta, anche se, dal 1937 divenne un impiegato del NSDAP.

L’anno seguente, all’età di 15 anni, Irma Grese iniziò a lavorare in un ospedale e provò a diventare infermiera, ma senza successo, secondo le dichiarazioni di Irma ai processi di norimberga Norimberga, a causa della volontà del Comitato del Lavoro che invece la assegnò ad un caseificio di Fürstenberg.

La giovane donna voleva diventare infermiera, ma fu mandata a fare formaggi, decise quindi di provare un altra strada e nel 1942 provò nuovamente a diventare infermiera.

Questa volta la domanda fu accolta e la donna venne inviata come infermiera al campo di concentramento di Ravensbrück, dove, secondo le testimonianze e la documentazione pervenuta ai processi di Norimberga, sembra che Irma non volesse stare e chiese più volte il trasferimento.

Il trasferimento alla fine arrivò, nel 1943, ma non come desiderato.

Il lavoro da guardia nei campi di concentramento

Durante l’anno di permanenza a Ravensbrück, Irma aveva seguito un corso di addestramento come guardia carceraria al cui termine venne inviata ad Auschwitz come aufseherin.

Al termine del 43, Irma venne promossa Supervisore anziano di Auschwitz e sotto il suo controllo c’erano circa 33000 donne ebree.

La gestione crudele del campo portò ad Irma una promozione, e tra gennaio e febbraio del 45 venne trasferita nuovamente a Ravensbrück, secondo le dichiarazioni e fonti ufficiali, per formare le nuove guardie, poi nel marzo dello stesso anno venne inviata al campo di Bergen-Belsen come nuova “Direttrice dei lavori“.

Irma Grese durante l’esecuzione di un prigioniero ebreo

La direzione dei lavori dei prigionieri di Bergen-Belsen fu l’ultima assegnazione di Irma Grese che, il 17 Aprile del 1945 venne catturata dall’esercito Britannico durante la liberazione del campo.

Irma fu uno dei pochi ufficiali a non riuscire a fuggire dal campo, o forse, fu uno degli ufficiali che vennero sacrificati per permettere ad altri di fuggire.

Chi era davvero Irma Grese ?

La storia di Irma ci racconta una devozione letale al NSDAP, Irma fu talmente devota al partito da rinunciare al proprio sogno di diventare infermiera, per diventare una guardia carceraria, passò dal voler salvare vite umane a distruggerle.

Durante il processo di Gerusalemme ad Adolf Eichmann, il nome di Irma Grese apparve diverse volt, e tra i due nazisti venne tracciato un forte parallelismo, l’uomo e la donna erano stati entrambi plagiati dal partito, e se bene non fossero realmente crudeli o malvagi o demoniaci, compirono azioni disumane, perché, come osserva Hannah Arendt, nella Banalità del Male, assolutamente incapaci di mettersi realmente nei panni degli altri.

Per Irma i prigionieri dei campi non erano uomini e donne, ma nemici di tutto ciò in cui credeva, Irma era fermamente convinta che tutto il dolore e la sofferenza del proprio popolo, fosse responsabilità di quelle persone che, segretamente, nell’ombra, cospiravano per togliere a loro, casa e lavoro.

Irma nel, quando iniziò a lavorare nel campo Ravensbrück aveva solo 19 anni, e a 20 anni aveva la responsabilità di controllare più di 30.000 prigioniere.

Come canta Francesco Guccini "a 20 anni si è stupidi davvero, quante balle si ha intesta a quell'età" ed Irma, quando divenne guardia carceraria nel campo di Ravensbrück, aveva proprio 20 anni.

Considerazioni personali su Irma Grese

Quando Irma Grese, la bestia bionda di Belsen, la iena di Auschwitz, venne catturata, nel 1945, aveva solo 23 anni.

La storia, attraverso i processi di Norimberga ha raccontato questa donna come un mostro e le azioni che fece, furono effettivamente mostruose e crudeli, ma furono compiute da quella che era poco più di una ragazzina, plagiata da un sistema di valori che, fin da quando era una bambina, all’età di 10 anni, nel 1933 quando Hitler prese il potere, le aveva sempre detto che quelle persone, gli ebrei e tutti quelli che non erano tedeschi, erano malvagie e pericolose.

Irma è cresciuta avvolta dall’odio e quell’odio l’ha resa un mostro, nonostante il proprio desiderio di aiutare e salvare vite umane.

Irma era convinta, durante il servizio volontario nei diversi campi di concentramento, di fare la cosa giusta, di star aiutando il proprio popolo, il proprio paese e di combattere i nemici della propria nazione, senza però rendersi conto che coloro che torturava quotidianamente, perché di tortura si parla (e di testimonianze ce ne sono tantissime negli atti di Norimberga) erano donne come lei, con un unica differenza, sulla carta non erano tedesche e per questo era stato tolta loro ogni cosa, era stata tolta la casa, il lavoro, la famiglia, il nome, l’umanità.

Irma Grese, lavorando per il Reich, credeva di combattere una cospirazione, senza rendersi conto di far parte della cospirazione messa in atto da una manciata di uomini ambiziosi e realmente crudeli, il cui potere si fondava sull’odio.

Bibliografia consigliata

D. Cesarani, Adolf Eichman
D.Lipstadt, Il Processo di Eichmann
H.Arendt, La banalità del Male
H.Arendt, J.Fest, Eichmann o la banalità del male, intervista, lettere, documenti
R.Jennings, Irma Grese & Auschwitz: Holocaust and the Secrets of the The Blonde Beast
S.T.McRae, Irma Grese: A True Account of the Holocaust’s Deadliest Woman
S.Helm, If This Is A Woman: Inside Ravensbruck: Hitler’s Concentration Camp for Women

Orso Mario Corbino, il liberale che ha “introdotto le pensioni” in italia

Lui è Orso Mario Corbino e probabilmente non avete mai sentito parlare di lui. O, se ne avete sentito parlare, è in merito ad uno scandalo di tangenti che coinvolge la Standard Oil nel 1924.

Orso Corbino è stato un senatore del regno d’Italia durante il regime Fascista, eletto in parlamento per la prima volta nel 1921 e rimasto in carica fino al 1937, anno della sua morte.

Oltre ad essere un Senatore, Corbino, tra il 1921 ed il 1924, fu anche Ministro, prima dell’Istruzione e poi dell’economia nazionale, tuttavia, nonostante fu ministro durante il governo Mussolini I, Corbino non era un fascista, e non lo sarebbe mai stato.

La storia delle pensioni, in italia, è ovviamente molto più ampia di così, e inizia nel 1898 con la fondazione di un istituto che oggi conosciamo con il nome di INPS e che, tra il 1895 e il 1919, consentì ai dipendenti pubblici, su base volontaria, di avere accesso ad un indennità, una somma di denaro mensile versato dallo stato, una volta raggiunta una certa età e l’impossibilità di continuare a lavorare, associabile a quella che oggi chiamiamo pensione.

Posizione politica di Orso Mario Corbino

Orso Corbino era un liberale, un liberale convinto, eletto al senato del regno d’italia nel 1921 tra le fila del Partito Liberale Italiano, il partito della Destra storica, che in quel momento rappresentava tutto ciò che rimaneva dell’eredità di Cavour.

Nel 1921 Ivanoe Bonomi invitò Corbino nella propria squadra di governo, affidandogli il ministero dell’Istruzione, carica che avrebbe ricoperto fino al Febbraio del 22. Come sappiamo, nell’ottobre del 22 ci fu la marcia su Roma, che portò alla nascita del governo Mussolini I e proprio durante questo governo, nel luglio del 1923, in seguito ad un rimpasto di governo Orso Mario Corbino venne invitato, da Mussolini, a ricoprire l’incarico di Ministro dell’Economia Nazionale, andando così a rimpiazzare Teofilo Rossi, liberale Giolittiano che dopo la marcia su roma si era schierato a favore del fascismo.

I motivi per cui Mussolini sostituì Rossi con Corbino sono diversi, tra questi, la grande popolarità di Corbino sia tra i Liberali che i Socialisti, popolarità che quindi permetteva al PNF che governava con appena il 19% dei consensi, di poter legiferare.

Appena insediato al ministero Corbino si fece immediatamente promotore di una proposta di legge, poi diventata legge effettiva con il decreto legge 3184 del 30 dicembre 1923, con cui si rendeva obbligatoria la pensione.

La famosa legge con cui, da anni, i fascisti alimentano il mito di Mussolini e le pensioni. Ecco, quella legge lì, proprio la legge con cui “mussolini” introdusse le pensioni civili. Quella legge è stata proposta da un Liberale, oltre che accademico, che, in vita sua, non avrebbe mai aderito al fascismo e anzi, sarebbe stato uno dei primi senatori ad aderire al movimento antifascista.

La legge sulle pensioni

Questa legge in realtà non fu una creazione originale di Corbino, la legge era stata infatti proposta per la prima volta nel 1919, ma, in seguito al cambio di governo e degli equilibri politici successivi alle elezioni del novembre 1919, la legge aveva subito una brusca interruzione.

Nel febbraio del 1920 Dante Ferraris aveva provato a rilanciare il disegno, e lo stesso fece, nel giugno dello stesso anno il socialista Arturo Labriola, purtroppo però, Liberali e Socialisti avevano visioni diverse e il quadro politico dell’epoca, molto instabile, soprattutto per via dei turbamenti legati al biennio rosso, misero la legge in stasi.

Con le nuove elezioni del 1921 la situazione, almeno all’inizio, non migliorò, i liberali, con Bonomi, sostenuti inizialmente dai popolari ed altri partiti minori, ottennero la guida del governo, ma l’alta instabilità non permise di realizzare granché.

Nell’ottobre del 22, con la marcia su roma e la guida del governo affidata a Mussolini, la situazione migliorò solo di facciata, de facto le commissioni parlamentari produssero pochissimi testi che divennero effettivamente leggi, e i pochi che ci riuscirono, furono realizzati grazie al grande carisma dei promotori e la mobilitazione di tutte le forze politiche.

Orso Mario Corbino, certamente non mancava di carisma, come anticipato, fu invitato al ministero dell’economia nazionale, per la sua grande capacità, dimostrata durante l’esperienza da ministro dell’istruzione, di mettere d’accordo le diverse forze politiche, e trovare un punto di incontro su un terreno comune.

Corbino accettò l’incarico dal luglio del 23 al settembre del 24 fu Ministro dell’economia nazionale.

Corbino e la legge sulle pensioni

L’invito di Mussolini a Corbino non era disinteressato, l’abilità politica del fisico ed il suo carisma erano uno strumento importante e la popolarità di Crobino iniziava a crescere molto rapidamente, anche fuori dagli ambienti politici. Mussolini pensò quindi di legare il nome di Corbino al Fascismo, facendo di lui uno degli uomini chiave della propaganda.

Questo si tradusse in una totale autonomia di Corbino, che poté quindi operare liberamente, sostenuto dal fascismo, dai liberali, dai popolari e dai socialisti.

Grazie a questa libertà Corbino propose un disegno di legge che rendeva obbligatorie le pensioni, il disegno di legge fu il frutto di un compromesso tra le posizioni liberali e quelle dei socialisti sul tema, e ricevette l’approvazione di Mussolini e del fascismo, che vedevano in quella legge una doppia opportunità.

Se la legge fosse stata accolta in modo positivo dagli elettori, sarebbe stata rivendicata, come è stato, come un grande successo del fascismo, se invece sarebbe stata un flop, la responsabilità sarebbe stata scaricata sul promotore, che, non era fascista, rendendola quindi un fallimento di liberali, popolari e socialisti.

La legge venne accolta positivamente, e, anche se promossa da Corbino, la legge non venne mai chiamata con il suo nome, venne invece legata alla propaganda fascista, mentre Corbino, cadde nel dimenticatoio e, dopo le elezioni del 24, pur venendo riconfermato come senatore, il suo nome non figurò più nel roast dei ministri di mussolini.

Corbino e la massoneria

Sull’uscita di scena di Corbino vi sono varie teorie, da un lato alcuni sostenono che l’uomo, durante il proprio mandato ministeriale, abbia intascato una tangente dalla Standard Oil insieme al ministro Gabriele Carnazza, entrambi massoni della Serenissima Gran Loggia d’Italia.

Secondo questa ipotesi, i massoni di Piazza del Gesù sarebbero dietro al delitto Matteotti, il quale sarebbe stato assassinato per coprire le tangenti riscosse dai propri adepti.

Questa ipotesi è tuttavia altamente improbabile, si fonda esclusivamente su incartamenti privati di Mussolini, scagiona Mussolini dal delitto Matteotti, ed incrimina gli unici due ministri, del primo governo Mussolini, non fascisti.

Questa storia presenta molte irregolarità, ed è fin troppo conveniente per Mussolini, autore delle uniche prove a sostegno di questa teoria, prove che sono emerse durante le indagini sul delitto Matteotti.

In ogni caso, uno dei principali sostenitori di questa teoria è il saggista statunitense, ex agente dell’OSS, Peter Tompkins, autore di libri molto popolari come “Dalle carte segrete del Duce”, 2001, la cui autorevolezza storiografica è prossima allo zero, si tratta di libri più inclini alla narrativa che non alla narrazione storica, in cui si elaborano teorie cospirative, estremamente affascinanti, ma non basate sul metodo comparativo.

Se volete leggere qualcosa sul tema della massoneria, vi consiglio il libro La Massoneria, la storia, gli uomini, le idee, a cura di Zeffiro Ciuffoletti e Sergio Moravia

Conclusioni

Orso Mario Corbino è stato un accademico e politico italiano, due volte ministro tra il 1921 ed il 1924, prima come ministro dell’Istruzione, sotto il governo Bonomi e poi ministro dell’economia nazionale sotto il governo Mussolini.

Nonostante Corbino fu ministro nel primo governo di mussolini, il fisico non aderì mai al fascismo e mai ne condivise i valori o gli ideali. Nel 1925 Corbino si unì al movimento antifascista e fu uno dei pochi politici italiani che non si iscrissero mai al Partito.

Corbino fu un uomo molto riservato ed un politico molto carismatico, capace di mettere d’accordo socialisti e liberali, una dote rara che gli permise di portare a compimento un progetto legislativo iniziato nel 1919, creando le pensioni civili.

Un merito incredibile che il fascismo riuscì a strappargli facendolo proprio.

Corbino fu anche al centro di uno scandalo che emerse durante le indagini sul delitto Matteotti, uno scandalo probabilmente costruito ad Hoc da Mussolini per allontanare le indagini dal reale mandante e liberarsi allo stesso tempo di un possibile rivale ed oppositore politico.

La legge Corbino, mai chiamata con questo nome, è stata una delle pochissime leggi, insieme alla Legge Acerbo, ad essere prodotte in italia durante il primo governo Mussolini.

In ogni caso, le pensioni in italia sono un invenzione dei Liberali, rese possibili dal compromesso tra liberali e socialisti e nell’iter legislativo che portò alla creazione della legge 3184 del 30 dicembre 1923, il ruolo di Mussolini e del Fascismo fu assolutamente marginale. La legge venne proposta da un Liberale, venne votata da tutte le forze politiche, e il solo contributo dato dal fascismo alla legge, in fase di scrittura, fu il voto favorevole alle camere, un voto obbligato dal fatto che la legge era stata proposta da un ministro del governo Mussolini I, anche se, quel ministro, non solo non era un Fascista, ma mai lo sarebbe stato.

Quando i bianchi pagavano per colpire bambini di colore alle feste razziste degli USA.

Wisconsin, USA, anno 1942, per promuovere le attività del campo estivo per bambini all’YMCA Camp Minikani, viene stampato un opuscolo, tra le cui pagine figura questa immagine.

Nel cartellone si legge “hit the nigger baby“, si trattava all’epoca di un gioco colto comune nelle fiere americane e alle feste di compleanno e di carnevale, ed è ancora oggi praticato, noto anche come “The Black dodger” o “Hit the Coon“, in cui i giocatori lanciavano oggetti come uova o palle da baseball contro un bersaglio. E, a fare da bersaglio era solitamente un uomo o un bambino di colore.

Il gioco, a quanto risulta, è stato praticato fin dalla fine del XIX secolo e almeno fino agli anni 50 del novecento.
Probabilmente era praticato anche prima, ma a fare da bersaglio erano degli schiavi.

Secondo quanto riportato dal Jim Crow Museum della Ferris State University

“It sounds like a common carnival target game, but there was one unsettling part of the game, namely, the game’s target was a real live human being, a ‘negro’ human being.

Nel luglio del 1948, per celebrare i soldati ritornati dalla guerra in europa, nello stato dell’Indiana, venne organizzata una festa nella città di Brownstown, questo evento venne pubblicizzato con uno striscione in cui c’era scritto

“Make this big week your vacation time — Bring the family — meet old friends — Hit the ‘Nigger Babies’ — Eat Hot Dogs — Join the Fun.

Traduzione: Fai di questa grande settimana il tuo tempo di vacanza – Porta la famiglia- incontra vecchi amici – Colpisci il bambino negro – Mangia Hot Dog – Unisciti al divertimento.

Secondo Franklin Hughes, un collaboratore del Jim Crow Museum ed esperto in media digitali, il gioco ha continuato ad essere praticato anche dopo gli anni 50, con qualche variazione.

In alcuni casi il bersaglio umano è stato sostituito da bersagli in legno, che, in alcuni casi, attiva un meccanismo che fa cadere una persona in una piscina.

In questa versione più civilizzata non si colpisce più una persona, e il soggetto che cade nella vasca d’acqua, oggi è consenziente e spesso pagato, nelle fiere ad esempio, ha osservato Franklin Hughes in un articolo pubblicato nel 2012 su questo tema, a stare seduto su una pedana, protetto da un pannello in plexiglas trasparente, è solitamente un Clown.

Se volete approfondire, vi lascio un articolo di Franklin Hughes dell’ottobre 2012, pubblicato per il Jim Crow Museum of Racist Memorabilia, per la rubrica “la domanda del mese” intitolato “The African Doger“, in cui Hughes risponde alla domanda “Qualcuno mi ha detto che i bianchi pagavano per tirare palle ai neri al circo, è vero?” posta da Stephanie S.

Purtroppo, la sintesi dell’articolo e risposta a questa domanda è “si, e l’hanno fatto almeno fino agli anni 50, poi è diventato illegale”.

Fonti :

F.Hughes, The African Doger, 2012
Snopes, Fact Checks, Was a Violently Racist Carnival Game Once Popular in America?

Apprendistato, una nuova forma di schiavitù per gli ex schiavi americani dopo la guerra di secessione.

Dopo la guerra di secessione americana, c’è stata l’amnistia per tutti i confederati che hanno giurato fedeltà all’unione americana.

Questa è una delle argomentazioni che viene utilizzata più frequentemente per criticare la condanna del fascismo in italia, dopo la seconda guerra mondiale e la fine del regime.

Secondo questa linea di pensiero, in italia avremmo dovuto fare come in america, e non criminalizzare l’ideologia fascista, cosa che ha alimentato, anche negli anni post bellici, ad uno scontro ideologico tra “nostalgici” e antifascisti.

Chi sostiene questa linea di pensiero tende a dimenticare che, la grande amnistia americana, volta a tutelare i grandi proprietari terrieri degli ex stati confederati, è stata pagata in larga parte dalla popolazione “afroamericana” gli ex schiavi affrancati e liberati. Uomini e donne che prima della guerra di secessione non erano considerati uomini, ma animali, delle proprietà.
A questi uomini era stato promesso, durante la guerra, che avrebbero ricevuto, oltre alla libertà, anche delle terre e delle tutele, era stato promesso che sarebbero stati trattati “al pari” dei bianchi.

Poi però, le terre sono state restituite agli ex proprietari schiavisti e gli stati confederati hanno creato leggi come l’apprendistato, che obbligava gli ex schiavi, a lavorare nelle terre degli ex padroni, i quali, si facevano carico della loro “formazione” insegnando loro a fare quei lavori che facevano anche in precedenza come schiavi, dando loro vitto e alloggio. Non erano tenuti a pagarli, perché apprendisti, inoltre, gli ex schiavi, ora apprendisti, non avevano il diritto di rescindere unilateralmente un contratto di apprendistato, ma poteva essere solo il proprietario della terra in cui lavoravano, a consentire loro di terminare l’apprendistato.
In pratica fu dato un nuovo nome alla schiavitù.

Il diritto di voto, ma non al voto

In seguito, il governo federale, forte dei suoi nuovi poteri federali, intervenne con delle “correzioni” assicurando il diritto di voto, ma questo diritto era subordinato all’iscrizione ad un partito, si poteva votare solo per il partito a cui si era iscritti, il voto doveva essere palese (si votava mettendo le schede del partito per cui si votava, nell’apposita anfora in vetro) di fronte ad una commissione che, nella maggior parte dei casi, era formata da uomini armati, con l’intento di intimorire chiunque non votasse per il candidato Democratico (gli ex schiavi, almeno nei primi anni dopo la guerra, erano elettori repubblicani poiché il partito Repubblicano era il partito che aveva promosso la liberazione, mentre il partito democratico era il partito degli schiavisti).

La commissione che vigilava sul voto, aveva anche il compito di contare i voti, e, se bene gli ex schiavi a votare furono in molte migliaia, de facto, negli ex stati confederati, nella maggior parte dei casi, vinsero i democratici, e, secondo i registri ufficiali, al fronte di centinaia di iscritti al partito repubblicano, in città come Jackson (capitale del Mississippi), i democratici vinsero con una percentuale di oltre il 99%.

Situazione che non è cambiata di molto, almeno fino agli anni 60.

Questo cosa ci insegna?

Ci insegna che l’amnistia dei confederati ha premiato i confederati a discapito degli ex schiavi, e delle fasce più povere della popolazione americana.

Creando tensioni e un clima di razzismo, da cui sarebbe nato, all’indomani della fine della guerra, tra gli altri, il Ku Klux Klan.
Fino agli anni 70 del novecento (oltre un secolo dopo la fine della guerra di secessione), gli afroamericani, in tutto il paese vennero sistematicamente assassinati, linciati, discriminati ecc, creando un clima di violenza e odio, ben più ampio, radicato e forte, del clima che in italia ha accompagnato lo scontro tra “nostalgici” e antifascisti.

In conclusione, un amnistia generale dei fascisti, la storia americana ci insegna, non avrebbe creato pace e unità, ma avrebbe semplicemente permesso agli ex fascisti, di acquisire nuovamente le posizioni di rilievo e potere, che avevano prima della guerra e che avevano perso con la fine del regime. Potere che sarebbe stato pagato, in italia, dalle masse popolari e contadine, soprattutto quelle che avevano combattuto il fascismo, ed avrebbero pagato con linciaggi, pestaggi e omicidi, su molto probabilmente, avrebbe indagato.

Detto più semplicemente possibile, in modo che anche i nostalgici possano capirlo.

L’amnistia, che comunque in un certo senso c’è stata visto che non sono stati processati egli incartamenti sono stati abbandonati in un armadietto fino agli anni 90, non avrebbe portato pace, ma solo ulteriore violenza e morte in un paese che aveva sofferto una guerra voluta dal fascismo, e combattuto una guerra civile, iniziata dai fascisti.

Storia e funzionamento degli Hard Disk, dall’IBM 350 ai dischi da 3,5 pollici.

Vi siete mai chiesti come funziona un Hard Disk? Se non siete informatici o ingegneri, probabilmente no, e questo è un male, per questo ho voluto raccontarvi la storia e il funzionamento degli Hard Disk, una storia incredibile iniziata nel 1956 e che ha subito una serie di evoluzioni concatenate, spesso a poca distanza l’una dall’altra.

La storia degli Hard Disk è in parte la storia dell’informatica, poiché tra il 1956 ed il 2011 gli Hard disk, i dischi rigidi, sono stati il principale supporto di memoria nel mondo informatico che, a differenza di altri dispositivi di memoria, come i Floppy Disk, CD, DVD, e le più recenti chiavette USB, i dischi rigidi permettevano di immagazzinare quantità enormi di dati, e, al di la dell’evoluzione tecnologica che ha permesso nel tempo di ridurre le dimensioni di questi dispositivi, un tempo enormi, il loro funzionamento è rimasto pressoché invariato.

I principi che permettevano ai primi Hard Disk di funzionare, sono che regolano i più moderni Hard Disk ancora in commercio, nonostante sia passato più di mezzo secolo dalla loro prima introduzione, e questa è la loro storia.

IBM 350, il primo Hard Disk della storia

IBM 305 Storage Unit durante l’utilizzo
IBM 305 Storage Unit durante il trasporto

Il primo Hard Disk della storia è stato l’IBM 350 disk Storage Unit, ed è stato commercializzato da IBM a partire dal 1956, si trattava all’epoca di un dispositivo all’avanguardia, estremamente avanzato, che sfruttava tecnologie all’epoca innovative che permetteva di archiviare fino a 5 milioni di Bit, l’equivalente di 5 MegaByte. Uno spazio di memoria che oggi permetterebbe di conservare una canzone di 3 minuti e una fotografia in alta risoluzione, compressa nel formato jpg, ma che all’epoca, in un mondo in cui l’informazione era principalmente testuale, rappresentava una quantità di spazio enorme.

I primi Hard Disk, erano unità di memoria mastodontiche, grandi come un moderno frigorifero e pesavano circa 1 tonnellata, formato da 50 dischi magnetici di 61 cm, su cui venivano registrati i dati. Per quelli che erano i limiti tecnologici dell’epoca, era opinione diffusa che, analogamente alla potenza di calcolo, le loro dimensioni sarebbero cresciute esponenzialmente. Ma intorno alla metà degli anni 50, il concetto di circuito integrato, non era ancora stato esplorato.

Solo nel 1958, quando il fisico delle Texas Instruments, Jack St. Clair Kilby, e parallelamente Robert Noyce, della Fairchild Semiconductor, realizzarono i primissimi circuiti integrati della storia, si iniziò a pensare concretamente che le dimensioni dei calcolatori e dei dispositivi di allocazione della memoria, potessero essere rimpiccioliti.

La struttura di un Hard Disk

La struttura interna di un Hard Disk

Devi sapere che tra il 1956 al 2011, anche se le dimensioni degli Hard disk sono cambiate, riducendosi per volume e crescendo esponenzialmente per capacità di archiviazione, tutti gli Hard disk, hanno funzionato è rimasto praticamente invariato, e i dischi rigidi hanno continuato a funzionare seguendo gli stessi principi fondamentali.

Ma allora, come funziona un Hard Disk?

I Circuiti integrati hanno permesso di ridurre le dimensioni fisiche dei dischi di memoria e allo stesso tempo di aumentare la loro capacità di archiviazione, passando da dispositivi grandi come un frigorifero, a dispositivi sempre più piccoli che avrebbero raggiunto, negli anni ottanta, le dimensioni di un libro.

Tutti gli Hard Disk, dall’IBM 350 agli Hard disk da 3,5 pollici sono costituiti da quattro diverse sezioni, ovvero, una scheda di controllo, delle testate per la lettura e scrittura dei dati sui dischi, un rotore elettromagnetico e dei dischi metallici su cui venivano effettivamente registrati i dati.

Nei primi Hard Disk la scheda di controllo era costituita da un enorme scheda elettronica composta da valvole, transistor, resistenze, condensatori, e altre componenti elettroniche, mentre negli Hard Disk più moderni, dagli anni 80 in poi, le schede sono state sostituite da circuiti stampati, comprensivi di diversi circuiti integrati.

I circuiti integrati sono la chiave di volta, che hanno permesso la riduzione delle dimensioni dei dispositivi di memoria e dei calcolatori.

Le schede di controllo sono il ponte che collega l’unità di memoria al calcolatore, ed ha il compito di comandare un braccio meccanico su cui sono collocate due testate indipendenti per la lettura e la scrittura dei dati.

Il principio è lo stesso che permetteva ai giradischi di tradurre in musica le informazioni registrate sui vecchi dischi in vinile, ma con qualche leggera differenza tecnologica. Mentre nei dischi in vinile la punta era a contatto diretto con il disco, negli Hard Disk, le testate non entrano mai in contatto con il disco e sono sospesi, oltre che da staffe metalliche, anche da una sottilissima camera d’aria e da un precario e delicatissimo equilibrio di forze elettromagnetiche e l’alta velocità di rotazione dei dischi.

La lettura e scrittura è la parte più importante del funzionamento di un Hard Disk, è la sua funzione primaria, e avviene, come dicevamo, non per contatto, come sui dischi in vinile, ma, tramite una sorta di raggio laser che incide magneticamente il disco, registrando su ogni sezione, un informazione binaria, ovvero assegna una carica positiva o negativa, se la carica è positiva, il disco registra quello che è comunemente chiamato 1, mentre se la carica è negativa, il disco registra uno 0. Ogni 0 ed 1 registrati sul disco costituiscono 1 bit, e ogni stringa o sequenza di otto bit costituisce un byte, e ogni byte è un informazione completa.

I primi Hard disk nella seconda metà degli anni 50, avevano una capacità di memoria limitata, perché, con quelli che erano i supporti tecnologici e le conoscenze fisiche dell’epoca, ogni disco del dispositivo di memoria poteva registrare al massimo 1 Milione di bit, possono sembrare tanti, ma non è così. 1 milione di bit infatti equivale a circa 125 Kbyte, che, oltiplicato per i 50 dischi del dispositivo di memoria, permettevano di immagazzinare complessivamente circa 5 MB, una quantità di memoria oggi sufficiente appena per una canzone o un immagine di discreta qualità. Nei dischi moderni le “celle di memoria” sono molto più piccole, ed ogni singolo cm quadrato di ogni singolo disco dell’Hard Disk, può contenere circa 30 miliardi di bit, permettendo così al disco, nel suo insieme di archiviare diverse decine o addirittura centinaia di GigaByte, e nei dischi più moderni, anche diversi TeraByte.

Per essere più precisi, 8 bit formano un Byte, 1000 byte formano 1 Kilobyte (KB), 1000 KB formano un MegaByte(MB), 1000 MB formano un GigaByte(GB) e 1000 GB formano 1 TeraByte (TB), ed al momento il TB è la quantità massima di memoria che è possibile archiviare su un singolo disco, ma, un insieme di dischi, possono arrivare ad archiviare anche migliaia di TB.

Le informazioni sul disco sono ordinate in strisce concentriche, chiamate tracce, e prendono il nome dalle tracce dei vecchi dischi in vinile, anch’esse ordinate in modo concentrico.

La differenza tra le tracce dei dischi in vinile e le tracce magnetiche degli Hard Disk, è dovuta al modo in cui le informazioni sono registrate sulle tracce, se nei dischi in vinile infatti le informazioni sono registrate linearmente, negli Hard Disk non è così, un Informazione completa può essere divisa in varie sezioni del disco, o su più dischi, e può essere richiamata dal calcolatore, attraverso una mappa completa delle sezioni e tracce del disco, che indica alla testate dove andare a recuperare i dati, o quali sezioni sono libere e quindi sovrascrivibili.

Un effetto collaterale di questo modo di gestire i dati si ha nel lungo periodo, se infatti da un disco vengono scritti e cancellati molti dati, nel lungo periodo questo inizierà a rallentare, ovvero, le testate impiegheranno più tempo per recuperare tutti i dati di un file, proprio perché alcune parti di quel file potrebbero essere conservate sul cerchio più interno di un disco, ed altre sul cerchio più esterno di un altro disco. Per questo motivo, i sistemi informatici danno la possibilità di “deframmentare” il disco, la deframmentazione è sostanzialmente un operazione di rimappatura del disco che comprime i dati, eliminando gli spazi vuoti tra una sequenza di bit e l’altra, in modo tale da avere i bit di uno stesso file più vicini tra loro e quindi velocizzare la lettura di quei file.

Le testate che leggono e scrivono i dati, come anticipavo, non entrano mai in contatto con il disco, avviene perché la velocità di rotazione dei dischi è estremamente elevata, e il minimo contatto tra disco e testata, distruggerebbe completamente il disco. Sarebbe come se un aereo pieno di piombo, volasse a pochi centimetri dal suolo, la sua velocità e la sua massa, distruggerebbero qualsiasi cosa al suolo entrasse in contatto con l’aereo.

Negli Hard Disk moderni da 3,5 pollici, gli hard disk realizzati dal 1986 in poi la velocità di rotazione del disco è di circa 15000 RPM, circa 250 giri al secondo, mentre nei dispositivi di memoria degli anni 50, la velocità di rotazione era molto più ridotta, IBM 350 Storage Unit aveva una velocità di rotazione di circa 1200 RPM, circa 250 rotazioni al secondo.

Hard Disk da 5,25 pollici.

All’inizio degli anni 80, tra il 1980 e il 1986, l’anno di uscita degli Hard Disk da 3,5 pollici, siamo agli albori dell’era dei Personal Computer, dei calcolatori domestici, grandi come una televisione, che avrebbero fatto la fortuna di aziende come Apple e Microsoft. I primi PC, come Altair 8800 e Apple I, erano basati su microprocessori di ultima generazione, ma la loro capacità di memorizzare dati era molto limitata, Apple I aveva una memoria di soli 4KB. Nel 1980 però, vista la grande popolarità dei Personal Computer, iniziarono a commercializzare Hard Disk compatti, destinati ai PC.

I primi Hard Disk domestici avevano le dimensioni di una radio o un tostapane, e permettevano di memorizzare fino a 5MB, la stessa quantità di memoria dell’IBM 350 storage Unit, ma con dimensioni decisamente più contenute e un costo enormemente più basso. Questo disco rigido funzionava esattamente come un Hard Disk Moderno, ma aveva dei dischi di memoria da 5,25 pollici di raggio.

Questi Hard Disk domestici sembravano proiettati verso il futuro, almeno fino al 1986 quando vennero commercializzati i primi Hard Disk da 3,5 pollici, dei dispositivi dalle dimensioni di un libro che integravano le più moderne tecnologie, permettendo a dischi più piccoli, di archiviare centinaia di MB. I primi Hard Disk commerciali avevano una capienza di qualche centinaia di MB, pochi GB al massimo, che negli anni sarebbero diventati decine, centinaia, addirittura migliaia di GB.

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