Bodo e Alcuino: contadini e intellettuali all’ombra di Carlo Magno

Vicende politiche, costituzionali, economiche. Per non parlare delle imprese (e delle rivoluzioni) di Attila, Giustiniano, Carlo Magno, Federico II, Gregorio VIII. Accanto alla tradizione alta da tempo la storiografia specialistica ha riconosciuto l’importanza delle faccende quotidiane di una massa di ignoti.

Poveri, servi, schiavi, contadini, artigiani, commercianti, esuli, mendicanti, apolidi. E non si tratta di atteggiamenti esegetici o di “preferenze”; è fin troppo ovvio ricordare che il problema concerne la documentazione di cui disponiamo. Spesso esigua e poco attendibile o, peggio, inesistente se cerchiamo di ricostruire la storia degli ignoti. 

Nonostante queste difficoltà oggettive, il rapporto tra cultura (e storia) alta e cultura (e storia) popolare non è un campo inesplorato. Oggi vorrei spendere qualche parola sul contesto sociale ed economico in cui si sviluppano, in epoca carolingia, l’immagine del contadino e l’immagine dell’intellettuale.

L’argomento che ho scelto è anche un’occasione per segnalarti due libri (molto diversi tra loro) che ho trovato ricchi di spunti per comprendere questa “fase” del Medioevo: Eileen Power, Vita nel Medioevo, Einaudi, e Alcuino di York, Giochi matematici alla corte di Carlo magno, a cura di Raffaella Franci, edito da ETS.

L’immagine del contadino. Come accennavo prima, la cultura orale delle classi subalterne dell’Europa preindustriale tende a non lasciare tracce. O, peggio, a lasciarne di deformate. Ciò posto, è fin troppo evidente che l’immagine del contadino non sia solo quella tramandataci da Andrea Cappellano (nel De amore) o dal Boccaccio. Non credi?

Il libro di Eileen Power, oltre ad essere un piacevole “romanzo”, ha il pregio di dare un nome e un volto ad uno dei tanti stereotipi medievali. Un contadino, un viaggiatore, una badessa, una donna di casa, un mercante ed un fabbricante di panno. La Power ce li presenta immersi nella loro vita quotidiana catapultandoci nelle case e nelle strade dell’Europa medievale. Al di là del discorso che si potrebbe fare sulle figure femminili, sul piano della storia sociale ed economica mi hanno appassionata le giornate di Bodo il contadino e della moglie Ermetrude, sempre di corsa in giro per il manso, tra tributi ed esazioni, fiere e incontri con i Missi Dominici.

Chi è Bodo? E tu, come lo immagini? Posso dirti che, nonostante la durezza dei tempi, è estremamente umano, non certo il contadino meschino e gretto dei racconti cortesi. Ama la sua famiglia, ha un animo vivace e giocoso – balla e canta durante le feste popolari, notoriamente odiate dai monaci – e avvia i figli, soprattutto il più grande Wido, verso la sua futura vita da contadino. Contadino, marito, padre, maestro.

Bodo è un contadino del IX secolo. La fonte principale usata dall’autrice è un libro catastale probabilmente compilato da un abate per sapere con quali terre appartenessero all’abbazia e a chi fossero date in gestione. Ti ricordo che tra il VI e il IX secolo si assiste al fenomeno dell’economia curtense che caratterizza in modo specifico la vita economica dell’Alto Medioevo. La villa o curtis era un vero e proprio centro di residenza e produzione: fattoria, azienda agraria, laboratori. I terreni appartenenti all’abbazia erano divisi in fiscs che erano dei  fondi tanto grandi da poter essere amministrati da un fattore.

Ognuno di questi era diviso in terre tributarie e terre signorili: le prime erano divise in quantità più piccole chiamate mansi ed abitate da coloni, mentre le seconde erano amministrate direttamente dai monaci tramite i fattori. L’elemento caratteristico dell’economia curtense è la presenza di una serie di prestazioni d’opera che i tenutari o mansi erano tenuti ad offrire al dominus sotto forma di corvées lavorative. Bodo è inserito in questo contesto sociale ed economico.

L’immagine dell’intellettuale. La vita di questi secoli appare conservativa, popolata da contadini, liberi o servi, che insieme alle loro famiglie coltivavano i campi. Un’economia che mirava all’autosufficienza alimentare, integrata con la caccia e la pesca, in cui lo scambio era minimo in quanto riservato solo alle (spesso misere) eccedenze produttive.

Pur non essendo tecnicamente incompatibile con i commerci, il sistema curtense appare caratterizzato da una vocazione centripeta alla sussistenza, senza alcuna visione d’insieme o di lungo periodo che, forse, avrebbe potuto favorire maggiormente gli scambi.

Rabano Mauro accompagnato da Alcuino (al centro), nell’atto di presentare un libro all’Arcivescovo di Magonza Otgar, (Vienna, Biblioteca Nazionale Austriaca, cod. 625 f. 1v.).

Questa relativa stagnazione economica sembra essere l’immagine in negativo della rinascita culturale. Tutti gli storici sono concordi nel dire che il regno di Carlo Magno coincise con un generale risveglio della cultura in tutto l’Occidente. Non credere alla storiella della cultura in balìa alle biblioteche monastiche, eh! Certo, una iniziale spinta si ha proprio grazie alla formazione delle prime scuole cristiane (si pensi al caso di Clemente Alessandrino di cui ho parlato in questo video).

Ma non va dimenticato che si stavano organizzando le prime scuole che, pur essendo gestite dal clero, erano aperte ai giovani appartenenti alle famiglie aristocratiche. Carlo Magno pensava che la cultura fosse un elemento essenziale per migliorare lo stato del pubblico servizio; pur essendo quasi analfabeta, non esitava ad intervenire in questioni di scienza, filosofia e teologia (basti ricordare il caso dei Libri Carolini). Attorno al sovrano, proprio ad Acquisgrana si riuniva la Schola Palatina, un circolo di dotti coordinato da un monaco benedettino, Alcuino di York.

Nel 781 Carlo Magno e Alcuino si incontrano a Pavia. Come rifiutare l’offerta di lavorare al suo servizio? Alcuino ha il compito di organizzare le scuole e formulare il programma da seguire, rispettando la divisione canonica tra trivio e quadrivio. Si fa inviare libri dai monasteri inglesi, istituisce scriptoria per copiare i manoscritti, contribuisce alla creazione di veri e propri manuali di insegnamento.

Nel libro Alcuino di York, Giochi matematici alla corte di Carlo magno, a cura di Raffaella Franci, trovate una serie di giochi matematici tratta dalle Propositiones, la più antica collezione di problemi matematici in latino attualmente conosciuta. Il libro è prezioso non solo sul piano della storia della matematica ma anche per rendersi conto delle analogie/differenze tra le soluzioni di Alcuino e quelle moderne. L’immagine dell’intellettuale non è dunque quella del monaco rinchiuso nello scriptorium. Allo stereotipo si sostituisce una figura attiva, dedita alla ricerca e all’insegnamento. 

Bibliografia:

Eileen Power, Vita nel Medioevo, Einaudi.

Alcuino di York, Giochi matematici alla corte di Carlo magno, a cura di Raffaella Franci, ETS.

La Guerra del Peloponneso: l’avvento della Sofistica e la dissoluzione della Polis

L’età di Pericle è considerata il vertice indiscusso della grecità classica. La crisi quasi trentennale che si aprì a conclusione di questo periodo è caratterizzata da un evento bellico senza precedenti per il mondo greco: la Guerra del Peloponneso.

Si tratta infatti del più grande evento storico dopo la spedizione di Serse, le cui implicazioni sono ancora oggi oggetto di discussione dato che riguardano aree geografiche e culture assai diverse: dal continente greco attraverso l’Egeo, la Macedonia, la Tracia fino all’Asia Minore a est, passando per lo Ionio fino alla Sicilia e all’Italia meridionale a ovest.

Busto di Pericle (copia romana di una statua di Cresila, Museo Pio-Clementino).

Il coinvolgimento dell’impero persiano e della Magna Grecia rende questo evento non solo “universale” ma una vera e propria svolta negli equilibri politici ed economici del mondo di allora. Atene e Sparta ne uscirono sconfitte. La Grecia, il centro del mondo dopo Salamina e Platea, si vide gradualmente spinta verso la periferia per osservare passivamente l’affermarsi della Persia (ad oriente) e Dioniso I di Siracusa (ad occidente). Anche la polis ellenica stava lentamente morendo. La Lega Delio-Attica mostrò tutta la sua debolezza: l’incapacità di conciliare le eccessive autonomie locali con il senso di un “dovere comune” non determinarono solo il crollo di Atene, intesa come potenza politica ed economica, ma anche il dissolversi di un’idea di grecità che era indissolubilmente legata alla struttura della polis ateniese. 

La situazione politica, economica e sociale era caratterizzata da una forte crisi ma in questi anni oscuri lo spirito ellenico seppe dar prova di una inesauribile vivacità intellettuale. “La maggior parte delle opere di Euripide (morto nel 406) e delle commedie di Aristofane (la prima delle quali fu rappresentata nel 427) risalgono al periodo della guerra; esse testimoniano una fiorente vita culturale in Atene dove non cessarono le annuali rappresentazioni di tragedie e commedie, nonostante lo strepito degli arsenali e delle officine della città e del Pireo. Anche lo scalpello e la sega del carpentiere procedettero senza sosta nel loro lavoro: si continuò la costruzione dell’Eretteo, e i tesorieri, pur pressati dalle spese per la guerra, non mancarono di registrare i conteggi per i cittadini, meteci e schiavi“, (H. Bengtson, L’antica Grecia, Il Mulino, pag. 220).

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Socrate nella cesta in una rappresentazione pittorica delle Nuvole di Aristofane (Joannes Sambucus, 1564).

Ma l’evento più significativo è indubbiamente l’ingresso della sofistica sulla scena ateniese. Questa nuova dottrina rappresentata fisicamente dal viaggio in Atene dell’ambasciatore Gorgia ebbe un ruolo determinante nella formazione dello spirito greco, sia dal punto di vista antropologico che scientifico. L’uomo protagoreo, proprio in quanto misura di tutte le cose, diviene il fulcro di una nuova visione del mendo, una spinta nella ricerca scientifica: non è un caso che la scrittura di Tucidide ha subito influenze sia sofistiche che derivanti dalla medicina antica, nella figura di Ippocrate.

Siamo quindi di fronte al processo di costruzione di una nuova umanità che se da un lato è profondamente segnata dalla ferocia della guerra, e resta imbrigliata nell’ambizione di uomini come Alcibiade e Lisandro e nell’inettitudine del demos, dall’altro riesce a superare i suoi stessi limiti, come mostrano il coraggio e la fedeltà di Socrate.

Troppo spesso di racconta la Guerra del Peloponneso come una sequenza di date, nomi e fatti, troppo spesso si comincia con le cause scatenanti e si procede attraverso le tre fasi in cui comunemente la storiografia la divide. E poi ci si ferma. Si dimentica il contesto, il quadro d’insieme, si smarrisce la consapevolezza dei significati “filosofici” e più genericamente culturali di questo evento. La nascita della storiografia e la morte della polis, di quella polis intesa come espressione di una democrazia diretta che non riuscì ad imporsi come uno strumento di direzione politica convincente nei momenti di crisi. Nel podcast che trovi qui sotto cerco di tracciare un quadro generale della situazione culturale che ha da humus alla Guerra del Peloponneso.

Storia Greca: il Destino delle Operaie nei Palazzi Micenei

Il mondo descritto da Omero è pura fantasia. Questa era l’opinione della maggior parte degli storici fino al 1870 circa. Lo steso George Grote faceva iniziare la storia greca nel 776 a. C., con l’istituzione dei primi giochi olimpici. A suo parere, tutti i racconti tramandateci dalla tradizione antica andavano intese come miti e leggende. Da tempo sappiamo che le cose stanno diversamente.

La riscoperta delle culture minoica e micenea ha arricchito non poco le nostre conoscenze, anche retrospettivamente, ossia sulla Protostoria del mondo greco (1900 a.C. – 900 a. C. circa). Dopo le scoperte di Heinrich Schliemann (1822-1890) non si può più negare che le raffinate civiltà dell’Egeo del II millennio a.C. abbiano una forte eco nelle pagine dell’Iliade e dell’Odissea. Quando Schliemann salì per la prima volta sull’Acropoli di Micene pensò di aver scoperto la reggia di Agamennone. La sua convinzione aumentò quando scoprì una serie di tombe in cui erano stati inumati uomini con il volto coperto da maschere di lamina d’oro.

Benché Schliemann si fosse sbagliato, dal momento che le tombe risalivano a un periodo anteriore alla data presunta della guerra di Troia, la rocca di Micene è senza dubbio il monumento miceneo più importante. La tradizione vuole che qui abbiano dominato gli Atridi, i discendenti di Atreo, e che proprio da qui sia partito un esercito per conquistare Troia.

L’ingresso della tomba a tholos nota come Tesoro di Atreo, ritrovata a Micene, (CC BY-SA 3.0).
L’accesso principale all’Acropoli di Micene e la porta dei Leoni, XIV secolo a.C., (CC BY-SA 2.5).

Oltre al recupero di Omero come testimonianza storica e tutti gli effetti, un altro elemento chiave nel cambiamento di questo paradigma storiografico è dato dallo studio dei diversi tipi di scrittura. La scrittura propriamente detta è stata preceduta nel III millennio dall’uso di sigilli e di segni di vario tipo sia sui vasi che sui blocchi di pietra: si parla, rispettivamente, di marchi di vasaio e di marchi di muratore. Il significato di questi marchi resta oscuro. Solo nel II millennio, a Creta, comincia a diffondersi l’uso di una sequenza di segni la cui combinazione assume un significato. Gli uomini cominciano a scambiarsi messaggi. Nel mondo Egeo sono state isolate cinque scritture, imparentate tra loro ma indipendenti da quelle orientali (lo schema dipende da Pierre Carlier, 2014):

(1) il minoico gerogrifico, battezzato così da Arthur Evans per il carattere astratto dei segni, che è distinto dal gerogrifico egizio; (2) la Lineare A cretese; (3) la Lineare B che è imparentata con il greco arcaico (e lo sappiamo grazie agli studi di Michael Ventris) e su cui riposa gran parte della nostra conoscenza della cultura micenea; (4) il cipro-minoico, diffuso a Cipro tra il 1500 e il 1200 a.C., derivato dalla Lineare A; (5) il sillabario cipriota classico (VIII-III secolo) usato sia per il greco sia per un’altra lingua eterocipriota (presso Amatunte).

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Disco di Festo (CC BY-SA 3.0).

Rispetto a queste, va ricordato il famoso disco di Festo che resta un hapax in quanto i suoi caratteri non rientrano nello schema (1)-(5): “nulla prova che sia stato fabbricato nell’Egeo, né che esso dati all’Età del Bronzo; le sue coordinate storiografiche non sono state registrate: una sera del 1908 esso fu consegnato all’archeologo italiano responsabile dello scavo di Festo, in mezzo a un gran numero di reperti minoici … ed ellenistici. Tutte le proposte di decifrazione poggiano in sommo grado sulla fantasia”, (Pierre Carlier, Omero e la storia, Carocci, 2014, p. 43).

Nella storiografia greca, la conoscenza delle scritture egee ha avuto certamente gli effetti macroscopici cui abbiamo accennato all’inizio; sarebbe tuttavia un errore accontentarsi di uno sguardo sinottico sul passato e dimenticare i dettagli. Uno di questi è particolarmente interessante e riguarda la vita delle donne nei palazzi. Uno degli obiettivi principali dei micenologi è la ricostruzione degli archivi così com’erano al momento in cui furono incendiati (il fuoco, infatti, consente di cuocere le tavolette e dunque di conservarle). Gli studiosi cercano di ricostruire i lotti di documenti facenti capo, di solito, al medesimo scriba in modo da inventariarli e comprendere la tipologia delle informazioni conservate.

Le analisi sulle tavolette in Lineare B di Pilo ci forniscono uno spaccato di vita quotidiana: la serie Aa censisce circa 800 donne con i loro figli, le cui assegnazioni professionali suggeriscono una capillare divisione del lavoro soprattutto nel campo della tessitura. Nella serie Ab leggiamo che a queste donne veniva assegnato un compenso per il lavoro svolto, una razione mensile di fichi e di grano, il che mostra la loro dipendenza dall’economia di palazzo.

Iscrizione in Lineare B su una tavoletta da Pylos, (CC BY 2.0).

Sappiamo che queste operaie lavoravano in un contesto economico che possiamo delineare, almeno per sommi capi. L’organizzazione sociale dei Micenei era fortemente centralizzata: faceva capo ad un re, il wanax,  seguito dal lawaghetas che comandava l’esercito. C’erano poi l’aristocrazia e i sacerdoti. Al re, come al capo dell’esercito, spettava un lotto di terra, chiamato temenos, il cui controllo ed organizzazione faceva capo al palazzo che, grazie ad una burocrazia capillare, controllava gli allevamenti, soprattutto ovini, la produzione di lana, olio e profumi, la metallurgia e l’agricoltura.

Ma c’è di più: secondo le tavolette di Pilo, uomini e giovani venivano censiti sulla base della relazione di parentela con le operaie, ossia come figli-di e figlie-di, il che suggerisce che la qualifica professionale delle madri fosse essenziale per il futuro dei figli all’interno della classe sociale di appartenenza. Infine, dato che molte di queste donne erano designate con nomi etnici: Milesie, Lemnie, Cnidie, si trattava probabilmente di schiave o prigioniere catturate lungo le coste dell’Anatolia e poi utilizzate come manodopera. Questo è lo stato attuale delle nostre conoscenze. Ad oggi, sul destino delle operaie palazziali possiamo fare solo congetture.

Esportare Oligarchie: la Colonizzazione della Grecia Arcaica

Aristotele nella Politica mette in relazione la colonizzazione arcaica con lo sviluppo di oligarchie territoriali e con le dinamiche (o lotte) di classe. Ha ragione? Si tratta di una testimonianza attendibile? Per affrontare questo problema dobbiamo fare un passo indietro e ripercorrere le tappe fondamentali della colonizzazione arcaica.

Tra l’VIII e il VI secolo a.C. i Greci si sono spostati in terre abitate da popolazioni “barbare” e vi hanno fondato delle città (o poleis) del tutto simili alle metropoleis di provenienza, ma da esse indipendenti (Finley 1976; Lepore 1978 e 1981). Sappiamo che avevano un termine specifico per connotare questo fenomeno: apoikía, che significa letteralmente lontano da casa. Si può dunque facilmente intuire come la fondazione di una città lontano da casa abbia ben poco in comune, istituzionalmente parlando, con il concetto di colonia (e colonialismo). Con colonialismo si intende la fase moderna della colonizzazione, un fenomeno che conosciamo a partire dal Quindicesimo secolo, e che è connesso alla creazione di un vero e proprio sistema coloniale, del tutto dipendente e in certo modo funzionale a una divisione internazionale del lavoro e allo sfruttamento intensivo delle risorse naturali.

Oggi vorrei fare qualche riflessione sulla colonizzazione arcaica non solo per rimarcarne le differenze rispetto ai movimenti moderni, che in questa sede rimarranno sullo sfondo, ma per rendere esplicita una caratteristica del mondo arcaico o, almeno, del modo di intendere e di vivere l’esportazione di usi, costumi e leggi: il conservatorismo. Cosa si intende per colonizzazione arcaica? Con questo termine si indica lo spostamento, anche non coordinato e non “in massa”, di uno o più ecisti o fondatori (oikistés in greco antico significa fondatore) con l’obiettivo di organizzare una nuova città che doveva avere delle caratteristiche particolari.

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Tutte le nuove città erano infatti associate alla città-madre, o metrópolis, nel senso che quest’ultima si occupava dei preparativi della spedizione e della nomina dell’ecista, una figura chiave poiché aveva il compito di organizzare la comunità, di istituire i culti e le leggi, di spartire il territorio organizzando gli spazi cittadini. E non faceva questo di sua iniziativa personale ma utilizzando come modello gli usi, costumi e le leggi della città-madre. La madrepatria restava quindi un punto di riferimento anche per la fondazione delle sub-colonie, ma le relazioni finivano qui: etimologicamente apoikía implica distacco e spesso ai “coloni” era perfino preclusa la possibilità di tornare a casa!

Ad un conservatorismo istituzionale e culturale corrisponde (o sembra corrispondere, dai documenti che abbiamo) un’indipendenza economica solo relativa. Se proprio volessimo trovare delle analogie con qualche esperienza moderna, dovremmo fare appello al sistema coloniale britannico, “l’unico che sviluppò contemporaneamente tutti i tipi di colonizzazione (dalla colonia commerciale a quella di piantagione, fino a quella penale) produsse anche una colonia di insediamento, formata in terra vergine a liberi agricoltori. Questo modello di colonizzazione moderna è l’unico che si possa avvicinare a quello di certe fondazioni greche in territorio non greco, salva restando la ovvia differenza dei rapporti di produzione esportati”, (Federica Cordano, Antiche Fondazioni Greche, p.16).

La colonizzazione greca ha dunque delle caratteristiche peculiari che affondano le radici nei processi di formazione della polis, che la differenziano non solo dalle esperienze europee in epoca moderna, in cui esiste un complesso rapporto di dipendenza istituzionale, sociale, culturale ed economico con la madrepatria, ma anche con le precedenti esperienze vissute nella storia della Grecia arcaica. Sto pensando al passaggio in Asia Minore degli Ioni e degli Eoli e ai contatti micenei stabiliti nel II millennio.

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Come sottolinea molto bene Federica Cordano, anche se le fonti antiche definiscono queste esperienze come esempi di colonizzazione, il termine va inteso cum grano salis: questi spostamenti rispondono a tutt’altra logica e appartengono a un periodo in cui la Grecia era teatro di migrazioni, non di spostamenti esplicitamente finalizzati alla fondazione di una polis (che nemmeno esisteva istituzionalmente parlando, visto che la Grecia non era ancora Hellás, ossia un insieme di città-stato in grado di “esportare” le istituzioni politiche tipiche di questa forma di aggregazione sociale).

Le città della Ionia e dell’Eolide, concepite (come abbiamo accennato) comunque come apoikíai, in quanto la tradizione posteriore non ha saputo interpretare gli spostamenti in massa se non in questi termini, nascono dalla dissoluzione del mondo miceneo e il loro sviluppo si deve a presupposti etnici e ad ecisti mitici. Tra queste due esperienze, impropriamente designate con lo stesso termine, si colloca infatti il cosiddetto rinascimento greco, un processo che conduce la Grecia ad uscire da un’età buia e che è ben attestato nelle pagine di Esiodo (e dalla documentazione archeologica tra il IX e l’VIII secolo).

Moses I. Finley ha tracciato uno schema dei tipi di colonie antiche partendo dall’analisi della terminologia coloniale inglese e francese per mettere in guardia dalle facili sovrapposizioni. Ettore Lepore ha ripreso il discorso ampliando l’esame della bibliografia specifica. Egli mette in particolare rilievo come le interpretazioni modernistiche della colonizzazione greca abbiano ‘viziato il dibattito sulle sue cause anche in avvedute e acute analisi’ conducendo alla schematica divisione in colonie agrarie e colonie commerciali, divisione che si trova anche nei fondamentali studi sulla colonizzazione greca di Dunbabin e Bérard e, diversamente rielaborata, di Cl. Mossé. L’aver preso in prestito il vocabolo colonia ha trascinato con sé tutta la terminologia coloniale. […] Questa terminologia non è stata adottata solo per ragioni di comodo, ma perché l’interesse espresso dagli storici moderni per la colonizzazione greca non è mai completamente disgiunto da quello per la colonizzazione moderna ed europea. Questo è avvenuto soprattutto nei secoli passati e nella prima metà del nostro”, (Federica Cordano, Antiche Fondazioni Greche, p.16).

Una principessa micenea.

La colonizzazione in Sicilia: un esempio conservatore? Le fondazioni siciliane sono solo uno dei numerosi esempi che potremmo fare per mostrare come i nuovi insediamenti non erano intesi come luoghi in cui costruire un nuovo modello di società ed eventualmente migliorare le istituzioni vigenti nelle metropoleis, ma erano vissute come “copie” delle poleis da cui provenivano i fondatori. Probabilmente non poteva andare diversamente, visto che si era appena innescato il processo di recupero e revisione delle legislazioni, le strutture familiari e sociali si stavano consolidando e siamo ancora lontani dal periodo classico, da ciò che accadrà tra V e IV secolo. Detto ciò, è interessante riflettere sulle letture filosofiche che vennero date di questo fenomeno proprio nel periodo classico.

L’analisi delle fonti provenienti dalla riflessione filosofica sembra deporre in favore della necessità del processo di colonizzazione e del conservatorismo nella gestione delle nuove città. Nelle Leggi Platone afferma chiaramente che si possono ottenere coloni da fenomeni di sovrappopolazione, ossia in quei casi in cui le terre e le derrate alimentari si rivelano insufficienti per il sostentamento degli abitanti della regione (707e). Precisa, in seguito, che a causa delle lotte civili può accadere che un intero partito sia costretto all’esilio e che, nei casi più estremi, un’intera popolazione sia costretta a spostarsi a causa di rivolgimenti sociali o peggio a causa di una guerra (708b). Il concetto è chiaro: una colonia viene fondata per necessita, non perché dietro vi sia un preciso progetto politico o sociale.

Come ho accennato all’inizio, Aristotele sembra andare addirittura oltre. L’idea platonica viene infatti in qualche misura assolutizzata, se si leggono alcuni passi della Politica in cui si parla dell’esigenza di limitare il numero dei cittadini (1265a e 1326b), di controllare le nascite (1265b, 1266b, 1270b) e di mantenere fisso il numero dei lotti familiari anche tramite le adozioni (1274a-b). Infine, e qui Aristotele è molto chiaro, è proibito alienare la proprietà terriera (1265b-1266b, 1270a, 1319a).

Tutte queste istanze sono evidenti nell’intero processo di colonizzazione, in particolare nelle colonie calcidesi che diedero vita a Zancle (Messina) che fondò Mylai (Milazzo) e Imera per motivi strettamente commerciali, Reggio, Nasso (734), Leontini e Catania (728). La struttura politica delle colonie calcidesi riprende quella della madrepatria: Calcide ed Eretria avevano infatti elaborato un sistema oligarchico fondato su criteri aristocratici e censitari, basato sui privilegi di nascita e ricchezza. Ed è proprio Aristotele a porre in contemporaneità questi regimi con la colonizzazione arcaica e, quindi, ad indicare nelle dinamiche di classe il motore di questo processo, che diventerebbe la via di fuga privilegiata per coloro che non trovavano in patria possibilità di successo. Oligarchia e mobilità economica sembrano quindi i suoi ingredienti essenziali.

Nell’immagine vediamo le colonie in Magna Grecia e in Sicilia. Le fondazioni campane, lucane e della Sicilia nordorientali sono ioniche, quelle pugliesi e della Sicilia meridionale sono invece doriche; le restanti fondazioni sono di coloni greci provenienti dall’Acaia. (CC BY-SA 4.0).

E questo può aiutarci a sfatare qualche mito in merito alle cause della colonizzazione arcaica. È importante a questo punto non farsi fuorviare e non cadere nella trappola del dibattito tra motivazioni commerciali, agricole e o di popolamento. È del tutto legittimo interrogarsi sulle cause della colonizzazione arcaica e sul suo significato; illegittimo è invece usare idee, concetti moderni e trovare una risposta nella loro retroazione acritica.

È naturale che chi si allontana dalla propria patria lo fa anche (e forse soprattutto) per cercare terre fertili e per fare fortuna; ciò rientra nella specificità dell’economia antica che, pur conoscendo le dinamiche introdotte dalle attività commerciali e artigianali, resta essenzialmente legata all’agricoltura. Motivazioni più evidenti sono di natura politico-religiosa, come mostra bene Aristotele. Ragioni demografiche e territoriali, accompagnate da discriminazioni sociali e religiose, portano a uno scontro tra chi non ha il pieno possesso dei diritti politici e le ristrette oligarchie conservatrici.

Concludo con un chiaro esempio di conservatorismo istituzionale. Basti pensare alle legislazioni antiche. Si tratta di una vera e propria “esportazione” di usi, costumi, tradizioni e leggi già in vigore nella madrepatria. Le figure di riferimento sono in bilico tra la storia e il mito: Zaleuco di Locri Epizefiri (il nome significa bianco splendente) secondo la tradizione era monocolo e viene descritto con tutte le caratteristiche tipiche delle divinità solari. Molti sono infatti i dubbi sulla sua reale esistenza (e non ce ne meravigliamo). La legge del taglione e le pene capitali per il furto vengono di solito attribuite a lui o, meglio alle tradizioni diffuse in quel periodo.

Con Caronda di Catania il discorso è simile. Invece a Draconte (il cui nome significa serpente, l’animale sacro ad Atena) si devono le leggi scritte addirittura col sangue. Ma qui il punto importante è che siamo nel 621/620 e che Solone nel 594 conservò la parte relativa agli omicidi, che costituisce un notevole passo avanti verso l’affermazione del potere dello Stato. L’iniziativa dell’azione penale è in capo alla famiglia, ma è il legislatore che stabilisce tempi, modi e limiti della punizione. Distinguendo, poi, tra delitto volontario, preterintenzionale e giustificato si supera l’idea dell’oggettività della colpa e si prende in considerazione la soggettività del colpevole. Poco ci importa dunque se sia stato Draconte o meno; il punto importante è l’atteggiamento conservatore nella fondazione delle “colonie” greche. Il tutto per dire che la testimonianza di Aristotele mi sembra abbastanza attendibile.

Bibliografia e Fonti:
Platone, Le Leggi, BUR.

Aristotele, Politica, Laterza.

F. Cordano, Antiche Fondazioni Greche, Sellerio.

M. I. Finley, Colonies. An Attempt at a Typology, “Transaction of the Royal Historical Society”, 1976/26, pp. 166-188.

E. Lepore, La fioritura delle aristocrazie e la nascita della polis, “Storia e Civiltà dei Greci”, 1978/1, pp. 183-253.

E. Lepore, I Greci in Italia, “Storia della Società Italiana I. Dalla Preistoria all’Espansione di Roma”, 1981/1, pp. 213-268.

C. Mossé, La colonisation das l’antiquité, Paris, 1970.

D. Musti, L’economia in Grecia, Laterza.

C. Bearzot, Manuale di storia greca, Il Mulino.

L. Braccesi, F. Raviola, Guida allo studio della storia greca, Laterza.

D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Laterza.

 

Lo Sterco del Demonio: esiste un Capitalismo nel Medioevo?

La peculiarità del capitalismo consiste nel calcolo razionale del profitto e la sua genesi è legata al diffondersi di una nuova etica nata grazie al diffondersi del protestantesimo. Così concludeva Max Weber in uno dei suoi libri più famosi, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905). Oggi vorrei invitarvi a riflettere proprio sulla genesi del capitalismo per problematizzare (ed eventualmente approfondire) la tesi di fondo di Weber.

Quando nasce il capitalismo? Quando assistiamo alle prime forme embrionali di questo modo di produzione che ha così profondamente segnato la nostra stessa idea di lavoro, di economia, di modi e mezzi di produzione? Per rispondere a queste domande dobbiamo ripercorrere alcuni aspetti della storia economica e sociale del medioevo poiché le prime esperienze capitalistiche si incontrano proprio tra il Trecento e il Quattrocento.

Cominciamo con due premesse. (i) Con il termine capitalismo si intende un sistema economico in cui il capitale è di proprietà privata e, in questa accezione comune, diventa sinonimo di economia di libero mercato e di iniziativa privata. L’uso del termine in senso tecnico compare per la prima volta nel XVIII secolo e si basa sullo sviluppo della grande industria, del lavoro salariato, dell’uso in larga scala delle macchine. Abbiamo dunque a che fare con un sistema che ha come obiettivo il massimo profitto da reinvestire – in parte, nei mezzi di produzione – ossia un sistema in cui sono attestate operazioni economiche destinate ad ottenere ingenti guadagni a fronte di altrettanto ingenti rischi. In questa lettura il capitalismo risulterebbe vincolato alle dinamiche di rischio/rendimento cui va incontro un’attività economica.

(ii) A differenza di capitale, che nella pratica mercantile del basso medioevo indicava una somma di denaro in grado di produrre interessi, il termine capitalismo è come abbiamo visto abbastanza recente e risulta ovvio che non si possa parlare di capitalismo medievale nello stesso modo in cui si parla di capitalismo moderno. O, almeno, che non sia così scontato farlo.

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Esistono certamente delle differenze, ma molti storici ritengono non sia così anacronistico parlare di capitalismo medievale poiché danno una definizione di capitalismo che coincide con quella che abbiamo esposto al punto (i), svincolandola naturalmente dalle riflessioni di Marx. E in questo senso è abbastanza plausibile che le origini del capitalismo vadano proprio ricercate nel Medioevo, in particolare nei cambiamenti del tessuto sociale, culturale ed economico tra il Trecento e il Quattrocento (quella che secondo le categorie storiografiche sarebbe la fioritura commerciale del XIII secolo).

Capitalismo commerciale e capitalismo industriale. Bene, abbiamo risolto il problema delle origini ma ancora non abbiamo dati sufficienti per comprendere la specificità della vita economica di quell’epoca. Dobbiamo quindi introdurre due termini o, meglio, due aggettivi che ci permettono di distinguere i tipi di capitalismo in gioco nelle diverse epoche: da un lato abbiamo un capitalismo commerciale, dall’altro un capitalismo industriale. “Il capitalismo commerciale è un sistema economico in cui i mercanti-imprenditori controllano la produzione artigianale attraverso il controllo del lavoro a domicilio, disciplinandola fino ad adeguarla alle esigenze dei mercati più lontani. Per capitalismo industriale intendiamo invece un sistema in cui gli imprenditori non si limitano più a controllare la produzione, ma si preoccupano di riorganizzarla”, (Rinaldo Comba, Storia Medievale, Raffaello Cortina Editore, p. 279).

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Questa distinzione è essenziale per rispondere alla domanda che ci siamo posti. Per quanto riguarda l’economia del medioevo (XIII-XV secolo) nella maggior parte dei casi possiamo parlare di capitalismo commerciale evitando, in questo modo, di cedere alla tentazione di assolutizzare quelle isolate attestazioni di sviluppo industriale che caratterizzano la fine dell’età medievale. Ma ciò non significa che queste esperienze pur isolate non abbiano un significato. Sono infatti le prime sporadiche attestazioni di quel meccanismo di produzione che noi conosciamo molto bene; questa tesi è corroborabile analizzando le caratteristiche del capitalismo nel XV secolo. Sono essenzialmente quattro (le riporto come compaiono negli studi di Comba):

(1) la divisione del lavoro ha specializzato la produzione di molte regioni europee e ha portato le aree più deboli a gravitare attorno al cuore dell’economia europea: Italia Settentrionale, Fiandre e Germania meridionale. (2) Gli scambi internazionali si intensificano e sono controllati da cerchie strette di mercanti-imprenditori (e finanzieri) che operano nelle città situate nell’area centrale. (3) Il capitale commerciale ha esteso il suo controllo anche sul lavoro a domicilio che era rimasto per secoli un’attività di famiglia e autonoma, al massimo un mercato locale ristretto. (4) Il rapporto del capitale con l’artigianato ne rivela un limite non trascurabile: la produzione non ne viene trasformata ma solo dominata.

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I minatori europei e il lavoro salariato. Nell’Europa centrale degli ultimi decenni del Quattrocento avviene una trasformazione che può essere considerata l’alba del capitalismo industriale: i minatori diventano a tutti gli effetti lavoratori salariati. Come mai nelle miniere i mercanti-produttori iniziano a riorganizzare la produzione? Tra il XIII e il XIV secolo l’attività mineraria era stata organizzata da collettività di minatori che sfruttavano miniere non troppo profonde; quando si cominciò a scavare in profondità la collettività di minatori non era più in grado di sostenere le spese (la proprietà di queste miniere infatti era suddivisa in un certo numero di quote tra i minatori). Per farle funzionare occorreva una gran quantità di manodopera e una vera e propria divisione tra capitale e lavoro.

E questo è innegabilmente un tratto caratteristico del capitalismo moderno. La proprietà delle miniere venne divisa in quote o azioni (kuxe) i cui proprietari vivevano in città; queste trasformazioni si associarono a un vero e proprio boom economico che tra il 1460 e il 1530 portò la produzione delle miniere d’argento in Europa centrale a una crescita del 500% e quella delle miniere di ferro del 400%.

Ecco il primo esempio di quel capitalismo industriale tanto stigmatizzato dagli ambienti del socialismo utopistico intorno alla metà del Diciannovesimo Secolo, appunto per l’evidente esclusione dei lavoratori dalla proprietà del capitale. Ma se vogliamo una definizione abbastanza esaustiva di capitalismo dobbiamo attendere le critiche dei primi pensatori socialisti e Karl Marx: il capitalismo è un sistema economico caratterizzato da un’ampia accumulazione di capitale. Ma ciò non basta; abbiamo infatti una scissione tra proprietà privata e mezzi di produzione in modo che il lavoro venga ridotto a lavoro-salariato (poi sfruttato per ricavarne il massimo profitto). Ed è su questo aspetto che Marx insiste: è nota l’espressione modo di produzione capitalistico per indicare quel particolare sistema di relazioni sociali, insieme all’organizzazione del processo produttivo, che si basano proprio sullo sfruttamento della forza-lavoro salariata.

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Ciò posto, torniamo a noi. Abbiamo un’altra testimonianza del fatto che quello medievale fu un vero e proprio capitalismo industriale, benché sperimentato solo in alcune aree geografiche. Qual è? L’analisi degli effetti che si generarono sul piano sociale. Tra Trecento e Quattrocento vediamo crescere a dismisura le distanze tra ricchi e poveri. Un intero settore di attività produttive – come il setificio e le industrie del lusso – può prosperare grazie alla concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi agiati. Gli esempi di questo processo di polarizzazione sono numerosi, ma uno su tutti può rendere l’idea: nel 1427 a Firenze cento famiglie corrispondenti all’1% della popolazione urbana posseggono più di un quarto delle ricchezze della città. Le loro ricchezze erano oltre l’87% di quelle della cittadinanza intera insieme alle città di Pisa, Pistoia, Arezzo, Volterra, Prato e Cortona.

Per comprendere le ricadute sociali di questo fenomeno gli storici hanno mutuato dalla stria romana il termine patriziato (che non compare mai nelle fonti e nei testi medievali). Nobiltà e borghesia finanziaria e mercantile convergono dando vita al nuovo ceto egemonico del patriziato cittadino. Nasce una nuova classe politica oltre che sociale, che vive nei palazzi, dedita al lusso e alla vita dispendiosa.

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Arme della Famiglia Crociani, patrizi fiorentini (1350-1409), crediti: Raccolta Ceramelli Papiani.

Alla luce di quanto abbiamo detto fin qui, sarebbe interessante rileggere ciò che Max Weber (che non era un marxista) diceva a proposito del capitalismo, nel senso che se è vero che una delle sue peculiarità riposa nel calcolo razionale del profitto, la sua genesi non sembra solo legata all’affermazione al diffondersi di una nuova etica nata da correnti religiose protestanti. I meccanismi economici che si innescarono in Italia Settentrionale, Fiandre e Germania Meridionale sembrano dunque confermare che il Medioevo ha vissuto, in modo diverso quanto a importanza e intensità del fenomeno, almeno due forme di capitalismo distinte.

Esiste dunque una nuova etica connessa con la nascita della nuova classe dei minatori-salariati? Che rapporto c’è tra capitalismo ed economia, visto che Karl Polanyi sostiene con convinzione che nella società occidentale l’economia non possiede una specificità autonoma fino al XVIII secolo? Sulla base della documentazione storica in nostro possesso sembra che le esperienze capitalistiche siano nate a monte, prima della domanda sullo statuto dell’economia, ben prima della domanda sul nesso etica-capitalismo industriale.

Bibliografia:

Karl Marx, Il Capitale, UTET.

Karl Marx, Lavoro salariato e capitale, Rusconi.

Jacques Le Goff, Lo sterco del Diavolo. Il denaro nel Medioevo, Laterza.

Jacques Le Goff, Il Medioevo. Alle origini dell’identità europea, Laterza.

Max Weber, L’ etica protestante e lo spirito del capitalismo, BUR.

Geoffrey Ingham, Capitalismo, Einaudi.

La quaglia di Alcibiade: gli aneddoti falsificano la storia?

Ambizioso, sregolato, egocentrico. Non aveva rivali nell’arte retorica né in quella militare, ed era capace di disegni politici di ampio respiro per il bene della sua città. Siamo intorno al 420 a.C. e stiamo parlando del capo dei democratici estremisti che, pur di opporsi alla politica conciliatoria di Nicia (divenuto influente dopo la morte di Pericle) rifiutò l’alleanza con Sparta e si adoperò per una coalizione tra Atene, Argo e altri Peloponnesiaci nemici di Sparta.

Ma c’è di più. A quanto pare Alcibiade aveva abitudini abbastanza singolari ai nostri occhi; infatti era solito passeggiare in Atene con una quaglia sotto il braccio. A svelare gli aspetti più intimi della sua vita ci pensa Plutarco, uno storico, moralista e filosofo vissuto tra il I e il II secolo d.C.. La bibliografia su Plutarco è immensa, ed è impossibile renderne conto in questa sede.

Gli studi sul ruolo degli aneddoti tra storia e biografia ripercorrono le direttrici principali delle ricerche sulla sua figura: di solito si ricostruiscono le fonti da cui ha attinto e/o lo si studia come autore affrontando il problema dei rapporti tra i generi letterari (storia, biografia, romanzo) che sembrano intrecciarsi nelle Vite con l’obiettivo di costruire un’etica specifica, quella in voga nel II secolo d.C.. Per chi fosse interessato ad approfondire, per una rapida rassegna rinvio al volume citato al punto (1) delle Fonti.

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Oggi vorrei concentrarmi sull’uso degli aneddoti. Più in dettaglio, cos’è un aneddoto e che funzione ha? Cosa può ricavare uno storico dall’uso degli aneddoti nella narrazione? Leggendo le Vite Parallele di Plutarco ci troviamo di fronte a orpelli inutili, curiosità, falsificazioni che rischiano di screditare la figura dello storico? Forse per un lettore moderno questo potrebbe sembrare un problema di second’ordine nel senso che, avendo a che fare con numerose piattaforme, curiosità e aneddoti sono un strumento utilissimo per catalizzare l’attenzione del lettore/fruitore.

Se lasciamo sullo sfondo l’evidente anacronismo implicito nel paragone, ma molto utile per chiarirci le idee, possiamo comprendere che il caso di Plutarco è più complesso. Vorrei mostrare che nelle Vite l’uso degli aneddoti non è solo una strategia letteraria o comunicativa, ma fa parte del modo in cui Plutarco intende la storia. Leggendo la Vita di Alcibiade, in assoluto la più ricca di aneddoti, possiamo farci un’idea precisa del modo in cui lavora lo storico. I primi sedici paragrafi offrono una sequenza continua di storielle giustapposte, anche senza rispettare l’ordine cronologico. Gli aneddoti vengono richiamati in alcuni momenti della vita del protagonista, principalmente nella parte del racconto dedicata al periodo dell’infanzia (anche quando sono riferiti all’età adulta hanno sempre lo stesso scopo). Già questo sembra offrirci qualche suggerimento, poiché è un chiaro indizio dell’attenzione che l’autore riserva alle caratteristiche psicologiche degli uomini di cui ripercorre l’esistenza.

Ma a dimostrare che gli aneddoti sono parte integrante della ricostruzione storica (e certamente non sono falsificazioni o elementi fuorvianti) ci pensa la filologia. Benché in greco classico il termine anekdota non venga mai usato, compaiono altre espressioni (apopthegma, apomnemoneuma, chreia) che ne ricoprono in parte l’area semantica: Plutarco le usa come sinonimi ed è interessante notare che nessuno di questi termini rinvia ad un giudizio di valore sulla forma letteraria usata. Un bel colpo per chi vede in Plutarco solo un moralista o un biografo che cerca di impressionare il pubblico, eh?

È plausibile ritenere che Plutarco si serva degli aneddoti come carburanti della narrazione, svincolandoli da qualunque riflessione o meta-riflessione sui ruoli, obiettivi e valori del racconto storico. Produce in questo modo un effetto realtà senza precedenti, inserendo un evento quotidiano nel contesto storico più generale per rappresentare i comportamenti dell’uomo politico in età classica.

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L’unico ritratto certo di Alcibiade pervenutoci (mosaico pavimentale del III-IV secolo d.C., Sparta, Museo Archeologico). Immagine di pubblico dominio.

Resta scontato che gli effetti di queste strategie comunicative vanno ben oltre le intenzioni dell’autore. L’uso massiccio di aneddoti accresce il piacere della lettura, movimenta l’azione conferendole solo accidentalmente un significato morale (e questo depone a sfavore delle letture moraliste delle Vite):ho cercato di collezionare le notizie sfuggite alla maggioranza degli storici, e anche dagli altri riferite incidentalmente, oppure rintracciabili soltanto in antiche iscrizioni votive o in decreti. […] Senza affastellare per questo una documentazione inutile; essa offre anzi una conoscenza più precisa del carattere e del temperamento (ethos e tropos) del personaggio”, (Plutarco, Vita di Nicia, 1,5).

Con l’obiettivo di svelare caratteri e temperamenti, l’aneddoto diventa un istorema, è usato come la più piccola unità di un fatto storico evitando così di pronunciare apertamente un elogio o un biasimo. In questo modo si realizza un sapiente equilibrio tra storia e racconto in cui l’aneddoto non è ridotto a una testimonianza (storica) di seconda classe, ma svela quasi la natura e le cause motrici di alcuni avvenimenti, un po’ come Diogene Laerzio nelle Vite dei Filosofi usa gli aneddoti nella loro valenza morale per incastonarli nella storia della filosofia.

Ma se in filosofia gli aneddoti veicolano un contenuto concettuale facendo dei filosofi individui fuori dal tempo, veicoli di teorie soltanto, nelle Vite di Plutarco fanno parte a tutti gli effetti della cassetta degli attrezzi dello storico e riescono addirittura a calare i personaggi nella trama di usi e costumi in cui vivono, lasciando al lettore la possibilità di giudicare e di chiedersi quale sia il senso dell’anomalia nel complesso della narrazione.

Plutarco attinge da un materiale storico che non è lui ad inventare, e del quale è tributario in tutti gli ambiti, compresa la sfera della descrizione dei modi di vita e dei comportamenti. Quello che gli è peculiare è lo sguardo con cui osserva i suoi personaggi, la riflessione etica che ne ricava, e ovviamente il magistero della scrittura. Senza Plutarco, oggi noi forse non sapremmo che Alcibiade passeggiava in Atene con una quaglia sotto il braccio, e che per compiere un atto di generosità saliva di slancio alla tribuna dell’assemblea. Ma non è stato Plutarco a inventarsi questa storia di un giovane aristocratico ateniese così amato, bensì gli stessi greci coevi di Alcibiade. È quindi un discorso elaborato in età classica che permette allo storico dei nostri giorni di comprendere i diversi aspetti della seduzione greca, e più in generale il legame che intercorre tra costume e politica“, (Pauline Schmitt Pantel, cit., p.158).

Perché allora passeggiava in Atene con una quaglia sotto il braccio? Lascio a voi la lettura delle Vite Parallele.

Fonti:

(1) Pauline Schmitt Pantel, I migliori di Atene. La vita dei potenti nella Grecia Antica, Laterza, 2009.

(2) Plutarco, Vite Parallele vol. 3, UTET.

(3) Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, Laterza.

(4) Plutarco, Vite Parallele. Nicia-Crasso, BUR.

Questioni di genere e politica nell’Atene del V secolo

Negli ultimi tempi si è parlato molto di questioni di genere, gender e teorie del genere non più solo nell’ambito della storia del femminismo (penso ai dibattiti connessi al libro di Judith Butler in cui si sostiene che il il corpo sessuato non è un dato biologico ma una costruzione culturale), ma soprattutto pensando all’educazione e alla relazione con ciò che è altro da noi, diverso.

Ma cosa si intende con genere? Perché dovrebbero esserci questioni di genere? E in che modo i risultati delle scienze sociali possono aiutarci nella comprensione delle dinamiche culturali, civiche e politiche di un’epoca? Con genere si intende una categoria sociale che prende forma in uno specifico contesto storico e istituzionale, le cui conseguenze sul piano della formazione dell’identità e delle relazioni interpersonali non sono assolute ma sempre relative al periodo cui facciamo riferimento.

Lo scopo di ogni ricerca sul genere dovrebbe essere anche questo: isolare i modi in cui si concretizza l’identità individuale per capire in che misura essa interviene nella formazione dell’identità civica e sociale. Questo ci fa capire che il problema delle questioni di genere non può che essere un momento interno al modo in cui isoliamo il genere in un preciso contesto storico.

Oggi ci pare scontato dire che cosa sia “maschile” e cosa invece “femminile”, abbiamo compreso che genere si distingue da sesso e che l’identità di genere è qualcosa che riposa non solo nella nostra costituzione biologica, ma nei nostri costrutti mentali ed interpersonali, nel modo in cui la società ci accoglie, ci riconosce o ci discrimina. Nonostante ciò, esistono ancora molte difficoltà nell’accettare ciò che non si conforma alle nostre etichette, ciò che ordinariamente – o, peggio, secondo alcuni naturalmente – dovrebbe essere maschile e femminile.

Ed è su questo terreno che l’Atene del V secolo non smette di insegnarci qualcosa; laddove infatti la distinzione tra maschile e femminile si fa più sfumata ed è socialmente accettata nella sua natura polimorfica, essa può assumere ruoli e funzioni diverse sia nel tessuto civico della polis (la città) che in quello politico. La costruzione del genere è, a tutti gli effetti, la costruzione di un modo di fare e di vivere la politica. È l’anticamera della filosofia politica in età classica.

§1- Omosessualità ed educazione alla carriera politica

Se prendiamo come esempio Plutarco notiamo subito che nelle Vite di Nicia, Alcibiade, Aristide, Temistocle, Cimone e Pericle i temi connessi a questioni di genere sono moltissimi. E non riguardano solo i rapporti omosessuali, il ruolo dell’eterosessualità e del matrimonio nella costruzione dell’immagine civica dell’individuo, ma soprattutto la definizione di uomo in quanto animale politico (la definizione è di Aristotele).

Nella Vita di Aristide Plutarco ci racconta un episodio di rivalità amorosa che ha opposto il protagonista a Temistocle; questa forma di eros era accettata e considerata lecita come momento essenziale nella formazione non tanto del semplice cittadino quanto del politico. Sono indimenticabili le pagine del Simposio di Platone in cui il giovane Alcibiade racconta della sua passione amorosa per Socrate, del gioco tra amanti in cui Socrate non manca di sottrarsi per spingere il giovane alla contemplazione del vero bene. Il valore pedagogico del rapporto omosessuale che lega un giovane a un maestro più anziano è un tratto caratteristico della paideia (o educazione) greca.

La storia di Alcibiade è una storia di sconfitte e di dissipazioni, è il fallimento della ragione, incapace da sola di modellare una vita, la vita di un uomo straordinario la cui carriera sarebbe diventata leggendaria in Atene. Eros infatti non può che essere inteso come momento interno alla conoscenza, come educazione alla filosofia e tendenza verso il bene che dai bei corpi ci spinge ad abbandonare la sfera sensibile per il bello e il bene in sé. Questo è il messaggio di Platone. La scala amoris che nel Simposio Socrate riferisce di aver sentito da Diotima tende a disinnescare il legame tra l’eros e i corpi per farne solo il momento iniziale di un percorso che, in ultima analisi, è puramente conoscitivo.

Bisogna essere temperanti nella sfera erotica come nella sfera della vita sociale e politica: il legame tra seduzione erotica omosessuale e seduzione politica è un tema caro a Platone e a Plutarco e in entrambi è presente con lo stesso obiettivo. In Platone si tratta di pensare a un insieme di virtù utili nella vita buona e nella vita politica, in Plutarco lo stesso sistema di valori a volte serve come monito, per feroci invettive o giudizi più o meno espliciti sull’operato dei singoli all’interno delle istituzioni.

Le testimonianze antiche ricordate, ad esempio, negli studi di Pauline Schmitt Pantel sembrano mostrare che l’omosessualità in Grecia era un momento essenziale dell’esperienza sociale ed educativa dell’individuo, in quanto parte integrante della costruzione dell’identità del maschio, adulto, depositario dei diritti civici. Ora, cosa resta del matrimonio e delle relazioni eterosessuali?

§2- Eterosessualità ed ordine civico

Plutarco ci racconta che molti uomini illustri in Atene avevano un debole per le donne. Cimone, Temistocle, Alcibiade e Pericle. Le donne descritte appartengono a qualunque status sociale: sono libere, etère, prostitute e spose.

Le strategie matrimoniali erano spesso decise sulla base di considerazioni economiche e di alleanze politiche, ed esisteva una discreta libertà anche per le donne di risposarsi, sempre in accordo con i rispettivi tutori: alle donne era concesso divorziare e prendere nuovamente marito a patto che il kyrios (colui che esercitava l’autorità su di lei) pronunci l’engye e le dia una dote. Il matrimonio era infatti simbolo di ordine, era un istituto in grado di arginare i rischi derivanti dalla promiscuità, e permetteva di mettere al mondo figli legittimi ed era la base per la definizione di cittadinanza. Solo con il matrimonio la polis è potuta diventare un organismo politico, il che è facilmente intuibile se si tiene presente che sfera pubblica e privata non erano ancora nettamente distinte, dunque la vita pubblica da cittadino non doveva stridere con la vita privata e il ruolo di marito. Ma esisteva una forma di eros molto potente, consumata fuori dai vincoli del matrimonio e dalla sicurezza del focolare domestico.

L’amore come agapè, come attaccamento tra Pericle e Aspasia è solo in apparenza un elemento di disordine sociale e civico. Amica dei filosofi, dotata di eccezionale intelligenza, Aspasia di Mileto influenzò in modo determinante le scelte di Pericle (l’affare di Samo e il decreto di Megara, solo per citare gli esempi più noti) e molti ateniesi, compreso Socrate, la frequentavano per imparare le tecniche dell’oratoria e per parlare di filosofia.

Cosa possiamo concludere da questa rapida carrellata? Il genere o la teoria del genere nell’Atene del V secolo era una delle declinazioni possibili della (filosofia) politica. Le relazioni omosessuali, connesse con la definizione del maschile, hanno un ruolo pedagogico e politico determinante nel periodo classico. I rapporti eterossessuali all’interno del matrimonio hanno una funzione sociale rilevante nel mantenere l’ordine e la distribuzione delle ricchezze (spesso nei testamenti si suggerivano possibili pretendenti per le nubili al fine di conservare il più possibile il patrimonio di famiglia). Il femminile ha una collocazione determinante nell’equilibrio e nell’ordine sociale: laddove la donna è moglie, essa agisce nel contesto famigliare, laddove è amante (e l’elemento sessuale prende il sopravvento), essa può fare le veci del maschio sul piano dell’educazione politica. Il ruolo di moglie, di domina della famiglia e spesso degli interessi economici legati a proprietà e schiavi, automaticamente esclude la donna dal ruolo pedagogico in politica.

Aspasia, che educa i giovani come i sofisti, è al tempo stesso una straniera, una concubina, una etèra, una madre, una donna degna dell’amore di un uomo come Pericle appunto perché possiede la saggezza. E in quanto insegnante di retorica è perfettamente in grado di governare la città, è alla pari di qualunque uomo dotato delle medesime capacità. Qui ho tracciato solo una rapida panoramica su un argomento che meriterebbe un’analisi più approfondita. Alla luce degli esempi e della documentazione analizzata nei testi indicati in bibliografia, non posso fare altro che abbracciare la tesi di Pauline Schmitt Pantel: in Atene la costruzione di genere finisce sempre con l’avere a che fare con la politica, soprattutto quando i confini tra maschile e femminile si fanno più sfumati.

Bibliografia:

(1) Violaine Sebillotte Cuchet e Nathalie Ernoult, (cur.), Problèmes du genre en Grèce ancienne, Paris, 2007.

(2) Pauline Schmitt Pantel, Aithra et Pandora. Femmes, Genre et Cité dans la Grèce Classique, Paris, L’Harmattan, Bibliothèque du féminisme, 2009.

(3) Pauline Schmitt Pantel, I migliori di Atene. La vita dei potenti nella Grecia Antica, Laterza, 2009 ► http://amzn.to/2fgDkIa

(4) Werner Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, Bompiani, 2003 ► http://amzn.to/2dykBqO