NOBUO FUJITA || Il pilota giapponese che bombardò la California

Oggi vi racconterò una storia, la storia di Nobuto Fujita, un pilota giapponese che nel 1942 riuscì a portare a termine due bombardamenti due incursioni aeree sul suolo degli Stati Uniti, riuscendo a colpire la California e l’Oregon, ma andiamo con ordine.

Nel settembre del 1942, nel vivo della Seconda Guerra Mondiale, il Giappone lanciò un audace attacco sul suolo degli Stati Uniti (meno famoso dell’attacco a Pearl Harbor) in cui riuscirono a bombardare la parte continentale degli USA. Fu l’unico attacco in tutta la guerra in cui gli la parte continentale degli USA fu colpita colpiti dalle forze nemiche.

Le incursioni (due) sono state lanciate da un sottomarino che si trovava a pochi chilometri dal confine tra gli stati di Oregon e California ed ebbero come obbiettivo principale non le città ma i boschi… si avete letto bene, i giapponesi bombardarono i boschi tra California ed Oregon, causando danni alla terra e provocando disagio alla popolazione americana senza però coinvolgere direttamente la popolazione civile, l’attacco era un messaggio, quasi a voler dire “siamo qui e possiamo colpirvi quando vogliamo … paura eh?”.

L’attacco riuscì, almeno sulla carta, ma in termini pratici fu probabilmente il più grande flop mai registrato dall’aviazione giapponese, anche se il panico si diffuse (anche se solo minimamente) e le incursioni furono riportate su alcune testate nazionali, tuttavia, sfortuna volle che i giapponesi non prestarono molta attenzione alle previsioni meteo lanciando l’attacco con condizioni meteorologiche decisamente sfavorevoli ai loro piani.

Detto in soldoni, quel giorno c’era poco vento e questo limitò tantissimo la diffusione degli incendi, inoltre la rapida risposta dal servizio antincendio e gli erronei calcoli sull’altezza da cui sganciare le bombe, ridussero al minimo i danni (un piromane con un accendino e una tanica di benzina probabilmente avrebbe fatto più danni delle due incursioni aeree).

E in effetti, in altre occasioni riuscirono a provocare molti più danni utilizzando la strategia del “palloncino a fuoco”, in pratica si lanciavano migliaia di palloncini che trasportano esplosivi e sfruttando i venti, molti di questi palloncini riuscirono effettivamente a raggiungere l’America del Nord, partendo addirittura dal Giappone.

Nel 1962, molti anni dopo la seconda guerra mondiale, Nobuo Fujita (il pilota giapponese che aveva condotto le due incursioni) fu invitato a visitare la città di Brookings “colpita dai bombardamenti”.
Nobuo Fujita si recò effettivamente a Brookings dopo che il governo USA aveva assicurato al governo giapponese che non sarebbe stato giudicato come un criminale di guerra.

Quando Fujita è arrivato a Brookings ha portato con se l’antica spada da samurai della sua famiglia (circa 400 anni) promettendo seppuku (gettarsi sulla sua spada) come segno di pentimento per gli attacchi che aveva compiuto per la gloria dell’Impero giapponese.

Fortunatamente per Fujita la città di Brookings non ha richiesto Seppuku ma anzi, Fujita ha ricevuto un accoglienza estremamente calorosa da parte dei locali di Brookings. Addirittura nel 1997 ha ricevuto la cittadinanza onoraria della città di Brookins, sfortunatamente per lui, non ha potuto godere a lungo di questo onore perché morì nel 1998 e le sue ceneri furono disperse dalla sua famiglia, tra i boschi vicino Brookins, proprio dove erano cadute le bombe incendiarie sganciate da Fujita nel 1942.

“Virtute duce comite fortuna”. La triste vicenda del somm. “Galvani”

Il 24 giugno 1940, appena due settimane dopo l’inizio della guerra da parte italiana, veniva affondato dalla corvetta H.M.S. Falmouth e dal cacciatorpediniere H.M.S. Kimberley, il Regio Sommergibile “Luigi Galvani”.

La storia della Regia Marina durante il secondo conflitto mondiale è contraddistinta, più particolarmente delle altre Forze Armate, da quelli che possiamo definire i paradossi della “guerra fascista”. La Marina, difatti, alla data del 10 giugno 1940 era, tra le Armi principali del sistema bellico italiano, quella considerata più moderna è capace di sostenere lo sforzo bellico.

La grande rivista navale compiuta nel Golfo di Napoli per celebrare la visita di Hitler del maggio 1938 (quella di “Una giornata particolare”, per intendersi) mise in mostra lo stato di forma della flotta italiana. Il ministro della propaganda del Reich, Joseph Goebbles, ebbe modo di scrivere sul suo diario:

“La Marina è straordinaria. La flotta, gli idrovolanti, i cacciatorpediniere, settanta sommergibili che si immergono e riemergono di colpo. Manovre di combattimento (…). Tutto eseguito con grande ordine e accuratezza.”

Sulla carta la Regia Marina poteva vantare 6 corazzate, di cui due di tipo moderno da 35.000 tonnellate,7 incrociatori da 10.000 tonnellate, 14 incrociatori leggeri tra le 5.000 e le 8.000 tonnelate., 12 cacciatorpediniere conduttori di flottiglia, 28 moderni cacciatorpediniere, 19 cacciatorpediniere di vecchio modello, 69 torpediniere, 117 sommergibili di vario tonnellaggio. Come numeri questo dislocamento non aveva nulla da invidiare alle principali rivali presenti nel “Mare Nostrum“, Francia e Gran Bretagna.

Il deficit italiano ruotava attorno a due cardini principali. Il primo era che la flotta, per tipo di unità ed addestramento, era poco preparata alla guerra che dovette poi affrontare. La struttura che aveva ricevuto soprattutto durante il biennio 1934-1936 l’aveva impostata principalmente per uno scontro diurno, sfruttando i cannoni, tra corazzate. L’altro era la mancanza di navi portaerei, oltre che una seria intesa con l’Aviazione. Mussolini aveva bocciato l’idea di costituire delle portaerei per la flotta, ritenendo già la penisola italiana una portaerei naturale per un eventuale  sforzo bellico. La deficienza in questo campo, unita alla mancanza di un apparato tecnico-scientifico adatto agli scontri notturni, fu fatale già dai primi scontri con la flotta britannica.

La Regia Marina, nel giugno 1940, era ancora ben lontana dall’aver approntato un qualsiasi tipo di localizzatore radar del nemico, come invece avevano Germania ed Inghilterra, pur avendo dal 1936 allo studio presso i laboratori Istituto Militare delle Trasmissioni un radiotelemetro che doveva sfruttare gli echi delle onde elettromagnetiche riflesse da uno scafo alla superficie del mare. I primi sospetti che tale apparato esistesse e che fosse installato sulle unità della Mediterranean Fleet inglese la Regia Marina li ebbe nel tragico scontro di Matapan (marzo 1941), sconfitta che costò assai cara alla Marina proprio per l’incapacità di manovrare nelle tenebre.

Il Duce però aveva una carta che pensava avrebbe favorita notevolmente la guerra marittima italiana, quella dei sommergibili. I numeri parlavano chiaro, nel giugno del 1940 l’Italia era la nazione che vantava il più alto numero di mezzi per il combattimento sottomarino, vitali per condurre da predatore  la cosiddetta “guerra dei convogli”.

Però  la crescente efficacia dell’arma aerea, che costringeva ad immergersi rapidamente, e la forte difesa antisommergibile, dei convogli e del naviglio di linea, mise in luce delle difficoltà strutturali dei battelli italiani. Questi difatti erano stati sviluppati secondo i principi della guerra sottomarina sviluppati durlante il primo conflitto mondiale, con la previsione di operare spesso in emersione, privilegiando le capacità nautiche di superficie. Per l’attacco, si prevedeva che questo avvenisse quasi sempre in immersione di giorno, quando la visibilità era migliore, applicando la tecnica dell’agguato, in un passaggio o zona definita dove attendere al varco le navi nemiche. Paradossalmente l’Italia si trovò svantaggiata da questa situazione, in quanto deteneva una flotta particolarmente numerosa ma tecnicamente superata dallo sviluppo della guerra. Nonostante ciò va riconosciuta una sostanziale capacità dei nostri marinai e ufficiali imbarcati, i quali riuscirono a portare a termine missioni particolarmente delicate e tenere in scacco la flotta più potente del Vecchio Mondo per circa tre anni.

Le due flotte subacquee dell’Asse, italiana e tedesca, collaborarono operando fianco a fianco sugli scenari atlantici e mediterranei. Le perdite alleate per attacchi di sommergibili furono di 2828 mercantili per 14.687.231 tonnellate di cui 85% in Atlantico, principale luogo di scontro e affondamento mercantile. Nell’Atlantico gli italiani operavano attraverso la base sommergibili di Bordeaux, chiamata in Betasom, in cui furono dislocati, nel triennio di guerra, solamente 32 sommergibili adatti ad operare nell’Atlantico. Lo scenario mediterraneo era più povero di prede mercantili alleate, ma soprattutto più pattugliato e controllato dalle basi di Gibilterra, Malta e Alessandria.

L’Africa Orientale Italiana si trovava in una posizione strategica rispetto al traffico navale tra Mediterraneo e Oceano Indiano: si poteva attaccare il traffico nemico e proteggere il proprio fin nell’oceano. Ma la decisione di entrare in guerra con la Gran Bretagna nel 1940 rendeva intransitabile il Canale di Suez, isolando la colonia senza possibilità di aiuti dalla madrepatria. Il nemico non aveva problemi nel far affluire altre navi, mentre le forze presenti non potevano ricevere rifornimenti freschi.

Le forze navali che avrebbero potuto muoversi fra il Mar Rosso e il Mar Arabico erano limitate, con una nave coloniale, 7 caccia tecnologicamente inefficienti, qualche M.A.S. (il Motoscafo Armato Silurante che ebbe un ruolo primario per la guerra nell’Adriatico durante il 1915-1918), e 8 sommergibili, che teoricamente costituivano l’arma più moderna e temibile. I sommergibili italiani avevano però difficoltà a manovrare in acque così limpide e calde, oltre a problematiche riguardo il sistema refrigerante che sfruttava un gas particolarmente pericoloso e che mise in pericolo la vita stessa degli equipaggi. Nonostante una richiesta del Vicerè, il duca Amedeo d’Aosta, lo Stato Maggiore non aveva voluto aumentare le forze, per non sottrarle al teatro principale mediterraneo. Supermarina, nome in codice del comando supremo della Regia Marina, chiedeva comunque che la flotta “imperiale” cercasse di assumere un ruolo offensivo e insidioso verso il nemico.

In questi contesto s’inserisce la tragica storia del sommergibile “Luigi Galvani” e del suo eroico equipaggio.
Il “Galvani” era uno dei nuovissimi sommergili classe “Brin”, varati tutti nel biennio 1938/1939, i quali erano stati sviluppati proprio per i combattimento oceanico.

Al comando del capitano di corvetta Renato Spano il sommergibile partì il 10 giugno dal porto di Massaua verso la zona d’operazioni. La missione del Galvani avrebbe dovuto durare approssimativamente 28 giorni, con l’obbiettivo di mettere in pericolo il traffico petrolifero proveniente dal Golfo Persico. Il battello arrivò nella zona assegnata il 23 giugno, ma la cattura del sommergibile “Galilei” pochi giorni prima aveva fornito agli inglesi i piani d’operazione della flotta italiana nell’Oceano Indiano.

La sera del 23 giugno, inconsapevole della situazione, il “Galvani” entrò nel golfo scoprendo che l’usuale traffico delle petroliere era completamente assente. Immediatamente il sommergibile fu avvistato dalla corvetta Falmouth. Mentre il battello procedeva lentamente all’immersione la poppa fu colpita da un proiettile. A questo punto, con la carena resistente compromessa il 2° capo silurista Pietro Venuti evacuò la camera lanciasiluri di poppa e chiuse la porta stagno. Sacrificandosi salvò il sommergibile, permettendone l’immersione . Immediatamente dopo, il Falmouth si portò più vicino al sottomarino e scaricò una serie di bombe di profondità che provocarono danni enormi.
Conscio che il battello era perduto, e che parte dell’equipaggio potesse ancora essere salvato, il comandante Spano ordinò l’emersione, operazione questa che fu completata con grandi difficoltà, proprio per la gravità dei danni subiti. Dei cinquantasette uomini dell’equipaggio, 31 furono salvati dai britannici, mentre i rimanenti 26, inclusi tre ufficiali, scomparvero a bordo del Galvani.

Tra questi vi era il guardiamarina Piero Gemignani, nato a Rivarolo (Ge) il 9 agosto 1918. Dopo aver frequentato l’Accademia Navale di Livorno era riuscito ad essere assegnato alla prestigiosa specialità sommergibilista, probabilmente affascinato dall’idea di utilizzare un mezzo tecnico nuovo e potente. Il rischio che della vita a bordo di tali imbarcazioni attraeva per il sapore eroico ed eccezionale che dava. L’audacia doveva però trasformarsi in accuratezza, dedizione, spirito di corpo, in quanto la vita a bordo di questi battelli era particolarmente difficile è necessaria di perfetta organizzazione. Il g.m. Gemignani, durante il primo bombardamenti del “Galvani” era riuscito a sopravvivere e a coadiuvare il c.c. Spano, ma una volta in riemerso, preoccupato dalla necessità di distruggere i cifrari di bordo, decise di tornare a bordo.

Scomparve assieme al sommergibile alle 02.17 del 24 giugno 1940. Alla sua memoria venne concessa la Medaglia d’Argento al Valor Militare il 9 dicembre 1950.

    Busto commemorativo del guardiamarina Piero Gemignani.

L’ultima carica. Storia del 14º reggimento Cavalleggeri di Alessandria


La più celebre carica di cavalleria del secondo conflitto mondiale è sicuramente quella effettuata dal Savoia Cavalleria a Isbuschenskij, nelle steppe russe, il 24 agosto 1942. L’importanza del fatto d’armi ebbe un valore sia psicologico, riuscendo a rompere l’accerchiamento che i russi stavano effettuando attorno alle truppe italiane, che militare, rallentando l’avanzata sovietica scattata con la controffensiva del 20 agosto precedente. In questo senso è l’ultimo fatto d’armi che ha visto una “carica di cavalleria” nel senso classico del termine con effetti così rilevanti contro un esercito formato da truppe regolari. Molti ignorano però che il Regio Esercito Italiano poté vantare l’ultima carica di cavalleria della storia militare moderna con quella che si consumò il 17 ottobre 1942, a Poloj (oggi Sluny), sul confine croato-bosniaco

Carica.di.Isbuscenskij

L’episodio si contestualizza nel periodo di occupazione italo-tedesco della penisola balcanica, teatro di guerra particolarmente sanguinoso e ignorato dalla storiografia italiana. Durante i mesi della guerra partigiana tra combattenti jugoslavi di Tito e le truppe nazi-fasciste supportate dagli Ustascia di Ante Pavelic. Al pari dei serbo-croati e dei nazisti, le truppe regolari italiane si macchiarono di atti violenti contro la popolazione locale, spinti non solo dalla propaganda razzista e anti-comunista, ma da precisi ordini degli alti comandi militari:

“Si sappia bene che eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno mai perseguiti. ”
Dopo l’aggressione dalle forze dell’Asse all’Unione Sovietica (estate 1941) iniziò a farsi sempre più pressante la guerriglia anti-fascista di ispirazione comunista. Questo movimento si organizzò nell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo e col tempo assunse una forza ed un’organizzazione sempre più capillare e decisiva, agendo come una spina nel fianco all’Asse. Sia i tedeschi che gli italiani dovettero impiegare un numero considerevole di reggimenti e divisioni per controllare l’area balcanica, spolpando il fronte sovietico e quello libico.

i Cavalleggeri di Alessandria liberano Trento, 3 novembre 1918

Il 14º Reggimento Cavalleggeri di Alessandria era uno dei reparti italiani presenti nei territori occupati le cui truppe erano prevalentemente a cavallo: il reggimento con la più alta mobilità tra tutti quelli nella zona. Inquadrato nella 1ª Divisione Celere “Eugenio di Savoia, i suoi cavalieri avevano il compito di pattugliare e controllare il territorio croato.
La cavalleria da sempre è stata considerata l’arma nobile per eccellenza, perché solo i più abbienti potevano possedere, mantenere e governare un cavallo, con tutti gli annessi e connessi. Con l’arrivo delle armi da fuoco, l’uso della cavalleria perse gradualmente importanza nella tattica militare, anche se unità di cavalleggeri rimasero inquadrate in tutti gli eserciti, con funzioni appunto di pattugliamento e perlustrazione in virtù delle doti del cavallo.
All’inizio del conflitto l’Italia aveva in organico 17 reggimenti di cavalleria, suddivisi tra cavalleria di linea, lancieri e cavalleggeri. Una numero così ampio di cavalieri era sinonimo anche dello scarso progresso di tecnologia e motorizzazione che il Regio Esercito aveva avuto nel periodo intercorrente fra le due guerre.
Il ciclo di azioni che vide la realizzazione della carica ebbe inizio il 1 ottobre 1942. L’obbiettivo che la 1ª Divisione Celere doveva portare a termine era di “ricacciare davanti a loro le formazioni ribelli segnalate nella zona di Perjasica, quartier generale delle più forti bande partigiane ”. L’operazione si doveva svolgere in tre fasi distinte in modo da spezzare la resistenza nella zona ed eliminare le forze partigiane della “Udarne brigade” (Brigata d’assalto) croata.
Nonostante le difficoltà incontrate durante il periodo di ricognizioni le forze italiane non si trovarono di fronte una resistenza troppo accanita. Le formazioni ribelli, difatti, seguirono da lontano i movimenti della colonna italiana, impegnandola in piccoli scontri e tentando di capirne i piani.
Il 17 ottobre, nel corso di un’ennesima ricognizione nell’area di Korana , la formazione venne colpita fin dal mattino di ripetuti attacchi con armi leggere da parte di forze partigiane. Vista la difficoltà di manovra con i cavalli, ed il pericolo di un nemico forte sia dal punto di vista militare che psicologico, il comandante del reggimento, Col. Antonio Ajmone Cat, valutata la situazione e l’approssimarsi del buio, decise di attestarsi a difesa su alcune modeste alture per conseguire un vantaggio tattico e costringere il nemico a scoprirsi. Il caso volle che alla colonna del col. Cat si fosse aggiunto il gen. Mario Federico Mazza, vicecomandante della Divisione, che, d’accordo con il gen. Cesare Lomaglio, comandante della Divisione, ordinarono di proseguire verso Primislje, nonostante l’operazione apparisse rischiosa a causa dell’oscurità.

Alle 18.30 iniziarono a muoversi, ma dopo pochi chilometri furono attaccati nuovamente da un violento fuoco di armi automatiche e di bombe a mano. Nelle ripetute cariche era andato perso lo stendardo: al mattino seguente il capitano Fabio Martucci comandante dello squadrone mitraglieri con il suo attendente Morgan Ferrari lo ritrova impigliato al ramo di un albero e lo recupera.
Le perdite della giornata furono di 2 ufficiali dispersi, deceduti ma i cui corpi non poterono essere recuperati, 1 ufficiale morto, 5 feriti, 10 morti, 56 feriti e 50 dispersi fra sottufficiali e cavalleggeri. I cavalli perduti furono 109, i feriti 60. Non si hanno notizie precise delle perdite dei partigiani jugoslavi, che però sarebbero ammontate da oltre un centinaio. Il 18 e 19 ottobre il reggimento sostò a Perjasica, a disposizione del comando Divisione “Lombardia”.

Già all’indomani della battaglia c’era, negli alti comandi italiani, la voglia di cancellare l’episodio. Alcuni reduci ricordano il discorso tenuto dal gen. Mario Roatta davanti ai cavalleggeri schierati:

“Al mio superiore vaglio gli ordini impartiti sono risultati illuminati. Si cancelli ogni cosa dalle vostre memorie, rimanga quello che passerà alla storia con il nome di carica di Poloj”.

A quelle parole, però, il comandante del reggimento, il colonnello Antonio Ajmone Cat, esplose:

Che dirò a tante madri? Che un ordine pazzo ha stroncato la vita delle proprie creature?”. Roatta voltò le spalle e tacque.

L’inettitudine dei generali Lomaglio e Mazza venne prontamente taciuta, non tanto per non screditare i due alti ufficiali, ma per non far trapelare quella che era la generale impreparazione di tutto il sistema militare italiano. Ironia della sorte il col. Ajmone Cat venne invece allontanato dal comando e privato di un qualsiasi riconoscimento ufficiale. Il contesto della guerra partigiana e dell’occupazione italiana dei Balcani non aiutarono certo a rendere il giusto merito alla vicenda nel dopoguerra, facendo si che tutta la vicenda venisse pressoché dimenticata.
Il reggimento è stato sciolto il 30 giugno 1979 senza aver mai ricevuto una ricompensa allo stendardo per i fatti dell’ottobre 1942.

 

 

Bibliografia:

Raffaele Arcella, L’ultima carica. Dolnij Poloj 17 ottobre 1942, ed. Bonanno, 2009
Antonio Poma, L’ultima carica della cavalleria italiana, ed. Busseto Palazzolo
Elena A. Rossi, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, ed Il Mulino

Hitler fuggito in argentina , la bufala che a volte ritorna.

La teoria della fuga di Hitler in Argentina è una bufala persistente. Prove storiche e scientifiche, incluse analisi dentali e ossee, confermano il suo suicidio nel bunker di Berlino.

Uno degli argomenti storici più fortunati, più abusati e discussi su internet, molto probabilmente riguarda il destino di Adolf Hitler dopo la seconda guerra mondiale ed il crollo del Reich, e secondo varie teorie del complotto, il dittatore tedesco sul finire della guerra simulò la propria morte e fuggì in Argentina.

Dietro la teoria di Hitler in Argentina

Riguardo alla fuga di Hitler in Argentina, circolano diverse teorie, per lo più alimentate dalla “segretezza” relativa al luogo di sepoltura della salma di Hitler, alcune indagini condotte negli USA, soprattutto negli anni 50 e 60, per rintracciare diversi Nazisti fuggiti proprio in argentina e alcune testimonianze.

Nel 2016, come ogni anno, l’FBI ha declassificato numerosi documenti e fascicoli e tra questi alcuni rapporti e documenti relativi alle indagini compiute negli anni 50 e 60 per rintracciare fuggiaschi nazisti in Argentina, articoli di giornali dei primi anni 50 e testimonianze misteriose.

Sulla base di queste informazioni, il 5 maggio 2016, il portale di controinformazione cospirazionista AnonHQ ha rilanciato una versione della storia, per cui Hitler sarebbe fuggito in Argentina dove sarebbe morto serenamente di vecchiaia molti anni dopo.

Di seguito uno dei “documenti” che dimostrerebbero la teoria della fuga in Argentina di Hitler.

Nell’articolo di AnonHQ appare anche una foto di un anziano uomo affiancato ad una foto di Hitler, asserendo che si tratti della stessa persona.

Stando alla ricostruzione di AnonHQ, il suicidio di Hotler ed Eva Braun non solo sarebbe stato simulato, ma la successiva fuga in argentina, sarebbe stata favorita dagli USA, nella persona di Allen Dulles, all’epoca direttore dell’OSS ( Office of Strategic Services) agenzia smantellata nel 1945 e sostituita nel 1947 dalla CIA.

Secondo questa ricostruzione, finché Hitler è stato in vita, FBI e CIA avrebbero cercato di insabbiare la verità, nascondendo il dittatore tedesco e offrendogli protezione e l’Italia in questa particolare diramazione, giocherebbe un ruolo importante grazie a personalità come Licio Gelli, maestro venerabile della loggia P2, che sappiamo aver avuto forti legami, sia con alti funzionari USA che con Juan Domingo Perón, Gelli fu uno dei pochissimi italiani ad essere stato invitato al giuramento di Regan nel 1981, ma questa è un altra storia.

Tornando alla teoria di Hitler in Argentina, secondo la ricostruzione di AnonHQ gli USA avrebbero simulato la morte di Hitler, aiutato il dittatore a fuggire a bordo dell’u-boat tedesco U-530 fino in argentina. In seguito avrebbero mostrato al mondo un sosia di Hitler, morto con un colpo alla testa e nascosto il cadavere affinché non potesse essere identificato.

Fotni sulla morte di Hitler

Sebbene la teoria di AnonHQ sia molto affascinante, la storiografia ufficiale, soprattutto alla luce di recenti scoperte, non ha dubbi a riguardo, quando Berlino cadde in mano agli alleati, poco prima che questi penetrassero nel Bunker in cui si erano rifugiati Hitler, Eva Braun e altri collaboratori del führe, il dittatore nazista, con l’acqua alla gola, probabilmente più spaventato dalle torture che avrebbe ricevuto se fosse caduto in mano sovietica che non della morte, si tolsero la vita, e come lui molti altri ospiti del bunker.

Questa versione, va detto, che per molti anni ha sofferto di un enorme problema di verificabilità, si è basata infatti principalmente sui rapporti e le dichiarazioni ufficiali degli alleati che entrarono nel Bunker, documenti che tuttavia erano parziali, incompleti e spesso in larga parte censurati per via del contenuto delicato e strategico delle informazioni che contenevano, soprattutto in un momento di crescente tensione tra USA ed URSS, inoltre, non è mai stato possibile verificare effettivamente che la salma attribuita ad Hitler fosse effettivamente del dittatore tedesco, poiché, per ragioni di sicurezza, si preferì tenere segreta la collocazione del corpo.

Il motivo per cui non è mai stato rivelato dove sarebbe stato tumulato Hitler è dovuto ufficialmente alla preoccupazione che tale luogo, se noto, potesse diventare un luogo di culto, ipotesi non infondata se consideriamo cosa è successo a Predappio con la tomba di Mussolini.

Oltre ai documenti ufficiali, la storiografia contemporanea ha utilizzato anche altre fonti documentarie, in particolare documenti privati, lettere, diari e testimonianze dirette e in alcuni casi indiretta (ovvero di seconda mano) dei militari, dei loro commilitoni e dei civili, che all’epoca, per ragioni diverse e che sarebbe inutile elencare, avevano avuto accesso al bunker di Berlino. In fine, ci sono articoli di giornali e tantissimi altri documenti che per semplicità faremo rientrare nelle testimonianze dirette o di seconda mano.

Se i documenti militari si portano dietro il difetto della parzialità dovuta a censure e classificazioni, le testimonianze si portano dietro un altro difetto, quello dell’errore, della parzialità legata alla memoria distorta, oltre alla natura sostanzialmente tendenziosa delle informazioni permeate di giudizi ed osservazioni personali, pertanto poco utili, per non dire dannose, ad una corretta ricostruzione.

Ma del resto il lavoro della ricerca storiografica consiste proprio in questo, nel navigare in un mare di informazioni contrastanti e parziali, in cerca di una verità verificabile.

Partendo da queste fonti, e facendo riferimento alla versione ufficiale comunicata dalle potenze vincitrici della guerra, prima la stampa e poi gli storici, sono riusciti a ricostruire gli avvenimenti, che, nell’aprile del 45 portarono alla morte di Hitler.

Cosa dice la versione ufficiale?

La storiografia ufficiale generalmente concorda con la versione ufficiale fornita dagli alleati, ovvero con la versione che vedrebbe Hitler e la sua compagna togliersi la vita nel bunker, successivamente i loro corpi furono dati alle fiamme, e quando l’armata rossa irruppe nel bunker, si ritrovò a dover fare i conti con i corpi carbonizzati di un uomo ed una donna.

Oggi siamo abbastanza sicuri che uno dei corpi carbonizzati ritrovati nel bunker appartenesse ad Hitler, e che la teoria della fuga in Argentina, è fondamentalmente infondata, o meglio, sappiamo che negli ultimi mesi della guerra numerosi gerarchi nazisti fuggirono in Argentina, e questo lo sappiamo fin dagli anni 50, inoltre, durante il processo di Gerusalemme ad Adolf Heichmann, venne fornita una precisa e puntuale ricostruzione della modalità con cui i fuggiaschi nazisti riuscirono a lasciare la Germania.

Per quanto riguarda i resti carbonizzati, siamo quasi certi appartenere ad Hitler, per diverse ragioni, già tra il 1945 ed il 1948, vennero pubblicati, o comunque messi a disposizione della storiografia, innumerevoli documenti personali di Hitler, tra questi, la sua cartella clinica, estremamente preziosa e ricca di informazioni, soprattutto radiografie, per via dei suoi numerosi problemi di salute. In sostanza quindi, abbiamo un abbondanza di radiografie di Hitler, tra cui quelle della sua bocca e dei suoi denti.

L’identificazione tramite impronta dentale è nota fin dal XIX secolo, ed è utilizzata come tecnica forense fin dal 1897 circa, tuttavia, la falsificazione dell’impronta dentale, è tutt’altra cosa, ancora oggi, nel 2025, è qualcosa di estremamente complesso, e 80 anni fa, nel 1945, non esisteva la tecnologia per poter “clonare” un impronta dentale, e anche se fosse esistita, di sicuro tale tecnologia non era presente nel bunker di Berlino.

È inverosimile che Hitler e gli USA, abbiano modificato l’impronta dentale di un sosia di Hitler, per permettere di identificare il suo cadavere carbonizzato usando l’impronta dentale. E anche se lo avessero fatto, oggi saremmo in grado di rivelare l’alterazione.

UPDATE: A tale proposito nel 2018 infatti è stato pubblicato uno studio in cui sono stati ricontrollati alcuni frammenti ossei rinvenuti nel bunker di Berlino e questi sono stati attribuiti ad Hitler, con un margine d’errore dello 0,001%, grazie ad un analisi biomedica che ha permesso di comparazione tra la mascella e le radiografie dentali di Hitler del 36.

Errori di interpretazione nell’identificazione di Hitler nel 45

Nel 1945 l’identificazione di Hitler avvenne tramite impronta dentale, ma, la tecnologia dell’epoca non permise un’identificazione al 100% (cosa normale per l’epoca in realtà, soprattutto se in presenza di resti carbonizzati e danneggiati).

La coincidenza parziale dell’impronta dentale, unita a non pochi errori di traduzione, o per meglio dire, di interpretazione della traduzione, ha generato non pochi miti sulla “presunta morte di Hitler“.

Traduzione e interpretazione del testo sono passaggi cruciali nella ricostruzione storiografica, motivo per cui, nella maggior parte dei casi, gli storici si occupano in fase di ricerca, di un epoca e di un area geografica, di cui conoscono la lingua. Senza troppi giri di parole, difficilmente troveremo uno storico che si occupa della Germania Nazista, che non conosce Tedesco e Francese.

Cerco di spiegarmi meglio con un esempio, la frase tedesca “In dem Bunker, in dem sich Hitler vermutlich das Leben nahm, wurden auch die Überreste einer Frau gefunden.” Nel passaggio da Tedesco a Russo, o Inglese, o francese, e poi ad altre lingue, può variare, non poco, soprattutto se la traduzione avviene per la stampa.

Questa frase, che letteralmente significa “Nel bunker dove si presume che Hitler si tolse la vita, furono ritrovati anche i resti di una donna”, può facilmente diventare, “Nel bunker dove si presume che Hitler si tolse la vita, furono ritrovati i resti di una donna” .

Le due traduzioni differiscono tra loro solo in una parola, quella parola tuttavia è determinante per comprendere l’intera frase. Nel primo caso, la presenza di “anche”  lascia poco spazio all’immaginazione, tra i resti del bunker furono ritrovati anche i resti di una donna, in perfetto accordo con la versione ufficiale che vorrebbe Eva Broun togliersi la vita nel bunker insieme ad Hitler, e la conseguenza logica di questo è che nel bunker, oltre ai resti di Hitler, ci fossero anche i resti di una donna.

Nel secondo caso la cosa si complica, in quanto l’assenza di “anche” apre due possibili scenari, il primo in cui nel bunker furono trovati “i resti di una donna” e il secondo in cui nel bunker non vengono ritrovati resti di un uomo.

Prendiamo un altro esempio, “nel bunker furono ritrovati i resti solo di una donna carbonizzata” , questa frase pur essendo “corretta” perché l’unico corpo femminile carbonizzato ad essere stato rinvenuto nel bunker fu quello di Eva Braun, mentre l’altro corpo carbonizzato, quello di Hitler, era di un uomo, di conseguenza la donna carbonizzata effettivamente era solo una. Ma questa frase può essere interpretata anche in un modo diverso, e suggerire che oltre al corpo di Eva Braun, nel Bunker non furono trovati altri corpi carbonizzati.

Questi esempio rappresentano dei casi limite, presentano errori di interpretazione evidenti e facilmente riconoscibili, ed in casi reali le differenze sono sostanzialmente più sfumate e ruotano principalmente attorno ai diversi significati che può avere una singola parola.

Per quanto riguarda il caso Hitler, l’esempio che abbiamo fatto in realtà è molto veritiero, perché il mito della fuga di Hitler parte proprio da questi passaggi. Si passa dal raccontare del ritrovamento del corpo “anche di una donna” sulla stampa dell’epoca, a fonti più recenti che parlano del ritrovamento del “corpo di una donna”, fino ad arrivare ad articoli cospirazionisti in cui si parla del “solo corpo di una donna”.

Quell’anche dimenticato, che si perde nei meandri del tempo e delle innumerevoli traduzioni, forse un banale errore forse qualcosa di più intenzionale, ha fatto più danni di quanto si possa immaginare, perché de facto è alla base di buona parte dei miti sulla fuga di Hitler in Argentina sul finire della guerra.

Molti continuano a pensare che Hitler non sia morto suicida insieme ad Eva Bown nel Bunker di Berlino, ma sia riuscito a fuggire dalla Germania, aiutato dalla CIA e trovando asilo in Argentina e “la prova cruciale” della riuscita fuga risiede nel fatto che, nel bunker tra i resti e le macerie, trovarono i resti di una donna carbonizzata.

Ora, non serve certamente l’acume di Sherlock Holmes per dedurre che, se in un bunker ci sono un uomo (Hitler) ed una donna (Eva Broun) e questi si tolgono la vita, nel bunker ci saranno i resti di una donna.

Mettiamo in discussione la teoria della fuga

Come abbiamo visto, abbiamo sufficienti prove scientifiche per collocare il corpo senza vita di Hitler e nel bunker di Berlino quando gli alleati fecero irruzione e confutare definitivamente la teoria della fuga.

La teoria si fonda su informazioni parziali e domande senza risposta suscitate dalla versione ufficiale, tuttavia, quella stessa teoria, presenta molte più domande senza risposta della versione ufficiale.

Secondo la teoria Hitler trovò un sosia, cosa non difficile, lo uccise e diede fuoco al corpo per rendere difficile l’identificazione. Un piano brillante, se non fosse che l’identificazione tramite impronta dentale è stata effettuata comunque, poiché le fiamme hanno sì danneggiato, ma non compromesso la possibilità di identificare il corpo.

In effetti dando fuoco al corpo, ha reso impossibile recuperare il DNA di Hitler, ma nel 1945 non si utilizzava il DNA per identificare un corpo senza vita, anche perché quella tecnica si sarebbe diffusa quasi 40 anni più tardi, a partire dagli anni 80. Non c’era alcun motivo per Hitler di bruciare il corpo del suo sosia per distruggere il DNA (come molti sostengono). Al più, se avesse voluto simulare la propria morte, avrebbe dovuto compromettere l’identificazione tramite impronta dentale, all’epoca unico elemento in grado identificazione di un corpo non riconoscibile ad occhio nudo.

Per simulare la propria morte, sarebbe stato molto più funzionale ed efficace, minare il bunker e non lasciare alcuna traccia. Ciò che invece la teoria della fuga in argentina propone è un complesso sistema di specchi e leve, estremamente articolato e fragile, che cerca di rendere impossibile l’identificazione attraverso tecniche che sarebbero state introdotte mezzo secolo più tardi, ed utilizza tecnologie avanzate e sofisticate, che 80 anni più tardi non sarebbero state comunque disponibili, per manipolare un corpo in modo che potesse essere scambiato per il suo.

Conclusioni

Senza girarci troppo attorno, nei documenti dell’armata rossa pubblicati (parzialmente) nel 45 e in forma integrale negli anni 90 (anche se con alcuni passaggi cancellati) si evince chiaramente che nel bunker furono ritrovati i resti carbonizzati di due persone, un uomo ed una donna, l’uomo è stato identificato con Hitler attraverso l’impronta dentale, e in studi più recenti, una comparazione tra frammenti ossei e radiografie degli anni 30 hanno confermato tale ipotesi, la donna invece, se bene non è stato possibile identificarla al 100% a causa delle peggiori condizioni dei resti, è molto probabile che fosse Eva Broun.

In ultima istanza, nel bunker furono ritrovati anche i resti di un cane e anche se la Germania nazista faceva largo uso delle unità cinofile, questi non erano in alcun modo utili alla sopravvivenza e funzionamento di un bunker, tuttavia, nel bunker di Berlino era presente un singolo cane, non militare ma civile, che dai resti è stato identificato come il cane personale di Hitler.

Per quanto riguarda l’ipotesi di camuffamento e alterazione del corpo nel bunker, per prendere per buona la teoria della fuga, dovremmo assumere che Hitler fece uso di tecnologie più avanzate di quelle disponibili nel XXI secolo, per modificare l’impronta dentale di un sosia, e prese precauzioni per impedire l’identificazione tramite DNA (introdotta quasi mezzo secolo più tardi), insomma, per prendere per buona la teoria della fuga, dobbiamo assumere che Hitler venisse dal futuro.

Nagasaki, 9 agosto 1945

Il 9 agosto 1945 l’aviazione militare degli stati uniti d’america sganciò la seconda ed ultima bomba atomica sul Giappone.

Ore 8:45 a.m. una luce accecante investe ogni angolo di Nagasaki, segue un boato assordante, poi più nulla.
In realtà il boato fu seguito dalla violenta onda d’urto, che bruciò è distrusse ogni cosa lungo la propria strada e dopo ancora, iniziò a piovere, una pioggia acida e radioattiva, causata dall’evaporazione quasi immediata di ogni fonte d’acqua presente nel raggio dell’esplosione (e anche oltre).

 

I più fortunati persero la vita durante l’esplosione, inceneriti in un solo istante, i meno fortunati riuscirono a salvarsi, o almeno questo era ciò che credevano, il caldo vento radioattivo li divorò dall’interno, preparandoli ad una morte lenta e dolorosa, e chi sopravvisse al vento dovette fare i conti con la pioggia, una pioggia violenta e crudele che avrebbe inflitto il colpo di grazia ai pochi sopravvissuti.
I più sfortunati di tutti furono quelli che sopravvissero anche alla pioggia, e dovettero fare i conti con i numerosi anni ancora da vivere, o meglio, i numerosi anni in cui continuare a morire, imprigionati come in un girone infernale a causa dei danni permanenti inflitti al loro corpo e alla loro mente.

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Chi sopravvisse alla bomba atomica avrebbe portato con se, per il resto della sua vita, il ricordo di quei momenti in cui l’inferno scese sulla terra, le immagini di sofferenze immani che nessuno può neanche lontanamente immaginare.
Il ricordo di uomini, donne e bambini inceneriti in pochi istanti lasciandosi alle spalle solo un ombra impresa sul cemento, e negli occhi dei testimoni, il ricordo di altri che “semplicemente” si sciolsero, come statue di cera, videro le loro carni colare via ed evaporare, ascoltarono grida di dolore che farebbero rabbrividire anche le menti più resistenti. Mentre loro, i superstiti, furono condannati ad una solitaria vita, costellata da incubi, dolore e malattia.

Diario di guerra di Benito Mussolini

Tra il settembre del 1915 ed il febbraio del 1917, Benito Mussolini, classe 1883, all’epoca un “giovane” soldato al servizio del regio esercito italiano, in qualità di bersagliere, come molti suoi commilitoni e in generale come la maggior parte dei soldati, un diario in cui annotare versi, parole, pensieri e riflessioni.

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Il suo diario sarebbe stato pubblicato, a puntate sul quotidiano da lui fondato nel 1914 allo scopo di dar voce all’area interventista del partito socialista  chiamato “Il Popolo d’Italia”. Questo “Diario di guerra” al pari di opere analoghe, ma con la maggiore enfasi data dal particolare autore, soprattutto in virtù di ciò che avrebbe fatto negli anni e nei decenni successivi, è ancora oggi un’efficace e vivida testimonianza di ciò che rappresentò il primo conflitto mondiale per una parte dell’interventismo italiano.

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Quest’opera, data la sua duplice natura di fonte diretta relativa la Grande Guerra e diario personale del futuro Duce, è stato oggetto di numerose ristampe durante il Ventennio. Nel secondo dopoguerra il “Diario” fu messo al bando dai luoghi accademici e per molto tempo trascurato dagli studiosi, che lo condannarono a una sorta di “damnatio memoriae” negandogli dignità documentale. Paradossalmente uno noto e celebre avversario e rivale, sul piano ideologico, di Mussolini e del fascismo in generale, già Antonio Gramsci aveva definito “interessanti” queste pagine mussoliniane, soprattutto per il loro taglio nazional-popolare. Per Gramsci non si trattava di un semplice pamphlet, ma era, a tutti gli effetti, una testimonianza importante e tra le più intense della memorialistica di guerra italiana, sia per capacità descrittiva della vita quotidiana dei soldati sia per l’efficacia nel rendere la visione delle vicende belliche con gli occhi dell’interventismo rivoluzionario.

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In allegato con il numero di Historicaleye sarà inviata l’edizione del 1923 edito dalla Libreria del Littorio

Riportiamo di seguito alcuni estratti dal diario 

Lunedì, 27 settembre 1915
Da ieri mattina non abbiamo in corpo che un sorso freddo di caffè. Piove sempre. Da due giorni, ininterrottamente. Stanotte non ho chiuso occhio. Mi trovavo sotto la tenda con un tal Jannazzone, un contadino del Beneventano, il quale, inzuppato fradicio, come me, e un po’ febbricitante, gemeva:
«Madonna mia bella l Madonna mia bella!».
«Basta, basta, Jannazzone!», gli ho detto.
«Non credete in Dio, voi?».
Non ho risposto.
Io, invece, ingannavo il tempo, le dodici ore interminabili della notte, rimemorando le poesie imparate nel bel tempo felice e lontano della mia giovinezza. Effetto delle circostanze climateriche, la poesia che mi è tornata alla memoria è La caduta del Parini. Strofa a strofa sono giunto sino ai versi:
Ed il cappello e il vano / Baston dispersi nella via, raccoglie.
Poi non mi sono ricordato più.
Cambiamo posizione. Andiamo in fondo valle alle sorgenti dello Slatenik, un torrente che sbocca nell’Isonzo, nella conca di Plezzo. Nei ripari che gli austriaci hanno abbandonato, troviamo un po’ più di comfort. In questa zona sono ancora visibili i segni della travolgente avanzata degli italiani.
Sul terreno tormentato e sconvolto sono disseminati, in disordine, bossoli di proiettili d’ogni calibro, giberne, scarpe, zaini, pacchi di cartucce, fucili, cassette di legno sventrate, tronchi d’alberi abbattuti, reticolati di ferro travolti, scatolette di carne vuote con diciture tedesche e ungheresi, fazzoletti, teli da tenda. Qua e là sono degli austriaci morti e malamente sepolti. Tra gli altri un ufficiale.
La posta: pacchi e lettere, ma per me e per tutti i richiamati dell”84, niente ancora. Soffia un vento impetuoso e freddo. Distendiamo sui cespugli, al sole, le nostre mantelline e coperte, inzuppate di acqua.

Mercoledì, 29 settembre 1915
Due giorni e due notti di pioggia. Tempesta.
Veniva dal Monte Nero. Sono, siamo fradici sino alle ossa. I bersaglieri preferiscono il fuoco all’acqua. Fuoco di piombo, si capisce. Ma stamani, sole. Il Rombon ci appare bianco di neve. Il sole tepido fa dimenticare le giornate piovose. Lo Slatenik, ingrossato, urla in fondo al vallone. Si distribuisce la posta. Finalmente, dopo quindici giorni, c’è qualche cosa anche per me. Nel trincerone che occupiamo si può accendere il fuoco. Ogni tenda ha il suo. Qui, l’unico pericolo – oltre a quello delle cannonate e delle pallottole vagabonde – è dato dai macigni che rotolano dal Vrsig. Di quando in quando si sente gridare: «Sasso! Sasso!». Guai a chi non lo evita a tempo!
L’[undicesimo] bersaglieri è stato rudemente provato, ma il «morale» dei soldati è eccellente. Anche i poilus dell”84 stanno cambiando psicologia. Diventano soldati. Sembrano già lontanissimi i primi giorni, quando bastava il rombo del cannone, il fischio di una pallottola o la vista di qualche cadavere per emozionarli. Distribuzione di alcuni indumenti invernali. Sono ottimi.

Giovedì, 30 settembre 1915
Ho portato, poiché li desiderava, alcuni numeri arretrati del Popolo al mio capitano [Mozzoni]. Niente in lui del militare di professione. Era aiutante in prima; ha preferito riassumere il comando della compagnia. Uomo che conosce gli uomini, soldato che conosce i soldati. I bersaglieri gli vogliono molto bene. Non ha bisogno di ricorrere a misure disciplinari per ottenere che ognuno adempia il proprio dovere. Mi offre biscotti e tre pacchetti di sigarette. È con lui il tenente Morrigoni, romano, simpaticissimo e fortunato. È giunto, dal dodicesimo, un cadetto destinato al comando del primo plotone della nostra compagnia: Fanelli, di Bari. Giornata tranquilla.

Venerdì, 1° ottobre 1915
Piove. Il mio capitano, in un rapporto indirizzato al colonnello, fa vivi elogi del mio spirito militare e della mia resistenza alle prime e più gravi fatiche della guerra.
Verso sera, intenso fuoco di fucileria e di mitragliatrici alle falde dello Jaworcek. Che gli altri battaglioni abbiano impegnato un combattimento?

Sabato, 2 ottobre 1915
Sono giunti altri ufficiali. I cadetti Barbieri e Raggi. Ora i quadri della nostra compagnia sono al completo.
Gli austriaci bombardano con granate incendiarie il villaggio di Cezzoga.

Domenica, 3 ottobre 1915
Il piantone della fureria, Lamberti, mi reca un biglietto del capitano, che dice:
«Sarebbe mio desiderio che ai bersaglieri della compagnia fosse espresso nel modo più sentito alla loro anima semplice e buona, il mio vivo compiacimento per la fusione già stabilitasi fra i vecchi e i giovani bersaglieri; ciò che dimostra quale spirito di cameratismo animi il loro cuore. La serena giocondità, il sentimento di disciplina, la disinvolta resistenza ai disagi cui sono sottoposti, vengono da me così apprezzati, tanto da sentirmene fieramente orgoglioso. Tutto ciò è indice di alto sentimento del dovere e dà affidamento della più salda compagine qualora a nuovi cimenti si possa essere chiamati. Al bersagliere Mussolini affido l’incarico di scrivere un ordine del giorno di compagnia che in una sintesi concettosa e bersaglieresca esprima tali miei apprezzamenti, con l’esortazione a perseverare, e con la visione di quegli ideali fulgidissimi di Patria e di famiglia, che costituiranno a suo tempo il premio più sensibile per il sacrosanto dovere compiuto».
Io mi domando: ma non è già questo un ordine del giorno bellissimo? Che cosa posso dire, io, di meglio e di più? Tuttavia, obbedisco. Fra anziani e richiamati, si cominciano a stabilire rapporti di amicizia. Nel primo plotone, di richiamati non ci sono che io. Tutti gli altri sono anziani che si trovano al reggimento dal principio della guerra. Spesso mi raccontano episodi interessantissimi. L’avanzata su Plezzo, le azioni sul Vrsig. I caporali hanno riunito le squadre e leggono l’ordine del giorno.

Lunedì, 4 ottobre 1915
Cielo stellato sino a mezzanotte. Stamane nevica. Ci esercitiamo al lancio di bombe.

Martedì, 5 ottobre 1915
Stanotte sono stato quattro ore di vedetta. Pioveva.

Mercoledì, 6 ottobre 1915
«Zaino in spalla!».
È giunto l’ordine di raggiungere sullo Jaworcek gli altri battaglioni. Ci mettiamo in marcia. Il capitano ci precede. Porta lo zaino e la caramella. Sosta al Comando del reggimento. Discorso del colonnello, seguito dalla lettura di un lungo elenco di bersaglieri della settima proposti per una ricompensa al valor militare. «Bersaglieri della settima, al colonnello dell’[undicesimo], hurrà!».
«Hurrà!».
Pulizia al fucile. Distribuzione di scarpe. Durante queste operazioni, faccio la conoscenza di un sergente degli alpini, di Monza, ferventissimo interventista, entusiasta della nostra guerra.
Giunge l’ottava compagnia. Qualcuno mi annuncia che il caporale Buscema è rimasto ferito da una cannonata, il 26 settembre. Il colonnello ripete il discorso ai bersaglieri dell’ottava. Crepuscolo. Si parte.

Giovedì, 7 ottobre 1915
La marcia di stanotte fra tenebre fittissime, per una mulattiera scoscesa e fangosa, entro un bosco, è stata dura.
Parecchie volte i plotoni hanno perduto il collegamento. Alcuni bersaglieri sono caduti e non hanno potuto proseguire. Anch’io, come tutti, sono caduto varie volte, ma l’unico danneggiato è l’orologio che porto al polso. Non va più. Dieci ore di marcia. Siamo giunti alle due del mattino. Per fortuna c’erano, in alto, le stelle. Non pioveva. Ci siamo rintanati fra i macigni nell’attesa dell’alba.

Venerdì, 8 ottobre 1915
Sveglia alle cinque. Ci spostiamo verso l’alto di un altro centinaio di metri. Ci troviamo sotto una delle pareti ripidissime dello Jaworcek. Dalla cima le vedette austriache sparano continuamente. Mi metto a lavorare accanitamente di vanghetta e piccone, per farmi un buon riparo. Petrella mi aiuta. Ritrovo il tenente Fava, che mi presenta al capitano della sua compagnia, Jannone. Gli amici degli altri battaglioni, appena saputo del nostro arrivo, mi vengono a cercare. Rivedo il caporal maggiore Bocconi, barbuto e un po’ dimagrito, il caporal maggiore Strada, ex-vigile milanese, sempre pieno d’entusiasmo; il caporale Corradini che mi racconta la straordinaria avventura toccatagli. Doveva andare di guardia, con una squadra, al quarto boschetto. Giunto a un passaggio obbligato e scoperto, sul quale gli austriaci rotolavano continuamente sassi e macigni, il Corradini, volendo appunto evitare un macigno, mise un piede in fallo e rotolò giù, in fondo al burrone. Una notte intera rimase laggiù, nel fango, sotto la pioggia, ritenendosi ormai perduto.
«Fu il pensiero della mia piccina, che mi diede il coraggio», egli mi dice. «A giorno fatto, risalii il pendio del monte. Nella caduta avevo perduto tutto: zaino, fucile, mantellina. Giunsi a un piccolo posto di fanteria. La vedetta mi intimò l’“alt”». Quando il caporale del piccolo posto mi ebbe riconosciuto come appartenente all’esercito italiano, mi lasciò passare. Potei riguadagnare, sano e salvo, la mia compagnia».
Ecco Rampoldi, ex-cuoco del Casanova. Lo chiamavano Rampoldo, Rampoldino.
Ritrovo ancora vivi e in gamba i milanesi Spada, Frigerio, Sandri. Viene anche a trovarmi, per conoscermi, il caporale Giustino Sciarra, di Isernia. Ha una curiosa barbetta a punta, rossigna. Cordialità, simpatia, auguri. Si parla di un’avanzata imminente.

Sabato, 9 ottobre 1915
Dormito profondamente tredici ore. La stanchezza è passata. C’è un ferito dell’ottava compagnia che viene portato in barella. Una pallottola lo ha colpito mentre sì scaldava al fuoco. Canticchia e fuma. Gli scelti tiratori austriaci sparano sempre. Un forte gruppo di ferraresi viene alla mia tenda e mi prega di porgere un saluto collettivo da mandarsi a un giornale di Bologna. Fatto.
Corvée di riattamento alla mulattiera. Il caporale milanese Bascialla, ch’è stato stanotte di guardia ai posti più avanzati, mi narra un episodio singolare. Si è trovato, in un riparo, accanto a un bersagliere che pareva dormisse. Egli ha provato a chiamarlo. A richiamarlo. A scuoterlo. Non rispondeva. Non si moveva. Era morto. Il Bascialla ha passato tutta la notte accanto al cadavere.
Ore quindici. Raffica di artiglieria austriaca. Crepitio di proiettili. Schianto di rami. Turbine di schegge. Un grosso ramo, stroncato da una granata, si è abbattuto sul mio riparo. Ci sono due feriti nella mia compagnia. Passa un morto del trentanovesimo battaglione. Un altro morto degli alpini. Il bombardamento è finito. È durato un’ora. I bersaglieri escono dai ripari. Si canta. Lunga conversazione col capitano Bono della quarta compagnia. Argomento: i colpi di scena balcanici.
Il capitano Bono è un ingegno versatile e di vasta cultura.
Non dimenticherò il tremito della sua voce, quando, me presente, essendogli giunto uno di quei moduli speciali coi quali si chiedono ai reparti notizie di militari, dovette scrivere la parola morto!
Sera di calma. Qualche fucilata solitaria delle vedette fischia di quando in quando nella boscaglia.

Domenica, 10 ottobre 1915
Mattinata meravigliosa di sole. Orizzonte limpidissimo. Si ordina la statistica dei caricatori. Ogni soldato deve averne ventotto. Ore dieci. Uno shrapnel è passato fischiando sulle nostre teste. In alto. Non trascorrono cinque minuti, che un secondo shrapnel scoppia con immenso fragore a tre metri di distanza del mio «ricovero», a un metro appena dalla tenda del mio capitano. Ero in piedi. Ho sentito una ventata violenta, seguita da un grandinare di schegge. Esco. Qualcuno rantola. Si grida: «Portaferiti! Portaferiti!».
Sotto al mio ricovero ci sono due feriti che sembrano gravissimi. Un grosso macigno è letteralmente innaffiato di sangue. Gli ufficiali sono in piedi che impartiscono ordini.
«Le barelle! Le barelle!».
I feriti sono molti e bisogna chiedere le barelle alle altre compagnie del battaglione. Ci sono anche dei morti: due. Uno è Janarelli, l’attendente del tenente Morrigoni. Una palletta dì shrapnel gli è entrata dal petto e gli è uscita dalla schiena. Gliel’hanno trovata fra la pelle e il farsetto a maglia.
«Tenente, mi abbracci!», ha detto Janarelli. «Per me è finita!».
Vedo il tenente Morrigoni, cogli occhi luccicanti di lacrime. «Era tanto bravo e tanto buono!».
Lo Janarelli sembra dormire. Solo attorno alla bocca c’è una grossa tosa di sangue. L’altro è un richiamato dell’84. Una scheggia gli ha spezzato il cranio.
Una riga rossa gli divide a metà la faccia. I feriti sono nove, dei quali tre gravissimi e due disperati.
«Zappatori, in rango colle vanghette».
Gli zappatori si riuniscono coi loro strumenti. Adagiano i morti su barelle fatte con rami d’albero e sacchi e se ne vanno. Qui non si può fare un cimitero. Bisogna seppellire i caduti qua e là, nelle posizioni più riparate. L’emozione della compagnia è stata fugacissima. Ora si riprende il chiacchierio. Si fischierella. Si canta.
Quando lo spettacolo della morte diventa abitudinario, non fa più impressione. Oggi, per la prima volta, ho corso pericolo di vita. Non ci penso.
Dopo un mese mi lavo e mi pettino. Schampoing al marsala.
Passa il tenente Francisco della quindicesima compagnia, il quale mi racconta: «Ieri sera gli austriaci hanno inscenato una dimostrazione antitaliana. Hanno cantato in coro il loro inno nazionale. Poi hanno gridato: “Kicchirichi, kicchirichi!”. Hanno aggiunto: “Bersaglieri dell’undicesimo, vi aspettiamo!”. Alla fine, una voce di ufficiale ha urlato al megafono: ” Italiani farabutti, lasciateci le nostre terre!”».

Lunedì, 11 ottobre 1915
Meravigliosa mattinata di sole. Il secondo, il terzo, il quarto plotone della mia compagnia, levano le tende e si spostano per essere defilati dai tiri degli shrapnels. Noi restiamo al nostro posto. Passa un morto della tredicesima. Bombardamento di un’ora a shrapnel. Conversazione col capitano Bono.
La vita in trincea è la vita naturale, primitiva. Un po’ monotona. Ecco l’orario delle mie giornate. Alla mattina non c’è sveglia. Ognuno dorme quanto vuole. Di giorno non si fa nulla. Si può andare, con rischio e pericolo di essere colpiti dall’implacabile «Cecchino», a trovare gli amici delle altre compagnie; si gioca a sette e mezzo o, in mancanza di carte, a testa e croce; quando tuona il cannone, si contano i colpi. La distribuzione dei viveri è l’unica variazione della giornata: di liquido, ci danno una tazza di caffè, una di vino e un poco di grappa: di solido, un pezzo di formaggio che può valere venti centesimi e mezza scatoletta di carne. Pane buono e quasi a volontà. Di rancio caldo, non è questione. Gli austriaci, tempo fa, hanno bombardato coi 305 le cucine e hanno fatto saltar per aria muli, marmitte e cucinieri.
C’è un’ora, nella giornata, che i bersaglieri attendono sempre con impazienza e con ansia: l’ora della posta, che comincia a giungere regolarmente. Ci pensa Jacobone, per il reggimento. Nostro «postino» è il calabrese Suraci. Quando si grida «posta !», tutti escono dai ripari e si affollano attorno al distributore. Nessuno pensa più alle fucilate e agli shrapnels.
Ho scritto una lettera per Jannazzone e una per Marcanico. Non si negano questi favori a uomini che possono morire da un momento all’altro. La fidanzata di Marcanico si chiama Genoveffa Paris. Questo nome mi porta, chissà perché, al tempo dei «reali di Francia».

Martedì, 12 ottobre 1915
Pulizia al fucile. Sole pallido. Poi, non c’è nulla da fare. Passano i soliti feriti. C’è il bersagliere Donadonibus che si spidocchia al sole. «Cavalleria, a destra! Cavalleria, a sinistra!», grida e ride, di un riso che sembra quello di un uomo completamente felice. Pioggia e pidocchi; ecco i veri nemici del soldato italiano: il cannone vien dopo. Uno dei feriti dello shrapnel è morto prima di arrivare all’infermeria reggimentale.
Altra notizia triste: la fucilata di una vedetta ha colpito a morte tal Mambrini, mantovano, mentre stava lavorando a fortificare il suo riparo.
La guerra di posizione esige una forza e una resistenza morale e fisica grandissime: si muore senza combattere!

Mercoledì, 13 ottobre 1915
Stanotte, sulle ventitre, improvviso e intensissimo fuoco di fucileria e di mitragliatrici ai nostri avamposti. Siamo balzati dai nostri ripari. Un quarto d’ora di fuoco e poi quiete sino all’alba. Mattinata grigia. Vado di corvée colla mia squadra e mi carico di un sacco di pane. Passa un morto del trentanovesimo battaglione, colpito da fucilata e da sassata. Si diffonde, tra le squadre, la notizia che presto ci sarà l’«azione». La notizia non deprime, ma solleva gli animi. È la prolungata inazione che snerva il soldato italiano. Meglio, infi-nitamente meglio, «al» fuoco, che «sotto» al fuoco. I bersaglieri sono desiderosi di vendicare i compagni caduti a tradimento.
Vicino a me si canta. È un inno bersaglieresco:
Piume, baciatemi
Le guance ardenti
………………
Piume, riditemi
Di gioia i canti;
E ripetetemi:
Avanti! Avanti!

Fonte :

Diario di guerra di Benito Mussolini
Archivio storico del Popolo d’Italia 

L’Armistizio di Cassibile, firmato il 3 e applicato l’8 settembre 1943

La firma era avvenuta il 3 settembre a Cassibile, in Sicilia, successivamente il “governo” Badoglio (che si era sostituito al governo Mussolini) ebbe alcuni ripensamenti, la situazione dell’italia in quel momento era molto “instabile” truppe tedesche stanziavano in ogni angolo del paese, e cambiare schieramento significava rendere l’italia un paese “occupato” e questo avrebbe messo in pericolo le vite di milioni di italiani che vivevano lontano dal “fronte”.
Per diversi giorni discusse sul da farsi, “comunicare” la “resa” agli alleati, o rendere vana la firma e continuare a combattere al fianco dei tedeschi ?

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