Il Piano Solo

Il Piano Solo rappresenta uno dei capitoli più controversi dell’Italia Repubblicana, che ancora oggi è oggetto di dibattito e discussione sulla sua natura. Contestato e considerato da molti come un tentativo di golpe e giustificato da altri come un piano “anti-golpe”, la sua natura è stata valutata e scrutinata nel dettaglio da una commissione d’inchiesta parlamentare.

Elaborato durante la prima crisi di governo della IV legislatura, a pochi mesi dalla nascita del primo governo di centrosinistra dell’Italia repubblicana, il piano, mai messo in atto, prevedeva il monitoraggio e l’arresto di politici e sindacalisti, soprattutto in area di sinistra, in caso di grave crisi politica e sociale, ad opera dell’Arma dei Carabinieri.

Protagonista di primo piano dell’intera vicenda il generale, medaglia d’argento della resistenza e comandante dell’arma dei carabinieri, Giovanni De Lorenzo.

A distanza di oltre 60 anni dalla progettazione di quel piano segreto, oggi disponiamo di un gran numero di informazioni e documenti, preclusi a chi se ne occupò e ne parlò tra anni 60 e 70, in particolare noi oggi disponiamo dell’intera documentazione analizzata e prodotta dalla commissione commissione d’inchiesta parlamentare sugli eventi del giugno-luglio 1964 (“SIFAR”), documenti che per molto tempo sono stati classificati e solo di recente sono stati declassificati.

La mole di documenti prodotta dalla commissione d’inchiesta è qualcosa di immensa, solo per il Generale De Lorenzo, comandante nel 1964 dell’arma dei carabinieri, disponiamo di migliaia di pagine, tra cui i verbali integrali delle quattro audizioni tenne di fronte alla commissione, rispettivamente il 23, 27, e 30 maggio 1969. Nel complesso, la documentazione integrale, disponibile e consultabile on-line presso l’archivio della camera, comprende oltre 116 audizioni a funzionari dell’arma dei carabinieri, 131 resoconti sommari, e 201 documenti, per un totale di oltre 45.000 pagine, che ho avuto la malsana idea di recuperare. Inoltre sul portale della camera è disponibile la relazione, in due volumi (circa 2000 pagine compelssive).

Tra i documenti sono presenti anche le liste dei “sorvegliati” del SID, ovvero i soggetti sensibili, potenzialmente sovversivi, che l’intelligence aveva attenzionato ed era pronta a sorvegliare o arrestare in caso di crisi politica o sociale.

Col tempo avrò modo di leggere tutta la documentazione e produrre sempre più materiale a riguardo, per il momento voglio limitarmi ad un articolo che abbia le seguenti finalità, definire il Piano Solo, contestualizzarlo storicamente ed esporre le valutazioni finali della commissione d’inchiesta, poiché questa fu attiva fino al 15 dicembre 1970, un momento storico molto particolare, poiché successivo, di 7 giorni al “Golpe Borghese“.

Il contesto storico in cui venne sviluppato il Piano Solo

Il piano Solo venne pianificato presumibilmente nell’estate del 1964, indicativamente tra Giugno e Luglio, nel pieno di una crisi di governo. Da quel che sappiamo, a sollecitare la pianificazione del generale Giovanni de Lorenzo, fu l’allora capo dello stato Antonio Segni, o almeno questa è la narrazione comune, come vedremo, le cose sono più complesse di così.

Ci troviamo in un momento storico di grande fermento politico e soprattutto grande preoccupazione politica, poiché l’Italia in quegli stessi mesi stava sperimentando il primo governo di centro-sinistra dell’età repubblicana, nonché il primo governo di centro-sinistra dai tempi di Bonomi, risalente agli anni venti, appena prima dell’avvento del Fascismo e l’ascesa di Mussolini.

Fatta eccezione per l’assemblea costituente, erano passati più di 40 anni dall’ultima volta la sinistra in Italia era stata in area di governo e da allora il mondo, e soprattutto l’Italia, erano profondamente cambiati, non solo perché c’era stato il regime fascista e la seconda guerra mondiale di mezzo, ma anche e soprattutto perché ci trovavamo in piena guerra fredda e uno sbilanciamento dell’Italia, troppo a sinistra poteva risultare come un qualche avvicinamento all’Unione Sovietica e questo era considerato una possibile minaccia non solo in Italia e per l’Italia, ma anche per l’Europa e la NATO.

Nel dicembre del 1963 nasce il primo governo Moro, un governo di centro sinistra, sostenuto dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Socialista Italiano, personalità chiave di questo governo furono Aldo Moro (DC) in quanto presidente del consiglio e Pietro Nenni (PSI) in quanto vicepresidente. Oltre questi due partiti principali, la coalizione di governo contava anche rappresentanti del Partito Socialista Democratico Italiano e del Partito Repubblicano Italiano. Questa coalizione sarebbe rimasta al governo per tutta la legislazione, fino al 1968, con i tre governi Moro.

Tra il governo Moro I e Moro II cambiano pochissimi funzionari, o meglio, diversi funzionari del PSI cambiarono posizione, segno di una tensione interna al PSI e di riflesso nella Coalizione. Più nel dettaglio, Umberto delle Fave (DC) ai rapporti con il parlamento del governo Moro I lasciò il posto a Giovanni Battista Scaglia (DC) del governo Moro II, il ministro al Bilancio Antonio Giolitti (PSI) venne sostituito da Giovanni Pieraccini (PSI), il ministro ai lavori pubblici Giovanni Pieraccini (PSI) venne sostituito da Giacomo Mancini (PSI), il Ministro alla Sanità Giacomo Mancini (PSI) venne sostituito da Luigi Mariotti (PSI) e il ministro del Lavoro e Previdenza sociale Giacinto Bosco (DC) venne sostituito da Umberto delle Fave (DC).

Da quel che sappiamo, nel pieno della crisi di governo, il 15 luglio 1964, il Presidente della Repubblica Antonio Segni convocò al Quirinale il generale dello stato maggiore e comandante dei carabinieri Giovanni De Lorenzo, si trattò di un incontro ufficiale, non segreto ma a porte chiuse, la notizia della convocazione e dell’incontro venne data anche dai quotidiani e telegiornali dell’epoca.

In quel momento le tensioni all’interno del governo erano palpabili e indubbiamente c’era una forte preoccupazione istituzionale, come normale che sia nel pieno di una crisi di governo (anche se queste, nella prima repubblica erano molto più comuni e in realtà meno gravi di quanto non siano percepite oggi). Non c’è quindi da sorprendersi troppo se il capo dello stato, durante una crisi di governo, ha convocato ed incontrato diversi funzionari.

Uno di quei funzionari come già detto fu proprio il generale De Lorenzo e, in seguito avremmo scoperto, ricevette da Segni un incarico molto delicato, ovvero l’elaborazione di un piano d’emergenza per l’ordine pubblico, tale piano è oggi noto come Piano Solo, e avrebbe fatto dell’arma dei carabinieri l’esecutore e garante dell’ordine sociale in caso di grave crisi politica e sociale in Italia.

Il motivo per cui Segni si rivolse a De Lorenzo e l’arma dei carabinieri può avere diverse ragioni, sia strategiche che politiche, sul piano strategico, come apprendiamo dalle audizioni di De Lorenzo, è legato al regolamento dell’Arma dei carabinieri, inoltre, l’Arma gode di una diffusione capillare nel territorio italiano che non è seconda a nessun altro apparato militare o di polizia, di conseguenza può operare in situazioni d’emergenza con maggiore efficienza rispetto ad altri come esercito o polizia. Inoltre, pur essendo in quel momento un ramo dell’Esercito Italiano, i carabinieri dipendevano da due ministeri, quello dell’Interno e quello della Difesa, mentre il suo comandante, in questo caso specifico Giovanni de Lorenzo, rispondeva direttamente al Capo dello Stato. L’insieme di questi fattori rappresentava un elemento di primaria importanza nell’ottica in cui si fosse resa necessaria una mobilitazione totale in caso d’emergenza.

Il ruolo “esclusivo” e privilegiato dell’Arma dei carabinieri nel programma di mobilitazione generale, fu emblematico del nome con cui sarebbe diventato noto il Piano ovvero “Piano Solo” nel senso che il piano prevedeva l’intervento dei “soli” carabinieri.

Il 23 luglio 1964, a meno di 10 giorni dalla convocazione di De Lorenzo al Quirinale, Aldo Moro, Pietro Nenni e gli altri membri del secondo governo Moro II prestano, la crisi è rientrata e come abbiamo visto, fatta eccezione per alcuni cambi di posizione, il nuovo governo ha una composizione pressocché identica al precedente.

Appena un giorno prima del giuramento, il 22 luglio 1964, Pietro Nenni, ancora e nuovamente vicepresidente del consiglio, pubblica sull’avanti un proprio commento sulla crisi.

Le destre sapevano ciò che volevano e bisogna dire che sono state a un passo dall’ottenere ciò che volevano. Se il centro-sinistra avesse lanciato la spugna sul ring, il governo della Confindustria e della Confagricoltura era pronto per essere varato. Aveva un suo capo, anche se non è certo se sarebbe arrivato primo al traguardo senza essere sopravanzato da un qualche notabile democristiano. Aveva per sé la più vasta orchestrazione di stampa quotidiana e periodica che mai abbia operato in Italia. Aveva punti solidi di appoggio in ogni parte del Paese. Aveva un suo disegno strategico: la umiliazione del Parlamento dei partiti e delle organizzazioni sindacali a cui dava forza la minaccia, puramente tattica, delle elezioni immediate.

Pietro Nenni, L’Avanti, 22/07/1964

Lo scandalo del Piano Solo

Passata la crisi, nell’estate del 64, la mobilitazione prevista dal piano Solo non fu più necessaria, e l’esistenza stessa del Piano Solo rimase abbastanza segreta. Nota per lo più a funzionari istituzionali e vertici di governo e delle opposizioni. Sarebbe stata però rivelata all’Italia e agli italiani, in maniera estremamente fragorosa, nel maggio del 1967 quando, su L’Espresso, Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi pubblicarono alcuni documenti relativi al Piano Solo, tra cui anche alcune controverse dichiarazioni attribuite al generale De Lorenzo.

Come possiamo vedere, in copertina viene attribuita la seguente frase al generale De Lorenzo «Stiamo per vivere ore decisive. La nazione, tramite la più alta autorità, ha bisogno di noi. Dobbiamo tenerci pronti per gli obiettivi che ci verranno indicati».

Si tratta di parole forti e di impatto che esplosero in uno scandalo politico senza eguali, e il dibattito pubblico che ne conseguì, ebbe come effetto la rimozione quasi immediata di De Lorenzo dalla carica di Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, allo stesso tempo, il generale rispose alle accuse querelando per diffamazione i due giornalisti. Ne segue un lungo e tortuoso, molto controverso e complesso poiché, che nel frattempo è cambiato ancora ed ora siamo al governo Moro III, anche questo sostenuto dal PSI e con Pietro Nenni Vicepresidente, negò alla magistratura l’accesso alla documentazione necessaria per accertare e verificare le informazioni riportate da Scalfari e Jannuzzi, e senza possibilità di verificare tali documenti, il processo si concluse con una sentenza di colpevolezza per i due giornalisti.

All’epoca in molti si chiesero, e si chiedono tutt’ora, perché il governo Moro III negò alla magistratura l’accesso alla documentazione di quello che veniva dipinto come un piano di golpe che aveva nel mirino proprio il governo Moro e una parte delle forze politiche che lo sostenevano. La risposta a queste domande forse risiede nelle oltre 45.000 pagine di documenti dalla una commissione d’inchiesta, ma al momento risulta senza una risposta chiara.

Nel 1969, l’ex generale De Lorenzo, ora parlamentare, querelò altri due giornalisti, Gianni Corbi e Carlo Gregoretti, per articoli analoghi a quelli pubblicati da Scalfari e Jannuzzi nel 67, ma, a differenza dei loro predecessori loro vennero assolti con formula piena, pertanto, Scalfari e Jannuzzi fecero ricorso per richiedere la propria assoluzione. A questo punto sembra che il generale De Lorenzo decise di rimettere le querele, e le parti coinvolte accettarono la remissione.

Come dicevamo, nel frattempo De Lorenzo era passato dallo stato maggiore al parlamento, questo passaggio avviene nel 1968 con l’inizio della V legislatura, durante la quale De Lorenzo entrò in Parlamento tra le fila del Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica. De Lorenzo non rimane a lungo nel PDIUM e nel 1971 aderisce al Movimento Sociale Italiano, che in quel momento è presieduto da Augusto De Marsanich, politico attivo, quasi senza interruzioni fin dal 1929. Tra gli “ex fascisti” attivi nell’Italia repubblicana, fu uno dei promotori della linea moderata del MSI che portarono all’allontanamento di individui più radicali come Juno Valerio Borghese.

La commissione di inchiesta sul piano solo

La commissione d’inchiesta sul Piano Solo fu istituita il 15 aprile 1969 e rimase in attività fino al 15 dicembre 1970, ci troviamo agli inizi della V legislatura e in questo periodo l’Italia vide il susseguirsi di quattro governi, Rumor I, II, III e Colombo.

Come anticipato, la commissione acquisì un quantitativo enorme di documenti, testimonianze, e produsse una mole di documenti altrettanto imponente. Tra i primi ad essere ascoltati, ci fu il deputato Giovanni De Lorenzo, considerato l’attore principale del Piano Solo, a lui vengono dedicate 4 audizioni tenutesi il 23, 27 e 40 maggio 1969.

La prima audizione ebbe luogo il 23 maggio alle ore 09:20, fu presieduta dal deputato (ex senatore) e presidente della commissione Giuseppe Alessi, ed fu strutturata in sette gruppi di domande.

  • Il primo gruppo, come si legge nel verbale della seduta riguarda l’attività svolta dal generale dell’arma in materia di ordine pubblico, nel giugno-luglio 1964.
  • Il secondo gruppo di domande fu in riferimento al tema specifico della costituzione, dell’origine, della struttura e dell’impiego della Brigata meccanizzata dell’Arma dei carabinieri.
  • Il terzo gruppo fu in riferimento a quello che venne definito “piano solo”.
  • Il quarto gruppo fu in riferimento alle liste del SIFAR, alla loro trasmissione e alle misure prese o predisposte per l’eventuale esecuzione di provvedimenti in ordine a tali liste.
  • Il quinto gruppo di domande fu invece in riferimento alle situazioni dell’ordine pubblico nel giugno-luglio 1964.
  • Il sesto gruppo di domande fu in riferimento ad eventuali visite con il presidente della Repubblica.
  • Il settimo ed ultimo gruppo di domande invece, interessava i rapporti tra il generale e la loro natura, in quel periodo (estate 1964) con personalità politiche o partiti. Fu inoltre posta una domanda conclusiva circa l’installazione di dispositivi tecnologici al quirinale.

Dopo quasi 20 mesi di audizioni, dibattiti e valutazioni, la commissione d’inchiesta parlamentare, ha prodotto delle valutazioni finali che accertavano e testimoniavano l’esistenza del piano Solo e ne definivano la natura.

Per la commissione il Piano Solo esiste, o meglio, esisteva un piano segreto predisposto dal generale De Lorenzo, che prevedeva l’impiego esclusivo dell’arma dei carabinieri in situazioni di emergenza politica o sociale. Tale piano era nato in risposta all’eventualità di scioperi generali, manifestazioni di massa o altre forme di agitazione ritenute “destabilizzanti” per l’ordine pubblico.

Il piano, una volta esposto nella sua interezza, emerse agli occhi della commissione d’inchiesta come uno strumento preventivo, per garantire il mantenimento dell’ordine pubblico in scenari di grave tensione sociale o politica e non sembra esserci alcun fine eversivo o sovversivo, né sembra esserci l’intenzione nel rovesciare il governo o di instaurare un regime autoritario.

Quanto al ruolo del generale De Lorenzo, la commissione ha individuato nel generale Giovanni De Lorenzo il principale artefice del Piano Solo. Inoltre, il piano venne elaborato nel merito delle funzioni istituzionali del comandante dei Carabinieri, pertanto, non emersero responsabilità penali direttamente imputabili al generale.

Stando a ciò che emerge dalla commissione, oltre al capo dello stato e i vertici militari coinvolti, sembra che anche diverse figure politiche, membri del governo e delle opposizioni, nell’estate del 64, furono messe a conoscenza del Piano

Durante le indagini sembrerebbe essere emerso anche un forte coinvolgimento del SID (Servizio Informazioni Difesa) di cui lo stesso De Lorenzo è stato direttore tra il 55 ed il 62. Il coinvolgimento dei servizi segreti militari sembra sia stato determinante nella raccolta di informazioni e nella redazione di elenchi contenenti persone considerate potenzialmente pericolose per l’ordine pubblico. Questi individui sarebbero stati posti sotto controllo o fermate in caso di attuazione del piano.

Sebbene il Piano Solo non avesse ufficialmente un “colore politico”, i documenti esaminati dalla commissione, in particolare gli elenchi redatti dal SID, sembrano contenere principalmente cittadini legati alle sinistre, ai sindacati e ad altre organizzazioni politiche o sociali, che, in caso di attuazione, sarebbero stati oggetto di misure restrittive.

Gli elenchi oggi sono stati declassificati, pertanto sono pubblici e consultabili presso l’archivio della camera e molti di essi sono disponibili in forma digitale, per scaricarli è sufficiente fare richiesta con lo SPID.

Conclusioni

Nell’estate del 64, durante la crisi del primo governo Moro, il generale Giovanni De Lorenzo, su sollecitazione del presidente Segni, produsse un piano teorico da attuare in caso di gravi disordini sociali e politici, una sorta di piano d’emergenza anti-golpe, che prevedeva monitoraggio ed arresto di diverse centinaia di soggetti attenzionati dal servizio di sicurezza militare. L’intera operazione sarebbe stata gestita, se necessario, in maniera esclusiva dall’Arma dei Carabinieri. Di questo piano segreto furono messi al corrente vertici politici, militari ed esponenti di governo ed opposizioni.

Anni dopo, una commissione d’inchiesta ha analizzato e valutato il piano segreto, ritenendo che non fosse un piano di matrice sovversiva, e che anzi, si trattava di un piano d’emergenza, per far fronte ad un ipotetica crisi politica, sociale o golpe.

Situazione che in realtà si sarebbe verificata, qualche anno più tardi, nella notte tra il 7 e 8 dicembre del 1970, appena una settimana prima che la commissione terminasse i propri lavori, quando l’ex comandante della X Mas, e criminale di guerra Juno Valerio Borghese, tentò un vero e proprio colpo di stato, occupando RAI, Ministeri e diversi obbiettivi strategici, per poi ritirarsi poche ore dopo, quasi senza un apparente ragione, creando un casuale intreccio tra due eventi molto particolari e controversi.

La conquista dell’Italia Meridionale |Miti Neoborbonici

Con l’unità d’italia, non c’è stata una conquista, anzi, le masse contadine dell’italia meridionale hanno scelto volontariamente di seguire Garibaldi e rovesciare la corona borbonica delle due sicilie.

L’italia non è stata unificata, ma, è stata conquistata dai piemontesi, interessati soltanto all’oro di Napoli per coprire i propri debiti. Ma è davvero questa la verità? Il piccolo e indebitato regno di Piemonte e Sardegna è davvero riuscito a conquistare il grande, ricco e prospero Regno delle due Sicilie? O forse c’è qualcosa che i “Neoborbonici” non raccontano?

Ne parliamo in questo episodio della nuova serie su Youtube, Miti Neoborbonici , ma non preoccupatevi, perché qualche informazione ve la metterò anche per iscritto in questo articolo.

Partiamo dall’Inizio, partiamo dal Regno delle Due Sicilie, quel regno che, secondo la narrativa neoborbonica era, nel XIX secolo un moderno e ricco regno italico, le cui casse erano traboccanti d’oro e vi era tanta ricchezza e tanto benessere da fare invidia a tutto il resto d’italia, ma soprattutto, da poter acquistare e liquidare l’enorme debito pubblico piemontese, e dunque “unificare l’italia” senza spargimento alcuno di sangue.

Questa narrazione molto romantica parte dal volume d’oro effettivamente presente nelle casse delle Banche di Napoli e Palermo, si parla del 65/70 % circa dell’oro che sarebbe confluito nelle casse della banca d’italia dopo l’unificazione. Nel 1861, dopo l’unificazione, 213 tonnellate ca. in lingotti d’oro, su 330 tonnellate ca. che secondo l’archivio storico della Banca d’Italia, erano presenti nelle casse della banca, presentavano il marchio del Regno delle due Sicilie ed il restante 35/30 % presentava il marchio degli altri banchi, tra cui quello del regno di Piemonte, confluiti nella nascente banca d’Italia.

L’oro di Napoli però, non era un reale indicatore di ricchezza, e anzi, era solo un deposito stantio che, stando ai registri del banco di Napoli, non aveva subito quasi alcun tipo di variazione dai tempi della corona Spagnola. L’oro di Napoli era oro dell’Ex corona spagnola che che si trovava a napoli e palermo prima della nascita del regno delle due Sicilie, e che dopo, aveva semplicemente fatto da garanzia per i prestiti volti a coprire principalmente le spese della casa reale.

Napoli prima dell’unificazione Italiana era una città enorme, una delle più grandi città al mondo, per numero di abitanti seconda in europa soltanto a Londra e Parigi, ma, questa grande presenza di uomini a napoli, non era sinonimo di una città florida, in crescita ed espansione economica, e questo perché il regno delle due sicilie non investiva in infrastrutture, non investiva in ammodernamenti, non rinnovava le opere pubbliche e non spingeva verso la rivoluzione industriale, a napoli, la corona si preoccupava soltanto di avere i granai pieni, così da dare il pane al popolo, perché nella visione estremamente feudale del regno delle de sicilie, se il popolo aveva il pane, il popolo non insorgeva e tanto bastava ai regnanti per non avere problemi.

Il regno delle due sicilie, prima dell’unificazione italiana, aveva tanto oro, ma non era ricco, era invece estremamente povero e fuori dalle città, dove per città si intende Napoli, Palermo e pochissimi altri centri urbani, c’era il nulla più assoluto, tutta la terra, tutte le terre erano nelle mani di pochi aristocratici che vivevano nel lusso in Città, mentre le campagne erano popolate da contadini analfabeti e totalmente ignari di ciò che accadeva nel mondo esterno. Vi era il grande latifondo e vi erano i “coloni” poco più che antichi servi della gleba, uomini che coltivavano una terra che non era loro, seguendo il ritmo del sole e delle stagioni, uomini che passavano la vita nei campi e donne che passavano la vita nei cortili ad allevare il bestiame, e cercare il modo di conservare il più a lungo possibile i prodotti della terra, i pochi prodotti che rimanevano alla famiglia una volta che i proprietari, lo stato e la chiesa, avevano riscosso la propria fetta.

Quando in queste campagne, passa Garibaldi, seguito non da soldati ma da uomini e volontari, quando arriva in quelle terre un uomo che promette al popolo che la terra che coltivano sarebbe diventata loro se avessero seguito la causa dell’unificazione, questi contadini si ritrovano a dover scegliere tra la povertà più assoluta in cui avevano sempre vissuto, e la possibilità di vivere in condizioni decisamente più agiate o comunque, di non soffrire più la fame, e non hanno dubbi, la maggior parte dei coloni, dei contadini, dei pescatori, le “masse popolari” che dimoravano nelle campagne e sulle coste, si uniscono a Garibaldi e accrescono le fila dei Mille.

Mentre Garibaldi avanzava con il favore delle masse contadine, l’aristocrazia e le proprie milizie mercenarie provarono a resistere, senza troppi successi, ma, il loro rango, una volta unificata l’italia, fu preservato e quelle terre che Garibaldi aveva sottratto ai signori locali, vennero affidate dalla corona italica, ai vecchi signori affinché questi, nel nome del re, amministrassero quei territori.

Chi aveva seguito Garibaldi e aveva combattuto per quelle terre che erano tornate ai vecchi padroni si sentì tradito e la risposta a questo tradimento si divise in due grandi fenomeni.

Da una parte alcuni contadini si organizzarono in milizie private, scontrandosi con gli aristocratici, diventando così briganti, gruppi esterni allo stato che controllavano in maniera ufficiosa le terre, la cui evoluzione nel novecento avrebbe dato vita alle cosche mafiose, dall’altra parte, molti gli uomini del mezzogiorno d’italia, cavalcarono l’onda del dissenso ed utilizzarono la forte insoddisfazione popolare per iniziare e rafforzare la propria carriera politica.

Nel nome della promessa infranta e del popolo, molti uomini del mezzogiorno, più densamente popolato del settentrione in quegli anni, grazie al voto dei contadini e l’appoggio dei briganti, riuscirono ad ottenere abbastanza voti da poter entrare a far parte del neonato parlamento del regno d’Italia, e se si guarda ai membri del parlamento italiano nei primi anni di storia unitaria, prima della costituzione delle regioni che quindi distribuiva in maniera più “uniforme” il numero dei parlamentari su tutta la penisola, si può osservare che, la maggior parte degli eletti al parlamento italiano, erano meridionali, ma questa è un altra storia.

Come abbiamo visto, con l’unità d’italia, non c’è stata una conquista, anzi, le masse contadine dell’italia meridionale hanno scelto volontariamente di seguire Garibaldi e rovesciare la corona, de facto, producendo una sorta di rivoluzione contadina, volta a rinnovare la classe dirigente del mezzogiorno che, per ragioni politiche, non si è compiuta.

Mussolini, Giù le mani dalla storia!

Il nipote di Mussolini parla di storia, ma forse confonde la storia con la fiaba della buona notte in cui il suo antenato non era uno dei criminali più disonorevoli della storia d’italia.

Scusami se oggi parlo di politica ed attualità su una blog di storia, ma è la storia stessa che mi impone di esprimermi a riguardo, perché nell’immagine che vedete si fa riferimento alla storia, ed è un qualcosa che da storico non accetto.

Da storico mi fa ribrezzo una tale strumentalizzazione politica della storia e sempre da storico, mi sento violato, offeso e in questa immagine, vedo buttare al casso il lavoro di storici che per decenni hanno cercato di ricostruire con efficacia e razionalismo, cosa è realmente successo nel ventennio, con tutte le enormi difficoltà del caso e al di la delle proprie opini personali.

Da “storico“, trovo aberrante questa strumentalizzazione della storia che propone il ricordo di un passato falsato e distorto, di una storia imposta dall’alto e non per amor di conoscenza, ma per interesse politico, una storia che viaggia a senso unico, senza competenza, senza alcuna forma di comparazione delle fonti, senza indagini approfondite, senza contestualizzazione, senza storia.

Una narrazione storica falsata che parte da un opinione personale e attorno ad essa rielabora gli avvenimenti del passato, un opinione per cui, Mussolini è passato dall’aver fatto “anche” cose buone, (osservazione opinabile ma non del tutto errata) che col tempo è evoluta ed invertito il trend. Mussolini negli ultimi anni non è più stato il dittatore che nell’ampiezza del proprio regime, compì anche cose buone, ma è diventato un uomo giusto e buono, che nella sua lunga carriera politica, ha commesso qualche errore, e tutti successivi all’alleanza con la Germania, insomma, oggi, l’idea sempre più diffusa è che Mussolini abbia fatto “solo” cose buone.

E se “ha fatto anche cose buone” era un osservazione opinabile, la nuova chiave interpretativa, è semplicemente disgustosa.

Questo post si intitola “Già le mani dalla storia” anche se inizialmente pensavo di chiamarlo “Tenete la Storia fuori dalla politica“, perché la storia, la nostra storia non è una componente politica e non appartiene all’una o all’altra corrente di pensiero, all’una o all’altra fazione, ma è di tutti, vincitori e vinti, giusti e malvagi, vittime e carnefici e in questo caso specifico, possiamo dire, con coscienza storica che la storia richiamata dal nipote del dittatore è tutt’altro che dalla loro parte, e farebbe meglio pensarci due volte prima di richiamare un passato di cui il nostro paese dovrebbe vergognarsi ma di cui, a quanto pare, ultimamente va sempre più fiero.

Il futuro verso cui viaggiamo, verso cui viaggia l’umanità non ha spazio per gli spettri di un passato burrascoso, barbarico ed incivile, in cui non esistevano libertà ne diritti, ma solo doveri, e la storia ci insegna, attraverso i propri corsi e ricorsi, che chiunque abbia provato a cancellare i diritti altrui, prima o poi è stato sopraffatto. Da Giulio Cesare a Benito Mussolini, passando per Oliver Cromwell e Napoleone, e non escludendo ovviamente il regime Sovietico, quello Maoista e quello Castrista, o le innumerevoli giunte militati che nel corso dell’ultimo secolo hanno preso il potere in america Latina e Africa o i vari imperi coloniali.
Aggiungo inoltre che il tempo inasprisce i sentimenti di chi è stato privato dei propri diritti e generalmente più questo tempo aumenta, più brutale e violenta stata la sopraffazione degli oppressori da parte degli oppressi, vedi la sorte di dello stesso Mussolini o più recentemente Gheddafi.

Reputo del tutto irrazionale che un uomo, candidato in un partito improntato sulla staticità e che cerca di contrastare la storia, osi parlare di “storia” e si riempia la bocca di parole e frasi assurde sul fascismo e sul proprio antenato, dicendo allo stesso tempo di non avere idee vicine a quelle del proprio avo, ma allo stesso tempo, difendendolo e dicendo di “aprire un libro di storia”, a chi osserva che quel regime totalmente nelle mani di Mussolini, compì crimini immani in tutto il proprio corso e al di fuori dell’alleanza con la Germania.

Personalmente mi reputo una persona che i libri di storia, non si è limitata ad aprirli, ma li ha studiati, sviscerati, analizzati fino al midollo, e non ho dubbi su chi abbia e chi non abbia mai aperto un libro di storia tra chi critica e chi difende il regime fascista e nel caso ci fossero dubbi a riguardo, chi difende il fascismo, evidentemente non ha idea di cosa sia stato il fascismo in italia.

Dire che Mussolini fece anche cose buone, è opinabile, ma accettabile, perché è assolutamente vero. In vent’anni di governo qualcosa di buono l’ha effettivamente fatto, è una questione puramente statistica, nella maggior parte dei casi, queste cose buone furono il frutto di continuità con il passato e il proseguimento di politiche “positive” che precedono (in alcuni casi di qualche decennio) l’avvento del fascismo, in altri casi, furono operazioni originali e proprie del governo fascista, ma nel computo generale di positivo e negativo, dubito che aver bonificato qualche palude, edificato qualche casa popolare e completato parte dell’infrastruttura ferroviaria, possa essere solo minimamente sufficiente a giustificare o rendere tollerabili gli immani crimini compiuti dal regime, i quali, per portata e varietà, va precisato, furono nettamente superiori alle “cose positive”. E se da un lato dire che Mussolini fece anche cose buone è opinabile, ma nel complesso generale vero, negare i suoi crimini e dire che il suo unico errore fu l’alleanza con Hitler, è frutto o di malafede o ignoranza, in entrambi i casi però, significa mentire spudoratamente.

Evidentemente i pestaggi, gli eccidi, i massacri, i brogli, la corruzione, la speculazione edilizia, i sequestri di persona e gli omicidi, compiuti dalle squadre fasciste nei primissimi anni dell’esperienza fascista, e fino almeno al 1929, per chi ha determinate idee, sono probabilmente atti dovuti, sono dei valori, dei pregi, sono un qualcosa di positivo di cui andare fieri, del resto, tutto questo è avvenuto non solo prima dell’alleanza con Hitler, ma addirittura prima dell’apparizione stessa di Hitler sulla scena politica tedesca. Insomma, di cose discutibili il Fascismo ne ha fatte ben prima dell’alleanza con Hitler. Non parliamo poi degli arresti, dei pestaggi e degli omicidi politici, che colpirono esclusivamente chi aveva un opinione o idea diversa da quella unica imposta dal regime, e stendiamo un velo pietoso sul modo in cui l’italia trattò gli indigeni nei propri possedimenti coloniali, perché non voglio aprire la questione sui crimini di guerra, i linciaggi, la riduzione in schiavitù e la compravendita di esseri umani, per decenni negati non solo dal regime, ma anche di illustri figure della stampa italiana negli anni della repubblica (ogni riferimento a Montanelli è puramente voluto). Restando quindi all’Italia e fingendo che le colonie non esistono e che quindi i crimini compiuti nelle colonie sono solo un invenzione degli storici. Ricordiamo che, in Italia, durante gli anni del regime fascista, per godere dei pochi diritti rimasti, essere italiani era una condizione necessaria ma non sufficiente, e se non sie era iscritti al Partito Nazionale Fascista, essere “cittadini italiani” era solo una formalità retorica, ma serviva a ben poco, di fatto, chi non era iscritto al partito, era come se non fosse un cittadino, o peggio, era un cittadino di serie B, al quale erano negati assistenza sociale, diritti civili e lavoro. Da questo punto di vista fa sorridere che nei suoi discorsi pubblici, Mussolini stesso ripetesse più volte “italiani”, riferendosi però, non a tutti gli italiani, ma solo a quelli tesserati.

Se oggi alcuni leader di partiti che in un modo o nell’altro sono eredi del partito fascista, ritengono opportuno e lecito dichiarare pubblicamente che “il pensiero unico ci impone di ascoltare tutti” facendolo passare quasi come un qualcosa di negativo, di vergognoso e assolutamente “antidemocratico”, è forse solo un eredità di quegli anni in cui, il partito fascista si era sostituito allo stato, ed aveva il potere di decidere arbitrariamente chi potesse e chi non potesse godere dei pochi diritti costituzionali ancora esistenti.

Mi permetto di aggiungere un ultima riflessione personale, a mio avviso, da storico ed osservatore attivo del mio tempo, il pensiero unico non è quello internazionalista e in un certo senso sancito dalla nostra stessa costituzione, costituzione che ricordiamo, parla di diritti universali per tutti (e sottolineo tutti) i cittadini, senza distinzione di sesso, etnia, origini, religione o pensiero politico. Il pensiero unico è, a mio avviso, quello di chi censura, denigra, minaccia, zittisce ed uccide chiunque la pensi diversamente, e questo, oltre ad essere in aperta violazione di uno dei principi fondamentali della nostra costituzione, è anche e soprattutto antistorico e non accetto che, fautori del pensiero unico, nostalgici di un tempo in cui in italia non esisteva alcuna forma di libertà, si permettano di distorcere la realtà storica, per le proprie finalità politiche. Di fatto, sparando cazzate senza ritegno, ne rispetto per la storia.

Legge Acerbo | Tutto quello che devi sapere sulla legge Acerbo

La legge Acerbo del La legge Acerbo (18 dicembre 1923) assegnava un premio di maggioranza del 60% al primo partito italiano, ecco come si è giunti a questa legge elettorale.

La legge Acerbo (legge 18 dicembre 1923, n. 2444), dal nome dell’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giacomo Acerbo, è stata una legge elettorale del regno d’Italia, ed aveva il compito di garantire al paese (Italia), quello che oggi definiremmo un governo stabile, assegnando quindi una maggioranza parlamentare al primo partito italiano, per numero di voti ottenuti alle elezioni.

La Legge Acerbo, così come tutte le leggi del regno d’italia, precedenti l’avvento del fascismo, segue un preciso iter burocratico e parlamentare, che va dalla presentazione del Disegno di Legge, avvenuta per mano di Giacomo Acerbo, allora sottosegretario alla presidenza del consiglio, al consiglio dei ministri che la approvò il 4 giugno 1923, successivamente, il 9 giugno venne presa in carica dalla camera e sottoposta alla verifica di una commissione parlamentare, che da prassi era nominata dal presidente della Camera, all’epoca Enrico de Nicola, futuro presidente dell’assemblea costituente e successivamente presidente provvisorio della repubblica.

La commissione parlamentare che ha lavorato alla legge acerbo

La commissione parlamentare che lavorò alla realizzazione della Legge Acerbo, nota come commissione dei diciotto, era costituita da diciotto parlamentari, selezionati in base al principio di rappresentanza dei gruppi, questo significa che vennero inseriti nella commissione un certo numero di parlamentari per ogni gruppo/partito presente in parlamento, proporzionale al numero di seggi totali di cui ogni partito disponeva e il partito con meno seggi in parlamento ottenne un solo rappresentante in commissione.
A presiedere la commissione fu Giovanni Giolitti, in rappresentanza della lista dei Blocchi Nazionali (futuro Partito Nazionale Fascista), con cui Giolitti era stato eletto in parlamento, e in quel momento era il principale partito di governo poiché la carica di capo del governo era stata assegnata a Benito Mussolini che aveva assunto il controllo dei Blocchi Nazionali.

Giovanni Giolitti era stato in passato una figura centrale nella politica italiana, ricoprendo la carica di capo del governo per quasi vent’anni e la sua influenza fu tale che quel periodo avrebbe preso il nome di “età giolittiana”. Se vuoi approfondire l’argomento, ho dedicato un video video all’età giolittiana.

Altri membri di rilievo della commissione acerbo furono, gli ex primi ministri, Vittorio Emanuele Orlando, Antonio Salandra e Ivonne Bonomi, va inoltre segnalata la presenza in commissione di un relativamente giovane Alcide de Gasperi, all’epoca quarantenne, che, insieme ad Enrico De Nicola, avrebbe rappresentato il volto della prima repubblica, diventando nel 1945 il primo presidente del consiglio dell’italia repubblicana.

Una volta ottenuta l’approvazione della camera e passata al voto del senato, la “legge” Acerbo divenne effettivamente legge il 18 dicembre 1923. La legge n.2444 del 18 novembre 1923 è universalmente nota come Legge Acerbo e come è facile intuire, prende il nome dal proprio ideatore originale, l’allora sottosegretario alla presidenza del consiglio Giacomo Acerbo della lista dei Blocchi Nazionali.

Cosa prevede la legge Acerbo?

Questa legge prevedeva l’adozione del sistema maggioritario plurinominale all’interno di un collegio unico nazionale. Detto più semplicemente, questo significa che con la legge acerbo, il parlamento italiano era eletto su base nazionale ed i seggi parlamentari erano assegnati in proporzione ai voti totali ottenuti dalle varie liste su scala nazionale.

Ogni lista poteva presentare (al massimo) un numero di candidati pari ai due terzi dei seggi totali del parlamento, questo perché inizialmente il premio di maggioranza era fissato ai 2/3 del parlamento e successivamente, durante le operazioni di revisione della commissione, questo numero fu ridotto dal 66% (due terzi del parlamento) al 60%, rimase però invariato il numero di parlamentari che potevano essere inseriti nelle liste. Il restante 40% del parlamento, secondo questa legge elettorale, stato distribuito, in maniera proporzionale, tra tutti i restanti partiti eletti. Questo però significa anche che, indipendentemente dall’effettivo risultato elettorale, la ripartizione dei seggi parlamentari dipendeva esclusivamente dal premio di maggioranza riconosciuto alla lista vincitrice.

Detto il più semplicemente possibile, alla lista che alle elezioni avesse ottenuto più voti, e con più voti si intendeva anche un solo voto in più rispetto alla seconda lista, ed avesse superato un margine di sbarramento posto al 25% dei voti totali, sarebbero stati assegnati, grazie alla suddetta legge, il 60% dei seggi totali del Parlamento italiano, mentre il restante 40% sarebbe stato distribuito, in maniera proporzionale tra tutte le altre liste e che possiamo identificare con i principali partiti politici dell’epoca.

In questo modo, anche nel caso estremo in cui tutte le forze di minoranza si fossero alleate tra di loro, nel tentativo di ostacolare l’operato del governo, questi non avrebbero avuto abbastanza voti a disposizione, per poter impedire al governo di lavorare, poiché il governo era rappresentanza del primo partito e questi, in ogni caso, poteva contare sul 60% del parlamento.

Va precisato che, negli anni immediatamente precedenti alla Legge Acerbo, il sistema partitico del regno d’italia era leggermente diverso da quello che siamo abituati a conoscere oggi, e allo stesso tempo era profondamente diverso dal sistema partitico ottocentesco in cui, i singoli parlamentari erano eletti direttamente in parlamento, su base locale e regionale, senza passare per liste o partiti, ed soltanto successivamente, una volta prestato giuramento al regno di italia e preso posto in parlamento, questi si organizzavano in gruppi politici. Per farla breve, nei primi anni ’20 le modalità con cui si costituiva il parlamento, erano una sorta di via di mezzo tra il vecchio sistema ottocentesco e quello odierno.

Conclusioni

Qualche breve considerazione finale e in un certo senso personale, anche se in misure diverse, tutti i partiti presenti in parlamento nel 1923 contribuirono a realizzare questa legge elettorale, di fatto ci fu relativamente poca, pochissima, opposizione e la legge proposta dai Blocchi Nazionali subì pochissime modifiche durante i vari passaggi in commissione. Questo significa che se da una parte è assolutamente vero che questa legge consegnò definitivamente il paese italia nelle mani di Benito Mussolini e del fascismo, perché i Blocchi Nazionali furono identificati come gli ideatori reali di questa legge che avrebbe dato stabilità al paese, va sottolineato e non va assolutamente dimenticato che la responsabilità finale, dell’approvazione della legge, e delle sue conseguenze, fu di tutte le forze politiche che diedero la propria approvazione alla realizzazione di una legge elettorale che de facto assegnava il 60% del parlamento ad un singolo partito, rendendo assolutamente irrilevanti le opposizioni.

Fonti e libri per approfondire

Portale Storico della Camera dei deputati della repubblica – sistema premio di maggioranza 1924
E.Gentile, Fascismo. Storia e interpretazioneE.Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925)
E.Gentile, Il fascismo in tre capitoli
R.De Felice, Le Interpretazioni del Fascismo
R.De Felice, Intervista sul Fascismo
R.De Felice, Breve Storia del Fascismo
B.Mussolini, Dottrina del fascissmo

Quel giorno d’aprile in cui l’italia aspettava i propri figli, partiti come soldati e non ancora tornati | Storia Leggera

Il 25 Aprile, il giorno della celebrazione della liberazione, l’autentica pasqua laica della tradizione della nuova repubblicana e antifascista.

Qualche giorno fa, mentre sceglievo la canzone da cui partire per questo articolo, una cara amica ha pubblicato su Instagram la foto di un glicine in fiore e vedendo quella foto mi è venuta in mente una canzone che adoro e che è perfetta per questa rubrica, soprattutto in questo periodo dell’anno e quindi voglio ringraziare questa cara amica per aver involontariamente influenzato la scelta di questa canzone.
La canzone che ho scelto è “quel giorno d’aprile” contenuta nell’album L’ultima Thule di Francesco Guccini e ci racconta proprio quel giorno d’aprile del 1945, quel giorno d’aprile che ha segnato in un certo senso l’inizio della fine della guerra civile italiana, iniziata in seguito all’armistizio del settembre 1943, e che ha rappresenta uno dei passaggi più forti, dolorosi e importanti della recente storia italiana. Quel giorno ci viene raccontato attraverso gli occhi di un bambino e la canzone attinge ai ricordi di infanzia dello stesso autore accompagnandoci in un viaggio lungo tutta la storia italiana, un po come il film Forrest Gump ci ha raccontato quarant’anni di storia americana attraverso gli occhi e la vita del protagonista.

Quel 25 aprile, il futuro presidente della repubblica Sandro Pertini, che nel 1943 insieme a Pietro Nenni e Lelio Basso aveva contribuito a riportare il socialismo in Italia con la costituzione del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, partecipò attivamente agli eventi e alle manifestazioni che di li a poco avrebbero portato alla liberazione dell’Italia dall’occupazione nazifascista.

«Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire.»

Proclama dello sciopero generale, Sandro Pertini, Milano, 25 aprile 1945.

All’epoca Pertini, insieme a Luigi Longo, Emilio Sereni e Leo Valiani, presiedeva il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia(CLNAI) la cui sede si trovava a Milano e proprio a Milano e da Milano, quel 25 aprile, fu organizzata e annunciata l’insurrezione generale che avrebbe portato alla liberazione del paese.

In realtà la liberazione su larga scala era già cominciata da qualche tempo, la ritirata delle forze nazifasciste era già in atto e con essa era in atto la distruzione sistematica di infrastrutture, impianti industriali e campi che avrebbero condannato l’Italia a fame certa e ad una lunga e lenta ricostruzione che fu resa meno insostenibile grazie agli aiuti dell’European Recovery Program. Prima di Milano il CLNAI aveva indetto scioperi e insurrezioni anche in altre città del nord Italia, in particolare a Bologna che si era liberata il 21 aprile e a Genova che si era liberata il 23 aprile, ma Bologna, Genova e le altre città liberate erano solo delle città occupate dalle forze nazifasciste, Milano invece era diversa, Milano era qualcosa di più, Milano era un simbolo dell’occupazione Milano era una delle roccaforti del comando nazifascista e la sua caduta fu molto più significava delle altre, la caduta di Milano significava in qualche modo la sconfitta delle forze nazifasciste, rappresentava la fine dell’occupazione perché Milano era in qualche modo la testa del serpente e una volta tagliata, una volta liberata, il corpo sarebbe morto, si sarebbe arreso.

Dopo la caduta di Milano le insurrezioni in tutta Italia si intensificarono e in meno di una settimana si giunse all’effettiva liberazione del paese il 1 maggio 1945 l’Italia intera era stata liberata. Ma questa liberazione non era stata facile e costrinse uomini, donne e bambini a compiere scelte difficili e dolorose, in particolare la liberazione di Milano si concluse nel sangue e avrebbe portato, tra le altre cose, alla cattura di Benito Mussolini, avvenuta il 27 aprile ad opera della 52° Brigata Garibaldina.
Come sappiamo Mussolini sarebbe stato condannato a morte e giustiziato in meno di ventiquattro ore e tra gli uomini che firmarono e votarono la sentenza, c’era anche anche il sopracitato Sandro Pertini, tuttavia, va detto che il trattamento che la 52° brigata riservò all’ex primo ministro italiano fu tutt’altro che brutale e nell’ultimo scritto di Mussolini redatto a Germasino, sopra Dongo, il 27 aprile 1945, si può leggere:

“La 52a Brigata Garibaldina mi ha catturato oggi venerdì 27 aprile nella Piazza di Dongo. Il trattamento usatomi durante e dopo la cattura è stato corretto”

Dall’ultimo scritto di Benito Mussolini, Germasino, 27 aprile 1945

La brutalità e la barbarie sarebbero sopraggiunte soltanto dopo l’esecuzione, con l’esposizione del cadavere a modi trofeo.

Il 25 aprile 1945 segnava la vittoria della resistenza sull’occupazione straniera e sarebbe diventata, una delle feste nazionali più importanti, se non addirittura la più importante dopo la festa della repubblica e nella sua celebrazione è stato possibile gettare le basi di una nuova Italia, di una nuova tradizione e di un nuovo folcklore italiano, quello di un Italia che è risorta dalle proprie ceneri come una fenice, un Italia che ha riconquistato la propria dignità perduta ed ha ritrovato un onore quasi dimenticato, è un Italia fatta di paesi finalmente in festa, che può salutare i soldati tornati dalla guerra e lentamente può ritornare alle stanze della propria vita quotidiana, come i fiori nei prati e come il vento di aprile.

Ma è anche un Italia speranzosa e dolorante che in quei giorni di aprile e di inizio maggio si affacciava insistentemente alle proprie finestre e passa ore intere sull’uscio delle case e nei cortili, nell’amara speranza di rivedere i propri cari, in attesa di vedere apparire all’orizzonte i propri padri, figli e mariti partiti volontari per la guerra, partiti come soldati non ancora tornati, partiti come partigiani per la resistenza, partiti per essere uomini liberi e senza pretesa di diventare eroi, e in quei giorni non si aspettavano eroi, perché non c’erano eroi, c’erano solo ma padri, mariti e figli che tardavano a ritornare.

Per molti quella speranza sarebbe sfumata, perdendosi nel tempo avvolta dal fuoco e dal fumo di un camino, offuscata dai litri di vino versato per festeggiare e anche un po’ per dimenticare, versato per non pensare, per non capire, per non accettare la realtà e restare aggrappati all’amaro pensiero che un giorno i propri cari sarebbero tornati, ed averebbero raccontato di fronte a quel camino le mille avventure vissute. Ma quel giorno, per migliaia di italiani, non sarebbe mai arrivato, furono a migliaia le famiglie che non rividero mai più i propri cari, perché caduti prigionieri o giustizia sul posto chissà dove, chissà quando e chissà da chi, solo perché avevano scelto di essere uomini liberi, solo perché avevano scelto di combattere per la libertà di tutti, per la propria terra e senza pretesa di essere ricordati come eroi quella libertà l’avrebbero pagata con la propria vita.

Ecco perché la Repubblica vinse al referendum del 2 giugno 1946

Ogni anno, il 2 giugno, quest’immagine viene condivisa a più riprese, e la maggior parte degli utenti si è soffermata sul dato “finale” del referendum, ovvero, la vittoria dei repubblicani rispetto ai monarchici, ma, se osserviamo più a fondo i dati, noteremo due cose, la prima e che la vittoria dei repubblicani rispetto ai monarchici è di “esattamente” 2 milioni di voti (12,718,019 contro 10,709,423), una vittoria minima ma comunque una vittoria. L’altro dato che emerge, ed è quello a mio avviso più interessante, è nella disposizione dei voti, possiamo infatti osservare come i repubblicani abbiano vinto prevalentemente nell’Italia settentrionale, e nelle regioni che hanno vissuto tra il 1943 ed il 1945 la guerra civile e l’occupazione nazista, la maggioranza dei repubblicani è stata particolarmente significativa.

Regioni come Toscana ed Emilia romagna , in cui la guerra civile è stata più aspra, e le rappresaglie naziste più numerose, questo dato è particolarmente evidente, quasi un milione e mezzo di repubblicani contro appena mezzo milione di monarchici, e sulla stessa linea, osserviamo un trionfo repubblicano anche le regioni di “frontiera” ad oriente, governate negli anni della guerra civile dal rifondato Movimento Fascista costituitosi nella Repubblica Sociale Italiana (la repubblica di Salò), quindi il lombardo veneto.
Diversamente, al sud della linea gotica, le regioni autogovernate e indipendenti, sotto il controllo del comitato di liberazione nazionale (CLN) quindi Umbria, Marche, in parte l’Abruzzo, e soprattutto il Lazio, la distanza tra repubblicani e monarchici è ridotta al minimo, soprattutto nel lazio dove la differenza è di appena 20 mila voti.
A Sud di Roma però, da Volturno (tra Caserta e Napoli) e Pescara, esisteva un altra linea di demarcazione, la “linea Gustav” che segnava il confine settentrionale della zona di occupazione Alleata.
Le regioni a sud della Linea Gustav, vivono gli anni della guerra civile sotto la guida del Re e del “governo legittimo” appoggiato dagli Alleati, e in queste regioni, lontano dagli eccidi e dalle rappresaglie naziste, in cui si soffriva prevalentemente il peso dei bombardamenti, (prima alleati e poi nazifascisti), al momento del referendum, si assisterà al nostalgico trionfo dei Monarchici, specialmente nelle regioni in cui la presenza alleata era stata più forte, come la Campania e la Sicilia.
Parzialmente fuori dagli schemi della penisola è il ruolo giocato dalla Sardegna, che, lontana dal continente, e in una posizione strategicamente poco significativa nello scacchiere bellico, soffrì pesantemente i bombardamenti(anche qui, prima alleati e poi nazifascisti) restando relativamente lontana dalla guerra civile.

In definitiva, osservando questi numeri, possiamo dedurre che, i due anni di guerra civile (tra il 1943 ed il 1945) abbiano fatto la differenza tra monarchia e repubblica.
Le stragi naziste, le rappresaglie e le immani sofferenze patite dall’Italia centro settentrionale e nord orientale, durante la guerra civile ha prodotto, nella maggior parte della popolazione, un sentimento di rancore nei confronti del re, e della casa reale, identificati come i principali responsabili dell’ascesa e dell’affermazione del fascismo, e in seguito, di quella spaccatura interna che avrebbe provocato la morte di migliaia di uomini, donne, anziani e bambini, durante la guerra civile.

Questa lunga premessa analitica è essenziale per affrontare il discorso “brogli” che spesso ritorna se si parla del referendum del 2 Giugno 1946 in cui gli italiani furono chiamati a votare per scegliere tra Monarchia e Repubblica.

Detto ciò,  è opportuno dire che i brogli in quel referendum vi furono, e in larga misura poiché furono rilasciate schede elettorali sulla base conformazione demografica dell’italia nel 1936/37 ovvero prima che iniziasse la guerra, e di conseguenza non si tenne (volutamente o incautamente) conto delle innumerevoli vittime, civili e militari, dei rifugiati politici fuggiti all’estero e dei deportati. Insomma, furono chiamati a votare piu’ italiani di quanti non ce ne fossero in italia (o all’estero). Questo squilibrio tra possivili votanti e votanti effettivi altera (piu’ o meno gravemente) il dato sull’affluenza, de facto ci fu un affluenza maggiore di quella effettivamente registrata, che però viene bilanciata dai voti fantasma, ovvero da quei voti registrati a nome di persone disperse o morte.

Detto questo, se si guarda alla conformazione dei voti e si analizzano storicamente le regioni in cui ha vinto la monarchia rispetto a quelle in cui ha vinto la repubblica, emerge un primo dato interessante -vi rimando al mio post linkato in alto per maggiori approfondimenti, ovvero che, nell’Italia meridionale, occupata dagli Alleati, in cui aveva ricominciato dal 43 a governare il re, vinse la monarchia, mentre nel resto d’italia, quell’Italia che dal 43 al 45 era stata vittima dell’occupazione nazista, in cui vi erano stati eccidi e stragi frutto della guerra civile, e il governo era rimasto quello “legittimo” del partito fascista guidato da Mussolini, lì vinse la repubblica. E in questo senso, le regioni in cui la guerra civile o la guerra di resistenza che dir si voglia, fu particolarmente intensa, come nel caso dell’Emilia Romagna o della Toscana, la vittoria repubblicana fu, per ovvie ragioni, schiacciante.

La distribuzione demografica dell’italia nell’immediato dopoguerra, ovvero dell’italia tra il 1945 ed il 1948, vedeva una “densità” di popolazione maggiore a nord di Roma, questo per numerosi motivi, va detto anche che il numero di nascite nell’Italia meridionale sarebbe cresciuto esponenzialmente nel ventennio successivo alla guerra, quindi tra il 1945 ed il 1965 circa, questo per innumerevoli ragioni che non è il caso di spiegare o analizzare (ma basta fare qualche rapida ricerca su google per constatare questi dati). Un Italia “repubblicana” maggiormente popolata di un italia “monarchica“, si traduce inevitabilmente nell’esito a noi noto, tuttavia, un eventuale passaggio alla repubblica implicava la perdita di numerosi privilegi sociali ed economici da parte della nobiltà, e dall’altra parte, in caso di conferma della monarchia, la vanificazione degli sforzi dei sostenitori della libertà e democrazia.

Queste “personalità” per ragioni in parte storiche (erano da sempre gli amministratori di un dato territorio), in parte politiche (erano eroi di guerra che avevano combattuto per la liberazione di quel territorio) erano distribuite un po ovunque, vi erano di fatto Repubblicani nel mezzogiorno e Monarchici nelle famose “regioni rosse“.
Ed è in quei luoghi specifici, e nelle loro immediate vicinanze che avvennero i brogli, sia da una parte che dall’altra, brogli che avvennero con il tacito consenso delle autorità locali, che ricordiamo essere un ufficiali dello stato ma che in quel momento non servirono lo stato, non compiendo il loro dovere, ma parteggiando apertamente per una delle parti, contribuendo a falsare l’esito del referendum. E di questi episodi avvennero sia nelle regioni “repubblicane” che in quelle “monarchiche”.

Scusate per lo sproloquio, ma odio quando si sfrutta e si distorce la storia per fare propaganda politica. Chi scrive articoli come quello citato forse non si rende conto del danno enorme che provoca, e delle immense difficoltà che produce, andando ad alimentare un flusso di informazioni falsate che rendono estremamente piu’ difficile la ricerca e la ricostruzione storica.
Come già ampiamente detto in passato, il compito dello storico è quello di epurare i fatti dalla propaganda, cercando di riprodurre il piu’ fedelmente e possibile determinati momenti e dinamiche.
Ho scritto questo post perché quell’articolo, per quella che è la mia idea di storia, è totalmente “antistorico”.

N.B. Ho realizzato questo articolo unendo due lunghi post pubblicati nel 2016 sulla pagina facebook di historicaleye in seguito alla pubblicazione su “il giornale” di un articolo in cui si denunciavano alcuni episodi di brogli avvenuti durante il referendum.