La Seconda Guerra persiana

Alla morte di re Dario, il figlio Serse diventò nuovo re di Persia, ed organizzò subito una nuova spedizione in Grecia, che avrebbe dato inizio alla seconda guerra persiana, questa volta la campagna era finalizzata a conquistare tutta la Grecia. A tale scopo furono Inviati dei rappresentanti alle varie Polis per invitare i governanti ad arrendersi e sottomettersi al grande impero persiano, solo ad Atene non furono inviati rappresentanti, poiché era già deciso che Atene sarebbe stata distrutta. Nella città di Sparta i rappresentanti persiani vennero uccisi. A questo punto Serse cominciò effettivamente ad organizzare l’esercito per la spedizione, dall’altra parte, le Polis Greche si allearono per fronteggiare il nemico comune.

Stando ad Erodoto, Sparta ed Atene non riuscivano a mettersi d’accordo sulla strategia da utilizzare, Sparta premeva infatti per degli scontri via terra, in quanto l’elite delle forze congiunte era rappresentato dall’esercito spartano, Atene premeva invece per degli scontri navali, in quanto il grosso della flotta era costituito da navi Ateniesi.

Alla fine si decise di tentare, per la seconda guerra persiana, uno scontro terrestre, Leonida re di Sparta, ed i soldati d’elite Spartani si posizionarono presso le Termopoli, mentre il resto dell’esercito greco si preparava agli scontri. La flotta greca era di stazza nella baia di Oreo, e quasi contemporaneamente, si combatterono le battaglie navale nel canale di Oreo e delle Termopoli.

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Alle termopoli dopo tre giorni di combattimento, i persiano riuscirono ad aggirare il blocco spartano e ad accerchiare Leonida, sconfiggendolo. La battaglia navale non ebbe un esito diverso, ed i greci ricevettero una pesante sconfitta, ma vista la natura più piccola ed agile delle trireme rispetto alle navi persiane, la flotta riuscì a mettersi in salvo.

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Superate le termopoli, i persiani avevano la strada spianata per raggiungere Atene, Temistocle decise di far evacuare Atene, facendo rifugiare la popolazione sulla vicina isola di Salamina. I persiani raggiunsero Atene, la saccheggiarono e la diedero alle fiamme, successivamente la flotta persiana fu attirata nella rada di Salamina, dove con un imboscata la flotta greca riuscì ad avere la meglio sulla flotta persiana, sfruttando le natura impetuosa delle correnti della baia, la scarsa manovrabilità delle navi persiane, e la superiore velocità ed agilità delle trireme.

Serse assiste alla battaglia conclusiva della seconda guerra persiana, uno scontro navale svoltosi nella rada di Salamina, e decide di ritornare in patria mente Mardonio, un generale dell’esercito di Serse, rimane in Grecia e un anno dopo attaccò nuovamente Atene. La città venne nuovamente evacuata, e Temistocle richiese l’’aiuto di sparta, ma sparta in un primo momento rifiutò di intervenire, successivamente, sotto la minaccia di una possibile alleanza tra Atene e d i Persiani, Sparta intervenne nella battaglia di Platea, dove il generale spartano Pausania, sconfisse i persiani nell’ ultimo scontro tra greci e persiani in territorio greco.

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Finita la guerra , Temistocle convinse la popolazione ateniese a rinforzare la propria posizione, convincendo così l’assemblea a sfruttare l’argento delle miniere del Laurion per finanziare la costruzione di 180 nuove trireme. Mosse anche i primi passi verso la nascita della lega di Delo, prima di essere allontanato dalla città nel 471.

Bibliografia 

Storia dei greci, Dalle origini alla conquista romana. di Claude Mossè e Annie Schnapp-goubeillon

La guerra aerea

Durante la seconda guerra mondiale l’aviazione militare e civile giocheranno un ruolo decisivo per le sorti del conflitto. Basti pensare al ruolo importantissimo che ebbero compagnie come Pan American World Airways, meglio nota come Pan Am, nella gestione, l’organizzazione ed il trasporto di rifornimenti alle truppe alleate impegnate in europa, o ancora, gli innumerevoli bombardamenti, ricognizioni e raid aerei che divennero centrali nel secondo conflitto mondiale. Certo, avevano già fatto la propria apparizione durante la prima guerra mondiale, ma è nella seconda che raggiungeranno la piena efficienza distruttiva che sarebbe culminata nello sgancio delle due bombe atomiche sul Giappone, il 6 ed il 9 agosto del 1945 sulle città di Hiroshima e Nagasaki, la cui esplosione avrebbe segnato definitivamente la fine del conflitto anche sul fronte del pacifico.

Già negli anni venti il teorico della guerra italiano, Giulio Douhet, avanzava l’idea che l’aviazione rappresentasse l’arma definitiva, la cui centralità nei conflitti sarebbe dovuta andare crescendo progressivamente. Nelle sue pubblicazioni, molto apprezzate in tutto il mondo, Douhet teorizzò un ampliamento dei poteri dell’aviazione, fino a diventare l’unica forza armata di un paese, mentre esercito terrestre e marina militare avrebbero fatto da supporto logistico e strategico, e questo perché allora come adesso, i costi per difendersi dall’aviazione sono estremamente più alti dei costi necessari al mantenimento della stessa aviazione.

Tra e teorie più apprezzate di Douhet, fu particolarmente apprezzata l’idea del bombardamento strategico e preventivo delle città nemiche, questa linea d’azione sarebbe stata largamente applicata a partire dalla seconda metà della seconda guerra mondiale, con incessanti bombardamenti “terroristici” da parte di RAF e USAF sulle città Italiane, Francesi, Tedesche e Giapponesi e sulla stessa linea l’attacco giapponese alla base navale di Pearl Harbor alle Hawaii (USA).

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La spirale di violenza causata dall’uso massiccio dei bombardamenti culmina nei più massicci e distruttivi bombardamenti di cui si abbia traccia nella storia, e l’utilizzo della bomba atomica da parte dell’aviazione degli stati uniti d’america nei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, dando vita ad un nuovo modo di percepire la guerra.
Una percezione che era andata mutando progressivamente negli ultimi conflitti mondiali, che, con strategie e mezzi totalmente nuovi, avevano prodotto fin dalle guerre Napoleoniche, un sempre maggiore coinvolgimento della popolazione civile che, nella seconda guerra mondiale, per la prima volta nella storia, avrebbe contato un numero di vittime, immensamente superiore alle vittime militari, e questo senza contare le vittime dell’olocausto e dei vari deportamenti avvenuti in europa e non solo, che andrebbero ad alzare ulteriormente l’asticella delle vittime civili.

Alla base dei bombardamenti terroristici, vi era un altra teoria/intuizione di Giulio Doueth, ovvero, la convinzione, dimostratasi esatta che un maggiore coinvolgimento dei civili nel conflitto avrebbe garantito una vittoria più rapida, poiché questi, diversamente dai militari, i civili hanno una minore resistenza e preparazione, e quindi, più semplicemente e con meno risorse possono essere piegati e spinti alla resa.

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Questa condotta, poco rispettosa dei codici e dell’etica militare, era giustificata, in linea teorica, e del tutto priva di una qualche legalità, dalla missione che i nemici dell’asse si erano dati, ovvero sconfiggere il male assoluto rappresentato da Hitler ed i suoi alleati, ivi compreso l’imperatore del Giappone Hirohito.
Questi uomini rappresentavano, agli occhi degli alleati, il male assoluto, erano l’incarnazione della crudeltà e se fossero riusciti a vincere la guerra, allora il mondo sarebbe sprofondato in un vortice oscuro che avrebbe divorato la libertà e l’anima di ogni essere umano sul pianeta.

 

Il compito degli alleati era impedire una simile deriva tenebrosa, per fare ciò sarebbero ricorsi ad ogni mezzo a loro disposizione, e quando il progetto manhattan fu ultimato e gli stati uniti d’america entrarono in possesso della prima bomba atomica, non esitarono ad utilizzare quell’arma dalla potenza smisurata.

Così, il 6 ed il 9 agosto del 1945, rispettivamente sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, furono sganciati il primo e l’ultimo ordigno nucleare mai utilizzati in un conflitto armato.
Gli effetti distruttivi sul corpo e sulla mente dei coinvolti avrebbero mutato per sempre gli equilibri di potere su scala globale, e si sarebbe inaugurata una nuova era per l’umanità. Il mondo era entrato a tutti gli effetti nell’epoca del nucleare, dove il flash accecante del’ordigno atomico, genera ombre più oscure che mai.

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Con l fine della seconda guerra mondiale il volto della guerra è cambiato per sempre, non si tratta più di uno scontro diretto tra eserciti, così come lo era stato per secoli, la guerra diventa a tutti gli effetti terroristica. Tutte le parti concorrono alla supremazia attraverso la paura utilizzata su più livelli e con armi e mezzi differenti.
Obbiettivo privilegiato dei nuovi conflitti inaugurati dai bombardamenti terroristici culminati nei bombardamenti nucleari di Hiroshima e Nagasaki, sarà la popolazione civile che meno di chiunque altro, sarà in grado di difendersi da un attacco a sorpresa, sia questo un attacco aereo, un autobomba o un cecchino che spara sulla folla.

Nagasaki, 9 agosto 1945

Il 9 agosto 1945 l’aviazione militare degli stati uniti d’america sganciò la seconda ed ultima bomba atomica sul Giappone.

Ore 8:45 a.m. una luce accecante investe ogni angolo di Nagasaki, segue un boato assordante, poi più nulla.
In realtà il boato fu seguito dalla violenta onda d’urto, che bruciò è distrusse ogni cosa lungo la propria strada e dopo ancora, iniziò a piovere, una pioggia acida e radioattiva, causata dall’evaporazione quasi immediata di ogni fonte d’acqua presente nel raggio dell’esplosione (e anche oltre).

 

I più fortunati persero la vita durante l’esplosione, inceneriti in un solo istante, i meno fortunati riuscirono a salvarsi, o almeno questo era ciò che credevano, il caldo vento radioattivo li divorò dall’interno, preparandoli ad una morte lenta e dolorosa, e chi sopravvisse al vento dovette fare i conti con la pioggia, una pioggia violenta e crudele che avrebbe inflitto il colpo di grazia ai pochi sopravvissuti.
I più sfortunati di tutti furono quelli che sopravvissero anche alla pioggia, e dovettero fare i conti con i numerosi anni ancora da vivere, o meglio, i numerosi anni in cui continuare a morire, imprigionati come in un girone infernale a causa dei danni permanenti inflitti al loro corpo e alla loro mente.

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Chi sopravvisse alla bomba atomica avrebbe portato con se, per il resto della sua vita, il ricordo di quei momenti in cui l’inferno scese sulla terra, le immagini di sofferenze immani che nessuno può neanche lontanamente immaginare.
Il ricordo di uomini, donne e bambini inceneriti in pochi istanti lasciandosi alle spalle solo un ombra impresa sul cemento, e negli occhi dei testimoni, il ricordo di altri che “semplicemente” si sciolsero, come statue di cera, videro le loro carni colare via ed evaporare, ascoltarono grida di dolore che farebbero rabbrividire anche le menti più resistenti. Mentre loro, i superstiti, furono condannati ad una solitaria vita, costellata da incubi, dolore e malattia.

Olimpiadi, il vero volto deli giochi tra sport e politica estera

In questi giorni si sta svolgendo la trentunesima edizione delle Olimpiadi, o per meglio dire, dei giochi olimpici estivi. Nell’immagine qui di seguito possiamo vedere i marchi/loghi di tutte le edizioni olimpiche svolte dal 1896, anno della prima edizione del nuovo corso olimpico, fino ad oggi.

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Guardando attentamente le immagini si noterà che le olimpiadi del 1916, 1940 e 1944 non figurano nell’elenco, questo perché in quegli anni i giochi olimpici non si svolsero, tuttavia, quelle edizioni furono ugualmente conteggiate e di conseguenza si passò dalla V edizione,  svoltasi a Stoccolma nel 1912, alla VII edizione, svoltasi ad Anversa) o ancora, si passò dalla XI edizione, svoltasi a Berlino nel 1936, alla XIV edizione (svoltasi a Londra nel 1948).

In questo modo il conteggio delle edizioni sarebbe continuato, incrementandosi di uno ogni quattro anni, indipendentemente dallo svolgimento o meno dei giochi, dando così un senso visivo di continuità che superava i limiti dell’uomo.

I giochi olimpici assumono in questo senso una veste molto più alta di quella di semplice torneo sportivo, sono un evento internazionale a tutti gli effetti, luogo di scontro e rivalità tra le nazioni in cui sfidarsi direttamente sul campo da gioco, mettendo in tavola le eccellenze atletiche di ogni paese. Eccellenze che hanno, da un lato, il compito di mantenere alto il nome della propria nazione nel mondo, e dall’altro di assicurare la presenza della propria nazione nel mondo.

Come scriveva il New York Time dopo l’edizione di Berlino del 1936

with these Olympics Germany has got its place among the nations.

con queste olimpiadi, la germania ha riottenuto il proprio posto tra le nazioni

Le olimpiadi dunque servono ad unire i popoli nella competizione e proiettare la civiltà umana oltre i confini della propria nazione, in una dimensione collettiva globale, riuscendo la dove, probabilmente anche le Nazioni Unite hanno fallito.

Probabilmente è per questo che oggi, i giochi olimpici sono riconosciuti, tutelati e patrocinati dalle nazioni unite. E in questo senso gli esempi di efficacia diplomatica dei giochi olimpici ed i giochi politici nei confronti delle olimpiadi, sono più che numerosi.

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Dalla scelta di Berlino nel 1931, come città ospite dell’undicesima edizione dei giochi, al fine di riportare la Germania nella comunità internazionale dopo le vicende della prima guerra mondiale, e soprattutto dopo le decisioni prese nel corso dei trattati di Versailles. Oppure la scelta di Londra per le olimpiadi del 1948, la prima edizione dopo la fine della seconda guerra mondiale. O ancora, la scelta di Mosca, capitale e città simbolo dell’unione sovietica, per l’edizione del 1980.

Possiamo considerare questi episodi come esempi “positivi”, diversamente il tentato boicottaggio delle olimpiadi del 1936 o il boicottaggio effettivo delle olimpiadi di Mosca del 1980 da parte degli Stati Uniti d’America, totalmente inserito nelle dinamiche della guerra fredda, ci mostrano l’altra faccia della medaglia, ovvero l’utilizzo delle Olimpiadi come strumento di pressione politica, di conseguenza il loro boicottaggio diventa uno strumento diplomatico di un’efficacia straordinaria.

La natura internazionale e in un certo senso sovranazionale dei giochi olimpici spalanca le porte ad una lettura più “politica” dei giochi, una lettura politica dalla doppia faccia. Le olimpiadi hanno il compito indiretto di delineare il profilo della civiltà umana ed i rapporti tra gli stati, in maniera forse più chiara di quanto non possa fare un vertice internazionale.
Ad un vertice i capi di stato sono “obbligati” ad andare e magari, saranno presenti anche là dove non vorrebbero essere, durante i giochi olimpici invece, non vi è alcun “obbligo di presenza”, e dunque, dalla presenza o dall’assenza di uno o l’altro leader mondiale è possibile intuire i veri rapporti diplomatici ed i rapporti di forza tra gli stati.

Va detto, per completezza che le olimpiadi, in questa chiave di lettura, si caricano di propaganda, soprattutto da parte del paese ospite, il quale, forse più di chiunque altro, può utilizzare la competizione come strumento di propaganda, sia interno che esterno, dando così al mondo un immagine di se, un immagine volta a rafforzare la propria posizione internazionale, anche se, non sempre questa immagine è totalmente in linea con la realtà.

La prima guerra persiana

L’inizio degli scontri tra le Polis Greche e l’impero Persiano, noti come Guerre Persiane, vanno dal 498 al 480. Sebbene gli scontri che vedono contrapporsi direttamente le polis all’ impero persiano iniziano soltanto nel 491, va considerata anche la situazione precedente.

Nel 498 , re Dario di Persia, conquista il confinante regno di Lidia. Con la conquista persiana della regione, si rompono i legami con le Polis d’Asia minore. Aristagora, tiranno di Mileto, approfitta delle tensioni tra le Polis e i Persiani, per fomentare una rivolta delle Polis, egli era sicuro di poter contare sull’ appoggio delle Polis di Grecia, e non appena l’impero persiano attacco, richiese aiuto alla Grecia, ma risposero alla sua richiesta soltanto Atene ed Eretria che nel 498 inviarono 25 trireme (20 da Atene e 5 da Eretria).

Grazie all’ intervento ateniese, viene presa Sadi (città persiana) e rasa al suolo dopo un incendio, poco dopo l’esercito Greco è costretto a ritirarsi.
Nel 494 i persiani prendono Mileto, appiccando un incendio e radendo al suolo la città come punizione per aver distrutto Sadi. Con la caduta di Mileto, terminano gli scontri.

Secondo Erodoto, fu l’intervento ateniese in Asia minore, a scatenare le successive guerre persiane.

Nel 491 si riaprono gli scontri, Dario, desidera espandere ulteriormente l’impero persiano, organizza così una campagna greca. La spedizione parte nel 490, ed inizia con una serie di vittorie da parte dei persiani, raggiungono la parte settentrionale della Grecia attraverso un ponte di barche dall’Asia minore , successivamente conquistano Corinto, ed Eretria.  Nel frattempo la flotta punta verso la baia di Maratona, per poter raggiungere ed annientare Atene, lo scopo principale della campagna era punire Atene.

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Atene richiede l’aiuto di altre Polis, tra cui sparta, ma non essendo direttamente minacciate dal nemico persiano, si rifiutano di intervenire, Atene si trova così da sola a dover fronteggiare i Persiani.

Siamo ancora nel 490, ed i persiani sbarcano nella baia di Maratona, a fermarli, l’esercito ateniese guidato da Milziade. L’abile stratega riesce a fermare l’esercito persiano, ma parte della flotta non ha ancora sbarcato gli uomini. Quello che rimane dell’esercito persiano cambia destinazione, cercando di sbarcare nella baia di Falero, situata dall’altra parte della penisola.

Milziade intuisce la mossa dei persiani e costringe i suoi uomini ad una lunga marcia per raggiungere in tempo la baia di Falero. Quando anche la flotta persiana raggiunge la baia, trova schierato sulla spiaggia l’esercito ateniese che li aspettava, decidono così di tornare in a casa.

Pochi anni dopo, alla morte di Dario e l’ascesa al trono di suo figlio Serse, iniziò la seconda guerra persiana.

Bibliografia 

Storia dei greci, Dalle origini alla conquista romana. di Claude Mossè e Annie Schnapp-goubeillon

Le olimpiadi dei Nazisti

Nell’agosto del 1936 per circa due settimane, dal primo al sedici del mese, la città di Berlino avrebbe ospitato, per quell’anno, i giochi olimpici.

Come da tradizione, i giochi olimpici estivi si svolgono ogni quattro anni, e saranno ospitati da una città designata già prima dell’inizio dell’edizione precedente, e il 1936 non venne meno a questa tradizione. La scelta della capitale tedesca di fatto risaliva al 1931, si tratto di una scelta di natura politica, un segno di riavvicinamento alla Germania che nel primo periodo dopo la fine della grande guerra era stata messa al bando dalla comunità internazionale.

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La scelta tuttavia avvenne ben prima dell’avvento al potere di Adolf Hitler e del partito Nazionalsocialista, e quando il cancelliere tedesco iniziò ad accentrare nelle proprie mani numerosi poteri, in diversi paesi europei ed extraeuropei sorsero numerosi movimenti di protesta che avrebbero portato alla decisione di un boicottaggio dei giochi olimpici berlinesi.

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Il boicottaggio tuttavia fallì quando nel 1935 l’Associazione degli atleti dilettanti degli stati uniti d’America, votò a favore della partecipazione, il suo voto fu immediatamente seguito da quello di altre associazioni e organizzazioni negli USA e in Europa.

L’organizzazione e la promozione dei giochi olimpici nazisti fu molto meticolosa e curata nei minimi dettagli, Hitler e la Germania approfittarono di questa opportunità per mostrarsi al mondo con un abito nuovo, nascondendo alle apparenze l’ideologia razzista ed antisemita. Per questi motivi, vista la grande presenza a Berlino di turisti e giornalisti provenienti da tutto il mondo, in previsione delle olimpiadi la città si ripulì di ogni simbolo e riferimento razzista, portando avanti le proprie operazioni nella maniera più cauta possibile, e in questo senso riuscì a nascondere il rastrellamento di Rom avvenuto proprio a Berlino in quei giorni. E ci si assicurò che gli ospiti stranieri non sottoposti alla legge tedesca contro gli omosessuali, evitando loro le eventuali conseguenze penali.

Furono costruiti palazzetti dello sport, stadi e quant’altro, il tutto adornato in maniera fatiscente con stendardi, bandiere e svastiche.

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Per quanto riguarda la promozione e la propaganda, il Reich non mancò di fare largo uso dei mezzi a propria disposizione. Fu creato un legame mitico tra la Germania e l’Antica Grecia, la quale rappresentava visivamente il mito nazista della superiorità della civiltà tedesca come “l’erede di diritto dell’antica cultura classica Ariana”.

Quella visione dell’antichità classica enfatizzava i caratteri somatici “Ariani”

Portamento eroico, occhi azzurri, capelli biondi e lineamenti finemente cesellati.”

Lo sforzo propagandistico continuò ben oltre la conclusione dei giochi e raggiunse il suo culmine nel 1938, con la proiezione del film “Olympia” diretto da Leni Riefenstahl, un film commissionato dal regime prima dell’inizio dei giochi e che aveva il compito di documentare lo svolgimento delle olimpiadi.

L’XI edizione dei giochi olimpici estivi fu inaugurata ufficialmente, da Hitler in persona, il 1 agosto 1936 quando un atleta giunse nello stadio con in mano una fiaccola che con un sistema di staffe era arrivato da Olimpia in Grecia.

Presero parte a quella edizione 49 squadre e un totale di circa 15.000 atleti, la squadra più numerosa fu schierata dalla Germania nazista con un totale di 348 atleti, seguita a ruota dagli Stati Uniti d’America con i suoi 312 atleti di cui 18 afro-americani.

Le olimpiadi si conclusero con un trionfo tedesco in quasi tutti i giochi, e non solo, l’ospitalità tedesca fu particolarmente apprezzata dai visitatori giunti in città ed i giornali di tutto il mondo si espressero in favore del finalmente avvenuto rientro della Germania nella comunità internazionale.

Il New York Times scrisse che, grazie ai giochi, la Germania aveva riavuto “il suo posto tra le nazioni” e “un volto nuovamente umano”.

Purtroppo però, si trattò solo di una bella facciata, e gli scheletri nazisti furono tirati fuori dagli armadi già all’indomani della conclusione dei giochi.

 

Non appena gli articoli post-olimpici furono archiviati Hitler e la leadership nazista accelerarono l’attuazione dei propri progetti espansionistici e ricominciarono epurazioni, rastrellamenti e persecuzioni. Il 18 agosto 1936 appena due giorni dalla fine delle XI Olimpiadi, il capitano Wolfgang Fuerstner, responsabile del villaggio olimpico, fu espulso dall’esercito perché discendente di Ebrei, questa espulsione avrebbe portato al suo suicidio.

L’accelerazione subita dall’autoritarismo nazista si tradusse nella trasformazione in fuorilegge di rom ed ebrei, i quali furono considerati “nemici dello stato” e in quanto tali, sistematicamente perseguitati e privati dei propri averi e dei propri diritti.

Fonte
L’enciclopedia dell’Olocausto


Diario di guerra di Benito Mussolini

Tra il settembre del 1915 ed il febbraio del 1917, Benito Mussolini, classe 1883, all’epoca un “giovane” soldato al servizio del regio esercito italiano, in qualità di bersagliere, come molti suoi commilitoni e in generale come la maggior parte dei soldati, un diario in cui annotare versi, parole, pensieri e riflessioni.

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Il suo diario sarebbe stato pubblicato, a puntate sul quotidiano da lui fondato nel 1914 allo scopo di dar voce all’area interventista del partito socialista  chiamato “Il Popolo d’Italia”. Questo “Diario di guerra” al pari di opere analoghe, ma con la maggiore enfasi data dal particolare autore, soprattutto in virtù di ciò che avrebbe fatto negli anni e nei decenni successivi, è ancora oggi un’efficace e vivida testimonianza di ciò che rappresentò il primo conflitto mondiale per una parte dell’interventismo italiano.

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Quest’opera, data la sua duplice natura di fonte diretta relativa la Grande Guerra e diario personale del futuro Duce, è stato oggetto di numerose ristampe durante il Ventennio. Nel secondo dopoguerra il “Diario” fu messo al bando dai luoghi accademici e per molto tempo trascurato dagli studiosi, che lo condannarono a una sorta di “damnatio memoriae” negandogli dignità documentale. Paradossalmente uno noto e celebre avversario e rivale, sul piano ideologico, di Mussolini e del fascismo in generale, già Antonio Gramsci aveva definito “interessanti” queste pagine mussoliniane, soprattutto per il loro taglio nazional-popolare. Per Gramsci non si trattava di un semplice pamphlet, ma era, a tutti gli effetti, una testimonianza importante e tra le più intense della memorialistica di guerra italiana, sia per capacità descrittiva della vita quotidiana dei soldati sia per l’efficacia nel rendere la visione delle vicende belliche con gli occhi dell’interventismo rivoluzionario.

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Se vi interessa il diario completo, iscrivetevi alla newsletter e alla rivista.

In allegato con il numero di Historicaleye sarà inviata l’edizione del 1923 edito dalla Libreria del Littorio

Riportiamo di seguito alcuni estratti dal diario 

Lunedì, 27 settembre 1915
Da ieri mattina non abbiamo in corpo che un sorso freddo di caffè. Piove sempre. Da due giorni, ininterrottamente. Stanotte non ho chiuso occhio. Mi trovavo sotto la tenda con un tal Jannazzone, un contadino del Beneventano, il quale, inzuppato fradicio, come me, e un po’ febbricitante, gemeva:
«Madonna mia bella l Madonna mia bella!».
«Basta, basta, Jannazzone!», gli ho detto.
«Non credete in Dio, voi?».
Non ho risposto.
Io, invece, ingannavo il tempo, le dodici ore interminabili della notte, rimemorando le poesie imparate nel bel tempo felice e lontano della mia giovinezza. Effetto delle circostanze climateriche, la poesia che mi è tornata alla memoria è La caduta del Parini. Strofa a strofa sono giunto sino ai versi:
Ed il cappello e il vano / Baston dispersi nella via, raccoglie.
Poi non mi sono ricordato più.
Cambiamo posizione. Andiamo in fondo valle alle sorgenti dello Slatenik, un torrente che sbocca nell’Isonzo, nella conca di Plezzo. Nei ripari che gli austriaci hanno abbandonato, troviamo un po’ più di comfort. In questa zona sono ancora visibili i segni della travolgente avanzata degli italiani.
Sul terreno tormentato e sconvolto sono disseminati, in disordine, bossoli di proiettili d’ogni calibro, giberne, scarpe, zaini, pacchi di cartucce, fucili, cassette di legno sventrate, tronchi d’alberi abbattuti, reticolati di ferro travolti, scatolette di carne vuote con diciture tedesche e ungheresi, fazzoletti, teli da tenda. Qua e là sono degli austriaci morti e malamente sepolti. Tra gli altri un ufficiale.
La posta: pacchi e lettere, ma per me e per tutti i richiamati dell”84, niente ancora. Soffia un vento impetuoso e freddo. Distendiamo sui cespugli, al sole, le nostre mantelline e coperte, inzuppate di acqua.

Mercoledì, 29 settembre 1915
Due giorni e due notti di pioggia. Tempesta.
Veniva dal Monte Nero. Sono, siamo fradici sino alle ossa. I bersaglieri preferiscono il fuoco all’acqua. Fuoco di piombo, si capisce. Ma stamani, sole. Il Rombon ci appare bianco di neve. Il sole tepido fa dimenticare le giornate piovose. Lo Slatenik, ingrossato, urla in fondo al vallone. Si distribuisce la posta. Finalmente, dopo quindici giorni, c’è qualche cosa anche per me. Nel trincerone che occupiamo si può accendere il fuoco. Ogni tenda ha il suo. Qui, l’unico pericolo – oltre a quello delle cannonate e delle pallottole vagabonde – è dato dai macigni che rotolano dal Vrsig. Di quando in quando si sente gridare: «Sasso! Sasso!». Guai a chi non lo evita a tempo!
L’[undicesimo] bersaglieri è stato rudemente provato, ma il «morale» dei soldati è eccellente. Anche i poilus dell”84 stanno cambiando psicologia. Diventano soldati. Sembrano già lontanissimi i primi giorni, quando bastava il rombo del cannone, il fischio di una pallottola o la vista di qualche cadavere per emozionarli. Distribuzione di alcuni indumenti invernali. Sono ottimi.

Giovedì, 30 settembre 1915
Ho portato, poiché li desiderava, alcuni numeri arretrati del Popolo al mio capitano [Mozzoni]. Niente in lui del militare di professione. Era aiutante in prima; ha preferito riassumere il comando della compagnia. Uomo che conosce gli uomini, soldato che conosce i soldati. I bersaglieri gli vogliono molto bene. Non ha bisogno di ricorrere a misure disciplinari per ottenere che ognuno adempia il proprio dovere. Mi offre biscotti e tre pacchetti di sigarette. È con lui il tenente Morrigoni, romano, simpaticissimo e fortunato. È giunto, dal dodicesimo, un cadetto destinato al comando del primo plotone della nostra compagnia: Fanelli, di Bari. Giornata tranquilla.

Venerdì, 1° ottobre 1915
Piove. Il mio capitano, in un rapporto indirizzato al colonnello, fa vivi elogi del mio spirito militare e della mia resistenza alle prime e più gravi fatiche della guerra.
Verso sera, intenso fuoco di fucileria e di mitragliatrici alle falde dello Jaworcek. Che gli altri battaglioni abbiano impegnato un combattimento?

Sabato, 2 ottobre 1915
Sono giunti altri ufficiali. I cadetti Barbieri e Raggi. Ora i quadri della nostra compagnia sono al completo.
Gli austriaci bombardano con granate incendiarie il villaggio di Cezzoga.

Domenica, 3 ottobre 1915
Il piantone della fureria, Lamberti, mi reca un biglietto del capitano, che dice:
«Sarebbe mio desiderio che ai bersaglieri della compagnia fosse espresso nel modo più sentito alla loro anima semplice e buona, il mio vivo compiacimento per la fusione già stabilitasi fra i vecchi e i giovani bersaglieri; ciò che dimostra quale spirito di cameratismo animi il loro cuore. La serena giocondità, il sentimento di disciplina, la disinvolta resistenza ai disagi cui sono sottoposti, vengono da me così apprezzati, tanto da sentirmene fieramente orgoglioso. Tutto ciò è indice di alto sentimento del dovere e dà affidamento della più salda compagine qualora a nuovi cimenti si possa essere chiamati. Al bersagliere Mussolini affido l’incarico di scrivere un ordine del giorno di compagnia che in una sintesi concettosa e bersaglieresca esprima tali miei apprezzamenti, con l’esortazione a perseverare, e con la visione di quegli ideali fulgidissimi di Patria e di famiglia, che costituiranno a suo tempo il premio più sensibile per il sacrosanto dovere compiuto».
Io mi domando: ma non è già questo un ordine del giorno bellissimo? Che cosa posso dire, io, di meglio e di più? Tuttavia, obbedisco. Fra anziani e richiamati, si cominciano a stabilire rapporti di amicizia. Nel primo plotone, di richiamati non ci sono che io. Tutti gli altri sono anziani che si trovano al reggimento dal principio della guerra. Spesso mi raccontano episodi interessantissimi. L’avanzata su Plezzo, le azioni sul Vrsig. I caporali hanno riunito le squadre e leggono l’ordine del giorno.

Lunedì, 4 ottobre 1915
Cielo stellato sino a mezzanotte. Stamane nevica. Ci esercitiamo al lancio di bombe.

Martedì, 5 ottobre 1915
Stanotte sono stato quattro ore di vedetta. Pioveva.

Mercoledì, 6 ottobre 1915
«Zaino in spalla!».
È giunto l’ordine di raggiungere sullo Jaworcek gli altri battaglioni. Ci mettiamo in marcia. Il capitano ci precede. Porta lo zaino e la caramella. Sosta al Comando del reggimento. Discorso del colonnello, seguito dalla lettura di un lungo elenco di bersaglieri della settima proposti per una ricompensa al valor militare. «Bersaglieri della settima, al colonnello dell’[undicesimo], hurrà!».
«Hurrà!».
Pulizia al fucile. Distribuzione di scarpe. Durante queste operazioni, faccio la conoscenza di un sergente degli alpini, di Monza, ferventissimo interventista, entusiasta della nostra guerra.
Giunge l’ottava compagnia. Qualcuno mi annuncia che il caporale Buscema è rimasto ferito da una cannonata, il 26 settembre. Il colonnello ripete il discorso ai bersaglieri dell’ottava. Crepuscolo. Si parte.

Giovedì, 7 ottobre 1915
La marcia di stanotte fra tenebre fittissime, per una mulattiera scoscesa e fangosa, entro un bosco, è stata dura.
Parecchie volte i plotoni hanno perduto il collegamento. Alcuni bersaglieri sono caduti e non hanno potuto proseguire. Anch’io, come tutti, sono caduto varie volte, ma l’unico danneggiato è l’orologio che porto al polso. Non va più. Dieci ore di marcia. Siamo giunti alle due del mattino. Per fortuna c’erano, in alto, le stelle. Non pioveva. Ci siamo rintanati fra i macigni nell’attesa dell’alba.

Venerdì, 8 ottobre 1915
Sveglia alle cinque. Ci spostiamo verso l’alto di un altro centinaio di metri. Ci troviamo sotto una delle pareti ripidissime dello Jaworcek. Dalla cima le vedette austriache sparano continuamente. Mi metto a lavorare accanitamente di vanghetta e piccone, per farmi un buon riparo. Petrella mi aiuta. Ritrovo il tenente Fava, che mi presenta al capitano della sua compagnia, Jannone. Gli amici degli altri battaglioni, appena saputo del nostro arrivo, mi vengono a cercare. Rivedo il caporal maggiore Bocconi, barbuto e un po’ dimagrito, il caporal maggiore Strada, ex-vigile milanese, sempre pieno d’entusiasmo; il caporale Corradini che mi racconta la straordinaria avventura toccatagli. Doveva andare di guardia, con una squadra, al quarto boschetto. Giunto a un passaggio obbligato e scoperto, sul quale gli austriaci rotolavano continuamente sassi e macigni, il Corradini, volendo appunto evitare un macigno, mise un piede in fallo e rotolò giù, in fondo al burrone. Una notte intera rimase laggiù, nel fango, sotto la pioggia, ritenendosi ormai perduto.
«Fu il pensiero della mia piccina, che mi diede il coraggio», egli mi dice. «A giorno fatto, risalii il pendio del monte. Nella caduta avevo perduto tutto: zaino, fucile, mantellina. Giunsi a un piccolo posto di fanteria. La vedetta mi intimò l’“alt”». Quando il caporale del piccolo posto mi ebbe riconosciuto come appartenente all’esercito italiano, mi lasciò passare. Potei riguadagnare, sano e salvo, la mia compagnia».
Ecco Rampoldi, ex-cuoco del Casanova. Lo chiamavano Rampoldo, Rampoldino.
Ritrovo ancora vivi e in gamba i milanesi Spada, Frigerio, Sandri. Viene anche a trovarmi, per conoscermi, il caporale Giustino Sciarra, di Isernia. Ha una curiosa barbetta a punta, rossigna. Cordialità, simpatia, auguri. Si parla di un’avanzata imminente.

Sabato, 9 ottobre 1915
Dormito profondamente tredici ore. La stanchezza è passata. C’è un ferito dell’ottava compagnia che viene portato in barella. Una pallottola lo ha colpito mentre sì scaldava al fuoco. Canticchia e fuma. Gli scelti tiratori austriaci sparano sempre. Un forte gruppo di ferraresi viene alla mia tenda e mi prega di porgere un saluto collettivo da mandarsi a un giornale di Bologna. Fatto.
Corvée di riattamento alla mulattiera. Il caporale milanese Bascialla, ch’è stato stanotte di guardia ai posti più avanzati, mi narra un episodio singolare. Si è trovato, in un riparo, accanto a un bersagliere che pareva dormisse. Egli ha provato a chiamarlo. A richiamarlo. A scuoterlo. Non rispondeva. Non si moveva. Era morto. Il Bascialla ha passato tutta la notte accanto al cadavere.
Ore quindici. Raffica di artiglieria austriaca. Crepitio di proiettili. Schianto di rami. Turbine di schegge. Un grosso ramo, stroncato da una granata, si è abbattuto sul mio riparo. Ci sono due feriti nella mia compagnia. Passa un morto del trentanovesimo battaglione. Un altro morto degli alpini. Il bombardamento è finito. È durato un’ora. I bersaglieri escono dai ripari. Si canta. Lunga conversazione col capitano Bono della quarta compagnia. Argomento: i colpi di scena balcanici.
Il capitano Bono è un ingegno versatile e di vasta cultura.
Non dimenticherò il tremito della sua voce, quando, me presente, essendogli giunto uno di quei moduli speciali coi quali si chiedono ai reparti notizie di militari, dovette scrivere la parola morto!
Sera di calma. Qualche fucilata solitaria delle vedette fischia di quando in quando nella boscaglia.

Domenica, 10 ottobre 1915
Mattinata meravigliosa di sole. Orizzonte limpidissimo. Si ordina la statistica dei caricatori. Ogni soldato deve averne ventotto. Ore dieci. Uno shrapnel è passato fischiando sulle nostre teste. In alto. Non trascorrono cinque minuti, che un secondo shrapnel scoppia con immenso fragore a tre metri di distanza del mio «ricovero», a un metro appena dalla tenda del mio capitano. Ero in piedi. Ho sentito una ventata violenta, seguita da un grandinare di schegge. Esco. Qualcuno rantola. Si grida: «Portaferiti! Portaferiti!».
Sotto al mio ricovero ci sono due feriti che sembrano gravissimi. Un grosso macigno è letteralmente innaffiato di sangue. Gli ufficiali sono in piedi che impartiscono ordini.
«Le barelle! Le barelle!».
I feriti sono molti e bisogna chiedere le barelle alle altre compagnie del battaglione. Ci sono anche dei morti: due. Uno è Janarelli, l’attendente del tenente Morrigoni. Una palletta dì shrapnel gli è entrata dal petto e gli è uscita dalla schiena. Gliel’hanno trovata fra la pelle e il farsetto a maglia.
«Tenente, mi abbracci!», ha detto Janarelli. «Per me è finita!».
Vedo il tenente Morrigoni, cogli occhi luccicanti di lacrime. «Era tanto bravo e tanto buono!».
Lo Janarelli sembra dormire. Solo attorno alla bocca c’è una grossa tosa di sangue. L’altro è un richiamato dell’84. Una scheggia gli ha spezzato il cranio.
Una riga rossa gli divide a metà la faccia. I feriti sono nove, dei quali tre gravissimi e due disperati.
«Zappatori, in rango colle vanghette».
Gli zappatori si riuniscono coi loro strumenti. Adagiano i morti su barelle fatte con rami d’albero e sacchi e se ne vanno. Qui non si può fare un cimitero. Bisogna seppellire i caduti qua e là, nelle posizioni più riparate. L’emozione della compagnia è stata fugacissima. Ora si riprende il chiacchierio. Si fischierella. Si canta.
Quando lo spettacolo della morte diventa abitudinario, non fa più impressione. Oggi, per la prima volta, ho corso pericolo di vita. Non ci penso.
Dopo un mese mi lavo e mi pettino. Schampoing al marsala.
Passa il tenente Francisco della quindicesima compagnia, il quale mi racconta: «Ieri sera gli austriaci hanno inscenato una dimostrazione antitaliana. Hanno cantato in coro il loro inno nazionale. Poi hanno gridato: “Kicchirichi, kicchirichi!”. Hanno aggiunto: “Bersaglieri dell’undicesimo, vi aspettiamo!”. Alla fine, una voce di ufficiale ha urlato al megafono: ” Italiani farabutti, lasciateci le nostre terre!”».

Lunedì, 11 ottobre 1915
Meravigliosa mattinata di sole. Il secondo, il terzo, il quarto plotone della mia compagnia, levano le tende e si spostano per essere defilati dai tiri degli shrapnels. Noi restiamo al nostro posto. Passa un morto della tredicesima. Bombardamento di un’ora a shrapnel. Conversazione col capitano Bono.
La vita in trincea è la vita naturale, primitiva. Un po’ monotona. Ecco l’orario delle mie giornate. Alla mattina non c’è sveglia. Ognuno dorme quanto vuole. Di giorno non si fa nulla. Si può andare, con rischio e pericolo di essere colpiti dall’implacabile «Cecchino», a trovare gli amici delle altre compagnie; si gioca a sette e mezzo o, in mancanza di carte, a testa e croce; quando tuona il cannone, si contano i colpi. La distribuzione dei viveri è l’unica variazione della giornata: di liquido, ci danno una tazza di caffè, una di vino e un poco di grappa: di solido, un pezzo di formaggio che può valere venti centesimi e mezza scatoletta di carne. Pane buono e quasi a volontà. Di rancio caldo, non è questione. Gli austriaci, tempo fa, hanno bombardato coi 305 le cucine e hanno fatto saltar per aria muli, marmitte e cucinieri.
C’è un’ora, nella giornata, che i bersaglieri attendono sempre con impazienza e con ansia: l’ora della posta, che comincia a giungere regolarmente. Ci pensa Jacobone, per il reggimento. Nostro «postino» è il calabrese Suraci. Quando si grida «posta !», tutti escono dai ripari e si affollano attorno al distributore. Nessuno pensa più alle fucilate e agli shrapnels.
Ho scritto una lettera per Jannazzone e una per Marcanico. Non si negano questi favori a uomini che possono morire da un momento all’altro. La fidanzata di Marcanico si chiama Genoveffa Paris. Questo nome mi porta, chissà perché, al tempo dei «reali di Francia».

Martedì, 12 ottobre 1915
Pulizia al fucile. Sole pallido. Poi, non c’è nulla da fare. Passano i soliti feriti. C’è il bersagliere Donadonibus che si spidocchia al sole. «Cavalleria, a destra! Cavalleria, a sinistra!», grida e ride, di un riso che sembra quello di un uomo completamente felice. Pioggia e pidocchi; ecco i veri nemici del soldato italiano: il cannone vien dopo. Uno dei feriti dello shrapnel è morto prima di arrivare all’infermeria reggimentale.
Altra notizia triste: la fucilata di una vedetta ha colpito a morte tal Mambrini, mantovano, mentre stava lavorando a fortificare il suo riparo.
La guerra di posizione esige una forza e una resistenza morale e fisica grandissime: si muore senza combattere!

Mercoledì, 13 ottobre 1915
Stanotte, sulle ventitre, improvviso e intensissimo fuoco di fucileria e di mitragliatrici ai nostri avamposti. Siamo balzati dai nostri ripari. Un quarto d’ora di fuoco e poi quiete sino all’alba. Mattinata grigia. Vado di corvée colla mia squadra e mi carico di un sacco di pane. Passa un morto del trentanovesimo battaglione, colpito da fucilata e da sassata. Si diffonde, tra le squadre, la notizia che presto ci sarà l’«azione». La notizia non deprime, ma solleva gli animi. È la prolungata inazione che snerva il soldato italiano. Meglio, infi-nitamente meglio, «al» fuoco, che «sotto» al fuoco. I bersaglieri sono desiderosi di vendicare i compagni caduti a tradimento.
Vicino a me si canta. È un inno bersaglieresco:
Piume, baciatemi
Le guance ardenti
………………
Piume, riditemi
Di gioia i canti;
E ripetetemi:
Avanti! Avanti!

Fonte :

Diario di guerra di Benito Mussolini
Archivio storico del Popolo d’Italia 

Il Tempio di El Khasneh a Petra

Il Tempio di al-Khazīna al-Firaʿūn, o se preferite El Khasneh.

Si tratta probabilmente del più spettacolare (o uno dei più spettacolari) monumenti realizzati dalla civiltà Nabatea a Petra, nel sud della Giordania, situata nel deserto arabo-siriano. Nella sola città di Petra sono stati classificati più di 800 edifici e almeno 500 tombe. Leggi tutto “Il Tempio di El Khasneh a Petra”

Chi sono Joseph e Aseneth ?

I personaggi di Joseph e Aseneth appaiono per la prima volta nella letteratura apocrifa tra al I secolo avanti cristo ed il I secolo dopo cristo, in un testo apocrifo, scritto in greco, dell’antico testamento. Si tratta di una sorta di espansione o ampliamento del testo della genesi, nel quale il faraone dà sua figlia Aseneth in sposa al sacerdote Joseph (personaggio presente anche nella letteratura canonica) e dal cui matrimonio sarebbero nati due figli chiamati Manasse ed Efraim che secondo la letteratura biblica sarebbe divenuto il primo re di Israele. Leggi tutto “Chi sono Joseph e Aseneth ?”

La paura genera mostri

Immersi nella paura gli uomini diventano bestie il cui morso può trasformare altri uomini in bestie, le cui azioni distruggono tutto ciò che di bello, fino a quel momento era stato creato.”

La paura fa parte della nostra vita, è un
elemento fondamentale per la nostra crescita ed evoluzione, che delinea i vari passaggi attraverso i quali possiamo dar forma alla nostra persona. Leggi tutto “La paura genera mostri”

Una prigione per streghe

Quando sentiamo parlare di cacciatori di streghe, roghi e torture, siamo soliti pensare all’età medievale, anni oscuri di teocrazia cattolica in europa, e pure, la caccia alle streghe ed dei tribunali dell’inquisizione, raggiunsero la piena efficienza tra il XV ed il XVI secolo, e nel caso della stregoneria, superarono abbondantemente anche il XVII secolo.

In questo articolo non voglio ripercorrere la storia della caccia alle streghe, argomento sicuramente molto interessante, sul quale torneremo in altre sedi, qui oggi, voglio soffermarmi su uno dei luoghi in cui la caccia alle streghe fu perpetuata.

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Turchia : dopo il fallimento del golpe

Il quindici luglio 2016 la Turchia, l’Europa ed il mondo sono andati a letto sconvolti dalla notizia di un golpe in corso in Turchia. All’indomani mattina la notizia del fallito colpo e del lento ritorno all’ordine del paese sotto la guida del presidente regolarmente eletto Recep Tayyip Erdoğan il quale prometteva e allo stesso tempo minacciava, una severa e rigida repressione dell’insurrezione, e di fatto nei giorni successivi il numero di arresti, feriti e morti sarebbe cresciuto esponenzialmente, andando a delineare un profilo oscuro per la nuova Turchia sopravvissuta al golpe.
Andiamo con ordine e cerchiamo di capire esattamente cosa è successo e in quale situazione si trova attualmente la Turchia ed il suo leader Erdogan.

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