Le fonti della storia

Le scienze storiche, come qualsiasi altra disciplina scientifica, si basa sul metodo scientifico, che nel caso della storia però, non può avvalersi della componente sperimentale. Lo storico non può fare esperimenti in laboratorio, ma allora, come fa a dimostrare empiricamente la veridicità delle proprie teorie o confutare teorie errate?
lo fa attraverso la ricerca, analisi e verifica delle fonti.
Lo storico ha accesso ad una moltitudine di fonti storiche differenti, monumentarie, numismatiche, archeologiche, artistiche, letterarie, documentarie, ecc, e dalla comparazione delle fonti e delle testimonianze, lo storico può ricostruire e interpretare un passato nel quale non era fisicamente presente.

Le scienze storiche, come qualsiasi altra disciplina scientifica, si basano sul metodo scientifico, che, tuttavia, nel caso della storia, non può avvalersi della componente sperimentale in quanto, per lo storico, o meglio, per lo storiografo, è impossibile fare esperimenti in laboratorio, ne può osservare il fenomeno che intende studiare.

Ma allora, come fa lo storico a verificare le proprie teorie e dimostrare empiricamente la loro veridicità e come può uno storico confutare una teoria errata?

La risposta è semplice, lo fa apportando una leggera modifica al metodo scientifico che de facto gli permette di ovviare all’impossibilità di “sperimentare” in maniera “tradizionale”. Il lavoro dello storico infatti, è un lavoro che si basa principalmente sulla ricerca, l’analisi e la verifica delle fonti.

Le fonti sono i mattoncini fondamentali che permettono allo storico di viaggiare nel tempo e ricostruire avvenimenti e dinamiche del passato più o meno remoto.

Lo storiografo ha accesso a diverse tipologie di fonti, che generalmente sono divise in due macro categorie.

  • Fonti primarie
  • Fonti secondarie

Per fonti primarie si intende tutta una serie di fonti prodotte nel periodo storico che si sta studiando e che non necessariamente hanno finalità storiografiche. Tra le fonti primarie possiamo incontrare documenti, contratti, monete, atti pubblici, documenti privati, registri commerciali, bolle, monumenti, opere d’arte ecc.

Per fonti secondarie invece, si intende una serie di fonti, prodotte in un secondo momento, che generalmente si basano su testimonianze dirette o indirette e sulle fonti primarie. Tra le fonti secondarie possiamo incontrare cronache, ricostruzioni, racconti storici fatti sia da autori contemporanei agli avvenimenti narrati, che postumi, e che quindi.

Lo storiografo, mediante l’analisi e la comparazione delle fonti, primarie e secondarie, produce a sua volta materiale documentario, che arricchisce le fonti disponibili su un determinato periodo e/o avvenimenti, e aumentando i gradi di distanza tra lo storico e l’avvenimento, si avrà un aumento esponenziale delle fonti storiche su un determinato avvenimento storico, che avrà un doppio effetto.

Da un lato, semplificherà la ricerca di fonti, poiché essendo tante, sarà più semplice individuarne, dall’altro, complica la fase di verifica e confutazione, poiché, essendo il loro volume molto elevato, lo storiografo, sarà costretto a selezionare accuratamente le proprie fonti, facendo attenzione a non incorrere in falsi storici o in teorie già confutate.

I falsi storici sono una delle grandi problemi che affliggono la storia contemporanea, in particolare gli ultimi due secoli circa. Sono in parte un effetto indesiderato della proliferazione di documenti e fonti di vario tipo, unite alla massiccia presenza di testimoni diretti degli avvenimenti intervistati dagli storici, e in parte, sono frutto di epoche pregresse in cui c’è stata la volontà di produrre e consapevolmente dei falsi storici, per ragioni tal volta economiche, tal volta politiche.

Nel XIX secolo in particolare, con la riorganizzazione della società e l’ascesa della borghesia, soprattutto in europa, c’è stata una crescente domanda di manufatti antichi, ricercati dai collezionisti borghesi per legare il proprio nome di famiglia, ad un passato in cui quel nome non aristocratico, era stato tenuto apparentemente lontano dalla storia, qualcosa di simile era già accaduto con il mecenatismo rinascimentale, quando, soprattutto in italia, le ricche famiglie mercantili, iniziarono a collezionare testi ed opere d’arte prodotte in quell’epoca ma anche opere dal mondo classico.

La crescente domanda di manufatti e manoscritti antichi, alimentò un florido mercato di falsari che all’occorrenza crearono componimenti poetici, testi antichi, manufatti, oggetti rituali o di tortura, provenienti da un mondo arcaico apparentemente dimenticato, ma che in realtà veniva costruito inseguendo il gusto dei potenziali acquirenti.

Dall’altra parte, nello stesso periodo, vennero prodotte per ragioni politiche, anche numerose opere volte ad insinuare l’esistenza di cospirazioni e congreghe segrete, e tra gli esempi più famosi, vi sono l’ordine dei Rosa Croce, nato quasi per scherzo, facendo il verso alle logge massoniche del tempo, e la congiura dei savi di Sion, una congiura mai realmente esistita, e basata su falsi documenti costruiti ad hoc, per finalità politiche, nell’impero zarista sul finire del XIX secolo.

Oggi gli storici o storiografi, che dir si voglia, hanno accesso a numerose tipologie di fonti, che differire a seconda dell’epoca studiata. Queste fonti sono i residui, i resti, di un tempo ormai perduto, ed è compito dello storico usare questi tasselli, questi mattoncini elementari, per ricostruire, sia pur solo sul piano narrativo, quella che era la società del passato, una società di cui noi non abbiamo e non possiamo avere una reale memoria, ma ne abbiamo conoscenza attraverso la ricostruzione storica. E la grande difficoltà dello storico, sta nel riuscire ad interpretare le fonti a cui ha accesso, posizionandole nel modo più opportuno, e riconoscere le fonti autentiche da quelle false, così da poter ricostruire un passato, il più possibile fedele alla realtà, anche se forse, non potendo viaggiare nel tempo, non saremo mai realmente in grado di comprendere la realtà quotidiana di un tempo che non abbiamo vissuto.

La microstoria

La Microstoria è un metodo di ricerca storiografica che si concentra su fatti minimi e ambienti circoscritti, apparentemente marginali, come la vita di un mugnaio o un officina, un villaggio, di una famiglia, ecc.

La microstoria è la storia dei piccoli eventi che serve come punto di ancoraggio per analizzare nel dettaglio i grandi avvenimenti, e che differisce dalla macro storia, ovvero la storia dei grandi avvenimenti, soprattutto nella fase di inquadramento generale.

Vi faccio un esempio pratico per inquadrare la Microstoria, parlare del boom economico in italia degli anni 50 e 60, può essere fatto in due modi.

  • Metodo 1 | parlando direttamente del boom economico, in maniera molto ampia e ricadendo quindi nella storiografia tradizionale, con un approccio macrostorico, per affrontare un tema di storia economica.
  • Metodo 2 | possiamo partire dalla base, dal basso e affrontare la questione del boom economico, partendo dalla storia ordinaria di una piccola officina che, in quegli anni inizia o negli anni immediatamente successivi, iniziava la propria attività e che, circa 50 anni dopo, è diventata una delle officine più grandi e importanti d’italia. In questo secondo caso, raccontando la storia di questa azienda, stiamo indirettamente (ma neanche tanto indirettamente) parlando del boom economico e di storia economica.

Questa è la microstoria. Un approccio metodologico relativamente recente, che negli ultimi vent’anni circa, ha influenzato tantissimo la storiografia americana arrivando a caratterizzarla, e la cosa in un certo senso più curiosa e interessante è che uno dei padri putativi di questo metodo, è Carl Ginzburg, uno storico italiano che per qualche decennio ha insegnato in alcune delle più prestigiose università americane (come ad esempio Harvard), formando un intera generazione di storici americani (soprattutto negli anni ottanta e novanta) che oggi fa della microstoria la propria arma vincente.

La Microstoria oggi rappresenta una metodologia vincente, soprattutto in campo divulgativo, perché grazie alla sua struttura che parte dal quotidiano, dal particolare, sfrutta l’aneddotica per catturare l’attenzione del lettore, al quale poi fornire una serie di informazioni sempre più approfondite ed estremamente puntuali.

L’esempio “classico” di testo microstorico è l’opera “il formaggio e i vermi” di Carl Ginzburg, testo pubblicato per la prima volta nel 1976 e che ha come oggetto la vita e, soprattutto, i due processi per eresia di un contadino e mugnaio friulano, nato Domenico Scandella a Montereale Valcellina e noto ai contemporanei come Menocchio, ma del formaggio e i vermi ho già parlato abbondantemente in un post dedicato.

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Ginzburg, con questo libro introduce alla storiografia la storia delle classi subalterne, ci parla di un contadino, di un mugnaio, non di un generale o di un principe o un conte, ci parla di un uomo che nella storiografia tradizionale, sarebbe stato solo un nome di passaggio in un qualche elenco di “vittime” dell’inquisizione, un esponente delle masse popolari che per lungo tempo, si è creduto essere all’esterno della storia e che nel pensiero comune, avrebbero fatto la propria irruzione nella storia a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Ma la vita di Scandella, ci insegna Ghinzburg, non è una vita vissuta fuori dalla storia, anzi, è una vita totalmente inserita nella storia del proprio tempo, e questo significa che le masse popolari sono sempre state una componente centrale della storia, nonostante per secoli la storiografia tradizionale, non abbia prestato loro attenzione.

Oggi non vi è più distinzione tra grandi eventi e storie ordinarie e la rivoluzione microstorica ha spalancato le porte ad una storia più ampia e complessa, ad un passato molto più complicato e dinamico di quello che abbiamo immaginato per generazioni.

Oggi, se bene esista ancora una divisione concettuale tra macro e micro storia, di fatto la storiografia in termini più ampi, non conosce differenze legate ai soggetti del proprio studio, classi sociali, rapporti di forza, equilibri ed orientamenti politici e religiosi, sono tutti ingredienti in quell’enorme calderone che è la storia umana, la storia delle civiltà umane e di tutti gli strati che compongono quelle società.

Oggi, rispetto al passato, non è difficile imbattersi in testi riguardanti gli aspetti più semplici, o le classi più povere di una società, e addirittura, oltreoceano questi temi oggi sono forse privilegiati rispetto ad altri, di più ampio respiro e contribuiscono a porre sotto una luce diversa i complicati equilibri sociali delle civiltà del passato.

La storia dei fratelli Del Frate e della loro “storica” officina.

Ero a corto di idee, non sapevo cosa scrivere, quindi ho deciso di riciclare un vecchio post pubblicato sulla pagina facebook parecchio tempo fa.
Per gli amanti delle auto, voglio parlarvi di Automobili Del Frate.
Si tratta di un azienda automobilistica italiana, e voi, giustamente, starete pensando, ma cosa c’entra questo con la storia? e forse avreste anche ragione, ma in passato vi ho parlato diverse volte di Microstoria, e per chi fosse nuovo da queste parti, la microstoria è la storia dei piccoli eventi che serve come punto di ancoraggio per analizzare nel dettaglio i grandi avvenimenti, e che differisce dalla macro storia, ovvero la storia dei grandi avvenimenti, solo nella fase di inquadramento generale. Uno dei padri di questo metodo, oggi molto ricorrente nella storiografia americana è Carlo Ginzburg e il suo saggio “il formaggio e i vermi” è forse uno dei più iconici e formativi.

Per i non addetti ai lavori, vi faccio un esempio pratico per inquadrare la Microstoria, parlare del boom economico in italia degli anni 50 e 60, può essere fatto in due modi, parlando direttamente del boom in maniera molto ampia ricadendo quindi nella storiografia tradizionale con un approccio macrostorico e affrontando un tema di storia economica, oppure possiamo farlo partendo dal basso e affrontare la questione del boom economico partendo dalla storia ordinaria di una piccola officina che in quegli anni inizia la propria attività e che 50 anni dopo è diventata una delle officine più grandi e importanti d’italia, e raccontando la storia di questa azienda stiamo indirettamente parlando del boom economico e di storia economica, nei fatti stiamo affrontando un tema di “micro storia”, come dicevo, qualcosa di apparentemente piccolo e irrilevante, qualcosa che sembra non essere destinato ai libri di storia, ma che, nella sua semplicità, ci racconta un pezzo fondamentale della storia in senso più ampio e generale.

E allora, proprio per questo motivo, ho voluto raccontarvi qualcosa riguardante proprio una piccola azienda italiana inserita nel contesto generale degli anni immediatamente successivi al boom economico italiano.

Oggi, vi racconto la storia dei fratelli Del Frate e della loro “storica” officina.

Quest’azienda è nata nel lontano 1967 dalla passione per le auto di due fratelli, Enzo e Roberto Del Frate, e inizialmente la loro era una piccola carrozzeria di paese e dopo qualche anno di attività, nel cuore degli anni 70, grazie ad una collaborazione con l’allora gruppo Fiat, che comprendeva i brand Fiat, Lancia, la piccola azienda ha iniziato a crescere ed espandersi.

Nel 1967 erano in 2, Enzo e Roberto, dopo qualche tempo si sarebbe unito a loro anche Aurelio Gori, primo storico dipendente dell’officina e grazie alla collaborazione con Fiat, l’azienda crebbe aumentando i propri dipendenti, con la necessità di ampliare anche i propri uffici e questa crescita fu affiancata dall’innovazione e dal coraggio, aprendo la ditta a nuovi orizzonti e nuovi settori.

Oggi Del Frate è una offre molteplici servizi ai propri clienti, e pur rimanendo fedele nello spirito alla vecchia Fiat, si occupa anche d’altro.

Tra i servizi offerti possiamo infatti trovare oltre all’originale autofficina che si occupa di carrozzeria e riparazioni meccaniche, anche servizi di vendita e riparazione pneumatici, soccorso stradale, vendita auto nuove ed usate.

Insomma, Del frate oggi è un azienda automobilistica operante a tutto tondo nel settore e la sua storia viaggia di pari passo con la storia dell’auto italiana, Del Frate nasce sull’onda e nel sogno del boom economico, nasce sul finire degli anni sessanta avviandosi su di una strada impervia come una pista da Rally, dalla quale però, ne sarebbe uscita vincitrice e ancora oggi, a distanza di oltre 50 anni dalla sua nascita, con i suoi soci fondatori ormai in pensione, l’azienda non smette di esistere e prosperare.

Il compleanno di Winston Churchill durante la conferenza di Tehran | Racconto Ucronico

Un racconto ucronico, surreale e ironico, sul sessantanovesimo compleanno di Winston Churchill, festeggiato durante la conferenza di Teheran (cosa che ha davvero fatto)

Il 30 Novembre 1943, nel contesto generale della seconda guerra mondiale, durante la conferenza di Teheran tra i leader alleati, Sir Winston Churchill, primo ministro dell’impero britannico dal 10 maggio del 1940, compì, 69 anni, e per stemperare il clima di tensione che avvolgeva la conferenza, una delle più importanti per quanto riguardava il coordinamento delle operazioni e la definizione delle linee di condotta da seguire per le future decisioni strategiche da prendere durante il conflitto contro le forze dell’asse, Winston Churchill, organizzò una cena per il suo compleanno.

E giuro, che il racconto ucronico, non è ancora cominciato, questa prima parte, questo incipit, è assolutamente reale, Churchill ha davvero festeggiato il proprio compleanno durante la conferenza di Tehran, e se non ci credete andate posso dimostrarlo, ho le foto.

Ma adesso, passiamo al racconto ucronico/ironico. Nel caso ci siano dubbi al riguardo, questo significa che tutto quello che seguirà a questo paragrafo, non è successo davvero o comunque non sono andate proprio così come verranno raccontate, gli avvenimenti che seguono a questo paragrafo sono frutto di un lavoro di fantasia. Detto più semplicemente, m e li sono inventati, partendo dalla realtà, per tirare fuori un racconto divertente e no sense, o almeno spero sia divertente.

Mettiamo in chiaro una cosa, questo avvenimento, la festa di compleanno di Churchill avrebbe potuto svoltare la seconda guerra mondiale in mille modi differenti, la festa sarebbe potuta andare male e avrebbe potuto incrinare i rapporti tra i capi di stato, qualche leader mondiale avrebbe potuto esagerare con lo champagne, o con l’alcool in generale, cosa che Stalin potrebbe aver effettivamente fatto visto che in tutte le foto ha in mano un bicchiere con del vino e sono stati fotografati almeno dieci diversi brindisi durante la serata, giuro che neanche alle festa dell’unità si brinda così tante volte tra una salamella e l’altra. Churchill inoltre aveva una certa età (non che gli altri fossero più giovani, ma era comunque il più anziano del gruppo), e tra il caldo secco di Teheran, il fuso orario, le feste fino a tarda notte, oppiacei vari la sveglia presto al mattino, e la generale tensione che aleggiava in quelle stanze, la sua salute era a rischio, non che Roosevelt e Stalin se la passassero meglio, sia chiaro, era un ambiente stressante per tutti, o quasi. Stalin forse era quello che visse meglio l’esperienza perché abituato ad un clima più rigido… in tutti i sensi.

Per Stalin, abituato a vivere letteralmente nel proprio ufficio, e dormire sulla propria scrivania o al massimo rannicchiato in posizione fetale su una poltroncina particolarmente scomoda, che teneva in studio in ricordo dei giovanili anni trascorsi in cantine georgiane a parlare di rivoluzione bevendo vodka di contrabbando prodotta in quella o quell’altra cantina lì vicino, quei giorni a Teheran furono una piacevole distrazione, vista anche la possibilità di dormire in un vero letto, cosa che non faceva da anni ormai, e se bene i meeting con Roosevelt e Churchill erano particolarmente lunghi ed impegnativi e riempivano gran parte delle loro giornate mediorientali, alla fine, quei ritmi e quegli orari, si rivelarono essere molto più tollerabili rispetto ai propri standard e conferirono a Stalin molto di quel tempo libero che a Mosca gli era negato.

A Mosca, le sue giornate lavorative lo impegnavano per circa 36 ore al giorno, con pause di appena 15 minuti ogni 18 ore, per dormire o in alternativa per andare in bagno, o l’una o l’altra, entrambe era problematico. Lì a Teheran invece, lavorava soltanto 12 ore al giorno e delle restanti 24, almeno nei primi giorni, non sapeva letteralmente cosa farsene, anche perché in realtà erano solo 12, ma nel suo personale sistema temporale le cose non erano così semplici.

Al terzo giorno di incontri, Winston Churchill fece notare a Stalin che le giornate si componevano di sole 24 ore, e che, le persone normali, in quelle ore, lavoravano, mangiavano, andavano in bagno, dormivano e trovavano il tempo di prendere in giro Roosevelt chiamandolo Teddy e fingendo di confonderlo con il precedente presidente Roosevelt, insinuando nell’uomo un’innaturale longevità.

Nei giorni seguenti non mancarono battute sull’età di Roosvelt, che per ripicca, decise di organizzare una festa a sorpresa per il compleanno di Churchill, al fine ultimo di evidenziare come il primo ministro britannico fosse nei fatti il più anziano del gruppo, salvo poi rendersi conto che tra i tre, non c’era poi tutta questa differenza d’età e la festa burla si tradusse in una banale festa a base di alcolici di contrabbando, oppiacei e black Jack, una squillo di lusso particolarmente richiesta in alcuni ambienti e di origini somale. (lo so, questa battuta è squallida)

La mattina del 30 Novembre, giorno del 69 esimo compleanno di Churchill, causa allestimento della sala per i festeggiamenti, non vi furono riunioni strategiche. Sfortuna volle che Stalin non ricevette la notifica, probabilmente a causa di un crash dell’app-rendista segretario che il giorno prima si era intrattenuto con alcune ragazze in un locale fuori Teheran, qualcuno sospetta che la mancata notifica sia legata ad un qualche scherzo e che Stalin, volutamente, non venne avvertito dell’annullamento della riunione, questo punto è ancora da chiarire, ci sono pochissime fonti sulla questione, fatto sta che il leader sovietico, quel giorno, come ogni giorno della sua vita, si svegliò con Alba, si lavò, mangiò un bambino per colazione e poi si recò nella sala degli incontri, si sedette al proprio posto al tavolo, posto a sedere contrassegnato da una targa con su scritto il suo nome, così non c’erano equivoci su chi dovesse sedere dove, e, nell’attesa che gli altri giungessero per iniziare i lavori, Stalin si portò avanti ed iniziò a firmare una pila di tovagliolini che era stata posta sul tavolo.

Per deformazione professionale, Stalin quando vedeva delle pile di carta, iniziava a firmarle, e se nessuno lo interrompeva, poteva stare lì per ore ed ore, senza interruzioni, e con un afflusso costante di fogli di carta da firmare Stalin avrebbe potuto trascorrere tutto il giorno a firmare qualsiasi cosa gli fosse capitata sotto mano. Sembra che abbia firmato anche un paio di assegni in bianco e un ordine esecutivo con cui si autorizzava la costruzione di un parco acquatico a tema militare nel mar baltico che gli storici militari avrebbero identificato con il nome di operazione Fortitude. E fu così, che forma dopo firma, si fece ora di pranzo e poi trascorse l’intero pomeriggio. Le lancette dell’orologio ticchettavano, il tempo passava, la pila di fazzoletti fu rimpiazzata diverse volte durante la giornata e mentre Stalin firmava il nulla, assorto in una bolla di deprivazione sensoriale autoindotta che di fatto lo proiettava in un mondo tutto suo, tutto attorno a lui, nel mondo reale, la sala cambiava.

Gli addetti al catering della ditta Mastro Beppo, stavano lavorando all’allestimento della sala, in preparazione della festa di compleanno di Winston Churchill, e almeno nelle prime ore, erano visibilmente turbati dalla presenza di quell’uomo dallo sguardo tenebroso e minaccioso, assorto nei propri pensieri che firmava tovagliolini bianchi, con lo sguardo perso nel vuoto, al centro dalla sala conferenza di Teheran.

Dopo qualche ora, gli operosi addetti al catering entrarono in empatia con Stalin, per loro un uomo misterioso di cui ignoravano l’identità e che stava in mezzo alle scatole disturbando silenziosamente il loro lavoro. I rapporti tra Stalin e Beppone, il titolare della ditta di catering, inizialmente turbolenti, si allentarono quando Beppone notò Stalin visibilmente turbato e in preda a quello che sembrava un vero e proprio attacco di panico, così, gli si avvicinò e chiese quale fosse il suo problema. A quel punto Stalin rispose di aver finito i documenti sulla scrivania, evento assai raro aggiunse, per poi chiedere a Beppone se la sua segretaria non gli avesse inviato altro materiale.

Beppone, che non era certo uno stupido, notando la pila di fazzolettini bianchi firmati, intuì che l’uomo era affetto da un qualche tipo di disturbo, così, ordinò ai propri collaboratori di rimpinguare continuamente la pila di fazzolettini,così che quell’uomo, chiunque esso fosse e qualunque fosse il motivo per cui era lì, potesse avere di che firmare.

Grazie a questa decisione, Beppone evitò a Stalin un Fallout psicologico, cosa che, indirettamente salvò la vita a lui e la sua famiglia, visto che era si origini baresi, emigrato in Crimea con la famiglia quando era ancora un infante.

Con Stalin impegnato a firmare fazzoletti, l’allestimento della sala poté proseguire senza intoppi o interruzioni, per diverse ore furono affisse stelle filanti, striscioni, piante finte, fu allestito un tavolo speciale con un buffet a base di bambini per i delegati sovietici, furono installati alcuni pungiball con le sembianze di Hitler e Himmler e fu persino allestito un teatro delle marionette, con tanto di pupazzi di Hitler e Mussolini, che, secondo alcuni testimoni, vide la messa in scena di una simpatica gag comica i cui protagonisti erano impegnati un una sorta di sit-com ante litteram, nello stile di casa Vianello. Purtroppo il cui copione dello spettacolo sembra sia stato distrutto dopo la serata, ma questa è un altra storia.

Dopo otto ore di lavoro ininterrotto, la sala era ormai pronta, restava un unico problema da risolvere, la preparazione del tavolo d’onore, al centro della sala, al quale Stalin era seduto e non accennava alzarsi. Per più di otto ore era stato lì, seduto immobile, senza alzarsi per andare in bagno, senza fare interruzioni o pause per mangiare o bere, con un unica interruzione dopo la prima ora di firme, quando erano finiti i tovagliolini. Beppone doveva trovare un modo per allontanare quell’uomo e dopo diversi tentativi, non sapeva più cosa fare, lui e i suoi uomini avevano provato di tutto, era stato detto lui di un Buffet allestito nell’altra stanza, di un festino hot con delle ballerine molto avvenenti, qualcuno, identificandolo come Stalin, aveva persino detto che non lontano da lì c’era un vivaio di bambini e che poteva andare lì e mangiare tutti gli infanti che desiderava, ma nulla, assolutamente nulla riuscì a smuoverlo, almeno fino a quando il suono di un orologio a cucù guasto, non risuonò nella stanza.

Fu un avvenimento quasi miracoloso, avrebbero commentato i presenti, quell’orologio a cucù non solo non funzionava, ma in quel momento non era neanche lì, ma fu proprio quel cucù rotto a rompere l’incantesimo e Stalin si risvegliò dalla propria ipnosi autoindotta, certo, Stalin in quel momento fu anche l’unico uomo nella stanza a sentire il suono del cucù, ma nel sentirlo, smise di firmare fogli di carta e decise di concedersi una pausa, andò quindi in un angolo, si rannicchiò su di una scomoda poltroncina, tanto inesistente e irreale quanto il suddetto orologio a cucù, e rimase lì, in posizione fetale per diverso tempo.

Gli uomini presenti nella stanza con lui non capirono molto di quanto stava accadendo, qualcuno temeva per la propria salute, per loro non c’era stato alcun cucù, non c’era nessuna poltrona e Stalin era semplicemente un pazzo che aveva firmato fogli bianchi per tutto il giorno e che ora giaceva rannicchiato sul pavimento, ma proprio in quel momento, il festeggiato Churchill giunse nella sala e spiegò loro cosa era successo, o almeno cosa lui credeva fosse successo, il che è tutto dire.

Erano le 19:30 circa, non si sa bene secondo quale fuso orario e Churchill, da buon irlandese di origini scozzesi nato a Woodstock, nonché fiero membro reietto degli AA, aveva già bevuto due pinte di birra, quattro calici di tavernello e una dozzina di bicchieri di Whiskey riserva Iraniana, del Whisky locale aromatizzato all’acqua di rose, prodotto con un antica ricetta segreta, che la madre del Barman del palazzo dei congressi di Teheran aveva appreso, insieme alla ricetta per la preparazione del caffè espresso, diversi anni prima, durante una breve permanenza in carcere a Napoli, da una certa Cicirinella, sorella gemella della Peppina e nonna della Cicirinella della canzone di de Andrè, portatrice di un antica tradizione di Cicirinelle che preparavano il caffè in carcere a Poggio Reale, fin dal 1853.

Churchill, visibilmente provato dal sapore molto forte e aromatico del liquore iraniano, prese uno dei tovaglioli bianchi firmati da Stalin, lo guardò attentamente per qualche minuto, poi, lo diede ad uno degli uomini del catering e riferendogli che Stalin, in qualche modo, aveva decodificato i codici nazisti e che per quello si era concesso un momento di riposo, dunque avrebbero festeggiato tutta la notte.

L’uomo del catering iniziò a dubitare che il pazzo a quel punto fosse lui, perché guardando il tovagliolo non vedeva altro che una firma in calce al foglio, con null’altro, del resto, l’uomo che gli aveva dato quel foglio era Winston Churchill in persona, mica Pino, il suo amico invisibile.

Mentre Stalin riposava nel proprio giaciglio fatto di tovaglioli firmati e gli addetti al catering sistemavano gli ultimi dettagli della sala, ecco che iniziarono ad arrivare i primi invitati alla festa, che altri non erano che i delegati, generali e diplomatici e un po’ di gente a caso invitata solo per fare numero.

Quando tutti gli ospiti e gli imbucati furono arrivati e Stalin uscì dal proprio letargo, la festa ebbe inizio.

Churchill, il festeggiato, approfittò dell’occasione per chiamare un brindisi ogni 5 minuti, e visto che lui era il festeggiato, disse la frase magica “festa mia comando io”, queste parole gli conferirono per quella serata alcuni poteri straordinari, come la capacità di stabilire arbitrariamente la durata dei minuti, e visto che l’unico orologio nella stanza era quello a cucù immaginato da Stalin, e che il confine tra realtà ed illusione era più labile che mai, venne fuori che, in circa mezz’ora, ci furono ventotto brindisi e mezzo, tutti immortalati da un unica fotografia con tempi di esposizione molto dilatati, così da dare l’impressione che in realtà il brindisi fosse solo uno e che la foto fosse venuta mossa.

Passata la festa, in altre circostanze, sarebbero stati necessari diversi giorni prima che la conferenza potesse riprendere regolarmente e che gli ospiti potessero riacquisire il pieno delle proprie facoltà mentali, un po’ perché la sala conferenza era ridotta ad un porcile ed andava ripulita, un po’ perché i postumi della sbornia avrebbero richiesero qualche giorno per rientrare, ma soprattutto perché, in un raro momento di debolezza, Roosevelt, Stalin e Churchill, durante uno dei tanti brindisi fatti quella sera, decisero di organizzare un escursione in cammello, fare After e mangiare insieme un cornetto nel deserto. E così fecero, i tre partirono per un punto inprecisato nel deserto, seguendo le indicazioni stradali di Pino, l’amico immaginario del tipo del catering che ormai era in confidenza con Winston Churchill, e andarono, lasciando dietro di se un solo messaggio in codice e ancora oggi non ufficialmente decodificato, scritto in una lingua inventata, su di un foglio precedentemente firmato da Stalin e controfirmato dai tre leader mondiali.

Tuttavia, la minaccia dell’asse in europa era qualcosa che non permetteva troppe distrazioni e all’indomani della festa, alle prime luci dell’alba, una volta mangiato il cornetto, i tre caballeros tornarono a Teheran e gli incontri ripresero, regolarmente e a porte chiuse.

Secondo alcuni teorici, nei giorni che seguirono i tre uomini passarono il proprio tempo a giocare a briscola con Ugo, un loro amico comune, conosciuto la sera prima e che si era imbucato alla festa di Churchill. In ogni caso, la conferenza fece il proprio corso e la storia, all’indomani del compleanno del primo ministro britannico, ritornò nel proprio regolare sentiero.

Nel mondo reale, ciò che accadde quella sera, fu, almeno ufficialmente, una cena, molto tranquilla, con qualche brindisi, il taglio della torta e qualche fotografia di rito, ma a noi, piace pensare che, almeno quella sera, per pochi minuti, anche Stalin, Churchill e Roosevelt, spogliarono gli abiti dei leader più potenti del mondo, e si lasciarono andare a scherzi, burle, brindisi e trovarono anche il tempo, di prendere in giro Roosvelt.

USA & URSS | nemici amici

perché USA e URSS, protagonisti della guerra fredda, nemici giurati da sempre, esponenti di due visioni del mondo opposte, si allearono contro il terzo Reich?

La verità sull’alleanza “innaturale” tra USA e URSS, contro il Terzo Reich

USA e URSS, protagonisti della guerra fredda, nemici giurati fin dalla nascita dell’Unione Sovietica, i due esponenti di due visioni del mondo opposte, alternative e totalmente incompatibile, e pure, negli anni 40, durante la seconda guerra mondiale, USA e URSS, misero da parte le proprie divergenze per combattere un nemico comune, il Terzo Reich.

Ma perché questa innaturale alleanza?

Col senno di poi, sappiamo che i crimini del nazifascismo furono tra i più abominevoli ed efferati di cui la storia abbia memoria, ma all’epoca dell’alleanza, non si sapeva dei campi di sterminio, e la ghettizzazione di alcune minoranze esisteva, sia negli USA che nell’URSS, eppure, ci fu qualcosa che spinse Roosvelet, Churchill e Stalin e mettere insieme le proprie forze e coordinare le proprie azioni, nella guerra contro l’asse.

Ma di cosa si tratta?

La risposta, amico mio, non soffia nel vento, ma è ben nota alla storia e potrai scoprirla guardando questo video, oppure, in questo articolo, in cui dirò le stesse cose che dirò in video.

USA & URSS, nemici amici.

Cominciamo col dire che la rivalità eterna, tra USA e URSS era figlia dell’incompatibilità tra le due diverse interpretazioni del mondo, dai due diversi sistemi di organizzazione dello stato e della società, e delle due diverse chiavi interpretative dell’individuo nella società

La Società Borghese

Nel mondo statunitense, nella società capitalistica borghese, l’individuo è posto al centro della società e tutto ciò che riesce ad ottenere nella propria vita è percepito (semplificando molto) come un suo successo individuale o come una sua responsabilità, diversamente, nel mondo sovietico, l’individuo è inserito all’interno di una collettività più ampia, formata da molti individui, le cui esistenze sono in qualche modo correlate, ed è compito dello stato, fornire a tutti gli individui un eguale insieme di servizi essenziali. Servizi che, in misura ridotta, lo stato fornisce anche nel mondo capitalistico borghese, ma che, in quel sistema mondo, sono affiancati di servizi e strutture private, inesistenti nel mondo sovietico, che, fondate e alimentate da capitali privati, si collocano su un livello più elevato, e non sono accessibili a chiunque, ma solo a chi è in possesso di determinati prerequisiti economici.

Queste due diverse organizzazioni della società però, presentano un principio di fondo comune, il principio per cui tutti gli uomini (maschile generico universale) sono uguali e dotati di diritti inalienabili e che, sono scollegati da ogni qualsivoglia sistema di predeterminazione sociale, imposta alla nascita, diversamente da quanto accadeva invece nell’antico sistema “feudale“, nell’ancien regime, in strutture aristocratiche, statiche e stantia, in cui il dinamismo sociale era inesistente e la vita degli uomini era predeterminata dalle condizioni sociali della propria nascita.

In quel sistema universale, precedente l’avvento delle teorie e idee illuministiche, chi nasceva da una famiglia di contadini, viveva in miseria e moriva da contadino, chi nasceva da principe, viveva nel lusso e moriva da principe, chi nasceva da una famiglia borghese, di mercanti, moriva da mercante e anche quando, per qualche motivo fosse riuscito ad ottenere ricchezze superiori a quelle degli imperiali del proprio tempo, non sarebbe mai entrato nella cerchia ristretta delle elite, in quel mondo chiuso in cui era possibile accedere soltanto per diritto di nascita.

La guerra di indipendenza americana, nella seconda metà del XVIII secolo, la successiva rivoluzione francese e poi l’età napoleonica, mettono in discussione quell’antico sistema di valori. Con la rivoluzione americana, nasce la prima nazione totalmente libera dalle antiche aristocrazie, nasce la prima nazione borghese della storia, la cui esistenza, in modo più o meno diretto, avrebbe rafforzato in europa il pensiero illuminista alimentando la rivoluzione francese, e formando, in età napoleonica, una nuova leadership europea, aliena alle antiche famiglie aristocratiche. Poi, come sappiamo il congresso di Vienna riportò l’antico ordine precostituito in europa, e riportò le antiche famiglie sui troni d’europa, ma qualcosa si era rotto, e l’esistenza di una nazione borghese, dall’altra parte dell’Atlantico, rappresentava una minaccia costante, che aleggiava sull’Europa e l’antico regime.

Tra napoleone e il 1848, come sappiamo, diverse ondate rivoluzionarie attraversarono l’europa, se pur, nella maggior parte dei casi, senza successo. Il fallimento dei moti del 20/21 e del 30/31 fu l’effetto di una rivoluzione parziale, che, a differenza della rivoluzione francese del 1792, non vide una grossa partecipazione delle masse popolari, di fatto i moti rivoluzionari della prima metà del XIX secolo furono soprattutto moti borghesi, furono rivoluzioni borghesi, per citare Hobsbawm, e fu proprio in quel contesto che si iniziò a prestare attenzione al peso e al ruolo delle masse popolari nella storia.

Negli anni cinquanta del secolo successivo si inizia a parlare di irruzione delle masse popolari della storia, un irruzione teorica in realtà, che non è mai avvenuta, di fatto le masse popolari, avrebbero osservato alcuni osservatori proprio in quegli anni, sono presenti da sempre nella storia ed il loro coinvolgimento nei grandi eventi del passato, è stato determinante.

Ad ogni modo, la presa di coscienza del peso e della forza enorme delle masse popolari nella storia e nelle società, si condensa nel pensiero di Friedrich Engels e Karl Marx, e in quello che sarebbe diventato il manifesto del partito comunista, un partito politico fondato sul principio dell’universalità umana, sull’uguaglianza dei diritti per tutti gli uomini e sul fatto che le distinzioni economiche e sociali sono un artificio costruito per tutelare il privilegio dei pochi sui molti. Esattamente gli stessi principi che, poco più di mezzo secolo prima avevano ispirato la rivoluzione francese, e prima ancora quella americana.

La società borghese capitalistica americana e la società sovietica del comunismo reale, sono figlie dello stesso mondo, Karl Marx e Samuel Adams, almeno virtualmente, combattono la stessa battaglia e difendono gli stessi ideali, se bene poi divergano nell’applicazione di quegli ideali ed è in quella divergenza che si sarebbe successivamente forma la rivalità tra USA e URSS, ma, per quanto rivali, le due realtà storiche e politiche, condividono una radice ed un atavico nemico comune, l’aristocrazia tradizionale, la cui esistenza implica l’accettazione di strutture sociali predeterminate alla nascita, un immobilismo sociale che non si confà ne con l’individualismo americano, ne con il collettivismo sovietico.

La Seconda guerra mondiale

Quando sul finire degli anni 30 e l’inizio degli anni 40 del novecento, inizia la seconda guerra mondiale, Stati Uniti e in maniera ancora maggiore, l’Unione Sovietica, individuano nel nazifascismo, l’antico nemico comune ad entrambi i sistemi di valori, il Nazismo era percepito da USA e URSS come lo spettro di quel mondo antico in cui le gerarchie sociali erano statiche e determinate alla nascita, ed è questa la principale minaccia che le due realtà, figlie dell’illuminismo, vedono nel terzo reich. Non nei campi di internamento, presenti anche in URSS e negli USA, non nei ghetti per minoranze, presenti anche in URSS e USA, non nei campi di sterminio, di cui all’epoca non si sapeva nulla, ma nel fatto che attraverso i propri valori, il terzo riech stava ricostruendo quel mondo ormai obsoleto, di matrice quasi feudale, in cui il sangue è determinante nel definire il ruolo degli individui nel mondo e nella società.

Il terzo Reich viene percepito, sia da USA che da URSS, come un tentativo di riaffermazione dell’aristocrazia tradizionale e non è un caso se ciò che rimaneva delle antiche “nobili” famiglie, in Germania furono vicine al reich, ed in italia sostennero il fascismo, e nel caso specifico dell’italia, questo elemento diventa particolarmente evidente se si guarda all’esito del referendum del 2 giugno 1946, quando l’italia e gli italiani furono chiamato a scegliere tra Monarchia e Repubblica.

L’innaturale alleanza tra USA e URSS durante la seconda guerra mondiale, alla luce di questa “radice comune” appare chiara, evidente, e non vi è alcun dubbio sulla sua natura tutt’altro che innaturale.

A Livermore c’è una lampadina accesa dal 1901

La lampadina centenaria di Livermore, è accesa (quasi) ininterrottamente dal 1901. Ma perché questa lampadina, estremamente longeva, del secolo scorso è così importante? La risposta è in una parola, anzi due, obsolescenza programmata, e questa lampadina è un residuo del mondo precedente la sua introduzione.

Non le fanno più come una volta… ed è vero, non le fanno più come una volta.
Ma, l’obsolescenza programmata è un bene o un male ?

è sicuramente un bene per le imprese e per i lavoratori, che possono continuare a produrre.
è un bene per l’economia e la finanza, che grazie ad essa più alimentarsi e produrre ricchezza.
è un forse per la società che da un lato vede aumentare i propri benefici, ma dall’altra è soggetta a spese cicliche.
è un male minore per i consumatori, che sono costretti a rinnovare i propri beni riacquistando più volte lo stesso oggetto (tipo la lampadina), ma allo stesso tempo è un bene minore, perché permette di migliorare l’efficenza con oggetti nuovi, più performanti (tipo, lampadine che consumano di meno)
è un male, decisamente un male, per il pianeta, perché alimenta la produzione di rifiuti, il fabisogno enegetico dovuto alla produzione dei beni e l’estrazione di risorse necessarie per produrre quei beni, ed è un male perché impoverisce il pianeta, svuotandolo dall’interno (passatemi la metafora).

Dunque… l’obsolescenza programmata, è un bene o un male? voi da che parte state?

“State dalla parte di chi ruba nei supermercati, o di chi li ha costruiti… rubando” ? [cit de Gregori, chi ruba nei supermercati]

Con questo articolo voglio parlarvi di Obsolescenza programmata, e voglio farlo in un modo diverso dal solito, senza polemiche, senza costrutti filosofici o dati statistici ed economici. Voglio farlo, raccotandovi una storia, ed è una storia davvero molto bella, a tratti avvincente e commovente, ed è la storia di una lampadina accesa da oltre un secolo.

Quando si parla di obsolescenza programmata, spesso lo si fa in modo critico e in termini estremamente negativi, ignorando la storia di questa pratica, dalla dubbia moralità, che determinato le sorti della nostra civiltà, al pari della prima e della seconda rivoluzione industriale, e qualcuno, azzarda, con un po’ di imprudenza, che l’obsolescenza programmata, rappresenti de facto, la terza rivoluzione industriale.

La sua storia inizia ufficialmente nel 1924, negli stati uniti d’america, quando alcune aziende produttrici di lampadine decisero di unirsi insieme e stabilirono un tempo predeterminato per la vita delle lampadine di loro produzione, costituendo, de facto, il primo caso certo (e ampiamente documentato) di obsolescenza programmata della storia.

Nel 1924 diverse società attive nella produzione di lampadine (tra le principali General Electric Company, Tungsram, Compagnie di Lampes, OSRAM, Philips), fondarono il cartello Phoebus, per la produzione e vendita delle lampadine, e le società che si adeguarono al cartello iniziarono a “programmare” il tempo di vita delle lampadine, così che dopo un certo numero di ore di utilizzo, fosse necessario sostituirle.

Ad oggi molte lampadine indicano una durata che va mediamente dalle 1000 alle 30000 ore (mediamente 15000).

Trentamila ore sono tante direte voi, beh, in realtà anche centomila ore di utilizzo probabilmente sarebbero sono poche se rapportate alla longevità di alcune delle lampadine (alogene) prodotte prima del 1924, ed ho un esempio che sono sicuro, vi lascerà letteralmente senza parole.

Negli USA, in una caserma dei pompieri di Livermore, è presente una lampadina che è accesa ininterrottamente dal 1901. In realtà non è proprio accesa dal 1901, la sua storia è divisa in due step, questa lampadina è stata accesa per la prima volta nel 1901 ed è rimasta accesa fino al 1976, quando venne spenta per circa 23 minuti, a causa di un trasferimento della caserma in un nuovo edificio, poi venne riaccesa, e attualmente è ancora lì, ancora accesa.

Secondo alcune leggende metropolitane, durante lo spostamento della lampadina la popolazione di Livermore rimase letteralmente con il fiato sospeso in quei 23 minuti, perché temevano che la lampadina, ormai divenuta simbolo intramontabile della cittadina, potesse non riaccendersi.

Il caso della vecchia Centennial Light, è ovviamente un caso estremo, non tutte le lampadine prodotte all’inizio del XX secolo erano così longeve, ma erano comunque molto longeve, abbiamo lampadine accese agli inizi del XIX secolo e sostituite per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale, e questa longevità forse eccessiva è il motivo per cui i produttori di lampadine associati al cartello (ma in realtà tutti i produttori di lampadine) hanno deciso di limitare il tempo di vita delle proprie lampadine.

Senza girarci troppo attorno, se vendi lampadine e produci una lampadina che dopo oltre un secolo di illuminazione costante, continua a fare luce, beh, ne hai sicuramente un grande ritorno a livello di immagine, e questo è innegabile, ma poi, in termini di economia reale, ne ricevi un danno, perché quando tutti avranno acquistato le tue lampadine “eterne“, a quel punto non ci sarà più mercato e la tua azienda, che produce e vende lampadine, non avrà nuovi clienti per almeno un secolo, e sarà quindi destinata a fallire o comunque a limitare o sospendere la produzione.

Da questo punto di vista, il cartello Phoebus, che rimase attivo tra il 1924 ed il 1939, ideando l’obsolescenza programmata segnò un passo importantissimo nella storia economica dell’età contemporanea e non solo, giocò anche un ruolo centrale, soprattutto negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, nel definite il carattere e le abitudini della società dei consumi, di fatto diventando il punto d’origine del consumismo reale.

Oggi l’obsolescenza programmata è di diversa natura ed è praticata, più o meno direttamente, da qualsiasi produttore di qualsiasi cosa sul pianeta, dalle scarpe ai pc alle automobili. Oggi, qualsiasi cosa è soggetta, inevitabilmente all’obsolescenza programmata, un obsolescenza che spinge il consumatore, dopo qualche anno di utilizzo a sostituire un prodotto con un analogo più recente, e molto spesso non a causa di un guasto o di un malfunzionamento, ma semplicemente perché il proprio prodotto è banalmente troppo vecchio.

Oggi i consumatori sono spinti a riacquistare periodicamente un qualcosa che fondamentalmente ha la stessa funzione di qualcosa di cui già disponeva, perché sul mercato è stata rilasciata una nuova versione più potente, più efficiente, con più funzioni, più aggiornata, che consuma meno, che produce meno rifiuti, o che banalmente, ha un design più moderno.

Al giorno d’oggi l’obsolescenza programmata è tacitamente accettata dai consumatori, nonostante in alcuni casi si muova in una zona grigia ai limiti della legalità che, in alcuni casi ha portato a vere e proprie condanne ad alcune multinazionali un po’ troppo spregiudicate nel mettere in atto questa pratica dalla doppia faccia.

Da un lato l’obsolescenza programmata rappresenta il cuore pulsante dell’economia di mercato, e di fatto tiene in vita l’attuale sistema economico, e ci aiuta a consumare col tempo meno energie o inquinare meno, facendoci magari acquistare, una lampadina prodotta con materiali riciclabili invece che tossici e che consuma meno energia, ma dall’altra parte, la necessità di alimentare i mercati, produce parallelamente una quantità crescente rifiuti e la produzione costante richiede un consumo continuo di energie.

L’impatto dell’obsolescenza programmata sulle nostre vite, sulla nostra economia, e in termini più ampi, sul nostro stesso pianeta, è qualcosa di enorme, se una lampadina durasse mediamente cento e non due anni, da un lato cambieremmo lampadine in casa probabilmente una sola volta nella nostra vita, di conseguenza producendo meno rifiuti, dovendo gettare meno lampadine guaste e non avendo confezioni di nuove lampadina da smaltire e allo stesso tempo richiederemmo al pianeta un minore consumo di risorse, perché l’industria produrrebbe meno lampadine, ma, allo stesso tempo, proprio la minor produzione di lampadine impiegherebbe meno operai sia in fase di produzione che di estrazione delle materie prime che in fase di commercio, ci sarebbe di fatto meno lavoro e questo significherebbe meno denaro in circolazione, con tutte le ovvie conseguenze del caso, sia per le aziende, che per i lavoratori, che per gli stati.

L’obsolescenza programmata, al di la di tutto, ha cambiato il nostro mondo e rivoluzionato la nostra economia e la nostra società, la sua introduzione forse un giorno verrà considerata come l’alba della terza rivoluzione industriale, più silenziosa e sotterranea delle precedenti, o forse, verrà riconosciuta come la causa principale degli enormi danni ambientali provocati dall’uomo proprio a partire dalla sua introduzione, poiché l’obsolescenza programmata ha attivato un meccanismo di produzione costante che ha moltiplicato esponenzialmente il nostro fabbisogno energetico quotidiano.

Se l’obsolescenza programmata è un bene o un male, lo lascio decidere a voi, fatemi sapere cosa ne pensate nei commenti.

Io sono Antonio e vi do appuntamento al prossimo episodio del podcast, L’osservatorio.

Mussolini tagliò il debito italiano, ma la verità è leggermente più complicata

Benito Mussolini è stato l’unico uomo ad aver cancellato il debito pubblico italiano, ma questo taglio è costato all’Italia molto più del debito, ed ha alimentò una preesistente svalutazione monetaria e produsse l’impossibilità per l’italia di ottenere nuovi prestiti e finanziamenti da parte degli investitori esteri.

Qualche giorno fa, su un noto quotidiano molto schierato politicamente e noto per titoli forti e di cattivo gusto, ho letto un articolo in cui si affermava che, Benito Mussolini è stato l’unico uomo ad aver tagliato il debito pubblico italiano. Questa stravagante teoria non è nuova, ed emerge spesso negli ambienti di un certo orientamento politico, vicino agli ideali di Mussolini e del Fascismo, ma corrisponde alla verità o si tratta solo di Propaganda?
Come ogni questione storica, la risposta purtroppo non è semplice, e liquidare il tutto ad una frase non è semplice, ma, al di la della complessità della vicenda, una cosa è certa, dire che Mussolini tagliò il debito italiano è falso, e quando Mussolini nel 1928 bruciò (letteralmente) dei titoli di stato, di fatto bruciò della carta priva di qualsiasi valore. Ma andiamo con ordine.

Mussolini brucia titoli di stato nel 1928.
Mussolini brucia titoli di stato nel 1928.

Prima dell’ascesa al potere di Mussolini e l’avvento del fascismo, l’italia si trovò ad affrontare diversi e gravi problemi di natura economica, elemento che accompagnò tutti i paesi europei impegnati nella grande guerra.

Svalutazione monetaria

Per riavviare il paese, riconvertire il sistema produttivo e rilanciare l’economia, l’italia fece ricorso all’emissione di moneta e a molteplici interventi da parte di Banca d’Italia per “salvare” le aziende in difficoltà. La nuova moneta immessa sul mercato era solo in parte coperta dall’emissione di titoli di stato e di conseguenza la moneta italiana andò in contro ad una forte svalutazione.

L’alta inflazione che ne derivò andò a colpire soprattutto le fasce più povere della popolazione, principalmente lavoratori dipendenti che, allo svalutarsi della moneta ed il conseguente incremento dei prezzi, non videro corrispondere un aumento dei salari.

In questo clima economico, fortemente sfavorevole e di grande tensione si verificarono gli avvenimenti del famoso biennio rosso (1919-1920) che causarono gravi disordini in tutto il paese e spinsero molti lavoratori impoveriti a sostenere il Fascismo poiché, neanche Giovanni Giolitti, che in passato era stato protagonista di una stagione splendente per l’economia italiana, riuscì a risolvere la crisi e sanare il debito crescente.

Questa fu la situazione che spianò la strada alla prese di potere da Quando nell’ottobre del 1922 Vittorio Emanuele III affidò il governo a Mussolini, l’italia si trovava in una situazione stagnante, con un enorme debito crescente alimentato da una moneta molto debole ed un enorme spesa statale.

Questa lunga premessa può sembrare noiosa, ma è fondamentale per capire esattamente se Mussolini riuscì a tagliare realmente il debito, se non lo ridusse ma riuscì comunque a contenerlo o se invece provocò un incremento del debito pubblico italiano.

A questo punto bisogna aprire una breve parentesi sull’orientamento economico del regime, la politica economica fascista, detta della terza via, si colloca in un limbo, una zona grigia intermedia che derivavano dall’orientamento dei vari ministri delle finanze, dall’ideologia fascista e da varie contingenze nazionali e internazionali. E a tal proposito è importante ricordare che, se bene Accentrò nelle proprie mani numerosi ministeri ed esercitò grande influenza e pressioni sui ministeri che non erano di sua competenza, Mussolini non fu mai ministro delle Finanze, del Commercio e del Tesoro. Mussolini fu ministro dell’Areonautica, degli Esteri dell’Africa italiana, delle Colonie, delle Corporazioni, della Guerra, dei Lavori Publici e della Marina, ma nessuno di questi ministeri era in grado di intervenire direttamente sul debito, e anzi, i suoi ministeri erano quelli che assorbirono maggiori risorse economiche, giocando de facto un ruolo attivo nell’incremento e non nella riduzione della spesa, ma andiamo con ordine.

I ministri del Tesoro e delle finanze

Sul piano puramente linguistico possiamo dire con assoluta certezza che Mussolini, attraverso i suoi ministeri, non fece nulla per ridurre il debito, resta però da capire se invece il governo fascista, nel suo complesso, riuscì in qualche modo a ridurre il debito o comunque a contenere la spesa limitando l’aumento del debito.

Tra il 1922 ed il 1925, il ministero delle finanze e del tesoro fu affidato ad Alberto De’ Stefani che attuò una politica di grandi tagli alla spesa pubblica, e cercò di incrementare le entrate, con l’intento di rimettere in ordine il bilancio dello stato. Una politica comune in situazioni di questo tipo, da Agostino Magliani (ministro delle finanze agli albori della prima crisi economica del regno d’italia nell’ultimo quarto dell’ottocento) a Mario Monti.

La Politica economica di De’Stefani

Per quanto riguarda la riconfigurazione delle entrate, De’ Stefani non intervenne aumentando le tasse come spesso avviene, ma al contrario, osservando che una fetta enorme della popolazione era esclusa dalla partecipazione contributiva, fece in modo di allargare la base, tassando quelle fasce sociali fino a quel momento escluse, e allo stesso tempo, ridusse le aliquote per categorie sociali ritenute più inclini all’investimento.

Detto più semplicemente, tassò le fasce più povere della popolazione, fino a quel momento esonerati e ridusse le tasse all’alta e media borghesia, producendo così un incremento delle entrate dovuto al maggior numero di contribuenti.

L’intento di De’ Stefani era quello di rilanciare l’iniziativa privata e ridurre le spese dello stato, spese che, in quel momento, erano rappresentate soprattutto dai salari di dipendenti pubblici, e di conseguenza il taglio della spesa si configurò come un taglio netto nel personale dei settori “improduttivi” dello stato, licenziamento di circa 65.000 impiegati pubblici e circa 27.000 ferrovieri e favorendo l’ingresso dei privati in alcuni settori, fino a quel momento sotto il controllo dello stato, come il settore assicurativo, ferroviario e telefonico.

In termini numerici gli interventi di De’ Stefani furono positivi e il bilancio, almeno quello statale, fu riportato in pari, mentre quello degli enti locali non fu mai parificato durante tutto il ventennio. In ogni caso, questi interventi favorirono una leggera ripresa e innescarono un lieve processo di crescita per il paese che però non risolse il problema monetario, la lira valeva sempre meno e anche se, in termini numerici il debito cresceva più lentamente, il minor valore della lira, rendeva più difficile un suo risanamento.

Fin dai tempi dalla grande guerra la Banca d’Italia si era impegnata nel sostegno delle imprese e banche immobilizzate dalla riconversione e questo impegno continuò durante i primi anni del fascismo, producendo tra il 1922 e il 1925 un incremento di liquidità che portò ad un ulteriore ondata inflazionistica, alimentata da un peggioramento della bilancia dei pagamenti.
Nel 1925 De’ Stefani promosse alcuni provvedimenti che però si rivelarono insufficienti e portarono ad un tracollo della borsa italiana e al fallimento di numerose aziende italiane.

Gli industriali rappresentavano lo zoccolo duro del fascismo ed avevano molta influenza sulle azioni del governo, così, per non perdere il loro consenso, Mussolini sostituì il ministro delle finanze, assegnando l’incarico a Giuseppe Volpi.

La Politica economica di Volpi

Volpi rimase in carica dal 1925 al 1928 e durante il suo mandato giocò un ruolo decisivo per le sorti economiche e di bilancio dell’Italia.

Sul piano internazionale il 1924, con il piano Dawes aveva visto la fine alla questione delle riparazioni tedesche e si stava valutando un ritorno delle nazioni al gold standard per stabilizzare le monete, idea nata in seno al trattato di Versailles.

Nonostante questo però, la forte svalutazione della lira, il peggioramento della bilancia commerciale e numerosi altri fattori speculativi, non resero semplice il lavoro di Volpi e come se non fosse abbastanza, il fallimento del rinnovo dei BOT venticinquennali nel 1924, dovuto alla grande richiesta di liquidità di banche e privati, impedì all’Italia di emettere nuovi titoli di stato.

Nel 1925 il bilancio interno ufficialmente era in pari, ma nei fatti non lo era, nel bilancio infatti non erano stati conteggiati i titoli di stato da ripagare e l’italia, fortemente indebitata, non era in grado di ripagare i propri debiti.

Volpi decise quindi di agire in sintonia con la Banca d’Italia che sostenne il cambio, riuscendo a raggiungere un accordo con gli in investitori americani più favorevole in termini assoluti, ma va precisato gli investitori americani raggiunsero accordi simili in tutta europa e tra i tanti, l’accordo italiano fu quello “meno morbido“, il merito di Volpi non fu quindi quello di aver trovato un accordo favorevole, come spesso si dice, ma fu quello di aver trovato un accordo.

Il prestito Morgan

Sul finire del 1925 il governo statunitense accordò all’Italia un prestito, noto come Prestito Morgan, il cui intento era quello di risollevare la lira, di fatto acquistando parte del debito pubblico italiano. Sulla stessa linea nel gennaio del 1926 l’italia trovò un accordo simile con il regno unito. Secondo questo accordo l’italia cedette al regno unito la propria quota di riparazioni tedesche, gestite della Cassa autonoma di ammortamento dei debiti di guerra, costituita il 3 marzo 1926.
Grazie a questo accordo l’italia riuscì a ripagare parte dei propri debiti esteri, rinunciando al flusso costante di ripartizioni di guerra tedesche.

A questo punto, in termini numerici l’italia era ufficialmente in pari con il bilancio, ma questo pareggio come detto, va contestualizzato e il contesto è quello di un paese che ha dovuto fare letteralmente ricorso al baratto.

L’italia ha “cancellato” il proprio debito consegnando ai propri creditori tutto quello che aveva, l’italia ripaga i propri creditori cedendo titoli esteri acquistati dal tesoro in precedenza e rinunciando alle proprie riparazioni di guerra, dal valore di diversi milioni di marchi pagati in oro ogni anno, pagamenti che la Germania avrebbe interrotto qualche anno più tardi con una decisione unilaterale in seguito all’avvento del Nazismo e di Hitler, e che avrebbe ricominciato a pagare nel secondo dopoguerra.

Il Trattato di Versailes aveva imposto alla Germania il pagamento di 132 miliardi di marchi oro, e parte di quell’oro sarebbe andato all’Italia, e anche se rateizzato, la quota italiana delle riparazioni di guerra aveva un ammontare complessivo enormemente superiore al proprio debito.

In conclusione, se è vero che sul piano linguistico è falso dire che Mussolini tagliò il debito, ma nei fatti questo taglio è riconducibile a Mussolini, allo stesso tempo, è vero dire che il fascismo tagliò il debito, ma nei fatti, questo taglio è costato all’Italia miliardi in oro, avrebbe contribuito ad alimentare una progressiva e crescente svalutazione monetaria e produsse, parallelamente alla cancellazione del debito, l’impossibilità per l’italia di ottenere nuovi prestiti e finanziamenti, trascinando il paese verso un progressivo impoverimento generale che non sarebbe stato possibile disinnescare se non fosse stato per gli aiuti postbellici, ricevuti dopo la seconda guerra mondiale.

Dire quindi che Mussolini e il fascismo hanno “sanato il debito pubblico italiano” è la cosa più falsa che si possa dire.

Fonti e letture consigliate

V.Zamagni, Il debito pubblico italiano 1861-1946: ricostruzione della serie storica, in “Rivista di storia economica”, Il Mulino, 3/1988, dicembre.
P.Frascani, Finanza, economia ed intervento pubblico dall’unificazione agli anni trenta.
R. de Felice, Mussolini il fascista, la conquista del potere, 1921-1925. https://amzn.to/2NVdhZs
S. Romano, Giuseppe Volpi. Industria e finanza fra Giolitti e Mussolini. https://amzn.to/2XR9oJF
G.Mele, Storia del debito pubblico italiano dall’unità ai giorni nostri, Tesi di laurea presso università Luiss, Dipartimento di Economia e Management Cattedra di Storia dell’economia e dell’impresa, A.A. 2014/2015.

Le infermiere del D-Day che non sono sbarcate in Normandia. Dove sono sbarcate?

Una fotografia ritrae alcune donne, infermiere della seconda guerra mondiale, probabilmente della croce rossa internazionale, durante alcune operazioni di sbarco e solitamente questa immagine è accompagnata dalla didascalia “infermiere della CRI sbarcano in Normandia durante il D-Day“, purtroppo però si tratta di un “falso storico” ma andiamo con ordine, questa è la foto.

Facendo qualche ricerca su internet effettivamente si incontrano molti re-upload di questa foto che parlano di D-Day e della Normandia, e questa teoria è supportata dal fatto che, durante il D-Day, oltre ai soldati, ed i mezzi, sulle spiagge della Normandia, sbarcarono anche numerose infermiere.

Per ovvie ragioni le infermiere sbarcarono in prima linea, e non furono mandate al macello contro l’artiglieria nemica, ovviamente sbarcarono e rimasero nelle retrovie ma ciò non toglie che sbarcarono comunque il 6 giugno, perché il loro compito era quello di prestare soccorso ai soldati feriti durante i primi scontri, e non era possibile aspettare la fine degli scontri per soccorrere i feriti.

Premesso quindi che le infermiere erano effettivamente presenti sul campo di battaglia di Normandia, impegnate a rischiare la propria vita, per salvare le vite dei soldati veniamo alla foto.

Secondo un fact check effettuato di Snopes, che ha fatto alcune ricerche per verificare l’autenticità di questa foto, questa foto ritraeva sì delle infermiere che sbarcavano sulle coste francesi durante la seconda guerra mondiale, ma non durante lo sbarco a Normandia del 6 giugno 1944, ma in un successivo sbarco avvenuto in francia meridionale il 15 gennaio 1945.

Per chi non fosse avvezzo alla geografia, specifichiamo che Normandia e Costa Azzurra sono agli antipodi del territorio francese, la prima affaccia sul nord atlantico, la seconda sul mediterraneo ai confini con l’Italia.

Snopes attribuzione queste informazioni alla fonte “Corbis Images“, celebre database fotografico che per primo ha ospitato questa immagine, e che per primo ha allegato una didascalia all’immagine che descrive nel dettaglio la scena, indicando nella descrizione il luogo approssimativo dello sbarco.

Questa è la didascalia originale

“Ladies Day” on the Riviera. Southern France. Time for Yanks in the coastal region of Southern France to sit up and take notice — lady visitors have arrived. As the ramp of this Coast Guard-manned landing barge swings down, American Red Cross women, carrying small packs and bags, jump out on the beach. Brought by Coast Guard transport from the US, they are prepared to carry out their duties and keep high the spirits of Yank fighting men.

Stando alla didascalia originale (di Corbis Images) questa foto raffigurerebbe uno sbarco soprannominato “Ladies Day” avvenuto in riviera, nella Francia meridionale nel gennaio del 45. C’è però un problema, il 15 Gennaio del 1945 non c’è stato nessuno sbarco anfibio.

Quindi, quando sono sbarcate queste infermiere?

I più attenti avranno notato che ho detto “quando” e non “dove” e il motivo è che il dove in realtà lo sappiamo, o meglio, possiamo dedurlo.

Se non è il D-Day o comunque non è lo sbarco in Normandia, ipotizzando però che la località dello sbarco sia effettivamente la costa francese, e in effetti non è che ci siano molte altre alternative, se non è la Normandia è la riviera francese

Sappiamo infatti che più o meno contestualmente all’avvio delle operazioni di liberazione dell’europa, come riflesso del successo dell’operazione cobra (sbarco in Normandia), il 15 agosto del 1944 (circa due mesi dopo il D-Day) gli alleati sbarcarono effettivamente in riviera, in diversi punti tra Tolone e Cannes, in quella che prese il nome di “operazione Dragoon” e visto che, alle spalle delle infermiere immortalate durante lo sbarco, si intravedono delle montagne, e che l’unica baia stretta dell’intero litorale è la baia di Saint-Tropez, possiamo supporre che lo sbarco sia avvenuto non lontano da lì, probabilmente ad est di Sainte-Maxime il 15 Agosto 1945 nel corso dell’operazione dragoon.

La vera storia della festa della donna

Avete presente la storiella della fabbrica che andò a fuoco? sappiate che non c’entra nulla con la festa della donna. ma proprio 0, è stata inserita “di prepotenza” negli anni 70/80 per ragioni politiche.

Vi dico (per l’ennesima volta) qualche data, così da tracciare una linea cronologica.

La prima giornata della donna (negli usa) risale al 1905, evento isolato i poche cittadine americane, su iniziativa del movimento socialista e promosso da alcuni attivisti di organizzazioni per i diritti delle donne.

La giornata della donna nel primo novecento

Nel 1909, sempre negli usa, sempre per iniziativa socialista (e promossa da diversi circoli comunisti) si ha la prima giornata “nazionale” della donna (negli USA).

Nel 1911 la giornata diventa “internazionale” seguendo la vocazione internazionalistica del movimento socialista e del partito comunista, in quel momento, in aperta contrapposizione alla politica americana ancora legata alla dottrina Monroe e alla cultura americana fondata sul culto del’uomo bianco, e in cui donne e uomini di altre etnie vi erano “naturalmente” subordinati.

La prima giornata internazionale della donna viene celebrata il 19 marzo, e più che ad una giornata di festa assomigliava ad uno sciopero, in cui c’erano donne in strada con cartelli, bandiere, striscioni, che rivendicano aumenti salariali, maggiori tutele sul lavoro maggiori diritti civili e, in alcuni casi, anche il diritto al voto, tutte cose che all’epoca erano una prerogativa dell’uomo bianco.

Sei giorni dopo questa manifestazione, il 25 marzo 1911, c’è stato il famoso incendio nella fabbrica newyorkese, che costò la vita a 123 donne, diversi uomini, di cui però non è mai fregato nulla a nessuno e, forse questa è la cosa più grave, un numero imprecisato di bambini che al momento dell’incendio si trovavano nell’edificio, e che, ancora oggi, fingiamo di non sapere esattamente perché fossero in quello stabilimento industriale.

Negli anni successivi la giornata della donna viene celebrata a singhiozzo, soprattutto a causa prima guerra mondiale e negli anni della grande guerra la giornata della donna subì alcune trasformazioni, assumendo i connotati di una manifestazione delle donne contro la guerra. Queste manifestazioni si reiterarono e furono riproposte ogni anno per tutti gli anni della guerra, ma coinvolgendo un numero sempre minore di manifestanti e città, arrivando quasi a sul punto di sparire e cadere nel dimenticatoio.

La giornata della donna dopo la grande guerra

Nel 1917 ci fu un ultimo, estremo tentativo, di mettere fine alla guerra, e in Russia venne organizzata, dal partito comunista una serie di manifestazioni “coordinate” in occasione dell’8 marzo, data simbolo che aveva caratterizzato le manifestazioni contro la guerra negli ultimi anni. Queste manifestazioni videro mobilitarsi in prima linea le donne del popolo, praticamente, madri, mogli, sorelle e figlie dei soldati impegnati al fronte, e al seguito si sarebbero uniti anche numerosi operai, contadini, e altra gente che, per vari altri motivi, non era andata in guerra ma aveva cari in guerra, per manifestare contro quella guerra che stava impoverendo il paese e richiedere a gran voce il ritiro della Russia dalla grande guerra.

Questa manifestazione sarebbe successivamente evoluta nella famosa rivoluzione di febbraio e alla fine, dopo vari passaggi e altre mobilitazioni di diversa natura, la Russia si ritirò dalla grande guerra, ma dal 1918 in poi, la giornata internazionale della donna appare come un lontano ricordo, almeno fino al 1921.

Nel 1921, nel contesto generale dell’internazionale comunista, si decise di far rinascere questa giornata per celebrare contemporaneamente, sia le donne che l’8 marzo 1917 avevano fatto sentire la propria voce alla Russia, sia per celebrare, in senso più ampio la donna e riprendere anche fuori dall’unione sovietica le lotte originali per l’emancipazione femminile. E visto che era superfluo fare due giornate diverse decisero di accorpare tutto alla data più simbolica, quella dell’8 marzo.

Dal 1921 in poi la giornata internazionale della donna sarebbe stata celebrata (nel mondo sovietico) non più il 19 marzo ma l’8 marzo, nel resto del mondo invece… beh, il resto del mondo odiava i comunisti, quindi la festa della donna non si è più celebrata, se non nella forma originale di manifestazione e scioperi, di dimensioni molto contenute, sponsorizzate dai comunisti, che molto spesso portarono all’arresto dei manifestanti, ma questa è un altra storia.

La giornata della donna durante la guerra fredda

Nel 1975, l’anno internazionale della donna, le Nazioni Unite avrebbero riconosciuto ufficialmente la giornata internazionale della donna che quindi sarebbe uscita definitivamente dall’orbita socialista/comunista/sovietica e divenne la festa della donna così come la conosciamo… più o meno.

In quel periodo, ci troviamo tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80, siamo nel vivo della guerra fredda e negli USA comincia a circolare non poco malcontento nei riguardi di questa giornata, perché la sua storia nobilitava il mondo comunista, e gli USA, non potevano accettare il merito dei comunisti di aver celebrato le donne per più di mezzo secolo, mentre negli usa si era costruita l’immagine della donna quale creatura subordinata all’uomo, di fatto segregata in cucina e ai fornelli, intenta a stirare, lavare, cucinare e prendersi cura della famiglia, mentre le donne sovietiche andavano nello spazio.

La festa della donna tra occidente e mondo sovietico

Negli stati uniti il divario tra le donne “americane“, generalmente dipinte come casalinghe, e le donne “sovietiche“, che andavano nello spazio, era inaccettabile e per evitare che il movimento femminista americano, che in quegli anni acquisiva sempre maggior forza, consensi e influenza, che in quegli anni si impegnava attivamente nella lotta per l’emancipazione della donna americana quale controparte femminile dell’uomo e non come modello subordinato ad esso, come dicevo, per evitare che il movimento femminista americano potesse spostarsi troppo a “sinistra” e finire nella sfera di influenza “comunista“, proprio negli USA iniziò a circolare il falso storico della giornata della donna nata come “ricorrenza” di un incendio in fabbrica avvenuto in un ipotetico 8 marzo di non si sa bene quale anno precedente la prima guerra mondiale.

Del resto quell’incendio era ben documentato e noto, soprattutto nella grande mela, e viste le fondamenta solide e la veridicità dell’episodio, il racconto si diffuse letteralmente a macchia d’olio, sovrascrivendo per molto tempo, la storia reale che c’è dietro la giornata internazionale della donna, una giornata che già nel 1911 si rifaceva ad idee politiche di emancipazione della donna ed affondava le proprie radici da un lato nel movimento socialista e dall’altro, nel movimento delle suffragette. E anche se l’incendio è vero, e ciò che è successo è drammatico e quella storia non va assolutamente dimenticata, è importante sottolineare che quell’incendio non ha e non ha mai avuto un reale legame con la giornata internazionale della donna, la cui storia, è fortemente legata alle lotte per l’emancipazione della donna, alle manifestazioni per maggiori tutele sul lavoro e innumerevoli battaglie per i diritti civili, promosse da associazioni ed organizzazioni, di varia natura e più o meno vicine al mondo socialista/comunista.

Conclusioni

La giornata della donna, possiamo dire che nasce come una giornata, uno sciopero, una manifestazione per l’emancipazione della donna e che finisce con il legarsi in maniera indissolubile alla tradizione sovietica. Rappresenta un punto di incontro tra due mondi, tra due realtà che nel vivo della guerra fredda si consideravano incompatibili ed è proprio in quel clima di grande tensione che caratterizzò la guerra fredda che l’occidente filoamericano sentì il bisogno, quasi viscerale, di trovare una “storia alternativa“, per raccontare le origini di quella ricorrenza riconosciuta come estremamente importante e necessaria in tutto il mondo. Con la “storiella” della fabbrica il mondo occidentale prova quindi ad “appropriarsi” o meglio, a “riappropriarsi” oltre mezzo secolo più tardi, di quel concetto di emancipazione, libertà e uguaglianza, intrinsechi nella giornata, concepita nel mondo occidentale e celebrata per la prima volta nel 1905 negli USA, e slittata (per volontà politiche) nell’orbita comunista.

Fonte ONU : http://www.un.org/en/events/womensday/history.shtml

Papa: Tra un anno si aprirà l’archivio segreto di Pio XII

Papa Francesco ha dichiarato che dal 2 marzo 2020 verrà aperto alla ricerca l’archivio segreto contenente tutta la documentazione di e su Pio XII. L’archivio comprende tutta la documentazione prodotta dal pontefice, diari personali, lettere ricevute, copie delle lettere inviate e tanto altro ancora. Si tratta di una vera e propria miniera d’oro che, permetterà di guardare sotto una luce nuova il ruolo della chiesa durante la seconda guerra mondiale.

Non so se vi rendete conto della portata epocale di questa dichiarazione, o forse si, ma fingiamo che di no.

Il Papa ha annunciato l’apertura, più o meno al pubblico (più precisamente di aprire alla consultazione dei ricercatori) la documentazione archivistica attinente al pontificato di Pio XII, dalla sua elezione alla sua morte. Documentazione che verrà usata da storici e ricercatori di tutto il mondo per ricostruire il ruolo della chiesa durante la seconda guerra mondiale e che di conseguenza, produrrà una quantità sterminata di articoli, conferenze e libri, che porteranno quelle informazioni “segrete” al grande pubblico oltre che agli addetti ai lavori.

Sul piano storiografico è qualcosa importantissimo, perché l’apertura di questo archivio ampia enormemente le informazioni in nostro possesso, sia per quanto riguarda la seconda guerra mondiale che gli anni immediatamente successivi e l’occupazione sovietica dell’europa orientale.

Papa Pio XII è stato pontefice in un periodo paradossale, sul quale abbiamo tante informazioni, tante fonti, ma allo stesso tempo, sappiamo ancora pochissimo a causa di un enorme vuoto dovuto alla mancanza di informazioni su cosa accadeva nelle retrovie.

Sappiamo cosa facevano i cristiani in questo periodo, ma non sappiamo come lo facevano, non sappiamo perché, non sappiamo quali erano gli ordini partiti da Roma e se c’erano degli ordini o delle indicazioni partite da Roma, non sappiamo come funzionavano le reti di contatti che furono usate dai cristiani durante la seconda guerra mondiale per salvare le vittime del reich dalla deportazione e nel dopoguerra, per salvare le vittime dell’URSS dall’occupazione sovietica dell’est europa e la deportazione, ne sappiamo se queste reti esistevano davvero ed erano supportate da Roma, o se invece erano organizzazioni aliene alla volontà del papa e di fatto erano organizzazioni laiche.

Non abbiamo un idea chiara di quale fosse la reale posizione di Roma, in effetti non abbiamo idea di quale fosse la posizione di Roma e della chiesa, abbiamo solo mille domande che da oltre settant’anni giacciono senza risposta, domande a cui non è stato possibile dare una risposta perché non c’erano fonti o meglio, non c’erano fonti accessibili visto che l’archivio era blindato, e ora questi dubbi mai sradicati, con l’apertura di questo archivio segreto, finalmente possono essere risolti. Finalmente è possibile fare chiarezza sulla posizione della chiesa, almeno durante il mandato di Pio XII.

Papa Pio XII, nato Eugenio Maria Giuseppe Pacelli, detto Pastor Angelicus, è stato in carica dal 12 marzo 1939 al 9 ottobre 1958 e l’apertura del suo archivio segreto, ci fornirà una quantità di informazioni uniche su quegli anni, in particolare sul ruolo della chiesa durante la seconda guerra mondiale e nei primi anni della guerra fredda.

Faccio una piccola considerazione personale, visto che il ruolo di Pio XII è spesso (per non dire da sempre) al centro di polemiche, da alcuni accusato di collaborazionismo, da altri di essersene lavato le mani, da altri ancora è proposto come un eroe che ha salvato migliaia di vite, ipotizzo, che Papa Francesco abbia incaricato una commissione ecclesiastica per verificare il contenuto di questi documenti prima di darli in pasto agli storici e solo dopo aver stabilito se Pio XII aiutò (direttamente o indirettamente) il nazifascismo o lo contrastò (direttamente o indirettamente) siano giunti alla decisione di aprire l’archivio.

Personalmente non credo che Papa Francesco abbia predisposto l’apertura di un archivio che potrebbe in qualche modo “macchiare” la reputazione del suo predecessore e della chiesa senza aver prima presto le dovute precauzioni, credo invece che, credo invece che questa mossa sia di natura “politica” e che abbia un ruolo fondamentale nel dettare la linea d’azione dei cattolici nella società contemporanea.

Ipotizzo, e ci tengo a precisare che le mie sono solo congetture, perché non ho ovviamente visto cosa c’è nell’archivio, che da quell’archivio verrà fuori molto materiale che dimostrerà il ruolo attivo del papato e della chiesa, nella “lotta sotterranea” al nazifascismo prima e al comunismo sovietico dopo, una lotta che vedrà la chiesa impegnata più nelle retroguardie che in prima linea, a difendere il diritto alla vita di atei, ortodossi, ebrei, musulmani, insomma, produrrà l’immagine di una chiesa che negli anni quaranta e cinquanta si è impegnata nella difesa di culture aliene al cristianesimo romano, e fare questa mossa, in anni in cui molti leader politici si fanno portatori di una “moderna crociata” contro culture non cristiane, o semplicemente puntano il dito contro i poveri e gli oppressi, aprire questo archivio, in questo contesto storico, che da molti è proposto come una riedizione in chiave moderna della crisi degli anni trenta e quaranta, rappresenta una presa di posizione importante e forte per la chiesa, che esce dalla sua confort zone, e si mobilita al fianco degli ultimi.

Se questi documenti dovessero dimostrare che, durante la seconda guerra mondiale, Pio XII, da Roma, si è impegnato a contrastare le deportazioni, il razzismo, l’intolleranza culturale, e sono sicuro che il materiale presente in quell’archivio dimostri esattamente questo, perché in caso contrario gli archivi non sarebbero stati aperti, e noi neanche sapremmo della loro esistenza, si tratterebbe di fatto di una chiamata alle armi per i cristiani, l’invito definitivo, da parte del pontefice, ad aiutare “il prossimo” e per prossimo non intende in senso di “prossimità” come qualcuno ha dichiarato recentemente, ma il prossimo è inteso nella sua forma originale cristiana come colui che viene dopo, il prossimo di cui dobbiamo prenderci cura in qualità di cristiani è l’ultimo, il povero, il malato, l’oppresso, il perseguitato, il prossimo è colui che affronta un esodo, attraverso il deserto e attraverso il mare, come fecero nei testi biblici gli ebrei in fuga dall’Egitto.

E questo invito è rafforzato, dall’esempio storico di Papa Pacelli che si è mobilitato per gli ultimi in un momento storico estremamente duro, in cui l’europa era avvolta dal velo oscuro del totalitarismo, e se ci hanno provato in anni in cui aiutare un Ebreo significava mettere a rischio la propria vita e quella dei propri cari, oggi che, aiutare qualcuno non comporta rischi diretti per la propria sicurezza, in teoria, dovrebbe essere più facile.

Personalmente non ho dubbi su cosa verrà trovato in quegli archivi, perché ripeto, se quel materiale rischiasse di compromettere l’immagine di Pio XII gli archivi rimarrebbero chiusi, lo scopo di questa apertura, a mio avviso, è quello di ripulire e fugare ogni dubbio sul ruolo della chiesa durante la seconda guerra mondiale, e credo che il papa voglia realizzare questa ripulita, questa operazione di riqualificazione del cristianesimo e del papato, nell’unico modo possibile, ovvero consegnando alla storia questi episodi ed affidando agli storici il compito di ricostruire, nella maniera più completa e oggettiva possibile ciò che è successo in quegli anni.

La narrazione cristiana non è sufficiente a ripulire i cristiani e il papato, per via di un evidente conflitto di interessi, ma una narrazione storica, aliena ad ogni qualsiasi pregiudizio, una narrazione oggettiva e superpartes, supportata da fonti e documenti di ogni tipo, quella è difficile da non accettare.

Sul piano della ricerca quel materiale rappresenta una vera e propria miniera d’oro, il loro valore è inestimabile e può letteralmente riscrivere ciò che sappiamo di quegli anni, aggiungendo alle voci già note, una nuova voce molto importante che, fino ad oggi era rimasta inascoltata, la voce del papa, la voce della chiesa, la voce dei cristiani.

Dal 2020, grazie alla decisione di Papa Francesco, potremmo finalmente definire in maniera inequivocabile e al di la di ogni ragionevole dubbio, quello che è stato il reale ruolo della chiesa, durante la seconda guerra mondiale e durante i primi anni dell’occupazione sovietica della Polonia e dell’est europa, aggiungendo un nuovo capitolo alla nostra storia.

Un capitolo che ha anche un risvolto politico, perché ci costringerà a guardare sotto una luce diversa anche l’attualità.

Educazione Civica diventerà obbligatoria, ma a quale prezzo?

Nelle intenzioni del governo giallo-verde sembra esserci un progetto di rinnovamento dell’ordinamento scolastico che prevede l’obbligatorietà dell’educazione civica.

La prima reazione immediata e istintiva a questa notizia è “Bello, finalmente, fantastico, era ora“, poi però ci si ferma a pensare, a riflettere, ed è impossibile non chiedersi “si, ma a quale costo?

Qualche post fa ho parlato della linea del ministero dell’istruzione in merito di “riforme scolastiche“, ed è una linea a costo zero che mi spaventa, soprattutto in questo caso. Già, perché inserire una nuova materia a costo zero, è impossibile, ci sarà sempre un costo da pagare, e se quel costo non è di natura economica, potrebbe non essere tanto bella come riforma.

L’inserimento di educazione civica nel piano scolastico produce una domanda fondamentale, la cui risposta purtroppo non è 42.

La domanda che dobbiamo porci è, come verrà introdotto questo nuovo insegnamento obbligatorio?

Le possibili risposte sono solo due, o si aggiungono delle nuove ore alla settimana alle ore già previste per la scuola, o queste ore vengono prese ritagliate tra quelle giù presenti e visto che il ministro dell’istruzione non sembra interessato a spendere per la scuola, e che per aggiungere ore bisogna spendere del denaro, temo la strada più probabile sia la seconda.

Nel caso della prima ipotesi c’è poco da dire, le ore aumentano, si spende di più per l’istruzione e la formazione degli studenti e il discorso finisce li.

Il secondo caso, è invece quello più problematico, perché bisogna capire a quale materia toccherà sacrificarsi in favore dell’educazione civica, chi cederà il passo, quella materia inutile che è la storia o quella cosa complicata che è la matematica?

Per quanto mi riguarda l’opzione ideale è quella di aggiungere un ora in più e lasciare invariate le altre, ma dovendo necessariamente sacrificare un ora di una materia, per l’educazione civica, anche se sono cattolico, credo che l’opzione migliore sia quella di eliminare l’ora di religione in favore dell’ora di educazione civica.

Personalmente credo che questa sostituzione sarebbe dovuta avvenire agli albori della repubblica vista la natura laica dello stato italiano, ma non è questo il punto.

Sostituire l’ora di religione con un ora di educazione civica è probabilmente la soluzione più conveniente in tutti i casi, tranne che in uno, quello politico. Mi spiego meglio.

Sostituendo l’ora di Educazione Civica all’ora di religione, si andrebbe a sostituire una materia, che di fatto rappresenta un ora di pausa nella maggior parte delle scuole, un ora in cui la maggior parte degli studenti non fa nulla e non impara nulla, anche perché parliamo di una materia che neanche fa media e il cui voto non è determinante ai fini della promozione, con un ora molto importante nella formazione personale degli studenti, un ora che insegnerebbe agli studenti a stare nel mondo e relazionarsi con gli altri con rispetto, e questo farebbe sicuramente bene agli studenti.

Non apporterebbe modifiche ai tempi scolastici, ne alle ore di lezione o di studio, e, in ultimo, ma non meno importante, sul piano economico, non costerebbe assolutamente nulla, sarebbe una “riforma a costo zero” come piace al ministro Bussetti, l’uomo che non molto tempo fa, parlando di investimenti per la scuola, ha dichiarato “ci si scalda con quello che si ha“.

Sostituire l’ora di religione con l’ora di educazione civica ha inoltre un importante risvolto politico, culturale e sociale, significa rendere realmente laica la scuola, che in uno stato laico dovrebbe essere un meccanismo automatico, ma non stiamo a puntualizzare.

Qui però sorge un problema, laicizzare la scuola significa togliere al cristianesimo romano il primato che oggi ha nelle scuole, significa rendere vane le battaglie per i crocifissi e presepi nelle scuole, in una scuola realmente laica infatti, non ha alcun senso che vi siano affissi o esposti simboli religiosi, e questo indipendentemente dalla tradizione culturale del paese. Il problema però è che questa legge dovrà passare al vaglio di una forza politica come la lega, che ricordiamo, aver fatto propria la battaglie per preservare la presenza di crocifissi e presepi nelle scuole.

Personalmente non riesco a trovare concilianti le due strade, non si può laicizzare la scuola abolendo l’ora di religione e allo stesso tempo battersi perché i crocifissi restino affissi ed esposti nelle scuole.

Da questo punto di vista, togliere l’ora di religione, significa quasi tradire quella parte di elettorato cattolico conquistato sventolando vangeli e rosari. Significa correre un enorme rischio sul piano politico, rischio che può letteralmente costare tanti voti ed è qui che c’è il problema. Non si può avere tutto, o la scuola è laica o non lo è, o lo stato è laico o non lo è, o le ore aumentano o non aumentano, non è possibile restare nel mezzo e non esporsi, e in un ottica di ossequiosa ricerca del consenso da parte delle forze di governo, prendere una posizione, esporsi, significa fare una scelta che inevitabilmente provocherà una perdita di consensi, dall’una o dall’altra parte.

Il motivo per cui dal 1945 ad oggi nessun governo ha tolto l’ora di religione è, in parte perché per oltre quarant’anni i cattolici sono stati al governo con la democrazia cristiana, e in parte perché farlo avrebbe significato, nell’immediato, inimicarsi i cattolici e spingerli a votare per qualcun’altro, e visto che i cattolici sono da sempre una fetta importantissima dell’eletto italiano, rinunciare ai loro voti significa rinunciare a governare.

Tornando alla riforma che in teoria dovrebbe rendere obbligatorio l’insegnamento di educazione civica, come dicevo, questa può essere fatto solo in due modi.
O aumentando le ore e quindi spendere più soldi, o ritagliare un ora in quelle odierne, di fatto togliendo quelle ore ad un altro insegnamento, ad un altra materia. Sul piano scolastico, ragionando in maniera logica, l’unica ora realmente “sacrificabile” è quella di religione, togliere ore a qualsiasi altra materia danneggerebbe gli studenti e visto che, già ora, non sempre si riesce a portare a termine il programma ministeriale, con circa 33 ore in meno in un anno, completare il programma ministeriale diventerà decisamente irrealizzabile.

Lo stesso ministro Bussetti, proprio qualche giorno fa, osservava che, per quanto riguarda la storia, se ne fa troppo poca e la maggior parte degli studenti difficilmente riesce ad arrivare oltre la seconda guerra mondiale, di fatto ignorando completamente tutto ciò che è avvenuto dagli anni cinquanta ad oggi, e questo nonostante il programma ed i manuali, arrivino fino ad oggi.

Con le attuali ore a disposizione, la maggior parte degli studenti riesce a coprire poco più di un terzo dell’intero programma di storia, sottrarre loro da un terzo ad un quinto delle ore, significherebbe far loro un danno enorme, probabilmente non arriverebbero neanche alla seconda guerra mondiale, o peggio, affronterebbero temi come l’avvento dell’unione sovietica, del fascismo e del nazismo, in maniera così superficiale da non riuscirne a comprenderle a pieno, e già oggi, molti studenti (ed ex studenti) hanno le idee parecchio confuse in merito.

Non fraintendetemi, sono assolutamente favorevole all’introduzione dell’educazione civica come materia obbligatoria, è importantissimo che a scuola si imparino i meccanismi di base della democrazia, della repubblica, si impari a conoscere il ruolo ed il valore delle istituzioni, è importantissimo che si studi la costituzione (o almeno i principi fondamentali), ma deve essere fatto bene, deve essere dedicato uno spazio proprio a questo insegnamento. Bisogna investire in questa materia e nella scuola in generale, e ciò che non approvo è l’idea di una “riforma a costo zero” che di fatto cannibalizzerebbe alcune materie per ritagliare uno spazio non sufficiente e non adeguato ad una materia fondamentale per la formazione dei cittadini del domani.

Storia e funzione del Carnevale

Il carnevale è la festa della satira e dello scherzo, il giorno in cui cadono le convenzioni sociali e si ribalta l’ordine precostituito della società, ma anche il giorno in cui ci si abbuffa di carne prima di una lunga dieta spirituale.

Il carnevale è una delle mie feste preferite, fin da quando ero bambino, e crescendo ho iniziato ad apprezzarlo sempre di più, non solo per il modo in cui era vissuto, ma anche per la sua storia e per il suo significato più profondo.

Al di la della ricorrenza prettamente religiosa, che segna l’inizio della quaresima, praticamente la versione cristiana del Ramadan islamico, in cui, in teoria, per circa 40 giorni si rinuncia al consumo di carne e di alcolici, ma che nei fatti si riduce a non mangiare carne per meno di un giorno alla settimana, questa festività, in qualche modo legata al martedì grasso sul piano etimologico (carnevale deriva da una locuzione latina che significa eliminare la carne), è in realtà molto più antica del carnevale stesso e dello stesso cristianesimo.

Il carnevale venne riscoperto in italia intorno al XV secolo, o almeno, è in quel periodo che incontriamo i primi riferimenti al carnevale, più o meno così come lo conosciamo oggi, è nel 1400 che questa parola, carnevale, inizia ad essere utilizzata in concomitanza con il martedì grasso e l’inizio della quaresima, e da lì in avanti si sarebbe diffusa in tutta europa e successivamente nel mondo, ma è in italia che per molto tempo, sarà maggiormente radicata.

In realtà, nel XV secolo, il termine carnevale era già in uso in italia da qualche secolo, per indicare alcune festività mascherate, in particolare a Venezia, il termine carnevale, era usato fin dall’XI secolo, per indicare un importante festa cittadina mascherata, festa che sarebbe poi evoluta nel carnevale veneziano, che oggi è una delle celebrazioni del carnevale più iconiche, rappresentative e apprezzate al mondo, ma che, a differenza di altri carnevali, guarda al carnevale in un modo, potremmo dire unico, ed è forse proprio questa unicità che rende il carnevale di venezia così particolare ed apprezzato.

Che cos’è quindi il carnevale vi starete chiedendo? se è non l’ultima grande abbuffata di carne prima della quaresima, cosa rappresenta questa festa? e perché il carnevale di Venezia è così diverso da quello di New Orleans?

Partiamo dal principio, il carnevale, così come molte delle festività e delle ricorrenze del mondo cristiano (e non solo), ha origine nel mondo antico, in epoca greco/romana, e si plasma su di alcune festività e celebrazioni pagana precedenti. Lo stesso è avvenuto anche per il natale e la pasqua e il carnevale, non fa eccezione.

Il motivo di questa sovrapposizione dell’iconografia cristiana al precedente mondo pagano è legato ad una fase transitoria della civiltà, delle tradizioni e della cultura e serviva principalmente a facilitare il passaggio alla nuova cultura, richiamando, nella nuova cultura cristiana, alcuni dei principali modelli tradizionali e quindi, delle principali festività, questa sovrapposizione ha portato, soprattutto in italia ad alcuni fenomeni particolari, come il culto dei santi, di fatto una rielaborazione in chiave cristiana degli antichi pantheon politeistici.

La festività anzi, le festività su cui si basa il carnevale sono numerose e varie, ma tra le tante, le feste dionisiache per il mondo greco ed il loro analogo romano, i saturnali , sono quelle certamente più significative.

Durante le dionisiache e le saturnali, nel mondo antico, si realizzava un totale ribaltamento dell’ordinamento sociale, le convenzioni sociali in quelle giornate venivano sospese e in nome dello scherzo e della dissolutezza, ognuno era libero di dire ciò che voleva e lasciarsi andare ad azioni fuori dal comune.

In queste giornate anche l’ultimo degli ultimi poteva sentirsi un re, mentre i ricchi e potenti, potevano scendere dai loro piedistalli e lasciarsi andare, ai loro più arcani desideri, senza vergogna e senza la necessità di nascondersi.
Per fare un esempio concreto, a Roma, durante i saturnali, gli schiavi erano elevati a padroni ed i padroni servivano gli schiavi, e questo molto spesso si traduceva in feste particolari e piccanti.

Festività di questo tipo, in cui l’ordine sociale viene ribaltato per uno o più giorni, non sono una peculiarità del mondo romano, ne incontriamo infatti in quasi ogni civiltà antica, le incontriamo a Babilonia, in occasione dell’equinozio di primavera, ma anche in India, in Cina, in Giappone, nel mondo germanico e in quello celtico, insomma, ne incontriamo realmente dappertutto, in momenti diversi dell’anno, in epoche diverse e con celebrazioni diverse dal significato diverso.

Il motivo per cui il ribaltamento temporaneo dell’ordinamento sociale e la sospensione di ogni convenzione sociale in alcune giornate di festa, è così presente nel mondo antico, ha ragioni sociologiche e politiche.

Queste feste erano uno strumento di controllo della popolazione, delle masse, e il controllo avveniva fornendo alle masse popolari una sorta di valvola di sfogo che esorcizzasse la realtà permettendogli, per un giorno, di sentirsi liberi e sereni, letteralmente nei panni di qualcun’altro, non è quindi un casa se oltreoceano nel XIX secolo, negli stati uniti e in Brasile, al tramonto della schiavitù, il carnevale sia riuscito a radicarsi ed affermarsi così tanto, da rendere città come New Orleans, sul delta del Mississippi, e Rio, alcune delle capitali mondiali del carnevale.

Rio e New Orleans, hanno in comune un passato travagliato e doloroso e sono realtà urbane molto povere, soprattutto negli anni delle prime celebrazioni del carnevale, ed è in quella grande povertà di città popolate principalmente da contadini, da reietti ed ex schiavi, che questa festa esplode in maniera fragorosa, rumorosa ed estremamente colorata.

Diversamente, realtà storiche come Venezia, molto ricche, potenti e influenti, vedono l’evolversi di un carnevale diametralmente opposto.

Quello veneziano è un carnevale molto più antico, di quello di Rio, di New Orleans o di Viareggio per restare in italia, ed è forse il primo vero carnevale ad introdurre la maschera.

La maschera che copre il volto e rende irriconoscibile chi la indossa, come per i dionisiaci ed i saturnali, ribalta l’ordine sociale, non lo ribalta totalmente però, nel carnevale di Venezia infatti le convenzioni sociali ed il costume rimane invariati, ciò che decade a Venezia è “solo” lo status sociale. Venezia è una città, una repubblica, di mercanti e mercenari, vi sono ricchi e poveri ma vi sono relativamente pochi nobili, e in questa realtà in cui di fatto tutti sono potenzialmente uguali, ma nei fatti non lo sono, eliminare la gerarchia sociale per un giorno, significa rafforzare quella prospettiva di successo che anima gli strati più poveri della società. Indossare una maschera a Venezia significa dimenticarsi per un giorno quanto si è ricchi o poveri e vivere in mezzo agli altri, con la possibilità di interagire con persone altrimenti irraggiungibili. E questo, come per i saturnali romani, molto spesso sfociava in eventi “privati” particolari e piccanti.

Diciamo però che il festino di eyes wide shut anche se non è totalmente rappresentativo della realtà, sotto certi aspetti, ci dice molto su queste feste private.

Il carnevale quindi si dirama storicamente in due filoni e quello che è giunto a noi è soprattutto la sua componente popolare, il carnevale povero, se infatti per le classi agiate il carnevale era sinonimo di feste ad alto contenuto erotico, per la maggior parte della popolazione il carnevale era soprattutto una festa della satira e dello scherzo, la festa che frantumava l’ordine sociale ed è proprio questa la componente che sarebbe sopravvissuta (anche se a Rio e New Orleans la componente erotica è ancora molto presente)

Oggi il carnevale è soprattutto questo, una festa giocosa, allegorica, con un alta, altissima, concentrazione satirica, potremmo quasi dire che il carnevale è la festa della satira per eccellenza e non è così solo oggi, è così da prima che esistesse il carnevale.

La scorsa settimana sono stato al carnevale di Viareggio, ci vado ormai ogni anno da almeno da qualche tempo, e questo carnevale è, dal punto di vista della satira, quello più iconico e significativo, è impossibile non incontrare a Viareggio carri o maschere che fanno il verso agli attuali protagonisti della politica italiana e non.

Di solito c’è molta attenzione all’attualità, soprattutto alla politica interna, quest’anno però ho avuto come l’impressione che questa componente fosse molto depotenziata, praticamente non c’erano carri raffiguranti il volto di Conte, Di Maio e Salvini, e pure per anni membri del governo più noti, opportunamente inseriti in contesti satirici e caricaturali, sono stati i veri protagonisti del carnevale di Viareggio, e il carro, il gioco, lo scherzo, la satira, era un modo per esprimere una critica politica forte, ma con leggerezza, quest’anno però la satira è stata rivolta soprattutto all’estero, e vedeva protagonista Donald Trump, ma di riferimenti alla nostra politica non c’era quasi l’ombra e i pochi che c’erano hanno suscitato una reazione nel pubblico presente, non particolarmente piacevole.

Mi ha colpito particolarmente un episodio di cui sono stato testimone diretto, stava sfilando una maschera raffigurante Mussolini che cavalcava in sella ad un T-Rex, mentre in mano teneva una maschera raffigurante il volto di Matteo Salvini e il titolo della maschera era “sono tornato”.
Questa maschera era satira pura e lanciava un messaggio politico molto forte, soprattutto se si considera che Viareggio si trova in una regione che ha vissuto in modo molto duro la guerra civile ed allo stesso tempo è potuta in qualche modo fiorire a livello urbano durante gli anni del fascismo. Viareggio si trova in una zona d’italia in cui il ricordo il ricordo del fascismo e della guerra civile è molto doloroso, da entrambe le parti, e pure, mai mi sarei aspettato di vedere qualcuno che durante la sfilata di carnevale, urlasse ad una maschera parole poco lusinghiere sulla madre dell’autore e commentasse la maschera dicendo “basta con la politica, siamo qui per divertirci”.

Se siete arrivati fino a questo punto avrete già letto la ricostruzione della storia del carnevale, avrete familiarizzato con il suo ruolo ed il suo senso, la sua missione di ribaltare l’ordine sociale e l’elevazione della satira e sentire gridare ad una maschera satirica, “basta satira”, basta con la politica, a carnevale è stato abbastanza sconcertante. Criticare la satira in una festa che è la massima espressione della satira ed è nata per ragioni politiche, è un po’ come criticare il formaggio in un cheesburgher.

Il carnevale di Viareggio, come manifestazione, ha inizio sul finire del XIX secolo ma è diventato così come lo conosciamo oggi, con grandi carri, sfilate e tanta satira, soltanto nel 1925, e questa data è importantissima, perché ci troviamo nel 1925, all’alba del venennio fascista, pochi mesi dopo il carnevale del 1925 sarebbe stato pubblicato il manifesto degli intellettuali fascisti, ma, nonostante il regime, nonostante il clima autoritario del regime fascista, il carnevale è stato festeggiato e celebrato per tutto il ventennio o almeno fino al 1939, e solo negli anni della guerra e poi della guerra civile non hanno sfilato maschere, ma perché l’italia era in guerra, non per altro.

Persino negli anni più duri del ventennio e della repressione fascista, a carnevale, la satira ha trionfato e tra i carri che sfilavano, in tutta italia, era facile riconoscere le sembianze caricaturali di giganti in carta pesta raffiguranti Benito Mussolini e Vittorio Emanuele.
E qui arriva il dramma, perché se negli anni del regime la satira era tollerata, anche se nel solo giorno di carnevale, per via del ribaltamento dell’ordine sociale concesso in quella giornata, se nel vivo del ventennio fascista, nella parentesi più cupa della storia italiana, a carnevale era comunque possibile prendere in giro Mussolini, le cose oggi sembrano stiano preparandosi ad andare in una direzione totalmente diversamente, la satira è demonizzata sempre più spesso e si viene perseguitati e condannati mediaticamente se si fa satira, e se è drammatico che questo avvenga in giornate ordinarie, il fatto che stia iniziando ad avvenire anche a carnevale è allarmante.

E’ già grave che non si possa quasi scherzare sulla politica, ma se non lo si può fare neanche a carnevale, allora abbiamo un problema, ed è un problema enorme. Se questa è la strada che stiamo intraprendendo allora mi chiedo, in che cosa siamo diversi dalla Russia, dalla Turchia, dalla Korea, o Cina, dove si rischia il carcere se si associa il presidente a Winnie the Pooh, per via della palese somiglianza estetica tra i due?