La storia di Adriano II – L’uomo che disse di no. Costretto a diventare Papa

Quella di Papa Adriano II è una storia affascinante e complessa, fatta di intrighi, tradimenti, cospirazioni, rapimenti e omicidi. Il protagonista è un uomo che per due volte rinunciò ad essere papa, e la terza volta venne costretto a fare il papa, un uomo cha quando diventò Papa aveva una moglie e una figlia adolescente, che vennero rapite e uccise pochi mesi dopo la sua nomina a capo della chiesa cattolica.

Il tutto, nel vivo di una delle fasi più accese dello scontro politico tra papato ed impero, in anni in cui nacque ed è ambientata la leggenda della Papessa.

Sono anni particolarmente complessi dal punto di vista politico, anni in cui l’elezione del papa non avviene ancora attraverso il conclave e la sua nomina era fortemente influenzata da correnti politiche e dall’influenza di alcune famiglie nobiliari romane, dalla corona imperiale, ma anche e soprattutto, dall’approvazione del popolo romano.

L’elezione del papa in effetti, in questa fase, è molto simile alla procedura per l’elezione dell’Imperatore dell’Impero Romano, spesso il futuro papa era scelto dal papa morente, a cui affidava un incarico importante vicino alla curia romana, ma questo non garantiva comunque la sua elezione poiché la nomina effettiva spettava al clero e al popolo romano che lo acclamavano. La nobiltà romana non ha un ruolo attivo, almeno in apparenza, tuttavia aveva l’influenza e il potere di dirigere applausi e i fischi dei romani.

In questo contesto complesso e fumoso avviene la nomina a vescovo di Roma di Adriano II, un uomo sposato, che aveva una figlia e che fu eletto “Papa” per tre volte, ma che rifiutò l’incarico per due volte.

La prima elezione di Adriano II

Nel luglio dell’855 Papa Leone IV morì, e la curia romana fu chiamata ad eleggere un nuovo vescovo di Roma. La scelta delle correnti imperiali cadde sul cardinale di San Marcellino, che in barba ai richiami di Leone IV si era auto insediato ad Aquileia nell’853, insediamento che lo aveva portato ad un passo dalla scomunica, mentre i papisti puntarono su Adriano, membro di una nobile famiglia romana, che prima di prendere i voti era stato sposato ed aveva avuto una figlia.

Parte dei nobili romani, fedeli alle correnti imperiali, spingevano affinché Anastasio diventasse il nuovo papa, dall’altra parte, il resto della nobiltà e del clero romano, puntarono su Adriano e così Adriano divenne centoquattresimo papa della chiesa cattolica, o almeno così è che avremmo scritto se Adriano, all’epoca sessantatreenne avesse accettato. Ma così non fu e Adriano rinunciò all’incarico.

Non sappiamo se per pressioni politiche da parte degli imperiali o per altri motivi, la versione ufficiale e che rinunciò per “umiltà”.

La strada per Anastasio sembra libera da ostacoli, ma così non fu, e conto ogni pronostico, il clero romano nominò Benedetto come nuovo vescovo di Roma, lasciando la corrente imperiale con l’amaro in bocca.

Papa Benedetto III

Parte della nobiltà romana a quel punto acclamò comunque Anastasio come nuovo papa, ma trattandosi di un elezione abusiva, Anastasio fu sostanzialmente un antipapa sostenuto dall’impero, considerato dal clero un usurpatore del potere legittimo di Benedetto III.

La seconda elezione di Adriano II

Benedetto III governò la chiesa cattolica romana per soli tre anni, tra 855 ed 858, un triennio particolare in cui, secondo la leggenda, alla guida della chiesa ci sarebbe stata la leggendaria papessa che prese il nome pontificale di Giovanni VIII.

Noi oggi sappiamo che nella chiesa romana, ci effettivamente un papa Giovanni VIII nel nono secolo, un papa di origini longobarde la cui elezione risale al 14 dicembre 872 e fu il 107° papa della chiesa romana.

Tornando ad Adriano, alla morte di Benedetto III avvenuta nel 858, il clero e il popolo romano furono chiamati ad accogliere un nuovo papa, e anche in queste elezioni, la corsa fu tra l’antipapa Anastasio III che ambiva a diventare il legittimo papa, e Adriano, che poco più di tre anni prima aveva rinunciato alla nomina.

Anche questa volta il clero romano sceglierà Adriano e anche questa volta Adriano, ormai sessantacinquenne, rinuncerà all’incarico. Al suo posto venne acclamato Niccolò I.

Le informazioni su Niccolò, prima che diventasse Papa sono poche e fumose, si dibatte sull’anno della sua nascita tra 800 e 820, si ipotizza che fosse membro di una nobile famiglia romana e che suo padre fosse Teodoro, un funzionario della corte pontificia nella prima metà dell’800.

Niccolò I fu un pontefice molto carismatico che regnò in modo energico e in aperta ostilità con l’Impero, riuscendo a conquistare il titolo di “Magno” che prima di lui era stato riconosciuto solo ai papi Leone I e Gregorio I.

Niccolò regnò sulla chiesa per quasi 10 anni e il suo pontificato finisce con la sua morte nel novembre 867.

La terza elezione di Adriano, quella definitiva

Sono passati 12 anni da quando nell’855 per la prima volta il clero romano aveva nominato Adriano papa, e in questi anni la sua fama di uomo buono, giusto e caritatevole erano cresciute ulteriormente. Il popolo romano amava era molto affezionato ad Adriano, l’uomo che per due volte aveva scelto, per umiltà, di non diventare papa, e quando fu il momento di nominare un nuovo vescovo di Roma dopo la morte di Niccolò, il clero ed il popolo romano puntarono ancora una volta su Adriano, ormai 75enne.

Durante il pontificato di Niccolò I, complice anche il modo energico in cui Niccolò esercitò il proprio ministero, le tensioni e rivalità tra le varie correnti politiche interne alla chiesa si erano fortemente intensificate.

I due candidati di punta nel 867 erano Giovanni e Formoso, il primo guidava la corrente imperiale, il secondo si proponeva come continuatore della politica energica di Niccolò.

Entrambi i candidati risultavano inaccettabili all’altra fazione, si rese quindi necessario trovare un nome di compromesso che noto e apprezzato dal popolo romano, che mettesse fine alle lotte politiche e alla fine quel nome arrivò. Era il nome di Adriano, l’uomo che per due volte aveva rinunciato all’incarico. Un candidato ideale sia per l’Impero, che non potendo avere un imperiale come papa, quantomeno si accontentava di un papa che non avesse ambizioni politiche, sia per i continuatori di Niccolò, che non potendo avere come papa uno dei loro, quantomeno si accontentavano di non avere un papa imperiale.

Per la terza volta ad Adriano viene proposto di diventare Papa, ma questa volta ha le mani legate, ed è costretto ad accettare.

Succede così che nel dicembre del 867 Adriano assume il nome pontificale di Adriano II, e al suo insediamento sono presenti anche sua moglie Stefania e si ipotizza sua figlia, di cui però, non ci è pervenuto un nome.

Il pontificato di Adriano II

Adriano II fu eletto pontefice al fine di ricucire uno strappo politico interno alla chiesa, e fin dai primi giorni del proprio pontificato iniziò immediatamente a ricucire. Una delle sue prime azioni politiche fu una sorta di negoziato che portò alla revoca di condanne e scomuniche, di prelati scomunicati da Niccolò I e condannati dall’Imperatore Ludovico II.

Tra i prelati reintegrati tra le fila della chiesa ci fu anche l’Antipapa Anastasio II che venne nominato Bibliotecario della chiesa cattolica. Incarico che gli valse il nome di Anastasio il Bibliotecario.

La leggenda della papessa

Non sappiamo di preciso quando nacque il mito della papessa, sappiamo tuttavia che, nei secoli successivi, il potere temporale francese, in crescente conflitto con il potere temporale del papato, rilanciò in più occasioni questa storia.

Secondo la leggenda, per due anni, tra 855 e 857, a capo della chiesa ci sarebbe stata una donna inglese educata a Magonza, che grazie ai propri travestimenti riuscì ad ingannare sacerdoti, monaci, vescovi e persino papa Leone IV, ai quali si presentò come il monaco Johannes Anglicus, e non solo, riuscì anche a conquistare il favore della curia romana, facendosi eleggere pontefice nel 855.

La leggenda della papessa però non si ferma qui, secondo il mito infatti, la donna non era solita praticare l’astinenza e anzi, si narra che avesse molteplici rapporti sessuali, rimanendo incinta. Secondo la leggenda alla papessa si ruppero le acque durante la processione di pasqua a Laterano, poco dopo la messa celebrata in San Pietro.

Scoperto il segreto della papessa, la folla romana fece trascinare la donna, legata per i piedi ad un cavallo, tra le strade di Roma e in fine lapidata a morte nei pressi di Ripa Grande e in seguito sepolta tra San Giovanni Laterano e San Pietro in Vaticano, all’incirca nel luogo in cui la folla romana aveva scoperto essere una donna.

Sebbene questa sia la versione più diffusa, probabilmente per via dell’epilogo violento, vi sono anche altre versioni della leggenda, in una delle più note, riportata nelle cronache di Martino Polono, la papessa morì di parte, secondo altre versioni, una volta scoperta venne rinchiusa in un convento di clausura.

La figlia del papa

Adriano II assume il titolo di vescovo di Roma e capo della chiesa romana, diventando il 106° papa della chiesa cattolica. All’epoca, per il diritto canonico, non vi era nessuna norma che impedisse ad un uomo sposato di prendere i voti, a condizione che, una volta fatto si praticasse l’astinenza (che poi venisse praticata o meno lo sa “solo dio”).

Adriano prende i voti in età avanzata, da uomo sposato e, secondo alcune fonti, da padre di una bambina che, si dice fosse ancora viva quando divenne papa. Sappiamo per certo che sua moglie Stefania fu presente al momento dell’insediamento e si ipotizza lo fosse anche sua figlia, ma di questo non vi è traccia.

A differenza di altri papi che ebbero figli e figlie illegittime, frutto di rapporti clandestini consumati dopo l’iniziazione sacerdotale o da pontefici, la figlia di Adriano è una figlia legittima del papa, poiché nata prima che questi prendesse i voti sacerdotali.

La figlia di Adriano è protagonista di una curiosa vicenda che si verificò nel 868, pochi mesi dopo la sua elezione.

Nel marzo del 868 Eleuterio, nipote di Arsenio vescovo di Orte, follemente innamorato della figlia di Adriano, la rapì e con lei rapì anche Stefania, sua madre e moglie di Adriano.

Il papa, che a differenza dei suoi predecessori, stava ricostruendo i rapporti di amicizia tra papato ed impero, chiese immediatamente aiuto all’Imperatore e proprio grazie ai messi imperiali, Eleuterio venne catturato, ma purtroppo era già troppo tardi. Vedendosi perduto e senza speranze, e ossessionato dalla donna, Eleuterio uccise sia la figlia che la moglie del papa.

Secondo alcune teorie, Eleuterio fu istigato da Anastasio e mandante del rapimento e assassinio delle due donne, teoria che tuttavia ha come unico supporto, le dicerie sulle losche amicizie dell’ex antipapa, e il suo profondo odio e rancore nei confronti di Adriano che non solo gli aveva “rubato” il titolo di papa, ma era stato anche il fautore del suo reintegro nella comunità cristiana e nei ranghi della chiesa cattolica.

Qualunque sia la verità dietro il rapimento, aver ucciso moglie e figlia del papa, una volta trovato, Eleuterio fu scomunicato e giustiziato “senza appello” per tramite decapitazione, ma immagino siano cose che capitano quando rapisci moglie e figlia del papa e fai infuriare anche l’imperatore perché le uccidi prima di essere catturato.

Fonti e consigliati:

Claudio Rendina I papi. Storia e segreti
Benedetto III
Niccolo I
Adriano II
Storia medievale
Gesta sanctae ac universalis octavae synodi quae Constantinopoli congregata est Anastasio bibliothecario interprete – C. Leonardi – A. Placanica – Libro – Sismel – Ediz. nazionale dei testi mediolatini | IBS
The Cardinals of the Holy Roman Church – Biographical Dictionary – Cardinals first documented in the Roman Council of 853

Il Conclave – L’elezione del Papa

Immersa nel cuore di Roma e separata dai sette colli di Roma dal Tevere, sorge Città del Vaticano, un’anomalia politica, culturale e filosofica unica al mondo. Il Vaticano è infatti l’unica monarchia assoluta elettiva al mondo, il cui capo dello stato, un sovrano assoluto, è eletto in una cerimonia segreta e ricca di mistero, che risale al XIII secolo, ovvero il Conclave.

Il Conclave è un momento decisivo non solo per le sorti del Vaticano, ma anche per la cristianità, esso infatti elegge il capo della chiesa cristiana, che è anche il monarca assoluto a capo dello stato Vaticano. Tale figura, se epurata del suo significato spirituale, può essere visto come una sorta “re-filosofo” platonico, che incarna l’ideale classico di un governante illuminato che guida non solo con il potere, ma soprattutto con saggezza, virtù e visione etica, che nel caso del Papa è una visione “cristiana”.

Secondo il filosofo greco, il migliore dei governanti è colui che possiede una profonda conoscenza della verità e del bene, ed è capace di orientare la società verso il bene comune.

In questa chiave di lettura, nella figura odierna del Papa, coesistono due istituzioni, la prima è il capo politico di uno stato di modestissime dimensioni, appena 44 ettari, la seconda, in quanto capo di una confessione religiosa tra le più diffuse al mondo, esercita un’influenza globale sull’intero mondo cattolico, e una parte significativa del più ampio mondo cristiano. Nel complesso, come anticipato, si configura come una sorta di “filosofo-re” che, almeno su carta, non governa per ambizione personale, ma per servizio del bene comune, impegnandosi a promuovere valori universali come giustizia, pace e solidarietà (ovviamente con un interpretazione cattolica).

L’elezione del Papa

L’elezione del Papa avviene attraverso una cerimonia elettiva a porte chiuse nota come Conclave, ad oggi regolato dalla Costituzione Apostolica Universi Dominici Gregis, promulgata da Giovanni Paolo II nel 1996.

Secondo il Codice di Diritto Canonico, il conclave può essere convocato dopo un periodo di Sede Vacante, al seguito della morte o delle dimissioni del pontefice precedente, non prima di 15 e i 20 giorni successivi all’inizio della vacanza papale. Questo arco temporale è fondamentale per consentire ai cardinali elettori, di raggiungere Roma e partecipare alle Congregazioni Generali. Si tratta di incontri preliminari di carattere politico, volti a discutere lo stato della Chiesa e prepararsi spiritualmente al voto.

I cardinali elettori sono membri del Collegio Cardinalizio, l’organo elettivo del Vaticano, e si compone di tutti i cardinali che, alla data di inizio della sede vacante, avevano meno di 80 anni. Questa soglia anagrafica è stata introdotta nel 1970 da papa Paolo VI con la Costituzione Apostolica Ingravescentem Aetatem. È importante precisare che I cardinali ultraottantenni, pur non potendo partecipare al voto, possono prendere parte alle cerimonie liturgiche e alle Congregazioni Generali, fungendo da consulenti informali.

Durante il Conclave, tutti i partecipanti sono tenuti a osservare il giuramento di segretezza, pena sanzioni canoniche severe in caso di violazione.

La segretezza è un elemento fondamentale per l’elezione del papa, per questo motivo, le votazioni si svolgono presso la Cappella Sistina e prima dell’inizio del Conclave, la cappella viene sottoposta a rigorosi controlli tecnici e bonifica da dispositivi elettronici o sistemi di comunicazione. Lo stesso per gli ambienti residenziali dove alloggeranno i cardinali durante il periodo elettorale, la Domus Sanctae Marthae, e gli stessi cardinali. Non è infatti consentito utilizzare o disporre di qualsivoglia dispositivo di comunicazione con l’esterno. In altri termini i cardinali sono completamente isolati dal mondo esterno.

La votazione segue un protocollo rigoroso: ogni cardinale scrive il nome del candidato prescelto su una scheda anonima, utilizzando la formula latina “Eligo in Summum Pontificem” (“Eleggo come Sommo Pontefice”). Le schede vengono quindi piegate e inserite in un’urna d’argento. Per essere eletto, un candidato deve ottenere una maggioranza qualificata di due terzi nei primi scrutini. Se, dopo 33 votazioni infruttuose, nessun candidato raggiunge tale soglia, si procede a una votazione a maggioranza semplice tra i due candidati più votati.

Una volta eletto, il cardinale che ha assunto l’incarico di decano ha il compito di chiedere al cardinale eletto se accetta l’incarico e quale nome desidera assumere come pontefice. Se il cardinale accetta, questi viene fatto vestito con gli abiti papali e successivamente si procede con la comunicazione al mondo esterno.

Le schede “elettorali” vengono bruciate in una stufa collegata a un camino visibile dall’esterno. Se il voto non produce un vincitore, viene aggiunta una sostanza chimica che genera del fumo nero (fumata nera), se invece è stato eletto un papa, la fumata è bianca.

A questo punto, il cardinale protodiacono annuncia pubblicamente l’elezione dal balcone della Basilica di San Pietro, pronunciando la frase rituale: “Annuntio vobis gaudium magnum: habemus Papam!” (“Vi annuncio una grande gioia: abbiamo un Papa!”).

Questa cerimonia è mutata ed evoluta nel corso del tempo e, secondo la tradizione, ha origine da un evento molto particolare datato 1270.

Il primo Conclave

Il primo Conclave, inteso come elezione papale con i cardinali riuniti in clausura risale al 1198, mentre la formalizzazione ufficiale della procedura che prevede la messa sotto chiave dei cardinali durante l’elezione del pontefice, risale al 1274 con il Concilio di Lione e la Costituzione Apostolica Ubi Periculum di Papa Gregorio X, con cui si istituiva il “conclave” per impedire ritardi nelle elezioni e interferenze politiche esterne.

Siamo in anni in cui l’elezione del papa significa eleggere uno degli uomini più potenti d’Europa, il potere del papa non è solo spirituale, ma anche temporale, ma soprattutto, siamo nel vivo degli scontri tra papato ed impero. Eleggere il papa è una questione economica, politica e geopolitica, determinante per le sorti d’Europa, in pochi possono permettersi di sfidare il potere del papa e in molti vogliono assicurarsi l’amicizia del papa, spingendo quindi per l’elezione di un papa “di famiglia” o comunque “amico”.

In questo contesto, l’elezione di papa Gregorio X fu una delle più complesse della storia pontificia. Gregorio X viene incoronato papa il 1 settembre 1271, e succede alla morte di papa Clemente IV, avvenuta 19 mesi prima, il 29 novembre 1268. Per questa elezione i cardinali si erano riuniti a Viterbo, presso il palazzo papale, ma per interessi politici e influenze e interferenze esterne, non riuscivano a trovare un accordo. Fu così che, secondo la tradizione , la città di Viterbo in un certo senso insorse, mise letteralmente sotto chiave i cardinali, chiudendoli nel palazzo, li mise a pane e acqua, (soprattutto tolse loro il vino), e scoperchiò il tetto. La pressione cui furono sottoposti fu tale che, in pochi giorni riuscirono ad eleggere il nuovo pontefice.

Questo racconto ci è arrivato attraverso varie fonti, attribuisce l’iniziativa a diversi individui, ciò che è certo è che nel 1274, tre anni dopo la propria traumatica elezione, Gregorio X convocò il secondo concilio di Lione, e il 16 luglio 1274 venne promulgata la costituzione apostolica Ubi Periculum, con cui si introduce e istituisce il Conclave, dal latino “cum clave” che deriva appunto dalla locuzione “clausura cum clave“.

Papa Formoso: il pontefice “cadaverico” | CM

Inizi della carriera ecclesiastica

Nato a Roma in pieno Alto Medioevo, all’incirca nell’anno 816, da padre Leone e madre sconosciuta, Formoso intraprese fin da subito una formazione strettamente legata al mondo ecclesiastico nel luogo dove nacque e visse per tutta la sua vita. Sappiamo con certezza, grazie all’attestazione di vari documenti, che intorno all’846 fu canonico regolare, e più precisamente venne consacrato vescovo di Porto dal pontefice del tempo, Niccolò I Magno, per poi ricevere la nomina cardinalizia. Il suo stile di vita intransigente e rigoroso gli garantì fin dai primi anni della sua carriera ecclesiastica l’approvazione sia di Niccolò I che di Adriano II, suo successore nella carica pontificia. Era inoltre una figura ammirata e di spicco nel mondo ecclesiastico per le sue numerose doti intellettuali; essendo infatti un grande studioso conosceva sia il greco che il latino.

Noto anche per le sue numerose missioni diplomatiche, Formoso viene ricordato soprattutto per aver persuaso Carlo il Calvo a farsi incoronare sovrano di Francia dal papa tra l’869 e l’872; inoltre il re Boris I fu talmente soddisfatto dell’intervento ecclesiastico di Formoso in Bulgaria tra l’866 e l’867 da richiedere a ben due papi, Niccolò I e Adriano II poi, di nominarlo arcivescovo metropolita della Bulgaria, cosa che entrambi i papi non poterono fare essendo proibito il trasferimento di un vescovo in una sede diversa dalla propria. Tale negazione da parte dei pontefici inasprì notevolmente i rapporti apostolici con la Chiesa bulgara, spingendo Boris I a riportarla sotto l’autorità del Patriarca di Costantinopoli, com’era in passato, distruggendo così tutto l’impegno e il duro lavoro di Formoso per riavvicinare la Chiesa bulgara a quella romana.

Il pontificato

Già parecchi anni prima la sua elezione pontificia ufficiale, Formoso era stato candidato per il soglio pontificio al seguito della morte di Adriano II nell’872; sebbene i suoi sostenitori fossero molteplici, si preferì però optare per l’arcidiacono Giovanni VIII, uno dei massimi esponenti della corrente “filo-francese” e dunque favorevole ai Carolingi occidentali (tra cui Carlo il Calvo e Carlo il Grosso). Formoso rappresentava invece l’opposizione, ovvero il partito “filo-germanico” (a favore dei Carolingi orientali), che gli costò l’accusa di congiura contro lo Stato costringendolo alla fuga da Roma con alcuni sostenitori nell’876. Tuttavia poco dopo Giovanni convocò un concilio nel Pantheon, obbligando Formoso al ritorno nella capitale con la minaccia di scomunica, che fu attuata solo più avanti in un secondo concilio contro di lui e contro tutti coloro che erano con lui. Fu solamente grazie al successore di Giovanni, Marino I, pontefice dall’animo pacificatore e anch’egli “filo-germanico”, che la scomunica venne sciolta a Formoso e a tutti i membri accusati con lui della congiura. Gli venne inoltre riconfermata anche la carica di vescovo di Porto nell’883.

Alla morte del suo predecessore papa Stefano V, protagonista del forte disagio politico che si generò a causa della deposizione di Carlo il Grosso aprendo così la strada al dominio delle grandi famiglie patrizie su Roma, avvenuta nell’891 per cause naturali, poco tempo dopo (precisamente il 6 Ottobre) Formoso venne eletto come 111° papa della Chiesa di Roma all’unanimità del clero. A favorire tale elezione non partecipò solo la clemenza di Marino I, ma anche la fede “filo-germanica” dei suoi subitanei successori, Adriano III e Stefano V. Ciononostante il sostegno non venne solo dalla fazione ecclesiastica; anche Arnolfo di Carinzia, sovrano della parte orientale dei franchi (germanica), e il suo protetto Berengario, marchese del Friuli, appoggiavano Formoso ed erano anche in ottimi rapporti epistolari con lui.

Tuttavia stiamo parlando di un’epoca molto travagliata, in cui l’elezione papale non rappresentava esclusivamente un “rituale” tra cardinali, bensì andava a incarnare una vera e propria battaglia per la spartizione del territorio della Chiesa nello Stato Vaticano. Pertanto tutti coloro che avevano l’appoggio del papa, che stava ormai acquisendo e consolidando con costanza l’universalità dei suoi poteri su tutti i sovrani d’Europa grazie a un lungo e graduale processo (che durerà ancora secoli), potevano contare sull’enorme sostegno morale e spirituale dalla parte ecclesiastica, oltre che su un grande appoggio bellico e politico insieme a una consistente forza di persuasione che egli poteva esercitare su tutti i propri nemici. Tutto questo era possibile solo grazie all’immenso potere che il pontefice stava consolidando mediante un capillare sistema di tassazione, concessioni imperiali, privilegi e diritti territoriali su cui rivendicava un’autorità indiscussa.

La precaria situazione italiana

Fu proprio all’interno degli eventi burrascosi di questo tumultuoso periodo storico che rimase coinvolto anche lo stesso papa Formoso. L’Impero era infatti “spaccato” tra i “filo-germanici” e i “filo-francesi”, e questi ultimi, nonostante fossero stati messi in disparte grazie alla maggioranza “filo-germanica” che sosteneva il pontefice, non avevano intenzione di arrendersi tollerando la fazione vincitrice al potere. Tuttavia le condizioni della Chiesa di Roma erano assai precarie e instabili, poiché per la lontananza dal territorio romano del sovrano Arnolfo e del suo protetto Berengario (che si trovavano in Germania), massimi sostenitori del papa, Formoso fu costretto ad affidare tutta la sua sicurezza esclusivamente nelle mani del duca di Spoleto. La situazione degenerò quando, all’incirca nell’893, il pontefice si ritrovò costretto a rinnovare l’incoronazione imperiale di Guido II di Spoleto. Tale evento fu drammatico per i territori della Chiesa poiché Guido, ormai possessore assoluto del potere imperiale, sfruttava la sua autorità in modo eccessivo, razziando e saccheggiando impunito i territori ecclesiastici.

File:Spoleto-Stemma.png - Wikipedia

Roma era così caduta in un quadro d’incertezza, e la guerra civile era inevitabilmente alle porte poiché tali disordini non sarebbero stati tollerati ancora a lungo. Formoso, costretto a ricorrere a misure estreme pur d’intervenire, verso la fine dell’893 mandò dei messaggeri alla corte di Arnolfo supplicandolo, in quanto solo e unico imperatore legittimo, di liberare l’Italia dai cosiddetti “cattivi cristiani” che la stavano distruggendo. Neanche un anno dopo, all’inizio dell’894, Arnolfo varcò le Alpi e, sebbene sembrasse pronto per un attacco diretto contro gli spoletini, la sua fu solo una grande “entrata in scena” (una sorte di “azione dimostrativa”) per guadagnarsi il rispettoso e sottomesso omaggio dei principi dell’Italia centro-settentrionale. Convinto che tutto ciò potesse essere sufficiente a sedare le rivolte, Arnolfo fece allora ritorno in patria, lasciando così che Guido tornasse a compiere tutte le ingiustizie che aveva cominciato.

Tuttavia, verso la fine dell’anno 894, Guido morì colpito da un malessere improvviso, lasciando il figlio Lamberto II solo con la madre Ageltrude, acerrima nemica della fazione “filo-germanica”. Ovviamente Lamberto reclamò subito la corona imperiale del padre, e volle essere incoronato imperatore a Roma con i massimi onori. Nonostante i numerosi tentativi di papa Formoso per prendere più tempo possibile ed evitare così l’inevitabile evento, alla fine si ritrovò costretto dalle circostanze e procedette all’incoronazione. Pochi mesi dopo però, nell’895, Arnolfo varcò nuovamente le Alpi, questa volta deciso a riprendersi il suo legittimo titolo di re d’Italia, spingendo così gli spoletini a giurare odio eterno al papa per il suo tradimento, e incarcerandolo a Castel Sant’Angelo dopo aver strategicamente aizzato la plebe romana contro il pontefice.

In un insostenibile clima di rivolta Lamberto si barricò a Spoleto pronto a combattere, nell’attesa dell’imminente arrivo di Arnolfo, mentre la madre Ageltrude continuava a fomentare il popolo e soprattutto gli spoletini verso la rivolta ormai prossima. Ella si ritrovò però costretta alla resa, poiché le truppe di Arnolfo ebbero la meglio, e dovette tornare a Spoleto per nascondersi. Papa Formoso venne così liberato grazie ad Arnolfo, che iniziò subito una decisa marcia verso Spoleto, pronto ad affrontare Lamberto e la madre nello scontro decisivo. Tuttavia il suo viaggio fu breve; Arnolfo, poco dopo essere stato incoronato nuovamente imperatore da Formoso, venne colpito da una grave paralisi che lo costrinse a un rapido ritorno in Germania, dove morì poco dopo (nell’899) lasciando “campo libero” al suo avversario Lamberto per solo un anno, quando anch’egli morì improvvisamente rompendosi il collo per una brutta caduta da cavallo durante una battuta di caccia.

La morte e il “sinodo del cadavere”

Formoso, ormai ultraottantenne, morì pochi anni prima della fine di tali eventi bellici che colpirono l’Italia in quel periodo, il 4 Aprile dell’896. Appare dunque quasi scontato affermare che la morte lo salvò dalle altrimenti inevitabili rappresaglie dei suoi avversari. Non sappiamo però se si tratti di una morte naturale, probabilmente dovuta all’età avanzata, o di un avvelenamento premeditato da parte dei suoi numerosi nemici. Venne infine sepolto nel recinto del Vaticano, dove vi rimase per neanche un anno (solamente 9 mesi) prima che venisse riesumato e sottoposto a un duro processo post-mortem.

Quello che accadde dopo al cadavere di papa Formoso ha dell’incredibile; circa un anno dopo la sua morte, nell’897, la casata spoletina, che continuava a fomentare un fortissimo odio verso il pontefice per essere stata rinnegata dal papa e per aver chiamato in Italia un sovrano straniero con tutto il suo esercito al seguito, impose al nuovo pontefice da loro eletto, Stefano VI (ovviamente non “filo-germanico”), di istituire un elaborato processo post-mortem verso Formoso, affinché tutti i membri ecclesiastici romani lo condannassero come unico traditore della patria. Tale processo prenderà il nome di “sinodo del cadavere” o “concilio cadaverico”.

Il processo al Papa morto, la macabra storia di Formoso | Roma.Com

Pertanto il cadavere di Formoso venne riesumato dalla sua tomba in Vaticano, vestito e adornato con tutti i tipici ornamenti pontifici e posto sul regale trono papale nella Basilica Lateranense. Il processo poi si svolse come si sarebbe svolto un qualsiasi processo dell’epoca, e vennero mosse varie accuse contro l’ormai defunto pontefice, il quale avrebbe dovuto rispondere all’attuale papa Stefano che svolgeva il ruolo di accusatore. In difesa di Formoso venne anche posto un diacono, assai spaventato dall’occasione e con una funzione inutile all’interno del processo ormai già prestabilito. Non potendo ovviamente Formoso rispondere alle accuse, alcune delle quali risalivano addirittura a quelle mosse anni e anni prima da Giovanni VIII, tale processo si rivelò essere più un “macabro teatrino” che un concreto atto giudiziario. Il verdetto finale stabilì infine che il defunto papa fosse stato indegno di rivestire la carica pontificia, e pertanto venne deposto secondo l’usanza ufficiale che si sarebbe usata per qualcuno in vita; inoltre, tutto ciò che aveva legiferato in vita e tutti i suoi atti ed emendamenti furono dichiarati nulli e invalidi.

“Perché, uomo ambizioso, hai tu usurpato la cattedra apostolica di Roma, tu che eri già vescovo di Porto?”

Stefano V al cadavere di papa Formoso durante il “concilio cadaverico”

L’unicità di Formoso

Il cadavere non venne mai riseppellito, gli vennero strappati di dosso tutti i paramenti tipici, gli furono recise le tre dita che usava per compiere le benedizioni e tra le grida generali di una folla in preda al puro delirio, il cadavere venne gettato nel Tevere, dove vi rimase per circa tre giorni prima di arenarsi nei pressi di Ostia, dove fu trovato da un monaco e nascosto fino a quando Stefano VI fu vivo e in carica. Venne poi riconsegnato al nuovo pontefice, Romano, verso la fine dell’897, e posto tra le tombe degli apostoli con l’accompagnamento di una grande e solenne cerimonia in suo onore. Il processo contro di lui venne infine annullato e tutte le decisioni prese da Formoso in vita vennero nuovamente poste in vigore.

Quello di Formoso è un caso unico in tutta la storia medievale e, sebbene si volle applicare lo stesso trattamento anche al cadavere di papa Bonifacio VIII, a causa della sua pessima condotta, il suo resta il solo e unico evento documentato di un vero e proprio “concilio cadaverico”. Nonostante la validità del processo sia ovviamente da classificarsi come nulla, esso ebbe comunque un grande impatto sugli eventi dell’epoca, soprattutto per coloro che scelsero di compierlo e organizzarlo. Le reazioni verso tale episodio furono comunque assai contrastanti, poiché se da una parte molti erano a favore proclamando un forte odio verso Formoso, un’altra buona parte provò un grande orrore nei confronti di questa lugubre esecuzione. In conclusione, possiamo dunque dire che questo fu un “processo horror” in pieno Alto Medioevo, e una vera e propria vendetta compiuta in Vaticano.

Satana, ovvero il Diavolo: le origini cristiane dell’immaginario medievale del male | CM

L’imposizione del cristianesimo come religione ufficiale

Il cristianesimo, caposaldo indiscusso tra le massime religioni di stampo monoteista, presenta origini antiche e una lunga storia connotata da lotte, rivalità, editti e lunghi concilii che lo portarono a rappresentare un simbolo e un’ideologia, oltre che a incarnare il ruolo di una delle religioni più diffuse e affermate al mondo. Ma il percorso è stato lungo. I suoi primi passi verso un’affermazione forte e completa risalgono infatti al IV secolo d.C., periodo storico connotato da significative tensioni religiose.

Con l'”Editto di Milano del 313 d.C. e il “Concilio Ecumenico di Nicea I del 325 d.C.,
l’imperatore Costantino aveva intrapreso una politica reliogiosa esplicitamente rivolta all’impostazione del cristianesimo come sola e unica religione praticabile. Il tutto venne decretato ufficialmente dall'”Editto di Tessalonica del 380 d.C. il quale, per volere di Graziano, Valentiniano e Teodosio I, aveva definitivamente sancito il ruolo del cristianesimo come religione ufficiale dell’Impero romano, imponendovi così una fedeltà ferrea e assoluta.

Tali eventi rappresentano momenti cruciali per la storia del cristianesimo, il quale, a partire dal IV secolo d.C. circa, venne indiscutibilmente riconosciuto come religione di livello universale. Ciò lo portò non solo a essere ritenuto una religione ufficiale, ma anche superiore, andando così inevitabilmente a ledere nel corso dei secoli numerose altre religioni, come ad esempio accadde per l’ebraismo, a partire da tempi antichissimi. Tale concetto di superiorità era pertanto alimentato da una sorta di disprezzo rivolto verso qualsiasi religione fosse ritenuta “altra”, e quindi diversa. L’idea di cristianesimo si fece dunque sempre più forte, sostenuta da istituzioni clericali altrettanto potenti, fino a raggiungere un apice di ideologie che affonda le sue radici nel periodo alto e, soprattutto, basso medievale.

Il potere della chiesa medievale e il binomio di bene e male

Da secoli l’idea che si ha sul Medioevo viene fortemente associata a un immaginario collettivo connotato da una rigida ambivalenza religiosa fondata sul concetto di bene e male. Abbiamo precedentemente visto come il cristianesimo avesse iniziato a imporsi in un contesto di tensioni religiose a pochi anni dalla caduta dell’Impero romano d’occidente.
Pertanto, con l’inizio del periodo che oggi definiamo “Alto Medioevo”, esso si trovò la “strada spianata” per potersi impostare in modo definitivo come religione cardine di tutto il mondo medievale, portando con sé una vasta serie di concetti che avrebbero avuto una secolare fortuna nel mondo delle religioni monoteiste. Alla base di queste dottrine vigeva il noto binomio contrapposto di bene e male, una rigida ambivalenza impostata e controllata dal cristianesimo nel modo più ferreo possibile.

La società medievale era inoltre fondata su due modelli cardine: la politica e la religione e, nella maggior parte delle occasioni, quest’ultima poteva influenzare, e anzi padroneggiare senza troppe difficoltà la prima. Basti pensare che l’intera gerarchia ecclesiastica era interamente fondata sull’enorme potere esercitato dal papato, il quale, nonostante non fosse in possesso di un esercito personale e non avesse un accesso diretto al potere esecutivo di cui disponevano i sovrani medievali, possedeva il pieno controllo sulla monarchia e la possibilità quasi immediata di destituire a suo piacimento il monarca; pertanto tali privilegi non gli sarebbero affatto stati necessari per esercitare il pieno potere religioso di cui era effettivamente detentore. Inoltre la Chiesa, pur rappresentando una minima percentuale in termini di uomini interessati, possedeva quasi un terzo di tutte le terre del regno, senza contare tasse, offerte, vendite delle indulgenze e delle massime cariche e, ovviamente, il completo esonero verso ogni tipologia di tassazione. Al termine di tali riflessioni risulta dunque quasi scontato affermare che fosse proprio la Chiesa, sulla base interpretativa delle dottrine cattoliche, a decretare cosa rappresentasse il “bene” e cosa invece il “male”.

E’ un tratto umano di stampo tipicamente medievale l’ispirarsi apertamente alla morale perseguita da Gesù, il quale non solo rappresenta un personaggio storico chiave per la lettura della religione cristiana, ma incarna allo stesso tempo un vero e proprio corpus di leggi spirituali da perseguire ed emulare con estrema cura e attenzione, e sulle quali fondare la propria esistenza che, come insegna proprio la dottrina cattolica, deve essere unicamente rivolta al bene. Gesù è insomma a tutti gli effetti un modello da seguire, un “serbatoio” di etica e morale, e infine una solida base sulla quale impostare i più retti comportamenti umani. Ed è proprio da tali concetti che nasce la vera e propria idea di “bene”, inteso come principio strettamente legato a tutto ciò che la Chiesa decretava, e anzi imponeva, quasi come “legge di rettitudine”. E’ inoltre ovvio affermare che, laddove la Chiesa e i principi cristiani s’imponevano strenuamente come difensori di onestà e virtù, si decretavano in maniera altrettanto accanita come persecutori di tutto ciò che andava contro tali dottrine, fomentando così il concetto di “male”.

Bisogna tuttavia sottolineare come fosse impostata la società medievale, ed evidenziare quanto tale epoca storica fosse permeata di paura e, soprattutto, di superstizione. I due elementi andavano infatti di pari passo in un contesto culturale in cui ogni errore e deviazione da ciò che si riteneva essere il cosiddetto “bene”, veniva severamente punito; e non si tratta affatto solamente di punizioni corporali. La paura era infatti anch’essa saldamente connessa alle dottrine imposte dalla Chiesa cattolica, e la sola idea di allontanarsi da tali principi, avvicinandosi così al tanto temuto concetto di “male”, rendeva la stragrande maggioranza della popolazione medievale tanto religiosa da riversare spesso nella superstizione; senza contare inoltre l’ignoranza e l’analfabetismo che affollava città e campagne, i quali diffondevano ancor più la paura verso il “male”, fomentando una tacita accettazione verso tutto ciò che la Chiesa imponeva in modo quasi dittatoriale.

Gesù, ovvero il bene; Lucifero, ovvero il male

E’ inoltre necessario mettere in rilievo come il concetto di bene e di male non fosse solamente associato a ideali astratti, ma andasse anche a concretizzarsi, o meglio a personificarsi in personaggi ben specifici. Possiamo infatti parlare di “personificazione” come di un fenomeno tipicamente medievale per il marcato attaccamento verso tutto ciò che poteva essere spiegato concretamente, motivo per cui al concetto di “bene” è stata associata dalla Chiesa la figura di Gesù, il quale doveva appunto essere riconosciuto come principale modello d’ispirazione, un vero e proprio esempio morale e spiritualità sul quale fondare il proprio comportamento e il proprio essere.

Seppur risulti scontato a dirsi, la concezione del bene è ovviamente anche delineata dalla figura di Dio, il quale ne è anzi il protagonista indiscusso portando con sé gli esempi biblici del perdono, della misericordia e della benevolenza. Tuttavia il personaggio di Gesù rappresenta una figura storicamente accertata e risulta pertanto molto più semplice associare ad egli una vera e propria personificazione e concretezza del concetto di “bene”. Ma cosa sarà invece a connotare il concetto del “male”?

Partendo sempre da un presupposto prettamente religioso la Chiesa fa riferimento a una vicenda molto nota, nonostante non venga mai citata né dall’Antico Testamento, né dal Nuovo; ovvero la caduta di Lucifero negli inferi. Lucifero, nome dall’etimo altamente significativo, derivante dal latino lux” – “luce” e ferre” – “portare”. Egli veniva infatti soprannominato “il portatore di luce” e rivestiva uno dei ruoli principali tra gli angeli di Dio; ogni angelo aveva infatti una particolare funzione ben specifica assegnatagli direttamente da Dio e non sarebbe dunque esagerato affermare che fosse quasi il suo favorito.

Tuttavia sappiamo dal profeta Isaia che Lucifero possedeva un animo estremamente superbo, tanto da osare perfino sfidare Dio con una schiera di angeli suoi sostenitori per arrivare a essergli pari nel Regno dei Cieli, se non addirittura per sostituirlo definitivamente. L’esito di tale ribellione risultò un fallimento e Lucifero, sconfitto dall’Arcangelo Michele, mandato da Dio, venne gettato giù dal cielo, andando a conficcarsi nel centro della Terra, ovvero nei cosiddetti “inferi”, che da quel momento sarebbero stati abitati da lui come sovrano e da tutti gli altri ribelli. Bisogna però specificare quanto le interpretazioni riguardanti questo mito siano molteplici, e a volte anche discordanti, non garantendo una versione univoca e ufficialmente riconosciuta.

Inferno e paradiso nell’immaginario medievale

Con il delinearsi della figura di Lucifero come principale oppositore di Dio, nascono parallelamente due concetti biblici fondamentali: quello di “inferno” e quello di “diavolo”, entrambi strettamente collegati al più generale e profondo ideale di “male”, inteso come concetto puramente astratto. Per spiegare concretamente l’esistenza di un luogo infernale contrapposto al paradiso, delineato da letizia e beatitudine, ci si appoggia dunque alla vicenda di Lucifero, il quale, cadendo dal cielo, sarebbe andato a conficcarsi nel centro della Terra, dando così origine a un luogo connotato dal peccato (a causa del gesto compiuto dall’angelo ribelle) e abitato da anime dannate. Questo ideale di inferno si sarebbe stanziato all’interno delle dottrine cristiane così a fondo da risultare attuale ancora oggi, se non addirittura molto spesso credibile. Non si tratta dunque di un fenomeno antico e circoscritto a un dato luogo, bensì di un concetto che ha avuto modo di radicarsi nei più svariati luoghi nel corso dei secoli, riscontrando un’enorme fortuna con Dante e con l’epoca medievale.

Nel Medioevo infatti la paura dell’inferno era così diffusa e radicata che il fenomeno delle indulgenze, un pagamento in denaro per ottenere una parziale o completa remissione dai peccati per se stessi o per i propri cari, raggiunse livelli talmente elevati da risultare una delle maggiori entrate per la Chiesa, al pari di tasse e donazioni; una vera e propria fonte di sostentamento. Come precedentemente accennato, il contributo dantesco fu fondamentale non solo per delineare l’immagine di paradiso e inferno che conosciamo tutt’oggi, ma anche quella dei massimi protagonisti che regnano su tali luoghi. E così come Dio occupa un posto primario e indiscusso nel “Cielo Empireo” del paradiso, Lucifero rivestirebbe un ruolo parallelo nell’inferno, come signore del male e delle anime dannate.

Satana o Lucifero?

Il termine “diavolo” comunemente usato oggigiorno deriverebbe dal verbo greco diàballo. Tale termine non è casuale ed è ottenuto dalla particella “dià” – “attraverso” e dal verbo “ballo” – “gettare”, e starebbe dunque a indicare colui che divide e separa, per l’appunto un calunniatore. Ma prima di intraprendere il discorso vero e proprio a proposito della figura del diavolo in ambito medievale, è necessario specificare che, nonostante oggi l’appellativo a esso riferito sia perfettamente intercambiabile, le sue origini lessicali sono assai ben distinte.

Lucifero rappresenterebbe infatti un personaggio strettamente legato alla figura Dio, degli angeli e dei demoni ribelli (potremmo quasi definirlo biblico, nonostante la Bibbia non faccia parola della sua vicenda); é pertanto direttamente connesso al concetto di peccato e tentazione umana, elementi tipicamente biblici e cristiani. Lucifero incarna dunque un modello di deviazione, un totale declino che porta a un crollo morale senza possibilità di riscatto (non bisogna dimenticare che in origine era un angelo).

La figura di Satana, o Beelzebub (in italiano Belzebù), starebbe invece a indicare un vero e proprio demone, un’entità spirituale o sovrannaturale, una figura appunto satanica esclusivamente dotata di istinti maligni e con l’unico scopo di traviare e corrompere l’animo umano. Satana è malvagio, distruttivo, calunniatore, e a differenza di Lucifero non presenta alcun rimando angelico. La sua connotazione demoniaca andrebbe addirittura fatta risalire alle molteplici religioni politeiste dell’antichità, nelle quali era consuetudine la presenza della figura di un antagonista per eccellenza. Basti pensare che nell’antico Egitto il dio Seth incarnava la vera e propria immagine del male, e questo circa 3.000 anni prima della nascita di Cristo.

Pertanto, sebbene la figura di Lucifero sia fortemente connotata nell’immaginario cristiano tanto da risultare addirittura biblica e al pari di Dio come suo principale nemico e oppositore, l’immagine di Satana andrebbe invece fatta risalire a una tradizione pagana politeista affermata e radicata da migliaia di anni e non ancora del tutto soppiantata dal cristianesimo, come potrebbe invece credersi.

Il diavolo nell’arte e nel mondo medievale

A partire dall’Alto Medioevo il diavolo assunse un ruolo dominante nel mondo religioso cristiano, tanto da influenzare l’arte, la letteratura e persino il pensiero e la mentalità della società medievale. A essere permeati di credenze e superstizioni erano inevitabilmente l’iconografia e l’immaginario collettivo, strettamente legati alla componente cattolica fondata sul binomio tanto discusso di bene e male.

Pertanto, se da un lato la figura del diavolo rappresentava una presenza demoniaca costante nella vita dell’uomo, un lampante esempio spirituale di “spinta al peccato”, dall’altra incarnava invece un forte bisogno umano, ovvero conferire un’immagine concreta a tutto ciò che costituisce un mistero per l’occhio, conferendo perciò concretezza e materialità a tale figura; e fu proprio l’arte a rappresentare lo strumento principale per l’incarnazione delle idee (nel corso dei secoli l’immaginazione non ha mai soddisfatto le aspettative umane). Fu così che, come avvenne per la figura di Dio e degli angeli, anche al diavolo si cercò di dare una degna e concreta rappresentazione artistica che desse agli uomini un’immagine reale verso cui rivolgersi.

Satana è una presenza angosciante nella quotidianità del Medioevo; è presente sulle facciate delle chiese, negli affreschi, sui capitelli e persino nei mosaici e nelle sculture di corte. Il periodo medievale inizia così a dar forma alla più grande paura che abbia mai ossessionato la comunità cristiana: l’idea di inferno e peccato. Le rappresentazioni artistiche infernali sono numericamente quasi al pari di quelle celesti e, come queste ultime, non tralasciano alcun particolare. Satana è sempre il protagonista indiscusso e, attingendo frequentemente anche a rappresentazioni pagane, i suoi particolari sono di un realismo crudo e impressionante. Si tratta spesso di opere religiose, raffiguranti ad esempio il giudizio universale o la discesa agli inferi, e nessun dettaglio (anche i più truci e cruenti) veniva risparmiato.

La sua figura è stata assai di frequente fonte d’ispirazione per scultori, pittori e artisti di ogni genere, i quali hanno cercato di raffigurare nei più svariati modi possibili questa “ossessione medievale”. Il diavolo è ferino, bestiale, non ha nulla a che vedere con l’angelica figura di Cristo, e rappresentando il suo principale antagonista sul piano biblico, così doveva essere anche dal punto di vista fisico. Spesso non ha nulla di umano, neppure una minima parvenza; può essere dotato di corna, artigli, denti acuminati e una coda serpentina. A lui sono inoltre spesso associati animali come il serpente, che incarna la tentazione (dalla nota vicenda biblica di Adamo ed Eva), il gatto nero (uno degli animali satanici maggiormente associati alla stregoneria) e la capra (legata all’episodio biblico del capro espiatorio, sul quale vengono riversati tutti i peccati del popolo di Israele).

Ma a essere raffigurato non era solo il suo aspetto bestiale, bensì anche il suo temperamento diabolico e la sua natura perfida e sadica. Il diavolo infatti tortura e strazia i peccatori che si trovano negli inferi con i peggiori tormenti che si possano immaginare, e l’arte in questo non tralascia alcun minimo particolare, così come magistralmente raffigura le angeliche figure dei beati che godono dei piaceri del paradiso.

Il diavolo nel Medioevo – Medium Aevum

In un’epoca in cui la stragrande maggioranza della popolazione non sapeva né leggere né scrivere, l’arte si ritrovava a svolgere una funzione chiave per la società medievale, e tutti gli avvertimenti che i peccatori avrebbero potuto leggere nella Bibbia o su un qualsiasi volume religioso, venivano esplicitamente espressi attraverso le opere artistiche; e se le raffigurazioni del paradiso avrebbero facilmente spinto alla retta via, con altrettanta efficacia le rappresentazioni infernali avrebbero dissuaso dal peccato e dalla tentazione. Inutile pertanto dire quanto la Chiesa sfruttò la rappresentazione artistica di tipo “satanico” a proprio vantaggio, come un vero e proprio mezzo di dissuasione e strumento di persuasione verso la fede cattolica.

La reazione della Chiesa

In parallelo a una diffusione tanto rapida e proficua relativamente alla figura del diavolo nell’immaginario collettivo medievale, non tardò ad arrivare la reazione della Chiesa in relazione a cosa effettivamente rappresentasse Lucifero per la comunità. Si delinea così un forte divario tra coloro che venivano considerati “bravi cittadini”, ligi al dovere e retti praticanti cattolici, e tutti coloro che, andando contro l’deale dell’“onesto popolano”, andavano inevitabilmente a scontrarsi con la dottrina cristiana cedendo alle cosiddette “tentazioni del diavolo”. Pertanto, se da un lato la Chiesa conferiva un’immagine sacra dell’unica possibile retta via da seguire, dall’altro ogni deviazione rappresentava invece un passo in avanti verso Satana e il peccato. E questa concezione raggiunse livelli sempre più estremi, soprattutto a partire dal Basso Medioevo.

Alla figura di Satana venivano infatti associati tutti coloro che potevano in qualche modo disturbare la perfetta aura che aleggiava sulla comunità cristiana medievale, turbando così la quieta pubblica e macchiando la forte religiosità che vi permeava. Erano pertanto considerati adoratori del diavolo tutti coloro che praticavano un culto diverso dal cristianesimo, e il Medioevo è denso di credenze popolari che crebbero nascoste agli occhi della Chiesa. Un esempio di ciò è dato dalla venerazione del “Santo Levriero”, un cane che salvò il bambino di un signore da una vipera, per poi venire ucciso dal padrone, il quale credeva che stesse sbranando il piccolo. Con il passare del tempo la storia si diffuse nei villaggi circostanti al castello in cui era avvenuto tale fatto, e la figura del cane venne sempre più assimilata a quella di un vero e proprio santo, visto come martire e salvatore. La Chiesa si oppose strenuamente e il culto (considerato al pari di un’idolatria) venne proibito, ma resistette ai continui tentativi di soppressione per secoli. E questo è solo uno dei molteplici casi; tali credenze venivano soprattutto associate al paganesimo, il quale era a sua volta il culto associato per eccellenza alla seduzione e al diavolo.

Un altro bersaglio facile per la Chiesa furono le donne. In una società altamente misogina come quella medievale era uso comune rivolgere astio e accanimento verso il sesso letteralmente più debole e, soprattutto verso la fine del Basso Medioevo, nacque così la figura della “strega”, intesa come donna estremamente devota al diavolo e praticante di magia nera. Con l’aumentare del sospetto verso tutto ciò che non si rifaceva fedelmente alla dottrina cattolica, aumentò inevitabilmente anche il timore verso tutte quelle pratiche che non erano sufficientemente conosciute, spesso praticate proprio da donne. A essere accusate erano infatti levatrici o guaritrici, le quali utilizzavano prodotti naturali che spesso potevano rimandare a pratiche magiche; tuttavia a finire nel mirino della Chiesa furono anche prostitute, mendicanti o lebbrose, ovvero tutte quelle donne che non rispondevano correttamente al rigido ideale medievale di “donna cristiana”, ritrovandosi così tra le categorie più deboli della popolazione. Ma la procedura era sempre la stessa e tra le maggiori colpe attribuite alle donne vi era l’accusa di praticare i “sabba”, tipici rituali blasfemi in cui le streghe si sarebbero radunate di notte per praticare orge sataniche con il diavolo.

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A delineare la donna come portatrice di peccato contribuì inoltre in modo molto significativo la figura di Eva, protagonista del peccato originale, e ancora una volta è proprio il cristianesimo, accompagnato dai celebri racconti della Bibbia, a dettare legge su cosa fosse giusto e cosa no. Era dunque inevitabile che la Chiesa posasse la sua attenzione soprattutto sulle donne, dato che colei che aveva mangiato il frutto proibito, ancora una volta sotto tentazione del diavolo sotto forma di un serpente, fosse proprio di quel sesso. Era dunque prassi comune associare la femminilità al peccato, ma soprattutto alla seduzione e alla tentazione, caratteristiche proprie soprattutto di Satana; motivo per cui le streghe vennero considerate le principali servitrici e adoratrici di Lucifero.

La Chiesa fu talmente coinvolta nella famigerata “caccia alle streghe” da istituire un vero e proprio tribunale santo: la “Santa Inquisizione“, con il solo e unico compito di reprimere brutalmente ogni possibile ostacolo alla dottrina cattolica e, ovviamente, ogni elemento che potesse rappresentare un pericolo per il potere della Chiesa come istituzione religiosa.

Ma nel mirino della “Santa Inquisizione” non finirono solo le donne, nonostante dovettero sopportare la stragrande maggioranza delle accuse. Molti uomini furono messi al rogo per la stessa accusa di stregoneria rivolta alle donne, ma quando paura e sospetto divennero insostenibili, molteplici accuse rivolte furono del tutto infondate, frutto di odi e vendette personali. Bastava infatti un semplice astio verso qualcuno, perché chi si voleva accusare venisse direttamente condannato come adoratore di Satana, a volte anche senza processo. Ma il genere non era il connotato principale, poiché in fondo l’accusa era sempre la stessa. Tutto questo per sottolineare quanto ogni accusa, che si trattasse di un culto anomalo, di un sospetto per stregoneria o di una semplice vendetta, fosse costantemente legata alla paura della presenza del diavolo nella vita di tutti i giorni. Una paura fondata su sospetti e fomentata quasi esclusivamente dalla Chiesa cattolica.

La figura del diavolo oggi

Nonostante oggi magia e superstizione siano state superate e soppiantate dalla costante crescita del progresso scientifico, la contemporaneità continua a essere permeata da ciò che caratterizzava la concezione medievale religiosa associata al male quasi settecento anni fa. Le Chiese continuano infatti a essere rivestite da affreschi relativi a una simbologia strettamente associata alla figura di Lucifero o al peccato originale. Inoltre nelle scuole e, più generale, a livello d’istruzione di base, è inevitabile lo studio di Dante, che con la sua accurata descrizione di inferno, paradiso e purgatorio, ha enormemente condizionato la visione antica e moderna del concetto di male e bene. La filmografia poi, uno degli elementi più associati alla contemporaneità, è colma di riferimenti satanici diretti o indiretti, come sette, esorcismi e rappresentazioni del diavolo di ogni genere; tutti concetti che, nonostante sembrino inseriti in modo pieno nella contemporaneità, risalgono invece a origini antichissime. Ancora oggi infatti la figura del diavolo viene inevitabilmente associata a quella che era la concezione medievale del male, e in questo la religione ha avuto un ruolo primario e fondamentale.

In un contesto laico o religioso che dir si voglia, è pertanto inutile cercare di separare l’idea che oggi abbiamo su Satana, da ciò che la Chiesa e il cattolicesimo hanno involontariamente, ma molto più spesso volontariamente, trasmesso nel corso dei secoli. Ancora ai nostri giorni infatti risulta quasi impossibile citare la figura del diavolo con tutte le sue implicazioni senza accostarsi, con il pensiero o attraverso riferimenti diretti, alla religione. Tutto questo poiché, come abbiamo visto precedentemente, così come la figura di Satana è fortemente influenzata da caratteristiche e tratti relativi al mondo pagano, la nostra contemporaneità è impregnata di concetti cristiani che si rifanno a un’antichissima tradizione, trasmettendoci così una viva cultura popolare legata alla figura del cosiddetto “diavolo” che ha alle sue spalle molto di più di ciò che possiamo vedere a primo impatto attraverso affreschi, film, libri o semplici racconti.


Marco Polo e la vera storia della pasta

secondo la leggenda, Marco Polo, di ritorno dalla Cina, avrebbe portato la in Italia, ma è davvero andata così?

La pasta, vanto e orgoglio di noi italiani. La pasta è il simbolo dell’Italia nell’immaginario comune, è la nostra più grande ricchezza, e secondo la leggenda, siamo stati proprio noi italiani ad esportarla in tutto il mondo, dopo averla importata, grazie a Marco Polo, dall’oriente.

La verità però è leggermente diversa, e se è vero che l’Italia ha diffuso la pasta in tutto il mondo, non è invece vero, che questa sia arrivata dall’oriente.

Su Marco Polo tornerò in altri post, qui mi limito a riportare alcuni riferimenti alla pasta.
Come sappiamo, secondo la leggenda, Marco Polo, intorno alla fine del XIII secolo, sarebbe tornato dalla Cina, dove era stato, tra il 1271 e il 1295, consigliere dell’imperatore. Al suo ritorno, ci racconta il mito, Marco avrebbe portato con sé polvere lirica, pasta e tante altre cose sconosciute agli occidentali.

Tuttavia, negli anni ottanta del XIII secolo, un ormai anziano Salinbene da Parma, monaco francescano, nella sua Cronica, ci parla di quando, da giovane, molti anni prima della nascita da giovane, era solito mangiare pasta ripiena, un piatto tipico della tradizione medievale, la cronica di Salinbene ci dice in modo inequivocabile che la pasta era nota in Italia almeno 50 anni prima del viaggio di Marco Polo, e di conseguenza che non sia stato lui a portarla.

Ma allora, come e quando è arrivata la pasta in Italia?

Purtroppo non lo sappiamo ancora con certezza, ma sappiamo che intorno al 1154, il geografo arabo Al-Idrin, menziona nei propri scritti un cibo di farina, a forma di fili, che lui chiama triyah e che veniva confezionato a Palermo.

Il testo di Al-Idrin è oggi il più antico documento noto, in cui si fa riferimento alla pasta, ma purtroppo, ci dice solo che alla metà dell XII secolo, questa era già diffusa, almeno nell’Italia meridionale, ma non ci dice da quanto.

Secondo alcuni storici, alcuni tipi di pasta, potrebbero essere stati prodotti già al tempo della Megale Ellas (Magna Grecia) anche se con qualche leggera variazione dalla “Pasta” così come la intendiamo oggi. Questi storici si riferiscono in particolare al cibo dei morti, “makar” da cui potrebbe essere derivata la parola maccheroni.

Gli unicorni sono esistiti davvero?

Oggi gli unicorni sono considerati creature leggendarie, appartenenti al mito, ma non è sempre stato così, nel mondo antico gli unicorni appartenevano al mondo naturale, proprio come uomini, capre, cani e cavalli.

Oggi gli unicorni sono considerati creature leggendarie, appartenenti al mito, ma non è sempre stato così, nel mondo antico diversamente da creature come pegaso, minotauri, centauri e fauni, che appartenevano al mondo del mito, gli unicorni appartenevano al mondo naturale, proprio come uomini, capre, cani e cavalli.

Questo significa forse che gli unicorni potrebbero essere realmente esistiti?

Nell’immaginario comune l’unicorno è una creatura dalle sembianze di un cavallo dotato di un corno al centro della fronte. Questa creatura leggendaria è stata citata innumerevoli volte nelle varie epoche storiche, da autori differenti e in opere molto distanti tra loro. Lo incontriamo come elemento mitico nella letteratura cavalleresca, ma anche nei salmi, in diversi bestiari del mondo antico e medievale e in fine, ma non meno importante, nell’iconografia cristiana e nella simbologia araldica medievale.

Nella simbologia araldica e nell’iconografia cristiana l’unicorno è un simbolo di simbolo di castità, purezza, verginità, che per lungo tempo fu eletto a sigillo di molti notabili europei, tra i più illustri vanno citati sicuramente Borso della casa d’Este, ma è anche uno dei simboli della Scozia ed appare negli stemmi del Regno Unito, della Nuova Scozia in Canada, del Canada e, in misura minore, come supporto nello stemma della Lituania.

Nel medioevo l’unicorno (o liocorno) era una figura mitologica, appartenente al mondo del mito, ma non è nel medioevo che l’immagine dell’unicorno fa la sua apparizione, queste creature leggendarie erano già note, ed erano state ampiamente descritte, in numerose opere della tradizione scritta e orale del mondo antico, c’è però una differenza tra gli unicorni araldici del medioevo e quelli del mondo antico, e questa differenza sta nel mondo in cui queste creature dimoravano, per dirla semplicemente, nel medioevo gli unicorni appartenevano esclusivamente al mito e alla mitologia, ma nel mondo antico le cose stavano diversamente, e per capire cosa intendo bisogna aprire una breve parentesi sulla mitologia.

Nel mondo antico la mitologia era uno strumento fondamentale per la comprensione del mondo, grazie alle sue storie e le vicende di dei ed eroi, permetteva agli uomini del mondo antico di orientarsi nel mondo di vivere senza essere intimoriti dalla natura misteriosa delle cose.

Il mito era uno strumento potentissimo per spiegare ciò che per gli strumenti di osservazione del tempo, non poteva essere spiegato, e se bene il mondo mitologico e quello reale spesso entrassero in contatto e vi fossero delle interferenze, in particolar modo nel mondo greco, vi era una netta distinzione tra quelle creature appartenenti al mondo “naturale” e quelle creature appartenenti invece al mito e gli uomini del mondo antico erano perfettamente consapevoli di questa distinzione. Sapevano che nel tragitto tra due polis greche era estremamente improbabile (per non dire impossibile) che qualcuno potesse imbattersi in un Idra, in un Cerbero, in un Pegaso o un Minotauro, e anche quando qualcuno raccontava di un incontro con una creatura mitica, la maggior parte degli ascoltatori era tendenzialmente scettica.

Tuttavia, nonostante la distinzione tra il mondo del mito ed il mondo naturale, dove invece le creature erano ben note a tutti ed era facile credere a qualche mercante vagabondo che raccontava di essere stato aggredito da un branco di lupi, vi è una creatura, mitologica che però figura tra i bestiari del mondo naturale e questa creatura è proprio l’Unicorno.

Nel mondo contemporaneo, nell’era di internet, l’unicorno è una creatura mitologica, senza se e senza ma, si tratta di una creatura estremamente iconiche, estremamente versatile ed affascinante, ma che, tutti collocano nel mondo del Mito, e anche se molti (me compreso) vorrebbero un unicorno, purtroppo siamo costretti ad accettare la realtà che questa creatura straordinaria non appartenga al nostro mondo. Ma nel mondo antico, per motivi ancora ignoti, non era così.

Nel mondo greco, l’unicorno, se bene fosse una creatura mitologica, che appariva esclusivamente nei miti e nelle leggende, che nessuno aveva mai realmente visto e toccato, era considerato come una creatura del mondo naturale, e tra i vari autori che ne hanno fatto menzione nelle proprie opere, il riferimento più importante e in questo senso più interessante ci arriva da Ctesias, che, nel suo lavoro Indika, una sorta di bestiario di quelle che erano le creature note all’epoca, inserisce la descrizione di un animale, proveniente dal medio oriente (secondo alcune ipotesi dall’area dell’odierno Iran), che sembrava un grosso asino selvatico dotato di un corno. 

Ma Ctesias non è il solo autore “scientifico” (passatemi il termine) a parlare di unicorni, nel mondo romano, intorno al primo secolo dopo cristo, Plinio il vecchio, un altro autore più celebre e autorevole di Ctesias, descrive una creatura che chiama “monoceros”, che si presenta come un incrocio tra un grosso cervo, un elefante, un cinghiale ed un cavallo, più precisamente un aspetto simile ad un cavallo, la stazza di un grosso cinghiale, e la presenza di un corno, simile a quello degli elefanti, posto però sul capo come un cervo.

Nell’Europa medievale, l’unicorno era una creatura molto popolare, resa celebre dai poemi cavallereschi e descritto nella forma di una creatura simile ad un cavallo dotato di un corno sul capo e proprio sul finire del medioevo, nel XIII secolo, Marco Polo, nella sua opera Il Milione, racconta di aver incontrato, nell’area dell’odierno Iran, proprio un unicorno, descritto con qualche lieve differenza dalla sua immagine classica di cavallo con un corno. Per essere più precisi, l’unicorno incontrato da Marco Polo, non assomiglia tantissimo ad un cavallo, assomiglia di più ad un grosso, enorme, cinghiale quasi del tutto glabro e con un singolo corno sulla testa.

La descrizione dell’unicorno di Marco polo richiama molto la descrizione di Plinio, e se si considera che è molto improbabile che un mercante, che non sapeva leggere e scrivere, avesse letto le opere di Plinio, le due descrizioni diventano molto interessanti.

Secondo molte ipotesi, la creatura che molti autori occidentali nel corso dei secoli hanno descritto e associato all’immagine di un unicorno, potrebbe essere un rinocerontide, noto con il nome di Elasmotherium, che si ipotizza essersi estinto durante il medio Pleistocene medio (circa 700.000 -120.000 anni fa), le cui fattezze ricordano moltissimo la creatura descritta soprattutto da Plinio.
Vi lascio di seguito alcune illustrazioni della creatura.

Le probabilità che la descrizione di Plinio il vecchio si basi su un reale incontro con un esemplare vivente di Elasmotherium, sono molto basse, per non dire quasi inesistenti visto che questa creatura si ritiene essersi estinta oltre 120.000 anni prima della descrizione fornita da Plinio. è molto più probabile che la sua descrizione si sia basata su una ricostruzione effettuata sulla base di ritrovamenti ossei, e in questo caso sarebbe un eccellente ricostruzione, sicuramente migliore di quelle ricostruzioni che, partendo da ritrovamenti ossei di dinosauri, hanno portato ad ipotizzare l’esistenza di giganti.

Per quanto riguarda invece la descrizione di Ctesias e ancora di più quella fornita da Marco Polo, questa potrebbe essersi basata sui racconti locali degli indigeni dell’area del medio oriente, e su eventuali raffigurazioni di questa antica creatura.

Quale sia la verità sulle origini dell’unicorno è ancora un mistero, una cosa è certa, per gli uomini e le donne del mondo antico, questa creatura era reale tanto quanto un cavallo, un mulo, un elefante o un cinghiale, e anche se nessuno ne aveva mai incontrato uno vivo, si aveva l’assoluta convinzione che almeno in passato quella creatura fosse appartenuta al mondo naturale piuttosto che a quello del mito.

Cristoforo Colombo, il Neil Armstrong del suo tempo || La scoperta dell’america

Quando si parla di Cristoforo Colombo si è soliti immaginarlo e descriverlo come “un uomo moderno” vissuto, in larga parte, nel medioevo, già, perché se si accetta la convenzionale data del 1492 e la scoperta dell’America insieme alla completata reconquista spagnola, come atti conclusivi del medioevo, allora Cristoforo Colombo, da protagonista indiscusso di una delle due imprese, è necessariamente nato e si è formato in un contesto “medievale”, certamente un medioevo molto lontano dai secoli bui e anche u medioevo in un certo senso morente o fiorente (dipende da come lo si guardi) in cui la civiltà europea stava collocando gli ultimi tasselli che avrebbero portato alla nascita effettiva degli stati nazione, elemento politico proprio dell’età moderna.

L’Europa in cui vive Colombo è un Europa in rinnovamento, sia culturalmente che politicamente, è un Europa molto lontana dal periodo delle crociate e delle lotte per le investiture, ma soprattutto è un Europa in cui, la composizione e la formazione degli eserciti sta cambiando profondamente e molto rapidamente e con essi sta cambiando l’amministrazione e la “burocrazia” delle nazioni.
Tuttavia, nonostante la forte presenza di numerose componenti moderne e di modernità nel mondo in cui vive Colombo, vi sono ancora numerosi elementi e credenze prettamente medievali che avrebbero avvolto la civiltà e lo stesso Colombo.

Colombo si ritrova ad essere allo stesso tempo un uomo moderno, come lo era stato Lorenzo de Medici, morto proprio nell’aprile del 1492, ma è anche uomo medievale come era Girolamo Savonarola, e non è un caso se, per questo esempio ho scelto di paragonare Cristoforo Colombo a Lorenzo de Medici e Girolamo Savonarola, due uomini contemporanei dello stesso Colombo, Colombo era nato intorno al 1451, Lorenzo era nato nel 1449 e Savonarola era nato nel 1452. E pure, nonostante i tre siano nati nello stesso periodo e nello stesso modo, anche se in circostanze e città molto diverse, sarebbero stati tre uomini molto diversi tra loro.

Per saperne di più su Girolamo Savonarola leggi anche “Chi era Girolamo Savonarola ?”

Lorenzo de Medici fu a tutti gli effetti un uomo “moderno” e proiettato verso un futuro imminente, per il quale, il suo mondo non era ancora pronto. Diversamente, Girolamo Savonarola era un uomo totalmente “medievale”, ancora immerso in quelle dinamiche ormai superate , vivendo nell’incapacità di accettare l’imminente modernità, un uomo che, in un certo senso, era destinato a restare indietro nell’incapacità di essere al passo con i tempi, ma allo stesso tempo, in alcuni tratti era anche, forse, troppo in avanti per essere raggiunto e compreso dal mondo in cui viveva. E in fine Colombo, lui si colloca perfettamente a metà strada tra Lorenzo de Medici e Girolamo Savonarola.

Come Lorenzo, Colombo nutre una profonda fiducia nel progresso, è consapevole che il mondo in cui vive sta cambiando e non vuole restare indietro, anzi, vuole essere un avanguardia, vuole lanciarsi in un futuro incerto, ignoto e pieno di incognite al quale potrebbe non sopravvivere, ma allo stesso tempo, come Savonarola, è un uomo timorato di Dio, che conosce i passi biblici a memoria ed è profondamente convinto che la sua fede (in parte riposta in dio e in parte nel futuro) lo avrebbe in qualche modo guidato e protetto.

Quando Colombo partì alla volta delle indie, nella sua prima e imprudente traversata atlantica, aveva con se scorte limitate e un equipaggio di fortuna, formato da uomini di dubbia moralità, che non condividevano la sua stessa sete di avventura e di futuro, ma, al contrario, soffrivano una profonda fame d’oro e di ricchezze ed erano pronti ad ammutinarsi non appena le cose si fossero messe male. Questi uomini erano uomini totalmente medievali, come lui e forse anche più di lui, le cui esistenze erano condannate ad una vita statica, intrappolati nell’eterna ruota del destino e l’unico modo che Colombo aveva per riuscire a controllarli (e impedire che lo ammazzassero e gettassero fuoribordo) era una promessa, la promessa di spezzare insieme la ruota del destino, la promessa di fare di quegli uomini, degli uomini liberi e soprattutto ricchi. Di certo queste non sono le carte migliori che un uomo, desideroso di entrare nella storia e cambiare il proprio destino, possa desiderare, ma erano comunque le carte migliori che era riuscito ad ottenere e forse le migliori che avrebbe mai sperato di ottenere, in fondo aveva ricevuto tre caravelle, un equipaggio, e viveri a sufficienza per una lunga traversata in acque sconosciute, indirizzato verso un mondo lontano e difficile da raggiungere passando da oriente, e ancora più irraggiungibile passando da occidente, ma questo viaggio, come sappiamo, lo avrebbe portato ad imbattersi in un nuovo modo, ancora tutto da scoprire.

Quando Colombo e il suo equipaggio giunge nel nuovo mondo, le ultime luci dell’ 11 ottobre 1492 illuminavano le coste che si estendevano oltre i confini dell’occidente e, quando alle prime luci del 10 ottobre Colombo ed una manciata di uomini calarono le scialuppe e si inoltrarono in quelle terre, erano avvolti da un atmosfera surreale ed estremamente suggestiva, la nebbia avvolgeva ogni cosa e quell’isola appena intravista la sera prima appariva completamente diversa, inquietante e terrificante. La nebbia saliva dal mare la mentre il suono dei remi e delle acque che si infrangevano lungo la scogliera accompagnava il loro viaggio. Man mano che si avvicinavano alla costa, nell’aria iniziavano a sentirsi altri suoni, versi di belve sconosciute oltre al fruscio delle foglie di alberi mastodontici e nel cielo si levavano uccelli marini, mai visti prima, creature misteriose e sconosciute, vivaci e colorate, che sembravano essere saltate fuori da chissà quale sogno o incubo.

Ed è proprio in quel momento, mentre navigavano verso l’ignoto che Colombo mostrò il suo volto di uomo medievale, il suo primo pensiero, quando fu di fronte a quell’isola e alla moltitudine di creature sconosciute, avrebbe annotato nei suoi diari, fu l’idea che quello non fosse l’oriente, ma il monte del purgatorio. E questa idea, l’idea di aver messo piede in uno dei tre “danteschi” regni dell’oltretomba lo avrebbe inquietato profondamente.

Quell’isola, per Colombo, non avrebbe dovuto essere lì, Colombo era infatti ben cosciente di essere giunto in una terra ancora inesplorata, poiché, secondo le stime di quella che era l’ipotetica dimensione della terra, nella migliore delle ipotesi si trovavano ancora a metà strada, tra l’Europa e l’estremo oriente, si trovavano in uno dei luoghi più remoti del pianeta e la deduzione logica più immediata, per un uomo del medioevo, non fu l’idea di aver scoperto un nuovo continente, ma quella di aver trovato la collocazione materiale del monte del purgatorio.

Col senno di poi lo stesso Colombo capì dove era giunto e cosa avrebbe comportato quella scoperta e superato quell’attimo di sconvolgente sbigottimento iniziale, capì di essere stato il primo Europeo a mettere ufficialmente piede in una nuova terra, ignaro del fatto che quella terra era un intero nuovo mondo e che la sua scoperta avrebbe spalancato definitivamente le porte dell’età moderna, un epoca in cui l’eurocentrismo e la civiltà cristiana sarebbero progressivamente entrate in crisi, e sarebbero stati mossi i primi passi per un autentica conoscenza globale del mondo.

Analogamente al primo passo di Neil Armstrong sulla luna il 20 luglio 1969, quello di Colombo fu “un piccolo passo per un uomo, ma un grande passo per l’umanità”, se bene l’umanità fosse ancora vincolata al pianeta terra, era stata infranta una grande barriera geografica, quella dell’oceano atlantico, le cui acque, per secoli avevano confinato la civiltà europea (e non solo) al bacino dl mediterraneo.
Grazie a quel piccolo passo compiuto da Colombo, il limite delle colonne d’ercole era stato infranto e quelle acque, per secoli inviolate, si sarebbero state conquistate e di li a qualche secolo, centinaia, migliaia di navi provenienti dal vecchio continente, avrebbero solcato l’atlantico alla volta del nuovo mondo, o meglio, i un mondo nuovo in cui non esistevano limiti geografici.
L’umanità poté ricominciare a guardare le stesse, sognando di raggiungerle e cercando un modo per farlo.

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Medioevo: Poggio Bracciolini e i manoscritti perduti

 

Il Medioevo non è stata di certo l’epoca che ha definitivamente creato quel distacco temporale tra epoca classica e moderna.

Come tutti sappiamo in quest’epoca sono stati raccolte e copiate le più grandi opere classiche degli autori latini, merito degli scriptorium, i luoghi dei monasteri in cui i monaci amanuensi si dedicavano alla copiatura a mano dei testi classici, per evitare che andassero perdute.

Beh, in realtà dire che le opere classiche andassero proprio perdute non è esatto da una parte.

Nel Medioevo solamente la classe ecclesiastica conosceva il latino, e di conseguenza le opere copiate venivano conservate senza essere diffuse, e diventavano accessibili a pochi.

La maggior parte delle opere classiche era conservata, puta caso, nei monasteri tedeschi, e li sarebbero rimaste se non fosse arrivato Poggio Bracciolini, umanista e storico italiano, nato a Guccio e vissuto tra il 1380 e il 1459, svolgendo l’attività di copista e segretario a Roma prima dell’Antipapa Giovanni XXIII, e in seguito al Concilio di Costanza (1414 – 1418), a cui prese parte, dopo un periodo di esilio in Inghilterra, ospitato dal vescovo di Winchester, Enrico Beaufort, fu reintegrato nella Curia da papa Martino V.
Lavorò anche per i suoi due successori Eugenio IV e Nicolò V fino al 1453, quando si trasferì a Firenze per lavorare come segretario della famiglia De Medici, i Signori di Firenze.

Proprio durante il periodo del Concilio di Costanza, a seguito dei suoi viaggi in Germania e Francia, ebbe modo di girare per vari scriptoria, soprattutto dei monasteri vicino Costanza (San Gallo, Reichenau, Cluny), riscoprendo le opere classiche di quegli autori considerati sconosciuti, tra cui Quintiliano, Vitruvio, Lucrezio e Marcellino e alcuni frammenti delle varie opere di Cicerone, che fino ad ora nessuno aveva ricopiato e diffuso, come riporta nella sua opera “La liberazione dei classici dagli ergastoli dei Germani”

Grazie alla diffusione di queste opere classiche Poggio è stato uno di quelli che ha rivoluzionato la cultura dell’epoca. In particolare l’opera di Vitruvio, “De Architettura” fu preso come riferimento per l’architettura rinascimentale, mentre con la riscoperta di Cicerone fu riscoperta la retorica, di cui Poggio cercò di imitarne lo stile.

Da buon copista e letterato rivoluzionò il campo della scrittura, reintroducendo la “minuscola carolina”, ormai in disuso, sostituita dalla pesante e complicata scrittura “gotica” e l’introduzione della maiuscola nello stile carolino, prendendo spunto dalle epigrafi romane.

Ancora una volta grazie all’umanesimo la cultura diventa universale.

Fonti:

Giovanni Fiesoli, Nella biblioteca di Poggio Bracciolini: un percorso storico e documentario tra codici ed epistole, in Memorie Valdarnesi s. IX, a. 179° (2013), pp. 81-15
Stephen Greenblatt, Il manoscritto, Milano, Rizzoli, 2012.
R.V. Manekin, Analisi del contenuto come metodo di ricerca sulla storia del pensiero (Poggio Bracciolini). Ricerche sulla scienza delle fonti storiche, Gazzetta dell’Università di Mosca. Serie 8. Storia. 1991. N 6, pag. 72-82.

Quanto conosciamo i Vikinghi ? secondo un sondaggio di History Channel UK, molto poco

Per celebrare il lancio di una nuova stagione del dramma epico Vikings , The History Channel UK ha condotto un sondaggio su 2.000 persone, facendo domande di carattere generale sulla storia e la civiltà dei vichinghi ed i risultati sono stati “affascinanti” ma anche inquietanti. Mediavalist.net ha riportato la percentuale delle risposte date, rivelando qual è l’effettiva percezione che le persone hanno dei vichinghi e del loro lascito a questo mondo.

Secondo il 10% degli intervistati, i Vikinghi non sono mai esistiti, al contrario, soltanto il 56% degli intervistati si è detto sicuro, al di la di ogni ragionevole dubbio, dell’esistenza dei vichinghi, dicendosi interessati all’ammontare del “patrimonio” conquistato da questo popolo durante le proprie scorribande nel europa del nord. Ma siamo sicuri che i Vikinghi appartenessero ai cosiddetti “popoli del nord” ?

Noi sappiamo che la terra d’origine della civiltà vikinga fosse la scandinavia, tuttavia, il 20% degli intervistati non sembra essere d’accordo con questa informazione ed ipotizza un diverso luogo di origine di questa civiltà, tra le più quotate figurano la Grecia, per via di un ipotetico collegamento tra la mitologia norrena e la leggenda di Ulisse, che in questa data chiave di lettura, diventerebbe il padre mitico dei popoli del Nord, l’altra ipotesi emersa da questo sondaggio è che la terra d’origine dei vikinghi fosse la steppa siberiana o la Mongolia.

 

Uno degli elementi più iconici della civiltà vikinga è la loro teatralità in battaglia, oggi sappiamo che ogni elemento del vestiario, dell’armamentario, e dei mezzi di trasporto vikinghi erano studiati per incutere terrore all’avversario, dalla Drakkar alle particolari rasature della testa, agli incendi appiccati dopo un incursione e le asce da battaglia.

Questi elementi appartengono ormai all’immaginario comune legato ai vikinghi, tuttavia, soltanto il 5% degli intervistati sapeva che i Vikinghi rasavano la propria testa per apparire più minacciosi in battaglia e solo il 25% degli intervistati sapeva che i Vikinghi hanno scritto i propri poemi, permettendo a noi, di conoscere parte della loro storia, e soprattutto la loro mitologia, il 75% degli intervistati infatti si è detto convinto che le opere “poetiche” dei Vikinghi fossero opera di “terze parti” .

 

Una delle domande riguardava l’area delle incursioni, e visto che il sondaggio è stato fatto nel Regno unito, History ha chiesto agli intervistati se, i Vikinghi avessero mai compiuto raid lungo le isole britanniche ed il 75% degli intervistati ha risposto correttamente, mentre il restante 25% si è detto certo che i Vikinghi non avessero mai saccheggiato le coste britanniche.

 

 

 

In fine, il 10% degli intervistati si è detto convinto che, l’epoca dei Vikinghi, ovvero l’epoca delle grandi incursioni vikinghe lungo le coste dell’europa del nord, (che noi sappiamo coincidere con i secoli che vanno dall’ottavo all’undicesimo) ha indicato i secoli tra il quindicesimo e il diciassettesimo, e gli anni che separano Enrico VIII da Elisabetta I, come gli anni dei Vikinghi, sfasando così la storia Vikinga di oltre otto secoli, e solo il 60% degli intervistati ha indicato l’esatto arco temporale.

Fonte : http://www.medievalists.net/2017/05/vikings-survey-quiz/

 

 

Flavio Biondo e il Medioevo: alle origini del termine

Il Medioevo. Quante volte sentendo questo termine avete pensato a qualcosa di negativo.
Pensate ad un epoca buia, dominata dalla superstizione, dal potere instabile creatosi con la caduta dell’Impero Romano, orde di barbari che saccheggiavano città e dove la religione era l’unico rifugia per dare un senso a quella vita breve e precaria. Ma soffermiamoci un attimo sul termine Medioevo.

Innanzitutto chi lo ha coniato? In quale circostanza? Erano ragioni valide le sue?

Il termine nasce verso la seconda metà del secolo XV e quindi in ambito umanistico – rinascimentale. Il nome che vi faccio è poco conosciuto. Si tratta di Flavio Biondo storico e umanista italiano del Rinascimento vissuto tra il 1392 e il 1463. 

Biondo è famoso per essere stato il primo ad occuparsi di archeologia. Si è dedicato allo studio delle antiche rovine della città di Roma, dove ha vissuto lavorando come segretario del Vaticano, essendo nato a Forlì. E lo ha fatto sia esaminando l’architettura dei resti degli edifici sia consultando le opere classiche, all’epoca le uniche fonti su cui poter fare affidamento. In base ai suoi studi ha pubblicato un opera enciclopedica in tre volumi tra il 1444 e il 1446, De Roma Instaurata (Roma restaurata) una ricostruzione della topografia romana antica.

Il termine Medio Evo lo troviamo per la prima volta nella sua opera più importante Historiarum, una sorta di storia dell’Europa dal 412 (due anni dopo il Sacco di Roma)fino all’epoca dell’autore.
Biondo usa il termine Medioevo per indicare un arco di tempo (e dico uno e non quello essendo stato usato per la prima volta) che va dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente sino al suo tempo, anche se non specifica bene l’anno di inizio. Ma è probabilmente che la concezione che il Medioevo abbia inizio nel 476 si rifà all’opera di Biondo.

Ora Biondo si rende conto che dopo la caduta dell’Impero Romano, la memoria storica dell’epoca classica era andata perduta. Basti pensare che la zona intorno al Foro Romano si era ridotta ad una rozza campagna piena di catapecchie e maiali. E chiaro che tutto ciò agli occhi di un classicista è segno di barbarie e arretratezza. E quindi che Flavio Biondo avesse una concezione negativa del Medioevo non vi sono dubbi, ed è per questo che si è dedicato allo studio dell’Antica Roma per salvaguardare il patrimonio di quella che fu “La Regina dell’Antichità”.

Biondo ha coniato questo termine dispregiativo per una giusta causa: salvaguardando il patrimonio classico di Roma, egli cercava soprattutto di sensibilizzare i romani a rivivere la loro gloriosa origine, prendendo come esempio politico e militare la Roma pagana (come scrive nella sua opera De Roma Triumphante – I trionfi di Roma) di cui la Roma papale ne era erede dei valori (una concezione un po’ controversa in ambito umanistico – rinascimentale che poneva l’uomo al centro di tutto).
Se quindi, almeno per gli umanisti, il Medioevo è vero che è stata un’epoca buia, dall’altra ha tirato fuori il suo lato positivo più importante, la riscoperta delle opere classiche. Ci sarebbe stato Rinascimento senza Medioevo?

 

Fonti:

Riccardo Fubini, “Flavio Biondo” in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 10, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1968
Augusto Campana, Ritratto Romagnolo di Biondo Flavio (1963), a cura di M. Lodone, Cesena, Stilgraf, 2016

 

 

 

 

 

Chi era Girolamo Savonarola ?

Il 7 aprile del 1498, il popolo fiorentino si rivolta contro il predicatore Girolamo Maria Francesco Matteo Savonarola, rivolta che avrebbe portato alla sua morte per impiccagione e successivamente fu messo al rogo, il 23 Maggio di quello stesso anno. Ma chi era Savonarola e perché i fiorentini arrivarono ad odiarlo così tanto ?

Per rispondere a questa domanda occorre fare un asso in dietro di oltre un decennio e tornare al 1487, anno in cui lasciò, all’età di 35 anni, il convento di San Marco che lo aveva accolto fin dal suo arrivo nella firenze medicea nel 1482. Prima di giungere a Firenze Savonarola aveva vissuto in un altra illustri città, roccaforte di una delle grandi famiglie mecenate dell’epoca, la natale Ferrara, dove la sua famiglia si era trasferita fin dal 1440, ma non fu l’unica, e prima di stabilirsi definitivamente a Firenze nel 1490, Savonarola viaggiò in molte città dell’italia centrosettentrionale.

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Suo nonno Giovanni Michele Savonarola, uno dei più illustri luminari della medicina quattrocentesca, docente nell’università dell’originaria Padova e successivamente all’università di Ferrara, incarico che gli avrebbe permesso di legarsi alla famiglia d’Este, diventando Archiatra (una sorta di protomedico) personale di Niccolò III d’Este.
Alla scomparsa di suo nonno avvenuta nel 1468, Girolamo Savonarola fu introdotto allo studio delle arti liberali da suo padre Niccolò Savonarola. Tra le sue letture più appassionate vi furono i dialoghi di Platone, a cui dedico un appassionato commento purtroppo distrutto dallo stesso Savonarola, probabilmente perché non reputava se stesso nella posizione di poter commentare un classico del calibro di Platone. Col progredire dei suoi studi il giovane studente ferrarese si avvicinò ai testi aristotelici e al tomismo.

Nell’aprile del 1475 Girolamo Savonarola lascia la casa paterna e la natale Ferrara per entrare nel convento di San Domenico Bologna. Qui viene introdotto al noviziato dall’abate Giorgio da Vercelli e l’anno successivo sarà ordinato Suddiacono e per volontà dei suoi superiori indirizzato allo studio della teologia per diventare predicatore domenicano, nel 1482 sarebbe tornato a Ferrara giusto il tempo di ricevere la nomina che avrebbe segnato la sua vita, il 28 aprile 1482 fu nominato lettore del convento fiorentino di San Marco.
Qui, nella Firenze Medicea del 1482 inizia la storia nota di Girolamo Savonarola, il predicatore domenicano che si scagliò contro la decadenza e la corruzione della chiesa, i cui “cattivi pastori” si erano macchiati di crimini e peccati imperdonabili, omicidi, lussuria, sodomia, idolatria, credenze astrologiche, simonia, eccetera eccetera eccetera.

Ma procediamo con ordine, come dicevamo, Girolamo Savonarola giunge a Firenze con l’incarico di lettore del convento di San Marco, la cui parte monumentale fu progettata e realizzata dall’architetto Michelozzo, l’edificio sarebbe stato modello e della biblioteca laurenziana di firenze, mentre oggi è sede del museo nazionale di San Marco. Tornando a Savonarola, il suo accento romagnolo appariva barbaro alle forbite orecchie dei ricchi mecenati fiorentini, tra cui Lorenzo di Piero de’ Medici, meglio noto come Lorenzo il Magnifico, e come avrebbe scritto lo stesso Savonarola :

“io non aveva né voce, né petto, né modo di predicare, anzi era in fastidio a ogni uomo il mio predicare” aggiungendo poi che “ad ascoltare venivano solo certi uomini semplici e qualche donnicciola”.

Nonostante ciò, seguono anni di predicazioni itineranti, tra Firenze e San Gimignano in terra senese, poi, nel 1487 un importante evoluzione nella sua carriera “ecclesiastica”, Girolamo Savonarola viene nominato maestro nello Studium generale presso il convento di Domenico a Bologna, luogo in cui aveva conseguito i propri studi, nel quale sarebbe rimasto soltanto per un anno, poi, nel 1488 una nuovo incarico, questa volta nella natia Ferrara, dove fu assegnato al monastero di Santa Maria degli Angeli.
Il lavoro in monastero permise al Savonarola di muoversi e spostarsi più frequentemente che mai, non a caso, tra il 1488 ed il 1490 anno del suo ritorno a firenze, su richiesta esplicita di Lorenzo, Girolamo Savonarola predicò in numerose città tra cui Brescia, Modena, Piacenza e Mantova.

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Come preannunciato, nel 1490 Lorenzo de Medici richiede esplicitamente al generale della compagnia dei frati predicatori l’assegnazione di “Hieronymo da Ferrara“.
Questa nuova esperienza in terra fiorentina sarà, almeno inizialmente, molto più fortunata e longeva, rimarrà infatti nella città medicea fino al momento della sua morte, condannato da quella stessa città che aveva invocato il suo ritorno, ma a questo arriveremo più avanti.

Fin dal suo ritorno Savonarola ottenne molto successo con le sue prediche, ascoltato e apprezzato soprattutto da poveri, scontenti, e soprattutto dagli oppositori della famiglia de Medici. Questo perché nelle sue prediche Savonarola non temette di denunciare la decadenza e la corruzione della chiesa, e non mancò di chiamare in causa, lanciando numerose accuse a governanti e prelati.

Il Magnifico più volte ammonì il frate domenicano affinché non continuasse su quella linea, ma il rinnovato spirito del predicatore era infiammato dai suoi più fedeli ascoltatori e seguaci, e ciò lo spinse a continuare imperterrito su quella strada che lo avrebbe condotto al priorato nel convento di San Marco nel 1492, quello stesso anno, il 5 aprile, un fulmine colpì la lanterna del duomo, l’avvenimento fu letto come un cattivo presagio dal superstizioso popolo fiorentino, presagio sembrò confermato dalla morte del signore della città Lorenzo de Medici avvenuta appena tre giorni più tardi. Qualche mese dopo, il 25 luglio morì anche Papa Innocenzio VIII, succeduto da Rodrigo Borgia che assunse il nome di Alessandro VI.

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Rodrigo Borgia sembrava incarnare tutto ciò contro cui Girolamo Savonarola aveva sempre predicato, eppure quest’uomo dalla dubbia moralità era il nuovo pontefice, vicario di Dio in terra, capo e alla guida della chiesa cattolica romana.
Quasi contemporaneamente, a partire dal 1494, il re di Francia, Carlo VIII di Valois inaugurò una serie di campagne militari in Italia, campagne che Niccolò Machiavelli avrebbe definito, le “horrende guerre d’italia“. In questa sede non indagheremo ulteriormente le campagne d’Italia e la discesa dello stesso Carlo di Valois in Italia, ci basti sapere che nel 1495 Savonarola incontrò Carlo VIII di ritorno in Francia, questo incontro, avvenuto su iniziativa di Savonarola e destinato a ricevere parole di rassicurazione per il destino di Firenze, pare abbia suggerito a Ludovico Sforza detto Il Moro, signore di Bari, un’elaborata congiura per mettere fine ai legami tra Firenze e la Francia e strumento inconsapevole della congiura fu proprio Girolamo Savonarola.

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La congiura ordita da Ludovico avrebbe al crescente rancore della popolazione fiorentina nei confronti del frate domenicano, e secondo alcuni, sarebbe alle origini della sua caduta. Senza disperderci troppo, cerchiamo di capire cosa accadde.

Ludovico il Moro denunciò di aver intercettato due lettere di Savonarola, probabilmente per screditarlo, una delle quali era indirizzata a Carlo VIII. La congiura pare abbia avuto successo e Girolamo Savonarola fu scomunicato nel 1497.
Per quanto riguarda la scomunica alcune teorie ipotizzano un intromissione nella vicenda di Cesare Borgia, figlio del papa Alessandro VI che, grazie all’aiuto di alcuni alti prelati a lui molto vicini, riuscì a produrre una falsa Scomunica, tuttavia questa teoria non è stata ancora dimostrata e di fatto si tratta di solo di una teoria, molto discussa e certamente molto affascinante, ma per il momento priva di basi documentarie, la cito in questo articolo soltanto perché considerata da molti come una nuova verità, e rappresenta sicuramente un interessante campo di indagine che coinvolge numerosi studi, filologici oltre che storici.

Tornando a Girolamo Savonarola, una volta perso l’appoggio francese e ufficialmente scomunicato, le antiche accuse politiche lanciate contro la famiglia de Medici, gli si rivoltarono contro. Al termine delle guerre d’Italia il partito dei Medici erano tornato al potere, mentre i Medici erano ancora in esilio e e non avrebbero messo piede a firenze prima del 1512. Savonarola, ormai in rovina sul piano politico, godeva soltanto dell’appoggio di qualche frate e dei “disperati” di Firenze, e una volta scomunicato, fu processato e condannato per eresia.

Stando alle cronache del tempo Savonarola ed alcuni frati si barricarono nel convento di San Marco, tentando in vano di resistere all’arresto avvenuto il 7 aprile del 1498 e meno di due mesi più tardi, il 23 maggio 1498, fu condannato a morte per impiccagione e successivamente messo al rogo.

Fonte :